ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nei  giudizi di legittimita' costituzionale dell'articolo 3, commi 1,
lettera b), e 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145 (Disposizioni per
il  riordino  della  dirigenza  statale  e per favorire lo scambio di
esperienze  e  l'interazione  tra  pubblico  e privato), promossi con
ordinanze  del 14 dicembre 2005, del 1° febbraio, del 18 gennaio, del
1°  febbraio,  dell'11  e  del 3 marzo 2006 e del 4 novembre 2005 dal
Tribunale  di  Roma rispettivamente iscritte ai nn. 38, 97, 107, 157,
158,  159  e  547  del  registro  ordinanze  2006  e pubblicate nella
Gazzetta  Ufficiale della Repubblica nn. 8, 15, 16, 22 e 49, 1ª serie
speciale, dell'anno 2006.
    Visti  gli  atti  di  costituzione  di Gaetano Cuozzo, di Rossana
Rummo,  di  Michele  Calascibetta, di Claudio De Giuli, di Elisabetta
Midena,  di  Eugenio  Ceccotti,  di Fabio Iodice, nonche' gli atti di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
    Udito  nell'udienza pubblica del 6 marzo 2007 il giudice relatore
Alfonso Quaranta;
    Uditi  gli  avvocati  Vittorio  Angiolini,  Amos Andreoni e Luisa
Torchia  per Gaetano Cuozzo, Vittorio Angiolini, Amos Andreoni, Luisa
Torchia  e  Massimo  Luciani per Rossana Rummo, Michele Calascibetta,
Claudio  De Giuli, Elisabetta Midena, Eugenio Ceccotti e Fabio Iodice
e  l'avvocato  dello  Stato  Aldo  Linguiti  per  il  Presidente  del
Consiglio dei ministri.

                          Ritenuto in fatto

    1.  - Con ordinanza del 4 novembre 2005 (r.o. n. 547 del 2006) il
Tribunale di Roma, nel corso di una controversia di lavoro introdotta
dal  dott.  Fabio Iodice nei confronti del Ministero dell'istruzione,
dell'universita'  e  della  ricerca (MIUR), ha sollevato questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 3,  commi 1, lettera b), e 7,
della  legge  15 luglio  2002,  n. 145  (Disposizioni per il riordino
della  dirigenza  statale  e  per favorire lo scambio di esperienze e
l'interazione  tra pubblico e privato), per violazione degli artt. 1,
2, 3, 4, 35, 70, 97 e 98 della Costituzione.
    Il giudice a quo premette che il ricorrente ha stipulato, in data
8 gennaio  2001,  con  il  Ministero  della  pubblica  istruzione  un
contratto  a  tempo  determinato,  di  durata quinquennale, avente ad
oggetto  il conferimento di un incarico di direzione di un ufficio di
livello  dirigenziale  generale, nella specie, direzione dell'ufficio
scolastico regionale delle Marche.
    In  data  24 settembre 2002, con nota n. 11275, l'amministrazione
di   appartenenza   comunicava  al  ricorrente  la  mancata  conferma
dell'incarico gia' ricoperto «preannunciandogli» l'attribuzione di un
incarico  di  studio  della  durata  non  superiore  ad  un  anno con
mantenimento  del  precedente  trattamento economico, in applicazione
dell'art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002.
    Con    successiva    nota   n. 11300   del   25 settembre   2002,
l'amministrazione   proponeva   l'attribuzione   ad   altro  soggetto
dell'incarico  precedentemente ricoperto dal ricorrente. In pari data
la stessa amministrazione procedeva ad attribuire tutti gli incarichi
relativi  ai  restanti  posti  di  funzione  dirigenziale  di livello
equivalente   all'incarico  originariamente  attribuito  allo  stesso
ricorrente.
    Quest'ultimo   proponeva   ricorso  ex  art. 700  del  codice  di
procedura    civile,    prospettando    questione   di   legittimita'
costituzionale   della  citata  norma  e  chiedendo  di  ordinare  al
Ministero convenuto di ripristinarlo nelle originarie funzioni.
    In   sede   cautelare,  veniva  ordinato  all'amministrazione  di
attribuire  al  ricorrente  una  funzione equivalente in relazione ai
posti  vacanti  o  assegnati  ad  interim  alla  data di notifica del
ricorso.
    In  sede  di  reclamo,  il Tribunale, in composizione collegiale,
revocava il predetto provvedimento cautelare impugnato.
    Nelle more dell'emanazione della suddetta ordinanza di revoca, il
ricorrente  proponeva  ricorso  per  la  prosecuzione del giudizio di
merito,  chiedendo  che  venisse  sollevata questione di legittimita'
costituzionale  dell'art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002, al
fine  di  ottenere  la condanna del Ministero al ripristino delle sue
originarie   funzioni,   e   prospettando  anche  richieste  «in  via
subordinata».
    Chiedeva  in ogni caso la condanna del MIUR a corrispondergli «la
retribuzione originariamente pattuita fino alla scadenza naturale del
31 gennaio  2006;  la  condanna  del  MIUR  al risarcimento del danno
subito  per effetto del demansionamento subito; il riconoscimento del
diritto  di  chance nell'accesso ad incarichi dirigenziali di livello
generale  (...) ordinando alla parte convenuta la ricostruzione della
carriera,  oltre  al  risarcimento del danno da perdita di chance; il
riconoscimento   del   diritto   al   risarcimento  del  danno,  alla
restituzione   personale   e  professionale,  nonche'  all'onore,  al
prestigio  ed  alla  dignita'  professionale che quantificava in euro
120.000».
    1.1.  -  Il rimettente sottolinea, sul piano della rilevanza, che
il censurato art. 3, comma 7, trova applicazione nel caso di specie.
    La  norma  impugnata precluderebbe, infatti, l'accoglimento della
domanda  proposta,  di  condanna  dell'amministrazione  al ripristino
delle originarie funzioni svolte dal ricorrente, ovvero della domanda
di  risarcimento del danno derivante dalla risoluzione anticipata del
contratto stipulato tra le parti.
    Assumerebbe,  altresi',  rilevanza  la  questione  relativa  alla
legittimita'  costituzionale  della norma di cui all'art. 3, comma 1,
lettera b), nella parte in cui stabilisce il limite massimo triennale
di  durata  degli  incarichi  in esame, in quanto «tale disposizione,
anche se fosse dichiarata l'incostituzionalita' dell'art. 3, comma 7,
della  legge  citata, comunque impedirebbe il ripristino dei rapporti
cessati,  proprio  a  causa  della  maggiore  durata  degli incarichi
stabilita convenzionalmente».
    Il rimettente sottolinea, inoltre, come il quadro normativo abbia
subito  una  ulteriore  modifica  a  seguito  dell'entrata  in vigore
dell'art. 14-sexies   del   decreto-legge   30  giugno 2005,  n. 115,
convertito   dalla   legge   17 agosto  2005,  n. 168,  il  quale  ha
reintrodotto per gli incarichi in esame una durata minima, fissata in
tre  anni,  e  ha  aumentato  la  durata  massima a cinque anni. Tale
disposizione  non  potrebbe  trovare applicazione nel caso di specie,
ne'    -   aggiunge   il   rimettente   -   «appaiono   prospettabili
interpretazioni  diverse della norma che consentano il riconoscimento
al   ricorrente   della   ricostituzione  del  rapporto  in  sede  di
riassegnazione dell'incarico. La norma, infatti, prevede univocamente
l'avvicendamento negli incarichi di dirigente generale».
    1.1.1.  - In relazione al giudizio di non manifesta infondatezza,
il  Tribunale  rimettente sottolinea come «il sistema normativo sopra
delineato»   sarebbe  in  contrasto  con  gli  artt. 97  e  98  della
Costituzione.
    La  normativa  in  esame  ha  previsto  una  tantum la cessazione
automatica  degli  incarichi  anche  per  i  dirigenti  generali allo
scadere del sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della
stessa  legge n. 145 del 2002. Tale ipotesi di risoluzione automatica
consentirebbe  di fatto al solo Governo in carica «di provvedere alla
nomina  di  personale  di  propria fiducia da collocare al vertice di
tutti gli uffici».
    «L'impianto  normativo  preso  in  esame»  si porrebbe inoltre in
contrasto  con  il  principio,  riconosciuto  da  questa Corte con la
ordinanza  n. 11  del 2002 e con la sentenza n. 313 del 1996, secondo
cui  il  potere  politico  deve occuparsi della funzione di indirizzo
politico  e  di  controllo  attraverso l'azione di Governo, mentre il
potere   amministrativo   deve   esercitare   funzioni  gestionali  e
amministrative attraverso i propri funzionari.
    Sul  punto,  il giudice a quo rileva come gli artt. 97 e 98 Cost.
delineano  «un  complessivo statuto del dipendente pubblico sottratto
ai condizionamenti politici».
    Il  Tribunale rimettente riporta stralci dell'ordinanza n. 11 del
2002  della  Corte nella parte in cui ha stabilito che «la disciplina
del  rapporto  di  lavoro  dirigenziale  e'  connotata  da specifiche
garanzie,  mirate  a  presiedere il rapporto di impiego dei dirigenti
generali, la cui stabilita' non implica necessariamente la stabilita'
dell'incarico, che, proprio al fine di assicurare il buon andamento e
l'efficienza  della  pubblica  amministrazione,  puo' essere soggetto
alla verifica dell'azione svolta e dei risultati conseguiti».
    L'ordinanza   sottolinea  come  l'art. 3,  comma 7,  consente  la
possibilita'   per  l'amministrazione  di  non  motivare  la  mancata
riattribuzione  dell'incarico  e  conseguentemente  «di  revocare gli
incarichi  in  modo  affatto  arbitrario,  all'ipotizzabile  fine  di
ridistribuirli  a  dirigenti  ritenuti  piu'  affidabili dal punto di
vista della consonanza politica».
    Questa  risoluzione  automatica  non  tiene  conto  che  anche  i
dirigenti  generali  in servizio alla data di entrata in vigore della
legge  n. 145  del  2002,  «pur  avendo  ricevuto l'incarico sotto la
vigenza   del   precedente   Governo»,  avrebbero  ugualmente  potuto
perseguire  «gli  obiettivi posti dalla nuova autorita' politica» con
professionalita' e competenza.
    Sempre  secondo  il  giudice  a  quo,  se fosse stata prevista la
necessita' di adozione di un atto formale di revoca conseguente ad un
formale  procedimento,  sarebbe stato fugato il sospetto, sussistendo
il rimedio della impugnazione dell'atto, che la cessazione automatica
dell'incarico  sia  stata  introdotta  con  l'intento  di  «garantire
l'affidamento  della  gestione  amministrativa  a  persone scelte per
affinita' politica».
    L'art. 3,  comma 7, invece, contemplando una forma di risoluzione
del  rapporto  non  assistita  da  alcuna  garanzia,  si  porrebbe in
contrasto  con quanto stabilito da questa Corte, la quale avrebbe «da
tempo  chiarito»  che  «l'applicabilita'  al  rapporto  di lavoro dei
pubblici  dipendenti  delle  disposizioni previste dal codice civile,
comporta,  non gia' che la pubblica amministrazione possa liberamente
recedere  dal  rapporto  stesso,  ma semplicemente che la valutazione
dell'idoneita'  professionale del dirigente e' affidata a criteri e a
procedure  di carattere oggettivo - assistite da un'ampia pubblicita'
e  dalla  garanzia  del  contraddittorio  - a conclusione delle quali
soltanto  puo'  essere  esercitato  il  recesso» (sentenza n. 313 del
1996).
