LA CORTE DI APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza nel processo n. 2666/05 a carico di Fabbrocile Bruno, nato in Ottaviano (Napoli) il 12 luglio 1960, e Fabbrocile Pasquale, nato in Ottaviano (Napoli) il 7 gennaio 1958, appellanti avverso la sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Chieti, in data 17 dicembre 1997, in relazione ai delitti di cui ai capi: a) artt. 11, 61 n. 2, 423 c.p. e b) artt. 110, 56, 640, 61 n. 7 c.p., commessi entrambi in Sambucato di San Giovanni Teatino il 29 novembre 1993, a seguito della sentenza della Corte di cassazione, in data 28 gennaio 2005, che annullava con rinvio la sentenza della Corte di appello dell'Aquila, in data 2 febbraio 2001, con la quale era confermata la condanna degli appellanti per i suddetti reati. Rilevato che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 157 e 161, secondo comma, c.p., cosi' come modificati dalla legge n. 251 del 2005, il reato risulterebbe prescritto de plano, mentre, in virtu' dell'art. 10, comma 3 della stessa legge, applicabile al procedimento de quo, in quanto pendente in appello alla data di entrata in vigore della legge, il termine di prescrizione non si e' ancora compiuto, dovendosi applicare la pregressa normativa, giusto il richiamo ad essa fatto dal comma sopra menzionato; Ritenuta, pertanto, la questione rilevante ai fini della decisione in quanto, nel caso di applicazione della nuova disciplina al processo de quo, deriverebbe la pronuncia di una sentenza di non doversi procedere per prescrizione, pronuncia che, invece, alla stregua della disciplina originaria l'imputato non potrebbe invocare; Ritenuta, altresi', la non manifesta infondatezza della questione, poiche' la scelta di non rendere applicabile la disciplina della legge n. 251 del 2005 ai procedimenti pendenti in appello non appare sorretta da giustificazioni di ordine logico e giuridico ne' ispirata a finalita' tali da giustificare il diverso trattamento riservato a categorie di cittadini. Rilevato che, la stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 393 del 2006 ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale della normativa limitatamente alle parole: «dei processi gia' pendenti in primo grado ove vi sia stata dichiarazione di apertura del dibattimento, nonche», ritenendo non ragionevole la scelta del legislatore di non applicare la disciplina ai processi di primo grado gia' in corso, alla data di entrata in vigore della normativa; che la Corte costituzionale, dopo aver rilevato che anche le norme sulla prescrizione costituiscono legge piu' favorevole, ha statuito che «lo scrutinio di costituzionalita' ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattivita' di una norma penale piu' favorevole al reo deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza», in quanto, sebbene il principio della retroattivita' della lex mitior non sia costituzionalmente garantito, tuttavia lo stesso e' sancito sia dalla normativa interna (art. 2 c.p.), per la quale la retroattivita' della legge piu' favorevole e' la regola (salvo il giudicato), sia dalle norme internazionali (Patto di New York) e europee (Trattato di Amsterdam e decisioni della Corte di giustizia delle Comunita' europee e Carta dei diritti di Nizza); Ritenuto che non risulta ragionevole non applicare la nuova disciplina della prescrizione ai processi gia' pendenti in appello non essendo indicata la pendenza in appello tra gli atti interruttivi della prescrizione, dipendendo la pendenza stessa dalla data in cui il processo perviene presso il giudice ad quem, data che dipende da una pluralita' di fattori esterni (gli incombenti di cancelleria per la trasmissione del fascicolo) e non da attivita' puramente giurisdizionale, connotandosi il fatto da giudicare nel processo d'appello, proprio per l'ulteriore decorso del termine rispetto a quello di primo grado, di minore allarme sociale, da una parte, e rendendo piu' difficile l'esercizio del diritto di difesa e non risultando vulnerati diritti primari di altre parti, nella specie della parte civile, avuto riguardo alla tutela prevista dall'art. 578 c.p.p.;