LA CORTE DI APPELLO Nel proc. a carico di Patetta Pierangelo, giudicata con sentenza emessa ex art. 442 c.p.p. dal G.u.p. di Verbania in data 5 luglio 2001 e in tale sede assolto dal reato a lui ascritto per non aver commesso il fatto. Preso atto che avverso tale sentenza ha presentato tempestivo appello il Procuratore della Repubblica di Verbania, chiedendo che l'imputato sia dichiarato colpevole e condannato alla pena di mesi sei e giorni venti di reclusione legge, non richiedendo la riassunzione di prove ex art. 603 c.p.p., ha emesso la seguente ordinanza. La Corte si trova a dare applicazione alla recente legge n. 46 del 20 febbraio 2006, entrata in vigore il 9 marzo 2006, che ha modificato l'art. 443.1 c.p.p. nel senso di precludere in ogni caso al p.m. l'appello avverso sentenze di proscioglimento. La norma transitoria di cui all'art. 10 della predetta legge impone al giudice, innanzi al quale pende l'appello proposto dal p.m. prima dell'entrata in vigore della novella, di emettere ordinanza non impugnabile con la quale dichiara l'inammissibilita' dell'appello. Pertanto la normativa in questione e' direttamente rilevante nella presente fase che vede l'imputato assolta in primo grado a seguito di giudizio abbreviato e citata a giudizio innanzi a questa Corte a seguito di appello presentato dal p.m. Appare del tutto evidente la non manifesta infondatezza della normativa in questione per violazione dell'art. 111 Cost. La Costituzione enuncia i principi generali cui deve conformarsi la normativa che disciplina il processo in Italia, stabilendo al secondo comma dell'art. 111, che il processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parita', davanti a giudice terzo ed imparziale e che la legge ne assicura la ragionevole durata. La condizione di parita' che deve essere riconosciuta alle parti dalla legge processuale non puo' intendersi limitata alla mera istruzione probatoria (parita' nel contraddittorio), giacche' sarebbe allora ridondante la previsione specifica di cui al quarto comma del medesimo art. 111, e deve essere dunque intesa in senso piu' ampio e lato. Per processo la Costituzione intende l'intero iter che conduce dalla domanda iniziale (civile) o dalla notizia di reato (penale) fino alla sentenza definitiva che appunto chiude la controversia (si veda testualmente l'art. 24.2). Poiche' nel processo agiscono parti fisiologicamente portatrici di interessi contrapposti, l'art. 111 Cost. disciplina dunque come la legge ordinaria deve regolamentare l'attribuzione alle parti delle facolta' per far valere ed eventualmente farsi vedere accogliere le loro pretese. Nel processo penale il p.m. esercita, fra le altre, la pretesa punitiva che e' ricollegata al principio costituzionale dell'obbligatorieta' dell'azione penale, pretesa che consiste nel vedere affermata la responsabilita' penale di chi, sottoposto a regolare processo, sia riconosciuto colpevole. Nell'esercizio di tale pretesa e' stata riconosciuta al p.m. la funzione di organo teso a realizzare gli interessi generali della giustizia (sent. Corte costituzionale n. 280/1995). L'imputato esercita invece la pretesa, costituzionalmente garantita dal principio di personalita' nella responsabilita' penale e da quello di irretroattivita' della legge penale, di vedersi riconosciuto innocente, attraverso gli strumenti - anch'essi rafforzati dalla previsione della Carta - della difesa assicurata in ogni stato e grado del procedimento anche al non abbienti, fino al riconoscimento del diritto alla riparazione degli errori giudiziari. La legge n. 46/2006 ha abolito le facolta' di appello per le parti a fronte delle sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio ordinario o abbreviato: cio' significa per il p.m. non poter piu' impugnare decisioni che lo vedono soccombente rispetto alla sua fondamentale pretesa nel processo, cioe' quella di vedere punito, quale finale conseguenza dell'esercizio dell'azione penale, il responsabile di un reato, tale ritenuto secondo un regolare processo. L'imputato con la riforma, invece, rimane pienamente titolare - in virtu' del principio costituzionale del diritto alla difesa - del potere di impugnare la decisione giurisdizionale che lo vede soccombente rispetto alla sua pretesa di vedersi riconosciuto innocente. E' evidente che la riforma sottrae solo ad una parte (p.m.) uno strumento processuale per vedere affermata nel giudizio la sua fondamentale pretesa, che trova legittimazione costituzionale cosi' come quella dell'imputato. Cio' viola direttamente il principio sancito