    Il giudice a quo assume, inoltre, la violazione degli artt. 1, 2,
4  e  35  Cost., in quanto la norma impugnata, «prevedendo una deroga
ingiustificata  al  principio  di stabilita' dei contratti di lavoro,
sia  pubblici  sia  privati»,  contravviene ai «principi della libera
esplicazione  della  personalita' professionale sul luogo del lavoro,
della  liberta' negoziale, i quali possono essere sacrificati solo in
presenza di doverose e ragionevoli motivazioni».
    Infine,  si  ravvisa «il contrasto con l'art. 3 Cost., laddove la
norma  prevede  la  cessazione  dell'incarico  ex  lege  per  tutti i
dirigenti  generali,  mentre  prevede  la  conferma  automatica per i
dirigenti,  in caso di mancata tempestiva rotazione degli incarichi»,
entro  novanta  giorni  dalla  data  di entrata in vigore della legge
n. 145 del 2002.
    1.2.  -  E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
depositando  una  memoria, nella quale ha, innanzitutto, sostenuto la
irrilevanza  della  questione  avente  ad  oggetto l'art. 3, comma 1,
lettera b),  della  legge  n. 145  del 2002 relativa alla durata solo
triennale dell'incarico dirigenziale.
    Inoltre,  la difesa erariale rileva che la stessa legge citata ha
apportato  consistenti modifiche al pregresso regime della dirigenza,
di  cui  all'art. 19  del  decreto  legislativo 30 marzo 2001, n. 165
(Norme  generali  sull'ordinamento  del  lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni   pubbliche),  stabilendo  un  vincolo  maggiore  tra
obiettivi e direttive indicati dal Ministro ed il dirigente generale,
collegando  il mancato rinnovo dell'incarico o addirittura il recesso
dal  rapporto  di  lavoro  al  semplice  mancato raggiungimento degli
obiettivi  o  all'inosservanza  delle direttive ministeriali, laddove
nel  regime  precedente  la  sanzione era quella dell'assegnazione ad
altro  incarico  e solo nel caso di mancato raggiungimento ripetuto o
di  gravi  inosservanze  di  direttive  era prevista l'esclusione dal
conferimento  di incarichi di livello dirigenziale per un periodo non
inferiore a due anni.
    Alla luce del mutato quadro normativo la lesione degli artt. 97 e
98 della Costituzionale sarebbe insussistente.
    Infondata   sarebbe,   infine,   anche  la  censura  con  cui  il
rimettente,  dalla  assunta posizione di uguaglianza tra dirigenti di
livello  generale  (cui  si  riferisce  la  norma  impugnata)  e capi
dipartimento  e segretari generali, fa discendere la irragionevolezza
della norma che sancisce la cessazione una tantum dell'incarico per i
dirigenti  generali  allo spirare dei sessanta giorni dall'entrata in
vigore della legge.
    1.3.  -  Si  e' costituita la parte privata, depositando memoria,
nella  quale  si ribadisce la correttezza della valutazione contenuta
nell'ordinanza  di  rimessione  sia  in  ordine  alla rilevanza della
questione, sia in relazione al merito.
    2.  -  Analoga  questione di legittimita' costituzionale e' stata
sollevata  dal  Tribunale di Roma, con ordinanza del 14 dicembre 2005
(r.o.  n. 38 del 2006), nel corso di un giudizio tra il dott. Gaetano
Cuozzo  e  il  Ministero  dell'istruzione,  dell'universita'  e della
ricerca,  in relazione alle stesse norme (art. 3, commi 1, lettera b,
e   7,  della  legge  n. 145  del  2002)  indicate  nella  precedente
ordinanza, per violazione degli artt. 1, 2, 3, 4, 35, 97 e 98 Cost.
    Il giudice a quo premette che il ricorrente aveva precedentemente
proposto,  ex  artt. 669-bis e 700 cod. proc. civ., domanda cautelare
in relazione alla nota prot. n. 11278/MR del 24 settembre 2002, nella
parte  in  cui  il  MIUR  non  disponeva  la  conferma  del  predetto
ricorrente  nell'incarico dirigenziale precedentemente ricoperto, ne'
l'attribuzione  al  medesimo  di un incarico di funzione e di livello
retributivo equivalente.
    Il  ricorrente  aveva  chiesto,  pertanto, la reintegra in via di
urgenza   nell'incarico  precedentemente  ricoperto  prospettando  la
incostituzionalita'  dell'art. 3,  comma 7,  della  legge  n. 145 del
2002, nella parte in cui dispone la cessazione di tutti gli incarichi
dirigenziali  a  decorrere  dal  sessantesimo  giorno dall'entrata in
vigore della legge.
    Il giudice a quo sottolinea come il ricorrente avesse prospettato
un   vizio  degli  atti  impugnati  per  invalidita'  derivata  dalla
incostituzionalita'   della  norma  in  esame  per  violazione  degli
artt. 1, 2, 3, 4, 70, 97 e 98 Cost.
    La  domanda cautelare era stata respinta sia in prima istanza che
in sede di reclamo.
    Successivamente   il   ricorrente  aveva  presentato  domanda  di
dimissioni  dal  servizio  «ritenendosi  gravemente declassato e leso
nella propria immagine professionale».
    Da  qui  la  proposizione  di  un ricorso in via ordinaria con il
quale si assumeva la illegittimita' costituzionale del citato art. 3,
comma 7,   nonche'   dell'art. 3,   comma 1,   lettera b).  All'esito
«positivo»  del  giudizio  costituzionale  sulle  norme  suddette, il
ricorrente   chiedeva   che   il   Ministero  venisse  condannato  al
risarcimento del danno subito in conseguenza: a) delle dimissioni per
giusta  causa; b) del demansionamento subito, (anche) con conseguente
danno biologico; c) della perdita di chance nell'accesso ad incarichi
dirigenziali  al  compimento  del  67° anno di eta'; d) della lesione
della  propria  reputazione  personale  e  del  proprio  prestigio  e
dignita'   professionale   a   seguito   del  mancato  ed  immotivato
reincarico; e) della minore retribuzione pensionistica ottenuta.
    2.1.  -  Cio'  precisato, il Tribunale rimettente osserva come la
questione  relativa  all'art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002
sarebbe  rilevante  nel  giudizio a quo, atteso che l'accoglimento di
tale  questione  renderebbe  illegittimo  il  provvedimento di revoca
dell'incarico  con  conseguente  incidenza  sulla  «delibazione della
domanda risarcitoria».
    Altrettanto  rilevante  sarebbe la questione relativa all'art. 3,
comma 1,  lettera b), della citata legge nella parte in cui impone la
durata massima triennale degli incarichi.
    Il   Tribunale  sottolinea,  inoltre,  che  l'art. 14-sexies  del
decreto-legge n. 115 del 2005 - che ha reintrodotto per gli incarichi
in  esame  una  durata minima, fissata in tre anni, e ha aumentato la
durata  massima a cinque anni - non potrebbe trovare applicazione nel
caso  di  specie.  Ne  conseguirebbe  la  permanente  rilevanza della
questione   sollevata   in  quanto  nella  fattispecie  in  esame  si
tratterebbe  di  un «vecchio incarico» al quale non sarebbe garantita
alcuna  durata minima contrariamente a quanto ora previsto dal citato
art. 14-sexies.
    2.1.1.  -  Per quanto attiene alla non manifesta infondatezza, il
giudice a quo motiva, innanzitutto, la violazione degli artt. 97 e 98
della  Costituzione, assumendo che la cessazione automatica lederebbe
«i  principi  di  imparzialita'  e di servizio esclusivo dei pubblici
impiegati a favore della Nazione».
    Inoltre,   non  sarebbe  ragionevole  ritenere  che  i  dirigenti
generali  in  servizio  alla  data  di  entrata in vigore della legge
n. 145 del 2002, pur «avendo ricevuto l'incarico sotto la vigenza del
precedente  Governo»,  non  abbiano  perseguito  «gli obiettivi posti
dalla nuova autorita' politica» con professionalita' e competenza.
    In  relazione  alla  censura  di  violazione dell'art. 3 Cost. si
assume  che  la  cessazione una tantum degli incarichi determinerebbe
per  i  dirigenti generali un trattamento deteriore rispetto a quello
di regola riservato a tutti gli altri lavoratori, pubblici o privati,
per   i   quali   sono  previsti  meccanismi  di  tutela  a  garanzia
dell'immotivato  e  ingiustificato recesso dal contratto. Si aggiunge
che,  «se  la "ratio" della deroga alle garanzie dirigenziali risiede
nell'esigenza   di   continuita'  dei  livelli  decisionali,  non  si
giustifica  l'uniformita'  di  regimi  tra  dirigenti generali e capi
dipartimento, segretari generali e figure equivalenti, rappresentando
queste  ultime  categorie il vero anello di congiunzione tra la sfera
politica e quella amministrativa» (si richiama la sentenza n. 313 del
1996).
    Infine,  per  quanto attiene alle doglianze relative al contrasto
con  gli  artt. 1,  2,  4  e  35  Cost., si sottolinea come la deroga
ingiustificata  al  principio  di stabilita' dei contratti di lavoro,
sia  pubblici  sia  privati,  violerebbe  «i  principi  della  libera
esplicazione  della  personalita' professionale sul luogo del lavoro,
della liberta' negoziale», i quali possono essere sacrificati solo in
presenza di doverose e ragionevoli motivazioni.
    2.2.  -  E'  intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri
depositando   una  memoria  dal  contenuto  analogo  a  quella  fatta
pervenire nel giudizio di cui all'ordinanza n. 547 del 2006.
    2.3.  -  Si  e'  costituita  in giudizio la parte privata, che ha
ribadito  la  rilevanza  della  questione  e  si  e' soffermata sulle
caratteristiche  di  continuita' della legge n. 145 del 2002 rispetto
al  regime  previgente,  mettendo  in  evidenza  come gli elementi di
rottura   rispetto   a  tale  regime  sarebbero  rappresentati  dalla
riduzione  della  durata massima degli incarichi e dalla eliminazione
della durata minima.
    3.  -  L'art. 3,  commi 1,  lettera b),  e 7, e' stato, altresi',
oggetto  di censura da parte del Tribunale di Roma, con ordinanza del
1° febbraio  2006  (r.o.  n. 157  del  2006),  per  violazione  degli
artt. 1, 2, 3, 4, 35, 36, 70, 97 e 98 Cost., nel corso di un giudizio
promosso dal dott. Claudio De Giuli nei confronti del Ministero della
salute.
    Il  rimettente,  in  via  preliminare,  espone che con ricorso ex
artt. 669-octies  e  414  cod. proc. civ. l'interessato ha dedotto di
avere  ricoperto  l'incarico  di  direttore  della Direzione generale
della  programmazione  sanitaria  con  contratto  a tempo determinato
stipulato   in   data  23 febbraio  2001  e  rinnovato  con  atto  di
conferimento  del  23 marzo 2001, mediante la stipula di un contratto
avente  durata  fino  al  31 dicembre  2007.  Durante  l'espletamento
dell'incarico  il ricorrente non ha ricevuto nessuna contestazione in
ordine   alla   inosservanza   di   direttive   generali   e  mancato
raggiungimento  di  risultati.  A  fronte  della  comunicazione orale
dell'amministrazione   di   volergli   conferire,   in   applicazione
dell'art. 3,  comma 7,  della  legge  n. 145 del 2002, un incarico di
studio  della  durata  di  un anno, il ricorrente ha sottoscritto, in
data  2 ottobre  2002,  il  relativo contratto con riserva. La stessa
amministrazione   «ha   proposto   l'attribuzione»  dell'incarico  di
direzione  dell'ufficio dirigenziale prima ricoperto dall'interessato
ad  altro  funzionario  e ha «illegittimamente» assegnato quasi tutti
gli  altri incarichi per i restanti posti di funzione dirigenziale di
livello equivalente. A seguito del ricorso d'urgenza ex art. 700 cod.
proc. civ. il Tribunale di Roma ha ordinato al Ministero della salute
di  attribuire al ricorrente l'incarico di direttore del Servizio del
controllo  interno  o  altro  incarico  equivalente. L'interessato ha
dedotto,    sottolinea    sempre    il    giudice    rimettente,   la
incostituzionalita' dell'art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002
per violazione degli artt. 1, 2, 3, 4, 35, 70, 97 e 98 Cost.
    Sulla  base  di  queste  premesse,  il  ricorrente  ha chiesto la
condanna   del   Ministero  della  salute  al  suo  ripristino  nelle
originarie  funzioni,  con  ulteriori  domande  prospettate  in  «via
subordinata» e riportate nelle ordinanze.
    Il  Tribunale  rimettente, dopo avere sottolineato le complessive
novita'  recate  dalla  legge  n. 145 del 2002 rispetto al previgente
sistema,  sottolinea  come  il  «nuovo» testo dell'art. 19 del d.lgs.
n. 165  del  2001 presenti, rispetto alla previgente formulazione, un
elemento  di  continuita'  rappresentato  dalla  permanenza  dei  due
fondamentali   caratteri   della   temporaneita'  degli  incarichi  e
dell'assegnazione  degli  stessi  a  seconda  della valutazione degli
obiettivi  e  dei  risultati raggiunti. La «differenza significativa»
tra  le  due discipline sarebbe rappresentata dall'abbassamento della
soglia  temporale  di  durata  massima  (da  sette  a tre anni) degli
incarichi  dirigenziali  di  livello  generale, nonche' «soprattutto»
dalla  «mancata previsione della durata minima degli incarichi (prima
biennale  ed  ora possibile eventualmente per periodi temporali molto
limitati, inferiori all'anno: in ipotesi anche per un solo mese)».
    3.1.  -  Il  giudice  a  quo  -  dopo avere richiamato i principi
esposti  dalla  Corte  nella  ordinanza  n. 11  del  2002  -  ritiene
sussistente  la  rilevanza della questione relativa al citato art. 3,
comma 1,   lettera b),  atteso  che  la  richiesta  avanzata  in  via
principale   dal   ricorrente,   volta   ad   ottenere  la  integrale
reviviscenza  dell'incarico  originario,  anche  con riferimento alla
durata  dello  stesso,  potrebbe  risultare  non  accoglibile  ove si
ritenesse  applicabile  alla  fattispecie  il  limite triennale della
durata  massima  dell'incarico  «fissato  da  una norma imperativa di
legge sopravvenuta al contratto originario e suscettibile, come tale,
di conformarlo quanto alla durata».
    Ne'  potrebbe  incidere  sulla predetta rilevanza il sopravvenuto
art. 14-sexies  del  decreto-legge  n. 115  del 2005, con il quale e'
stata  prevista  una durata minima di tre anni, atteso che la sua non
applicabilita'  ai  giudizi  in corso, da un lato, discende da quanto
espressamente  previsto  dal  secondo  comma  dello  stesso articolo,
dall'altro, dal principio generale di irretroattivita' della legge di
cui  all'art. 11,  primo  comma,  delle  disposizioni  sulla legge in
generale.   Tale  norma,  piuttosto,  introducendo  un  principio  di
relativa  stabilita' triennale dei dirigenti evidenzierebbe ancora di
piu'  «il  deteriore  ed  ingiustificato  trattamento»  riservato  al
ricorrente  ed  agli  altri  dirigenti  generali  cessati  ope  legis
dall'incarico per il quale non era prevista durata minima alcuna.
    3.1.1.  -  In  relazione  alla  non  manifesta  infondatezza,  il
rimettente    sottolinea   come   le   norme   impugnate   consentano
all'amministrazione  di revocare gli incarichi in modo arbitrario per
ridistribuirli  «ai  dirigenti  ritenuti piu' affidabili dal punto di
vista  della  consonanza  politica». Inoltre, i dirigenti in esame si
troverebbero  in  una condizione di debolezza «indotta dal termine di
scadenza  triennale  (o  anche  minore)  dell'incarico  dirigenziale,
termine  piu'  breve  di  quello  dell'ordinaria durata in carica del
Governo».
    Da  qui  la  violazione  degli  artt. 97  e  98  Cost., i quali -
prevedendo  «per  i  pubblici  dipendenti il dovere di imparzialita',
l'accesso  di regola mediante concorso, la determinazione delle sfere
di  competenza, delle attribuzioni e delle responsabilita', l'obbligo
del  servizio  della  Nazione,  il  divieto per i dipendenti pubblici
membri del Parlamento di conseguire promozioni se non per anzianita',
la  possibilita'  di limitazioni all'iscrizione ai partiti politici -
recano  un  complessivo  statuto del dipendente pubblico sottratto ai
condizionamenti politici».
    Il  Tribunale  rimettente fa riferimento, altresi', alla sentenza
n. 193  del  2002,  con cui questa Corte ha affermato che il maggiore
rigore   nella  responsabilita'  dei  dirigenti  comporta  anche  una
esigenza  di  rafforzamento  della posizione degli stessi attraverso,
tra  l'altro, la previsione di adeguate garanzie procedimentali nella
valutazione   dei   risultati  e  nella  osservanza  delle  direttive
ministeriali.
    Le  norme  impugnate, si sottolinea nell'ordinanza, si porrebbero
in contrasto con i citati artt. 97 e 98 della Costituzione, in quanto
«vi e' il fondato pericolo che i dirigenti generali - necessariamente
sottoposti alla riconferma da parte dello stesso vertice politico che
li ha nominati e con scarse possibilita' di una valutazione obiettiva
dei  risultati  della  gestione  in relazione all'insussistenza di un
termine  minimo  dell'incarico  -  siano  portati  alla ricerca di un
improprio  «gradimento»  politico piu' che all'imparziale gestione ai
fini  del  buon andamento dell'attivita' amministrativa. In tal modo,
in  sostanza, i dirigenti cessano di essere al servizio della Nazione
e  viene  meno il principio costituzionale di imparzialita' e di buon
andamento dell'attivita' amministrativa».
    In  definitiva,  le  norme  censurate  consentirebbero  che  «gli
incarichi  siano  assegnati non sulla base dei risultati raggiunti ma
su  una  affinita'  politica - definita come fiducia - fra Ministro e
dirigente,  in  assenza  di qualsiasi motivazione e di altra garanzia
procedimentale».
    Siffatta relazione di consonanza tra vertice politico e dirigenza
finisce,  sempre nella prospettiva del rimettente, per determinare la
violazione  del  principio  di  separazione  tra indirizzo politico e
gestione  amministrativa, sottesi alle indicate norme costituzionali,
in  quanto «appare verosimile che il dirigente, al fine di guadagnare
la  riconferma da parte del vertice politico che l'ha nominato, tenda
ad ottemperare ad ogni richiesta». In tal modo, «il Ministro consegue
di  fatto  un'impropria potesta' gestionale, non prevista dalla legge
ed   anzi   non   bilanciata   dalle  correlative  responsabilita'  -
amministrative,  contabili  e  penali  -  che  comunque permangano in
capo al dirigente quale titolare formale della stessa».
    Inoltre,    il    Tribunale    rimettente   sottolinea   che   se
l'amministrazione   fosse   stata  «abilitata»  a  riconsiderare  gli
incarichi  «utilizzando  gli  ordinari  strumenti  provvedimentali  o
contrattuali  il  dirigente  avrebbe  potuto  avvalersi  delle tutele
proprie  di tali strumenti e, segnatamente, di quelle discendenti dal
generale  obbligo  di  motivazione  degli  atti  amministrativi».  La
diversa  soluzione  adottata dalla legge n. 145 del 2002 «finisce per
evidenziare  un  improprio  utilizzo  dello strumento legislativo per
conseguire  effetti  propri  di  un  atto  amministrativo (appunto la
revoca  dell'incarico  dirigenziale) con la conseguenza di privare il
lavoratore di ogni tutela ed in violazione degli artt. 70 e 97, primo
e secondo comma, Cost.».
    La  cessazione  ex lege degli incarichi dirigenziali non potrebbe
neanche trovare una sua giustificazione nella necessita' di applicare
la  nuova  disciplina della dirigenza prevista dalla legge n. 145 del
2002.  Tale  giustificazione,  infatti, «sembra mal accordarsi, da un
lato,  con  il  dato fattuale (...) della perdurante insussistenza di
validi  controlli  sull'operato  dei dirigenti» e, dall'altro, con la
«sostanziale  continuita'  delle  linee-guida  del  nuovo rapporto di
lavoro   della   dirigenza,   e  cioe'  mobilita'  (in  virtu'  della
temporaneita'  delle  funzioni  e  della rotazione degli incarichi) e
responsabilita'  (mediante  individuazione  di  funzioni  proprie dei
dirigenti, il cui esercizio sia valutabile, con conseguente selezione
per  merito e non per anzianita) quali connotati che permangono anche
nella nuova disciplina posta dalla legge n. 145 del 2002»; rimane, si
sottolinea,   il   cardine   della   temporaneita'   degli  incarichi
dirigenziali,  sia  pure con diminuzione della loro durata massima e,
soprattutto, con abrogazione della previsione sulla durata minima».
    La  nuova disciplina avrebbe, pertanto, potuto essere attuata, al
fine  di  non  «ingenerare  dubbi di costituzionalita' per violazione
degli  artt. 3,  97  e  98  Cost.»,  attraverso  la  riduzione  degli
incarichi  e  dei  contratti  alla nuova durata massima di tre anni o
mediante  la  verifica  degli  stessi incarichi e contratti alla luce
degli  eventuali  nuovi  programmi  o  obiettivi  fissati dal vertice
politico.
    Invece,   «l'assenza   di   una   durata   minima   dell'incarico
dirigenziale  e  la  previsione  (...)  di  una piu' ristretta durata
massima   non  pare  consentire,  di  fatto,  una  reale  valutazione
dell'operato del dirigente il quale, in assenza di criteri obiettivi,
non  puo'  che  essere  scelto  in  virtu'  di consonanze politiche e
ritrovarsi poi esposto - in base alla medesima logica fiduciaria - ad
un meccanismo di reiterazione di incarichi brevi».
    Il  rimettente  assume,  inoltre,  come  le  norme  impugnate non
rispettano  il  principio generale sulla stabilita' dei contratti, in
violazione  degli  artt. 2,  3,  4,  35,  36 e 97 Cost., in quanto il
datore di lavoro pubblico puo' «porre nel nulla i contratti di cui si
e'   parte   mediante   la  legge,  cosi'  utilizzando  lo  strumento
legislativo   ovvero  contrattuale  secondo  convenienza,  mentre  il
lavoratore rimane privo di qualsiasi tutela».
    Inoltre,   la   legge  prevede  che  al  dirigente  decaduto  sia
attribuito  un incarico «equivalente», ove detta equivalenza, secondo
il  rimettente, sarebbe riferibile soltanto al trattamento economico,
«ovvero  un  incarico  di  studio di durata non superiore ad un anno,
alla  fine  del  quale  al dirigente, di fatto non piu' valutabile in
relazione  al  raggiungimento  di obiettivi gestionali, sembrerebbero
preclusi   ulteriori   incarichi  operativi».  Tale  assetto  «appare
suscettibile di configurare un demansionamento del dirigente al quale
sia  stato  conferito l'incarico di studio (...) in violazione ancora
degli  artt. 1, 2, 3, 4, 35 e 36 Cost. per lesione dei principi, pure
di   rango   costituzionale,   della   liberta'   negoziale  e  della
personalita'  professionale  del  lavoratore la cui compressione puo'
giustificarsi  solo  in  base  ai criteri di ragionevolezza, peraltro
nella specie di ardua ricognizione».
    Infine,  si assume la violazione dell'art. 3 Cost., in quanto non
sembra  potersi  giustificare  la distinzione tra dirigenti generali,
cessati  dall'incarico  ex  lege, e dirigenti per i quali e', invece,
prevista  la  conferma  automatica  in  caso  di  mancata  tempestiva
rotazione  degli  incarichi,  debitamente motivata ed alle condizioni
previste dal contratto collettivo.
    3.2.  -  E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
svolgendo  le  considerazioni  gia'  proposte nei giudizi di cui alle
ordinanze numeri 547 e 38 del 2006.
    3.3.  - Si e' costituito in giudizio il ricorrente nel giudizio a
quo,   il   quale   riprende   le   argomentazioni   gia'   contenute
nell'ordinanza di rimessione.
    4.  -  Con ordinanza dell'11 marzo 2006 (r.o. n. 158 del 2006) il
Tribunale di Roma, nel corso di una controversia di lavoro introdotta
dalla   dott.ssa   Elisabetta  Midena  nei  confronti  del  Ministero
dell'istruzione,  dell'universita'  e  della  ricerca,  ha  sollevato
questione   di   legittimita'  costituzionale  dello  stesso  art. 3,
commi 1, lettera b), e 7, della legge n. 145 del 2002, per violazione
degli artt. 1, 2, 3, 4, 35, 70, 97 e 98 della Costituzione.
    Il giudice a quo premette che la ricorrente ha stipulato, in data
8 gennaio  2001,  con  l'allora Ministro della pubblica istruzione un
contratto  a  tempo  determinato  di cinque anni avente ad oggetto il
conferimento  di  un  incarico  di direzione di un ufficio di livello
dirigenziale  generale,  nella  specie,  direttore  generale  per  le
relazioni internazionali.
    In    data   25 settembre   2002,   l'amministrazione   proponeva
l'attribuzione    dell'incarico   precedentemente   ricoperto   dalla
ricorrente  ad  altra  funzionaria.  In  pari data, l'amministrazione
procedeva  ad  attribuire  tutti  gli  incarichi relativi ai restanti
posti  di  funzione  dirigenziale di livello equivalente all'incarico
originariamente   attribuito  alla  ricorrente.  Quest'ultima  agiva,
quindi,  in  giudizio  eccependo  la incostituzionalita' dell'art. 3,
comma 7,  della  legge  n. 145  del  2002 e chiedendo la condanna del
Ministero  dell'istruzione  al  ripristino delle originarie funzioni,
prospettando  altresi'  richieste  «in via subordinata». In ogni caso
chiedeva   la  condanna  del  Ministero  stesso  a  corrispondere  la
retribuzione originariamente pattuita.
    4.1.  - Il giudice a quo, dopo avere svolto la suddetta premessa,
riprende   sostanzialmente   le   argomentazioni  dell'ordinanza  del
4 novembre  2005,  sopra  riportate, per sostenere la rilevanza e non
manifesta infondatezza della questione.
    4.2.  - Anche in questo giudizio e' intervenuto il Presidente del
Consiglio  dei  ministri,  depositando  memoria.  Tale  memoria e' di
contenuto   identico   a   quella  depositata  nel  giudizio  di  cui
all'ordinanza n. 547 del 2006.
    4.3.  -  Si e' costituita in giudizio l'interessata, con atto che
riprende  sostanzialmente  il  contenuto  degli atti depositati dalle
altre parte privati in relazione alle ordinanze di rimessione sin qui
riportate.
    5.  - Il Tribunale di Roma, con le ordinanze di seguito indicate,
ha riproposto questione di legittimita' costituzionale delle norme in
esame  a  seguito  della restituzione degli atti disposta dalla Corte
costituzionale  con  la ordinanza n. 398 del 2005 per il sopravvenuto
mutamento    del   quadro   normativo   determinato   dall'emanazione
dell'art. 14-sexies del decreto-legge n. 115 del 2005.
    6.  - Con ordinanza del 18 gennaio 2006 (r.o. n. 107 del 2006) la
questione di legittimita' costituzionale delle predette disposizioni,
in  relazione  agli artt. 1, 2, 3, 4, 35, 97 e 98 della Costituzione,
e'  riproposta  nel  corso del giudizio vertente tra il dott. Michele
Calascibetta e il Ministero dell'istruzione, dell'universita' e della
ricerca.
    Secondo  il rimettente, la predetta norma non sarebbe applicabile
alla fattispecie concreta in quanto l'incarico dirigenziale conferito
all'interessato   «e'  scaduto  proprio  per  effetto»  della  citata
disposizione.
    Il  giudice  a  quo  ritiene,  pertanto,  che  la  sopravvenienza
normativa  non  e' idonea ad incidere sulla rilevanza della questione
sollevata ne' sui profili di non manifesta infondatezza della stessa.
    Ad     avviso     del    Tribunale    rimettente,    l'emanazione
dell'art. 14-sexies  del  decreto-legge  n. 115  del  2005 renderebbe
ancora  piu'  evidente  il  vizio  di incostituzionalita' delle norme
censurate,  in  quanto  tale  disposizione  avrebbe  ripristinato  il
principio  di stabilita' degli incarichi dirigenziali venuto meno per
effetto dell'art. 3, comma 1, lettera b), della legge n. 145 del 2002
che  aveva  eliminato la durata minima biennale e diminuito la durata
massima a tre anni.
    Alla  luce  di  queste  premesse  il giudice a quo assume che «il
giudizio  di  non  manifesta  infondatezza  gia' sottoposto all'esame
della  Corte  con riferimento alla previsione legale della cessazione
automatica  dell'incarico dirigenziale disposta a prescindere da ogni
valutazione  delle attitudini e della capacita' professionale nonche'
dal   raggiungimento  degli  obiettivi  prefissati  e  dei  risultati
ottenuti deve pertanto essere integralmente riproposto».
    La  declaratoria  di  incostituzionalita'  delle  norme impugnate
consentirebbe  il  ripristino  dell'incarico dirigenziale affidato al
ricorrente e cessato ex lege, con possibilita' che lo stesso prosegua
fino alla naturale scadenza.
    6.1.  -  E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
depositando una memoria di contenuto sostanzialmente analogo a quelle
depositate nei giudizi di cui alle precedenti ordinanze.
    6.2.   -   Si   e'   costituita  in  giudizio  la  parte  privata
sottolineando,  in via preliminare, che il rimettente ha puntualmente
valutato  il  ius  superveniens  costituito  dall'art. 14-sexies  del
citato decreto-legge n. 115 del 2005, pervenendo alla conclusione che
esso non abbia alcun rilievo nel giudizio principale.
    7.  -  Con altra Ordinanza emessa il 1° febbraio 2006 (r.o. n. 97
del  2006), nel procedimento vertente tra la dott.ssa Rossana Rummo e
il  Ministero  per  i  beni e le attivita' culturali, il Tribunale di
Roma   ha   riproposto   questione   di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 3,  commi 1,  lettera b),  e  7,  della  legge in esame, in
relazione  agli  artt. 1,  2,  3,  4,  35,  36,  70,  97  e  98 della
Costituzione.
    Anche  il  giudice  rimettente  assume  che  l'art. 14-sexies del
decreto-legge  n. 115  del  2005  non  influisca  sulla  questione di
legittimita'   costituzionale   «come   a   suo   tempo  sollevata  e
segnatamente   con  riguardo  all'art. 3,  comma 1,  lettera b)»,  in
quanto,  da  un  lato,  il  secondo comma dello stesso art. 14-sexies
prevede  la  sua non applicabilita' al giudizio in corso, dall'altro,
il   principio  generale  di  irretroattivita'  della  legge  di  cui
all'art. 11,  primo comma, disp. prel. cod. civ. non consentirebbe di
attribuire rilevanza a tale sopravvenienza normativa.
    Secondo  il Tribunale rimettente, anzi, la disposizione in esame,
introducendo  un  principio  di  relativa  stabilita'  triennale  dei
dirigenti,  accentuerebbe  il deteriore ed ingiustificato trattamento
subito  dalla  ricorrente  per  la  quale  la  normativa impugnata ha
disposto  la cessazione dall'incarico automatica e cio' a prescindere
da  ogni valutazione di attitudini e capacita' professionali, nonche'
dal   raggiungimento  degli  obiettivi  prefissati  e  dai  risultati
acquisiti.
    Inoltre,  il  giudice  a  quo  sottolinea  come  l'art. 14-sexies
«disponendo  per  i (nuovi) incarichi una necessaria correlazione tra
durata  minima  triennale e massima quinquennale, si pone in antitesi
con la previgente disciplina caratterizzata dalla sensibile riduzione
della  durata  massima  e dall'assenza di un termine minimo di durata
dell'incarico dirigenziale, punto focale della sollevata questione di
legittimita'  costituzionale per l'effetto di c.d. precarizzazione di
fatto della dirigenza pubblica».
    Alla  luce  delle  considerazioni che precedono, il giudice a quo
conclude  nel  senso  che  «permane il giudizio di rilevanza e di non
manifesta   infondatezza   della   questione   nei   termini  di  cui
all'ordinanza di rimessione del 30 aprile 2004».
    7.1.  -  E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
depositando una memoria di contenuto sostanzialmente analogo a quella
depositata nel giudizio di cui all'ordinanza n. 107 del 2006.
    7.2.  -  Si  e' costituita in giudizio l'interessata, la quale ha
depositato  un  atto  contenente  argomentazioni  analoghe  a  quelle
contenute nella ordinanza n. 107 del 2006.
    8.  -  Infine,  il  Tribunale di Roma ha riproposto, nel giudizio
vertente  tra  l'ing.  Eugenio  Ceccotti e l'Istituto per lo Sviluppo
della  formazione  professionale  dei  lavoratori,  con ordinanza del
3 marzo  2006  (r.o.  n. 159  del 2006), la questione di legittimita'
costituzionale  dell'art. 3,  comma 7, della legge n. 145 del 2002 in
riferimento agli artt. 2, 3, 33, 41, 70, 97 e 113 della Costituzione.
    In     relazione     al     ius     superveniens    rappresentato
dall'art. 14-sexies  del  decreto-legge n. 115 del 2005, il giudice a
quo  sottolinea  di  non  aver sollevato alcuna questione relativa al
predetto art. 3, comma 1, lettera b), non censurando l'assenza di una
durata   minima   degli  incarichi  (reintrodotta  dalla  novella)  e
l'insufficienza  della  durata  massima (elevata dalla novella), «sul
rilievo che la prima fosse irrilevante nel giudizio (perche' l'attore
aveva  un  incarico quinquennale di «vecchio regime» e si duole della
sua  cessazione «ex lege», rivendicando i diritti che discendevano da
quel  contratto  fino  alla  scadenza  ed  il  risarcimento del danno
derivante  dalla  sua  illecita  anticipata cessazione); e la seconda
manifestamente infondata».
    Il  Tribunale  aggiunge  come la reintrodotta durata minima degli
incarichi  non  si applichi alla fattispecie sottoposta al suo esame,
sia  per  espressa  previsione del secondo comma dell'art. 14-sexies,
sia   perche'   tale  aspetto  non  riguarderebbe  la  posizione  del
ricorrente  il quale era titolare, da epoca precedente all'entrata in
vigore  della  legge n. 145 del 2002, di un incarico di durata pari a
quella  oggi  prevista  come massima, cessato, pero', automaticamente
per  legge,  in virtu' di quanto disposto dall'art. 3, comma 7, della
citata legge.
    8.1.  -  E'  intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri
depositando  una  memoria di contenuto analogo a quello delle memorie
depositate negli altri giudizi relativi alla stessa norma.
    8.2.  -  Si  e' costituito in giudizio l'interessato, il quale ha
depositato memoria difensiva.
    9  .-  Nell'imminenza dell'udienza pubblica l'Avvocatura generale
dello  Stato  ha  depositato  un'unica  memoria  per tutti i giudizi,
riprendendo  parte  delle argomentazioni gia' contenute negli atti di
intervento.
    9.1.  -  Anche  le  parti  private  dei  giudizi  a  quibus hanno
depositato ulteriori memorie.

                       Considerato in diritto

    1.  -  Il  Tribunale  di Roma, con le sette ordinanze indicate in
narrativa,  ha  sollevato  questioni  di  legittimita' costituzionale
dell'art. 3,  comma 1,  lettera b),  e comma 7, della legge 15 luglio
2002,  n. 145 (Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e
per  favorire lo scambio di esperienze e l'interazione tra pubblico e
privato),  per violazione, nel complesso, degli artt. 1, 2, 3, 4, 33,
35, 36, 41, 70, 97, 98 e 113 della Costituzione.
    Innanzitutto,  i  rimettenti  censurano  l'art. 3, comma 7, nella
parte  in  cui  e'  disposta la cessazione automatica degli incarichi
dirigenziali  di livello generale al sessantesimo giorno dall'entrata
in  vigore  della  legge  stessa.  Tale questione viene ritenuta, con
argomentazioni sostanzialmente analoghe, rilevante dai vari giudici a
quibus,  in  quanto  la  norma censurata precluderebbe l'accoglimento
delle richieste di ripristino delle originarie funzioni espletate dai
ricorrenti   ovvero   delle   domande  risarcitorie  derivanti  dalla
interruzione anticipata del rapporto.
    Gli   stessi  rimettenti,  fatta  eccezione  per  quanto  attiene
all'ordinanza  n. 159 del 2006, assumono che sia, altresi', rilevante
la questione concernente il comma 1, lettera b), del medesimo art. 3,
nella  parte  in  cui  -  modificando l'art. 19, comma 2, del decreto
legislativo  30 marzo  2001,  n. 165 (Norme generali sull'ordinamento
del  lavoro  alle  dipendenze  delle  amministrazioni pubbliche) - ha
ridotto  la  durata  massima degli incarichi dirigenziali in esame da
sette a tre anni. Si sostiene, infatti, che, pure se fosse dichiarata
la incostituzionalita' del comma 7, la riduzione del predetto termine
impedirebbe  il ripristino dei rapporti cessati nella loro originaria
consistenza   temporale   ovvero   inciderebbe   sulla   misura   del
risarcimento  del  danno,  attesa  la maggiore durata degli incarichi
stabilita  convenzionalmente.  In particolare, nella ordinanza n. 157
del  2006,  si  afferma che «il limite triennale della durata massima
dell'incarico,  fissato da una norma imperativa di legge sopravvenuta
al  contratto originario», e' suscettibile, come tale, di conformarlo
anche quanto alla durata.
    2.   -   Avendo   i   suddetti   giudizi   ad  oggetto  questioni
sostanzialmente  analoghe,  se  ne  deve disporre la riunione ai fini
della loro trattazione unitaria.
    3. - In via preliminare, occorre verificare se ed in quali limiti
le  questioni  di  costituzionalita'  sollevate  dai rimettenti siano
ammissibili.
    Devono,  in primo luogo, essere esaminate le ordinanze numeri 97,
107  e  159  del  2006, con le quali i rimettenti hanno riproposto le
questioni di legittimita' costituzionale delle norme sopra indicate a
seguito  dell'ordinanza  n. 398  del 2005, con cui questa Corte aveva
loro   restituito   gli   atti   a  seguito  dell'entrata  in  vigore
dell'art. 14-sexies   del   decreto-legge   30   giugno 2005,  n. 115
(Disposizioni  urgenti  per  assicurare  la  funzionalita' di settori
della    pubblica   amministrazione),   inserito   dalla   legge   di
conversione 17 agosto 2005, n. 168, il quale ha reintrodotto, per gli
incarichi  in  esame, una durata minima, fissandola in tre anni, e ha
portato  quella  massima da tre a cinque anni. In particolare, con la
citata  ordinanza questa Corte ha ritenuto che «siffatta sopravvenuta
modifica  di  una  delle  due norme censurate - pur se i nuovi limiti
temporali  non  si  applicano  agli  incarichi di direzione di uffici
dirigenziali generali resi vacanti prima della scadenza dei contratti
dei   relativi  dirigenti  per  effetto  della  impugnata  cessazione
automatica - comporta comunque un rilevante mutamento del complessivo
quadro  normativo  di  riferimento  da  cui  tutti i rimettenti hanno
tratto argomentazioni in ordine alla non manifesta infondatezza delle
questioni   riguardanti  l'altra  norma  impugnata,  ossia  l'art. 3,
comma 7, della legge n. 145 del 2002».
    Nella  riproposizione delle predette questioni i giudici a quibus
-  dopo avere sottolineato che il citato art. 14-sexies non rileva ai
fini  della  definizione dei rispettivi giudizi - hanno fatto rinvio,
espressamente  o  implicitamente,  alle  motivazioni  contenute nelle
precedenti ordinanze di rimessione.
    3.1.- Le questioni cosi' prospettate sono inammissibili.
    La   giurisprudenza   di   questa  Corte  e',  infatti,  costante
nell'affermare   che   non   possono   avere  ingresso  nel  giudizio
incidentale   di   costituzionalita'   questioni  motivate  solo  per
relationem,  dovendo  il  rimettente  rendere  esplicite  in ciascuna
ordinanza   le   ragioni   per  le  quali  ritenga  rilevante  e  non
manifestamente   infondata   la  questione  sollevata,  mediante  una
motivazione autosufficiente, non sostituibile dal rinvio al contenuto
di  altre  ordinanze,  anche  se  emanate  dallo  stesso  giudice nel
medesimo  giudizio  (vedi,  tra  le altre, ordinanze n. 33 del 2006 e
nn. 364 e 141 del 2005).
    3.2.  - Devono essere, in secondo luogo, dichiarate inammissibili
le  questioni  sollevate  dai rimettenti, con le ordinanze numeri 38,
158  e 547 del 2006, in relazione all'art. 3, comma 1, lettera b), in
quanto  esse  non  contengono  alcuna motivazione sulla non manifesta
infondatezza  delle  stesse.  Dalla  lettura delle predette ordinanze
emerge,  infatti,  che  i  giudici  a  quibus argomentano soltanto il
contrasto   dell'art. 3,   comma 7,   con   gli   evocati   parametri
costituzionali,  omettendo  di  esplicitare  i  motivi che dovrebbero
giustificare  anche  la  caducazione delle disposizioni contenute nel
comma 1, lettera b), del medesimo articolo.
    3.3.   -  Resta  da  stabilire,  infine,  se  possa  considerarsi
ammissibile  la  questione di costituzionalita' dell'art. 3, comma 1,
lettera b), sollevata con l'ordinanza n. 157 del 2006.
    L'esame   della  disposizione  censurata  deve  essere  condotto,
partitamente,  sia  con  riferimento  alla  mancata  fissazione di un
termine  minimo  di  durata  degli  incarichi  dirigenziali,  sia  in
relazione alla riduzione del termine massimo da sette a tre anni.
    Sotto entrambi i profili la questione e' inammissibile.
    Quanto  al primo aspetto, va considerato che il rimettente non e'
chiamato  a  fare  applicazione nel giudizio a quo della disposizione
nella  parte  in  cui  essa  non  prevede un termine minimo di durata
dell'incarico  dirigenziale, a suo tempo conferito al ricorrente. Ne'
a  giustificare  il  rinvio  a  questa  Corte  rileva il fatto che il
giudice  a  quo  ritenga  di ricavare argomenti dalla norma stessa al
fine  di  motivare  la  non  manifesta  infondatezza  della questione
relativa  al  comma 7  del  medesimo  art. 3, di cui il rimettente e'
chiamato,  invece,  a  fare applicazione e che e', dunque, certamente
rilevante nel giudizio medesimo.
    Anche sotto il secondo aspetto, non puo' ritenersi ammissibile la
questione   di   costituzionalita'  sollevata  con  riferimento  alla
previsione,   contenuta   nella  suindicata  lettera b)  del  comma 1
dell'art. 3, nella parte in cui riduce da sette a tre anni il termine
massimo  di  durata  dell'incarico per i dirigenti generali. Cio' per
due  concomitanti  ragioni: in primo luogo, perche' il rimettente non
ha  adeguatamente  motivato in ordine alla non manifesta infondatezza
della  questione  stessa, con specifica indicazione delle ragioni per
cui  dovrebbe ritenersi incostituzionale la riduzione a soli tre anni
della  suddetta  durata  dell'incarico;  in secondo luogo, perche' ha
omesso  di indagare in ordine ad una possibile opzione interpretativa
che  consenta  di  attribuire  alla  norma in esame, introdotta dalla
legge n. 145 del 2002, soltanto efficacia ultrattiva, con decorrenza,
cioe',  dalla  data  di  entrata  in  vigore della legge citata e con
conseguente   applicazione   della  durata  originaria  ai  contratti
precedentemente   stipulati.   In  definitiva,  sulla  base  di  tale
possibile  interpretazione  adeguatrice,  il nuovo termine massimo di
durata  potrebbe  valere  soltanto  per gli incarichi attribuiti dopo
l'entrata in vigore della stessa legge n. 145 del 2002.
    4. - Alla luce delle considerazioni che precedono deve, pertanto,
ritenersi  che l'esame di merito delle censure formulate sia limitato
alla  sola  questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 3,
comma 7, della predetta legge, sollevata dal Tribunale di Roma con le
ordinanze numeri 38, 157, 158 e 547 del 2006.
    5. - La questione e' fondata.
    Allo scopo di inquadrare la problematica sollevata dai rimettenti
nell'ambito  della  nuova  disciplina  della  dirigenza  statale,  e'
necessario   soffermarsi  sugli  aspetti  rilevanti  della  complessa
evoluzione  legislativa  che  ha  investito il settore in esame e, in
particolare, sul rapporto tra politica e amministrazione.
    Occorre,   al   riguardo,   partire   dalla   cosiddetta   «prima
privatizzazione»  della  dirigenza, allo scopo di verificare in quale
modo  si  siano  atteggiati,  nel  tempo,  gli  aspetti relativi alla
distinzione  funzionale  delle  competenze  tra  livello  politico  e
livello  burocratico  e  i profili strutturali connessi alla fonte di
regolazione  del  rapporto  di  lavoro  dei  dirigenti,  nonche' alle
modalita'  di  disciplina  degli  incarichi  dirigenziali.  In  altri
termini,  occorre  esaminare come sia stata in concreto regolamentata
la  relazione  tra  vertice  politico  e  dirigenti  sul  piano delle
rispettive funzioni e come su di essa abbiano eventualmente inciso la
contrattualizzazione  del  rapporto  di  servizio, l'introduzione del
principio  di  temporaneita'  degli  incarichi,  nonche',  infine, la
previsione, che rileva in questa sede, della cessazione automatica ex
lege degli incarichi stessi.
    6.  -  Come  e' noto, la legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al
Governo  per  la razionalizzazione e la revisione delle discipline in
materia  di  sanita', di pubblico impiego, di previdenza e di finanza
territoriale),  a  suo  tempo  ha autorizzato l'Esecutivo a stabilire
«con  uno  o  piu' decreti, salvi i limiti collegati al perseguimento
degli  interessi  generali  cui  l'organizzazione  e  l'azione  delle
pubbliche  amministrazioni sono indirizzate, che i rapporti di lavoro
e di impiego dei dipendenti delle amministrazioni dello Stato e degli
altri  enti  di  cui agli articoli 1, primo comma, e 26, primo comma,
della   legge   29 marzo  1983,  n. 93,  siano  ricondotti  sotto  la
disciplina  del  diritto  civile  e siano regolati mediante contratti
individuali e collettivi» (art. 2, comma 1, lettera a).
    In   attuazione   della   delega  e'  stato  emanato  il  decreto
legislativo     3 febbraio     1993,     n. 29     (Razionalizzazione
dell'organizzazione delle Amministrazioni pubbliche e revisione della
disciplina  in materia di pubblico impiego, a norma dell'art. 2 della
legge   23 ottobre  1992,  n. 421),  che,  in  relazione  al  profilo
strutturale di disciplina del rapporto, ha provveduto alla cosiddetta
privatizzazione  del  pubblico  impiego,  superando,  ad eccezione di
taluni  settori,  il  tradizionale  regime pubblicistico e stabilendo
l'applicazione  della  disciplina  giuslavoristica di diritto privato
(art. 2,  comma 2),  «ritenuta  piu'  idonea alla realizzazione delle
esigenze  di  flessibilita' nella gestione del personale sottese alla
riforma» (sentenza n. 313 del 1996).
    Questo  processo  ha  investito anche il settore della dirigenza:
l'art. 2,  comma 4,  del  citato  d.lgs.  n. 29  del  1993, nella sua
versione    originaria,   escludeva,   pero',   espressamente   dalla
contrattualizzazione del rapporto di impiego i «dirigenti generali».
    La   riforma   del  1993  ha,  infatti,  dettato  una  disciplina
differenziata  della  dirigenza  che  ha preso le mosse proprio dalla
diversita' delle fonti di regolazione del rapporto.
    In  particolare,  l'art. 21  del citato d.lgs. ha stabilito che i
dirigenti   generali  dovessero  essere  nominati  «con  decreto  del
Presidente  della  Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei
ministri, su proposta del Ministro competente» e che l'incarico fosse
conferito  a  soggetti  in  possesso  dei  requisiti  prescritti  dal
medesimo art. 21.
    L'«accesso  alla  qualifica»  doveva  avvenire  «per concorso per
esami»    indetto   dalle   singole   amministrazioni,   ovvero   per
corso-concorso  selettivo  di  formazione  presso la Scuola superiore
della pubblica amministrazione (art. 28).
    Dopo  l'acquisizione  della «qualifica», ai dirigenti generali in
servizio   presso   l'amministrazione   interessata  sarebbero  stati
conferiti   -   con  decreto  del  Ministro  competente,  sentito  il
Presidente del Consiglio dei ministri - «incarichi di direzione degli
uffici  di ciascuna amministrazione dello Stato, anche ad ordinamento
autonomo,  di  livello dirigenziale generale» (art. 19, comma 2). Con
la  medesima  procedura  sarebbero stati attribuiti «gli incarichi di
funzione  ispettiva  e  di  consulenza,  studio  e ricerca di livello
dirigenziale generale» (art. 19, comma 2).
    Ai   dirigenti  non  generali,  invece,  la  legge  in  esame  ha
autorizzato  il  conferimento - con decreto del Ministro, su proposta
del  dirigente generale competente - di «incarichi di direzione degli
uffici  di ciascuna amministrazione dello Stato, anche ad ordinamento
autonomo,    di    livello   dirigenziale»,   con   la   possibilita'
dell'attribuzione   di   incarichi  per  l'esercizio  della  funzione
ispettiva e di consulenza, studio e ricerca «di livello dirigenziale»
(art. 19, comma 3).
    Per  quanto attiene alla scelta dei dirigenti, lo stesso art. 19,
al  comma 1,  ha previsto che si dovesse tenere conto «della natura e
delle caratteristiche dei programmi da realizzare, delle attitudini e
della   capacita'  professionale  del  singolo  dirigente,  anche  in
relazione  ai risultati conseguiti in precedenza, applicando di norma
il criterio della rotazione degli incarichi».
    6.1.  -  Con  riferimento  al  profilo  relativo  al rapporto tra
politica  e  amministrazione, la legge n. 421 del 1992, come e' noto,
ha  autorizzato il Governo a prevedere: «la separazione tra i compiti
di   direzione   politica   e  quelli  di  direzione  amministrativa;
l'affidamento  ai  dirigenti  - nell'ambito delle scelte di programma
degli  obiettivi e delle direttive fissate dal titolare dell'organo -
di  autonomi  poteri  di  direzione,  di vigilanza e di controllo, in
particolare  la gestione di risorse finanziarie attraverso l'adozione
di  idonee tecniche di bilancio, la gestione delle risorse umane e la
gestione   di   risorse  strumentali;  cio'  al  fine  di  assicurare
economicita',   speditezza   e   rispondenza  al  pubblico  interesse
dell'attivita'  degli uffici dipendenti» (art. 2, comma 1, lettera g,
numero 1).
    In attuazione di tale delega, l'art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 29
del  1993  ha  previsto  che  ai  dirigenti  spettasse  «la  gestione
finanziaria,  tecnica  e amministrativa, compresa l'adozione di tutti
gli  atti  che  impegnano l'amministrazione verso l'esterno, mediante
autonomi  poteri  di  spesa,  di organizzazione delle risorse umane e
strumentali   e   di  controllo»,  con  la  precisazione  della  loro
responsabilita' per la gestione e per i relativi risultati.
    L'art. 14,  comma 1,  del  medesimo d.lgs. ha, poi, stabilito che
spetti  al  Ministro,  anche  sulla base delle proposte dei dirigenti
generali, periodicamente, e comunque ogni anno, entro sessanta giorni
dall'approvazione  del  bilancio:  a)  definire  gli  obiettivi  ed i
programmi da attuare, indicare le priorita' ed emanare le conseguenti
direttive  generali per l'azione amministrativa e per la gestione; b)
assegnare,  a  ciascun  ufficio di livello dirigenziale generale, una
quota-parte   del  bilancio  dell'amministrazione,  commisurata  alle
risorse  finanziarie,  riferibili  ai  procedimenti o subprocedimenti
attribuiti  alla  responsabilita'  dell'ufficio,  e agli oneri per il
personale e per le risorse strumentali allo stesso assegnati.
    Il  comma 3  del  medesimo art. 14 ha previsto, inoltre, che «gli
atti  di  competenza  dirigenziale non sono soggetti ad avocazione da
parte  del  Ministro,  se non per particolari motivi di necessita' ed
urgenza, specificamente indicati nel provvedimento di avocazione».
    7.  - Le innovazioni legislative introdotte negli anni 1997--1998
hanno,  da un lato, completato, sul piano strutturale, il processo di
contrattualizzazione   del   rapporto   di   impiego  dei  dirigenti,
modificando   rilevanti   aspetti  della  previgente  disciplina,  in
relazione   anche  alle  modalita'  di  svolgimento  degli  incarichi
dirigenziali;  dall'altro, hanno accentuato, sul piano funzionale, la
distinzione  tra  attivita'  di  indirizzo  politico-amministrativo e
compiti gestori.
    In  particolare,  l'art. 11,  comma 4, della legge 15 marzo 1997,
n. 59  (Delega  al  Governo per il conferimento di funzioni e compiti
alle   regioni   ed  enti  locali,  per  la  riforma  della  Pubblica
Amministrazione e per la semplificazione amministrativa), ha previsto
che  si  dovesse «estendere il regime di diritto privato del rapporto
di   lavoro   anche   ai   dirigenti  generali  ed  equiparati  delle
amministrazioni  pubbliche»  (lettera a)  e  che  il  Governo dovesse
attenersi  «ai  principi  contenuti  negli  articoli 97  e  98  della
Costituzione,  ai criteri direttivi di cui all'articolo 2 della legge
23 ottobre  1992,  n. 421,  a partire dal principio della separazione
tra  compiti  e  responsabilita'  di  direzione  politica e compiti e
responsabilita' di direzione delle amministrazioni».
    In  attuazione  della  predetta legge delega sono stati emanati i
decreti  legislativi  31 marzo  1998,  n. 80  (Nuove  disposizioni in
materia   di   organizzazione   e   di   rapporti   di  lavoro  nelle
amministrazioni  pubbliche,  di  giurisdizione  nelle controversie di
lavoro  e  di  giurisdizione  amministrativa,  emanate  in attuazione
dell'articolo 11,  comma 4,  della  legge  15 marzo  1997,  n. 59), e
29 ottobre   1998,   n. 387  (Ulteriori  disposizioni  integrative  e
correttive   del   decreto  legislativo  3 febbraio  1993,  n. 29,  e
successive  modificazioni,  e  del decreto legislativo 31 marzo 1998,
n. 80),  che  hanno  modificato,  in  piu' parti, il d.lgs. n. 29 del
1993.
    7.1.  -  Con  i citati decreti delegati e' stato esteso il regime
della  contrattualizzazione ai dirigenti generali, i quali, pertanto,
non  sono  piu'  inclusi  nell'ambito  del  personale che e', invece,
rimasto  disciplinato,  in  deroga alla regola della privatizzazione,
secondo  il  previgente  regime  di  diritto  pubblico (vedi il nuovo
art. 2, comma 4, del d.lgs. n. 29 del 1993).
    La  riforma  del  1998  ha,  inoltre,  previsto  «l'accesso  alla
qualifica  di  dirigente»  esclusivamente  a seguito di «concorso per
esami»  seguito dalla stipulazione del contratto di lavoro (art. 28),
nonche'  l'iscrizione  dei  soggetti,  in  tal  modo selezionati, nel
«ruolo  unico  dei  dirigenti»  istituito  presso  la  Presidenza del
Consiglio dei ministri ed articolato in due fasce (art. 23); ed e' al
predetto  ruolo  unico  che  ciascuna amministrazione statale avrebbe
dovuto   rivolgersi  per  il  conferimento  dei  relativi  incarichi,
determinando cosi' la costituzione del rapporto di ufficio.
    In  particolare,  l'art. 19  del d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo
modificato  dai citati decreti, ha previsto tre tipologie di funzioni
dirigenziali,  collocate  in  ordine  decrescente  di  rilevanza e di
maggiore coesione con l'organo politico.
    Innanzitutto,  sono  stati  previsti «gli incarichi di segretario
generale  di  ministeri,  gli  incarichi  di  direzione  di strutture
articolate  al  loro interno in uffici dirigenziali generali e quelli
di  livello  equivalente»:  si  tratta  degli  incarichi dirigenziali
«apicali»,  conferiti  con  decreto  del Presidente della Repubblica,
previa  deliberazione  del  Consiglio  dei  ministri, su proposta del
Ministro  competente, ai dirigenti della prima fascia del ruolo unico
(art. 19, comma 3).
    Sono  stati  poi  contemplati  «gli  incarichi di direzione degli
uffici  di livello dirigenziale generale», attribuiti con decreto del
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  su  proposta del Ministro
competente,  ai  dirigenti  della «prima fascia del ruolo unico o, in
misura  non  superiore  ad  un terzo, ai dirigenti del medesimo ruolo
unico»  ovvero,  con  contratto  a  tempo  determinato,  a persone in
possesso  di  specifiche  qualita'  professionali (comma 4). Ed e' su
tale  tipologia di incarichi che vertono le disposizioni censurate in
questa sede.
    Infine,  sono  stati  previsti  gli  incarichi di direzione degli
altri  uffici  di  livello  dirigenziale,  conferiti  «dal  dirigente
dell'ufficio di livello dirigenziale generale, ai dirigenti assegnati
al suo ufficio» (comma 5).
    Gli  stessi  criteri  di  scelta  dei  soggetti cui conferire gli
incarichi  sono  rimasti sostanzialmente immutati, anche in relazione
alla  vigenza del criterio della rotazione (art. 19, comma 1), con la
puntualizzazione  che  non  trova applicazione l'art. 2103 del codice
civile.
    Detto  cio',  va sottolineato che per tutti i predetti incarichi,
per espressa previsione contemplata al comma 2 del novellato art. 19,
e'  stato previsto il conferimento «a tempo determinato», in tal modo
introducendosi,  a livello legislativo, il principio di temporaneita'
degli  incarichi,  aventi  «durata  non  inferiore  a  due anni e non
superiore   a   sette  anni  con  facolta'  di  rinnovo».  La  stessa
disposizione ha puntualizzato che tale durata dovesse essere definita
contrattualmente   unitamente   all'oggetto   e   agli  obiettivi  da
conseguire.
    Quanto,  poi,  alla  scadenza  dell'incarico, si e' stabilito, in
mancanza   di   riconferma,   il   «collocamento   in  disponibilita»
dell'interessato  presso  il  ruolo unico. In particolare, secondo il
comma 10 dello stesso art. 19, «i dirigenti ai quali non sia affidata
la  titolarita'  di  uffici dirigenziali svolgono, su richiesta degli
organi  di  vertice  delle  amministrazioni che ne abbiano interesse,
funzioni ispettive, di consulenza, studio e ricerca o altri incarichi
specifici previsti dall'ordinamento».
    E'  stata  anche  sancita la cessazione dell'incarico come misura
conseguente  all'accertamento di una responsabilita' dirigenziale. Il
successivo  art. 21,  prima  delle  modifiche  apportate  dalla legge
n. 145  del  2002,  ha,  infatti, stabilito che «i risultati negativi
dell'attivita'   amministrativa   e   della  gestione  o  il  mancato
raggiungimento  degli  obiettivi»  avrebbero  potuto  comportare  «la
revoca  dell'incarico  (...) e la destinazione ad altro incarico». Il
comma 2  dello stesso art. 21 ha, altresi', previsto che «nel caso di
grave inosservanza delle direttive impartite dall'organo competente o
di   ripetuta   valutazione  negativa  (...),  il  dirigente,  previa
contestazione e contraddittorio, puo' essere escluso dal conferimento
di  ulteriori  incarichi,  di  livello  dirigenziale corrispondente a
quello  revocato,  per  un periodo non inferiore a due anni». Infine,
quale  terza  tipologia  di  misura,  si e' disposto che «nei casi di
maggiore  gravita»,  riferiti  alle fattispecie da ultimo menzionate,
l'amministrazione  avrebbe  potuto  recedere dallo stesso rapporto di
lavoro,  secondo  le  disposizioni  del codice civile e dei contratti
collettivi.
    7.2.  -  Quanto  al  momento  funzionale relativo alle competenze
gestionali  dei  dirigenti  ed  al  rapporto  di  essi con gli organi
politici,  deve  sottolinearsi  come i citati d.lgs. nn. 80 e 387 del
1998,  modificando, in parte, anche gli artt. 3 e 14 del d.lgs. n. 29
del  1993,  abbiano  «accentuato  il  principio della distinzione tra
funzione di indirizzo politico-amministrativo degli organi di Governo
e  funzione  di  gestione  e attuazione amministrativa dei dirigenti»
(ordinanza n. 11 del 2002).
    In   particolare,   l'art. 3,   a   differenza  della  previgente
formulazione,   contiene  una  elencazione  puntuale  degli  atti  di
competenza  degli organi di Governo, con attribuzione ai dirigenti di
una competenza generale e residuale.
    Il  citato  art. 14  ha, poi, chiaramente escluso che il Ministro
possa  «revocare,  riformare,  riservare o avocare a se' o altrimenti
adottare   provvedimenti   o   atti  di  competenza  dei  dirigenti»,
riconoscendo  cosi'  esplicitamente  che  il  rapporto tra politica e
amministrazione  non  e'  piu' ricostruibile pienamente in termini di
gerarchia, bensi' di coordinamento funzionale e di collaborazione tra
i due livelli.
    8.  - Il quadro normativo sin qui descritto - confluito, poi, nel
d.lgs.  n. 165  del  2001  -  ha,  in  sostanza, delineato un modello
articolato di regolamentazione della dirigenza.
    In   sintesi,  puo'  dirsi  che,  con  la  suddetta  riforma  del
1997-1998,  sul  piano  strutturale, e' stata completata l'attuazione
del  processo  di  contrattualizzazione  del  rapporto  di lavoro dei
dirigenti  ed  e' stato definitivamente introdotto il principio della
temporaneita' degli incarichi connessi al rapporto di ufficio.
    La  disciplina  legislativa,  qui  presa  in  esame,  del  lavoro
dirigenziale  - basato sul contratto di servizio su cui si innesta il
predetto rapporto - ha, pertanto, determinato il definitivo passaggio
da  una  concezione della dirigenza intesa come status, quale momento
di sviluppo della carriera dei funzionari pubblici, ad una concezione
della stessa dirigenza di tipo funzionale.
    Sul  piano  delle  competenze,  il  legislatore - abbandonando il
modello incentrato esclusivamente sul principio della responsabilita'
ministeriale, che negava, di regola, attribuzioni autonome ed esterne
agli  organi  burocratici  -  ha fatto perno sulla distinzione tra il
potere  di indirizzo politico-amministrativo e l'attivita' gestionale
svolta dai dirigenti. Tale netta distinzione ha, da un lato, ampliato
le  competenze  dirigenziali,  l'esercizio  delle  quali  deve essere
valutato tenendo conto, in particolare, dei risultati «dell'attivita'
amministrativa  e  della  gestione»  (art. 5  del decreto legislativo
30 luglio   1999,  n. 286,  recante  «Riordino  e  potenziamento  dei
meccanismi  e  strumenti di monitoraggio e valutazione dei costi, dei
rendimenti    e    dei    risultati   dell'attivita'   svolta   dalle
amministrazioni  pubbliche,  a  norma  dell'articolo 11  della  legge
15 marzo  1997,  n. 59»);  dall'altro  lato  e  conseguentemente,  ha
comportato un maggiore rigore nell'accertamento della responsabilita'
dei  dirigenti  stessi  (sentenza n. 193 del 2002), che presuppone un
efficace sistema valutativo in relazione agli obiettivi programmati.
    Analizzando  i  profili  di  possibile interferenza tra l'aspetto
della   distinzione  funzionale  dei  compiti  e  quello  strutturale
relativo  alla  disciplina  del  rapporto, questa Corte ha gia' avuto
modo  di  affermare  -  sia  pure  con  riferimento  ai dirigenti non
generali,  ma  con enunciazioni estensibili anche a quelli di livello
immediatamente superiore - che la prevista contrattualizzazione della
dirigenza  non  implica  che  la  pubblica  amministrazione  abbia la
possibilita'  di  recedere  liberamente dal rapporto stesso (sentenza
n. 313  del  1996).  Se  cosi'  fosse,  e'  evidente, infatti, che si
verrebbe  ad  instaurare  uno stretto legame fiduciario tra le parti,
che  non  consentirebbe  ai  dirigenti  generali  di svolgere in modo
autonomo e imparziale la propria attivita' gestoria.
    Di  qui  la  logica conseguenza per la quale anche il rapporto di
ufficio,  sempre  sul  piano strutturale, pur se caratterizzato dalla
temporaneita'  dell'incarico,  debba  essere  connotato da specifiche
garanzie,  le  quali presuppongano che esso sia regolato in modo tale
da assicurare la tendenziale continuita' dell'azione amministrativa e
una   chiara  distinzione  funzionale  tra  i  compiti  di  indirizzo
politico-amministrativo  e  quelli  di  gestione.  Cio'  al  fine  di
consentire  che  il  dirigente  generale  possa  espletare la propria
attivita'  -  nel  corso  e  nei  limiti  della durata predeterminata
dell'incarico - in conformita' ai principi di imparzialita' e di buon
andamento   dell'azione   amministrativa  (art. 97  Cost.).  In  tale
prospettiva,  e',  dunque,  indispensabile, come questa Corte ha gia'
avuto  modo  di affermare (sentenza n. 193 del 2002 e ordinanza n. 11
del  2002), che siano previste adeguate garanzie procedimentali nella
valutazione   dei   risultati   e   dell'osservanza  delle  direttive
ministeriali  finalizzate alla adozione di un eventuale provvedimento
di revoca dell'incarico per accertata responsabilita' dirigenziale.
    9.  -  In  questo  contesto  si colloca la legge n. 145 del 2002,
contenente le disposizioni impugnate.
    Tale  legge,  per  quanto  attiene  al  rapporto  di servizio, ha
ripristinato  l'accesso  alla qualifica mediante concorso per esame e
corso-concorso  selettivo di formazione ed ha abolito il ruolo unico,
prevedendo  il  ruolo  dei  dirigenti  per  ciascuna  amministrazione
statale.
    Con  riferimento  al  rapporto  di  ufficio, l'art. 19 del d.lgs.
n. 165 del 2001, come innovato dalla citata legge n. 145 del 2002, ha
disposto,   per   i  profili  relativi  ai  criteri  di  conferimento
dell'incarico, che si debba tenere conto, «in relazione alla natura e
alle  caratteristiche  degli obiettivi prefissati, delle attitudini e
delle  capacita'  professionali del singolo dirigente, valutate anche
in  considerazione  dei  risultati  conseguiti  con  riferimento agli
obiettivi  fissati  nella  direttiva  annuale  e  negli altri atti di
indirizzo  del  Ministro»  (comma 1); e' stato, inoltre, eliminato il
riferimento,  contenuto  nella  precedente  formulazione della stessa
disposizione,   all'applicazione   «di  norma»  del  «criterio  della
rotazione degli incarichi».
    Inoltre,   lo   stesso   art. 19,  al  comma 2,  prevede  che  il
«provvedimento  di  conferimento  dell'incarico»,  e  non il relativo
contratto,  individui  «l'oggetto  dell'incarico  e  gli obiettivi da
conseguire,  con  riferimento alle priorita', ai piani e ai programmi
definiti  dall'organo  di vertice nei propri atti di indirizzo e alle
eventuali  modifiche  degli  stessi  che  intervengano  nel corso del
rapporto,  nonche' la durata dell'incarico, che deve essere correlata
agli  obiettivi  prefissati  e che, comunque, non puo' eccedere», per
gli  incarichi di funzioni dirigenziali di livello generale, che sono
quelli  che  rilevano  in questa sede, «il termine di tre anni»; alla
fase   di  definizione  consensuale  rimane  affidata  unicamente  la
determinazione del corrispondente trattamento economico.
    Per   quanto   attiene   ai   criteri   di   accertamento   della
responsabilita' dirigenziale e alle consequenziali misure adottabili,
la  nuova versione dell'art. 21 del d.lgs. n. 165 del 2001 stabilisce
che  «il mancato raggiungimento degli obiettivi ovvero l'inosservanza
delle  direttive»  -  valutati  con i sistemi e le garanzie di cui al
citato   art. 5   del   d.lgs.   n. 286   del   1999   -   comportano
«l'impossibilita'  di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale». La
medesima  disposizione  prevede  che  «in relazione alla gravita' dei
casi, l'amministrazione puo', inoltre, revocare l'incarico collocando
il  dirigente  a  disposizione  dei  ruoli di cui all'art. 23, ovvero
recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto
collettivo».
    9.1.  -  E',  dunque, sulla base delle esposte considerazioni che
emerge  la  fondatezza  della censura con la quale i rimettenti hanno
dedotto  l'illegittimita'  costituzionale dell'art. 3, comma 7, della
legge  n. 145  del  2002,  nella  parte  in  cui  si  prevede che gli
incarichi  di  funzioni  dirigenziali di livello generale «cessano il
sessantesimo  giorno  dalla  data  di  entrata in vigore» della legge
stessa.
    Al  riguardo  va,  innanzitutto,  precisato che il citato comma 7
prevede  due  diversi meccanismi transitori di incidenza sul rapporto
di  ufficio,  in  corso  alla  data  di entrata in vigore della legge
stessa,  a  seconda  che  vengano  in  rilievo  incarichi di funzioni
dirigenziali di livello generale o non generale.
    In  relazione  a  questi ultimi, non oggetto di contestazione, la
norma  prescrive  che  gli  stessi  possono  essere sottoposti, entro
novanta  giorni  dall'entrata  in  vigore della predetta legge, ad un
giudizio  di  revisione  e ridistribuzione «secondo il criterio della
rotazione»,  con  la  specificazione  che  «decorso tale termine, gli
incarichi si intendono confermati, ove nessun provvedimento sia stato
adottato».
    Le  censure  dei  giudici  rimettenti  si  incentrano, come si e'
precisato,  esclusivamente  sull'altra parte del medesimo comma 7, il
quale,  in  relazione  agli  «incarichi  di  funzione dirigenziale di
livello  generale», stabilisce che gli stessi cessano automaticamente
il sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge.
    Deve,  dunque,  essere  ribadito,  ai  fini  della  delimitazione
dell'ambito  applicativo  della normativa impugnata, che la questione
proposta non riguarda la posizione dei dirigenti ai quali siano stati
conferiti  incarichi  «apicali»,  vale  a  dire  quelli  di  maggiore
coesione    con    gli    organi   politici   (segretario   generale,
capo dipartimento e altri equivalenti).
    Le  modalita'  di  cessazione  di  quest'ultimi  incarichi  sono,
infatti,  contenute  nel  comma 8  dell'art. 19 del d.lgs. n. 165 del
2001,  che  e'  stato  anch'esso  oggetto di modifiche da parte della
predetta legge n. 145 del 2002. La nuova disposizione, con previsione
a  regime, stabilisce che, tra l'altro, i suddetti incarichi «cessano
decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo».
    9.2.  -  Orbene,  la  norma  impugnata - prevedendo un meccanismo
(cosiddetto  spoils  system  una tantum) di cessazione automatica, ex
lege e generalizzata degli incarichi dirigenziali di livello generale
al  momento dello spirare del termine di sessanta giorni dall'entrata
in  vigore  della  legge  in  esame  -  si  pone in contrasto con gli
artt. 97 e 98 della Costituzione.
    La suddetta disposizione, cosi' formulata, infatti - determinando
una  interruzione, appunto, automatica del rapporto di ufficio ancora
in  corso  prima  dello  spirare  del  termine  stabilito - viola, in
carenza   di   garanzie   procedimentali,   gli   indicati   principi
costituzionali   e,  in  particolare,  il  principio  di  continuita'
dell'azione  amministrativa che e' strettamente correlato a quello di
buon  andamento dell'azione stessa. Le recenti leggi di riforma della
pubblica  amministrazione,  in precedenza illustrate, hanno, infatti,
disegnato un nuovo modulo di azione che misura il rispetto del canone
dell'efficacia  e  dell'efficienza  alla  luce  dei  risultati che il
dirigente  deve  perseguire,  nel  rispetto degli indirizzi posti dal
vertice politico, avendo a disposizione un periodo di tempo adeguato,
modulato  in  ragione  della  peculiarita'  della  singola  posizione
dirigenziale e del contesto complessivo in cui la stessa e' inserita.
E'  evidente,  dunque, che la previsione di una anticipata cessazione
ex lege del rapporto in corso impedisce che l'attivita' del dirigente
possa espletarsi in conformita' al modello di azione sopra indicato.
    A  regime, per i motivi sin qui esposti, la revoca delle funzioni
legittimamente  conferite  ai  dirigenti,  in  questa  sede  presi in
considerazione,  puo'  essere  conseguenza  soltanto di una accertata
responsabilita' dirigenziale in presenza di determinati presupposti e
all'esito  di  un  procedimento di garanzia puntualmente disciplinato
(sentenza n. 193 del 2002).
    Deve, pertanto, ritenersi necessario che - alla luce dei principi
affermati  dalla giurisprudenza costituzionale prima richiamata - sia
comunque  garantita  la  presenza  di  un  momento  procedimentale di
confronto dialettico tra le parti, nell'ambito del quale, da un lato,
l'amministrazione  esterni  le  ragioni  -  connesse  alle  pregresse
modalita'  di  svolgimento  del  rapporto  anche  in  relazione  agli
obiettivi  programmati  dalla  nuova  compagine  governativa - per le
quali  ritenga  di non consentirne la prosecuzione sino alla scadenza
contrattualmente prevista; dall'altro, al dirigente sia assicurata la
possibilita'  di  far  valere  il  diritto  di difesa, prospettando i
risultati  delle proprie prestazioni e delle competenze organizzative
esercitate  per  il  raggiungimento degli obiettivi posti dall'organo
politico e individuati, appunto, nel contratto a suo tempo stipulato.
    L'esistenza   di  una  preventiva  fase  valutativa  si  presenta
essenziale  anche  per  assicurare,  specie  dopo l'entrata in vigore
della  legge  7 agosto  1990,  n. 241  (Nuove  norme  in  materia  di
procedimento  amministrativo  e  di  diritto  di accesso ai documenti
amministrativi), come modificata dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15,
il rispetto dei principi del giusto procedimento, all'esito del quale
dovra'  essere adottato un atto motivato che, a prescindere dalla sua
natura  giuridica, di diritto pubblico o di diritto privato, consenta
comunque   un  controllo  giurisdizionale.  Cio'  anche  al  fine  di
garantire  - attraverso la esternazione delle ragioni che stanno alla
base  della  determinazione  assunta  dall'organo  politico  - scelte
trasparenti  e  verificabili,  in grado di consentire la prosecuzione
dell'attivita'  gestoria in ossequio al precetto costituzionale della
imparzialita'  dell'azione  amministrativa.  Precetto, questo, che e'
alla  base della stessa distinzione funzionale dei compiti tra organi
politici  e  burocratici  e  cioe'  tra  l'azione di governo - che e'
normalmente   legata   alle   impostazioni  di  una  parte  politica,
espressione    delle    forze    di    maggioranza   -   e   l'azione
dell'amministrazione,   la   quale,   nell'attuazione  dell'indirizzo
politico  della  maggioranza,  e'  vincolata,  invece, ad agire senza
distinzioni  di parti politiche e dunque al «servizio esclusivo della
Nazione»  (art. 98  Cost.), al fine del perseguimento delle finalita'
pubbliche obiettivate dall'ordinamento (in questo senso, sia pure con
riferimento  ad  un  ambito di disciplina diverso da quello in esame,
vedi sentenza n. 453 del 1990, nonche' sentenza n. 333 del 1993).
    Ne'  puo'  ritenersi, come sostenuto dall'Avvocatura dello Stato,
che  la  norma  in esame, data la sua natura transitoria, rinvenga la
propria  giustificazione  nell'esigenza  di  consentire  l'attuazione
della riforma recata dalla legge n. 145 del 2002 per il tramite di un
equilibrato passaggio da un sistema all'altro.
    Tale legge, come e' emerso dall'analisi in precedenza svolta, pur
apportando  modifiche  alla  previgente  disciplina,  ne ha mantenuto
sostanzialmente  fermo  l'impianto complessivo che si regge, nei suoi
aspetti  qualificanti,  sulla scelta dei dirigenti guidata da criteri
oggettivi,  sulla  temporaneita'  dell'incarico conferito, nonche' su
meccanismi  di  revoca  dell'incarico stesso in presenza di peculiari
profili  di responsabilita' dirigenziali. Cio' rende evidente come la
disposizione  censurata  - a differenza di quanto affermato da questa
Corte,  in  una diversa fattispecie, con la sentenza n. 233 del 2006,
in relazione ad una norma concernente la dirigenza regionale (art. 2,
comma 1,  della  legge  della  Regione Abruzzo 12 agosto 2005, n. 27)
dettata  per «rendere immediatamente operativa la nuova disciplina» -
non  assolva  ad  alcuna  funzione  di disciplina transitoria volta a
consentire  l'attuazione  di  un  innovativo  sistema della dirigenza
statale  e  dei rapporti di questa con gli organi politici e, dunque,
ad  agevolare  un  graduale  ed  armonico  passaggio  da uno ad altro
ordinamento delle funzioni della dirigenza medesima.
    La  scelta  del  legislatore,  pertanto, all'esito di un giudizio
complessivo di bilanciamento dei valori, non puo' essere giustificata
dalla  esigenza  di  permettere  l'applicazione immediata delle norme
sulla  dirigenza  nelle parti modificate dalla legge n. 145 del 2002,
tanto  piu'  tenendo  conto  che  la natura provvedimentale dell'atto
legislativo  impone, sotto il profilo della non arbitrarieta' e della
ragionevolezza delle scelte, un sindacato ancora piu' rigoroso (vedi,
tra  le  altre,  sentenza  n. 153  del  1997).  Del resto, se il fine
perseguito  fosse  stato  effettivamente quello di consentire l'avvio
della  riforma  attuata  dalla  predetta  legge,  da  un lato, non si
spiegherebbe  perche'  il  legislatore  abbia  imposto  la cessazione
automatica  ex  lege ed una tantum dei soli incarichi dirigenziali di
livello  generale  e  non  anche degli altri incarichi per i quali e'
previsto,  come si e' precisato, un diverso meccanismo di valutazione
di  quelli  in  corso  alla  data  di  entrata  in vigore della legge
medesima;  dall'altro,  non  troverebbe,  allo  stesso  modo, una sua
giustificazione  l'adozione  di  una  misura  revocatoria ex lege non
proporzionata all'obiettivo che si intendeva perseguire.
    La   stessa   inesistenza   di   un   termine  minimo  di  durata
dell'incarico  dirigenziale,  ancorche'  la  relativa  disposizione -
sotto  questo  aspetto  - non formi oggetto dell'odierno scrutinio di
costituzionalita'  per  le ragioni precedentemente esposte, e' indice
di  una possibile precarizzazione della funzione dirigenziale, che si
presenta  (quando  il termine sia eccessivamente breve) difficilmente
compatibile  con un adeguato sistema di garanzie per il dirigente che
sia  idoneo  ad  assicurare  un  imparziale,  efficiente  ed efficace
svolgimento dell'azione amministrativa.
    E   non   e'   senza   significato,   che,  successivamente,  con
l'art. 14-sexies del decreto-legge n. 115 del 2005, il termine minimo
di durata dell'incarico sia stato reintrodotto.
    9.3.  -  Deve,  pertanto,  essere  dichiarata  la  illegittimita'
costituzionale  dell'art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002 per
contrasto  con  gli  artt. 97 e 98 della Costituzione, nella parte in
cui  dispone che «i predetti incarichi cessano il sessantesimo giorno
dalla  data  di entrata in vigore della presente legge, esercitando i
titolari  degli stessi in tale periodo esclusivamente le attivita' di
ordinaria amministrazione».
    Restano assorbite le altre censure prospettate dai rimettenti.