dall'art. 111.2 Cost. che prevede che il processo (in tale dizione ricompresi indifferentemente quello civile e quello penale) si svolga in condizione di parita' di tutte le parti, cioe' in una condizione di diritto che assicuri a ciascun soggetto processuale eguali strumenti per raggiungere gli obiettivi suoi propri. Lo squilibrio fra le parti creato dalla riforma non appare ragionevolmente accettabile tenendo conto dei criteri che la stessa Corte costituzionale ha piu' volte ribadito. Si e' detto infatti che se e' vero che non esiste una perfetta simmetria ed equivalenza costituzionale fra esercizio dell'azione penale e diritto alla difesa, e' altrettanto vero che sarebbe censurabile sotto il profilo della ragionevolezza la legge ordinaria che, sbilanciando fra di loro le facolta' attribuite alle parti del processo, rendesse di fatto il potere del p.m. inidoneo all'assolvimento del compito che gli assegna l'art. 112 Cost. Con la legge n. 46/2006, il legislatore ha di fatto sottratto al p.m. il fondamentale strumento del nuovo giudizio di merito per vedere riconosciuta la fondatezza della sua pretesa punitiva, mentre ha lasciato tale strumento alla difesa ai fini della sua pretesa di veder riconosciuta l'innocenza dell'imputato. Nella nostra Costituzione non e' prevista la indispensabilita' di un secondo giudizio di merito; ma, si e' osservato, essa discenderebbe dall'art. 2 del VII Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo che al suo primo comma sancisce il diritto di «ogni persona dichiarata rea da un tribunale ...di far esaminare la dichiarazione di colpevolezza o la condanna da un tribunale della giurisdizione superiore»; peraltro e' quella stessa fonte internazionale a prevedere che un secondo grado di merito sia assicurato anche all'Accusa, se e' vero che il secondo comma del medesimo articolo prevede esplicitamente la condizione di chi sia stato condannato «a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento». E' pur vero che la medesima riforma restringe rispetto al passato i casi di appellabilita' delle sentenze di proscioglimento da parte dell'imputato (nel senso di escludere oggi l'appellabilita' di sentenze di proscioglimento perche' il fatto non costituisce reato, o perche' non e' punibile o perche' non e' procedibile), ma e' del tutto evidente che tale restringimento non opera con la stessa ampiezza e radicalita' utilizzate per escludere tout court il potere d'appello del p.m. innanzi a qualunque sentenza di proscioglimento. E' altrettanto vero che altre riforme hanno gia' nel corso del tempo ristretto le facolta' processuali del p.m. rispetto a quelle riconosciute all'imputato e che tali riforme hanno superato il vaglio di costituzionalita' della Corte: e' qui il caso di richiamare la formulazione dell'art. 443.3 c.p.p. (che esclude la possibilita' di appello da parte del p.m. della sentenza di condanna pronunciata a seguito di giudizio abbreviato, anche dopo l'eliminazione del presupposto del consenso del p.m. al rito ex legge n. 479/1999) ritenuta in linea con la riforma costituzionale dell'art. 111 dalla Corte Cost. con ordinanza n. 421/2001. Ma i motivi che la Corte aveva posto a fondamento della propria pronuncia non appaiono estensibili anche alla riforma attuale. Nel confermare che la Costituzione, prevedendo la parita' di p.m. e imputato nel processo, non intende attribuire loro necessariamente identita' di poteri processuali, la Corte ha pero' ribadito che un'eventuale disparita' di trattamento si giustifica e discende ragionevolmente dalla peculiare posizione istituzionale del p.m. e dalle esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia, prima fra tutte quella costituzionalmente prevista della ragionevole durata del processo che, proprio nel giudizio abbreviato, trova attuazione nel senso di semplificare l'istruttoria con l'utilizzo immediato di tutto il materiale probatorio raccolto dal p.m. senza il contraddittorio cui esplicitamente l'imputato rinuncia. Ed e' allora proprio la rinuncia da parte dell'imputato ad un altro dei principi cardine del giusto processo (il contraddittorio nella raccolta delle prove) a giustificare l'asimmetria che l'art. 443.3 c.p.p. produce nel sottrarre al p.m. la facolta' di appellare la sentenza di condanna a seguito di abbreviato. Alle considerazioni gia' svolte dalla Corte puo' aggiungersi poi la constatazione che il restringimento delle facolta' di appello per il p.m. in caso di abbreviato aveva pur sempre come presupposto l'avvenuta pronuncia di una sentenza di condanna, che comunque e' realizzazione del principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale. Totalmente differente e' la situazione di diritto in cui si cala la riforma di cui alla legge n. 46/2006. Innanzi tutto qui al p.m. e' sottratta la possibilita' di appellare contro sentenze di proscioglimento dell'imputato, decisioni che costituiscono la radicale negazione della pretesa punitiva da lui impersonata per conto dello Stato. Nell'ipotesi di cui all'art. 443.3 c.p.p., egli si era invece solo visto frustrare nella pretesa di vedere accolta la sua richiesta di quantificazione della pena da comminare al reo, che non e' pretesa di rango costituzionale e che dunque puo' ben soccombere innanzi all'esigenza costituzionale di brevita' del processo. In secondo luogo la riforma si applica indifferentemente a tutti i tipi di giudizio (abbreviato o ordinario che siano e persino contro le sentenze emesse ex art. 428 c.p.p., laddove il patrimonio probatorio valutabile non e' neppure definitivamente stabilizzato ed e' solo prospetticamente valutato). Non vi e' alcuna giustificazione della nuova asimmetria, dunque, riconnessa a istituti deflattivi in cui rinunce dell'imputato comportino il risultato apprezzabile della definizione piu' sollecita del processo. E' anche vero che una parte della dottrina processual-penalistica ha da tempo auspicato il superamento del principio di perfetta parita' delle parti nel processo, riconoscendo all'imputato condannato in primo grado sempre il diritto a veder la sua posizione rivalutata da un tribunale di seconda istanza e ritenendo invece che la pretesa punitiva dello Stato, esercitata con l'azione penale, possa arrestarsi davanti alla sentenza di primo grado; lo ha fatto sottolineando come la sentenza di primo grado sia ordinariamente frutto della diretta raccolta da parte del giudice delle prove in contraddittorio mentre quella d'appello e' il risultato di una mera verifica critica degli atti gia' raccolti e tenendo anche in conto il nuovo precetto costituzionale della ragionevole durata del processo. Tale orientamento troverebbe giustificazione nel diverso ruolo esercitato nel processo dal pubblico ministero (parte pubblica dotata di potere) rispetto all'imputato (soggetto privato che subisce il processo), secondo quella stessa sottolineatura che la Corte costituzionale aveva fatto nella sua ordinanza n. 421/2001 citata. Senonche' tale auspicata riforma non pare trovare copertura costituzionale nell'attuale formulazione dell'art. 111.2 Costituzione: non vi e' dubbio, infatti, che qui il legislatore costituzionale abbia ricompreso nella dizione di parti del processo, cui va riconosciuta in generale condizione di parita', anche il p.m., organo cui spetta fisiologicamente nel processo penale l'onere di provare il thema decidendum; aver contestualmente previsto da parte dello stesso legislatore costituzionale, nei commi 3 e 4, una serie di regole di garanzia riguardanti unicamente la posizione dell'imputato (ragionevole durata del processo, informativa sollecita delle indagini, effettivo esercizio del diritto di difesa che trova oggi attuazione anche nel potere di indagine difensiva, inutilizzabilita' di accuse non confermate nel contraddittorio) pare dare gia' risposta adeguata, nel presente assetto costituzionale, alle allegate esigenze di riequilibrio fra i diversi poteri posseduti nel processo da p.m. e imputato. Altro argomento che rafforza il convincimento della Corte circa l'incostituzionalita' della nuova disciplina sta nella ingiustificata disparita' di trattamento che penalizzerebbe il p.m. nei confronti della parte civile impedendogli il mezzo di impugnazione dell'appello quando invece questo e' conservato dalla novella per la parte privata: la riforma, al suo art. 6, ha soppresso l'inciso «con il mezzo previsto per il pubblico ministero» gia' contenuto nel testo dell'art. 576 c.p.p., e cio' non esclude la parte civile dal potere di appello, se e' vero che la stessa riforma non modifica l'art. 75 c.p.p. che stabilisce il principio del trasferimento dell'azione dal processo civile a quello penale (conservando dunque gli istituti processual civilistici fra cui appunto l'appello) e non modifica neppure l'art. 600 c.p.p. che consente alla parte civile di far valere davanti alla Corte di appello un subprocedimento che e' mera anticipazione del giudizio di merito. D'altra parte la riforma, sopprimendo l'inciso «con il mezzo previsto per il pubblico ministero» ha inteso cosi' rispondere alla osservazione critica formulata dal Presidente della Repubblica nel suo rinvio alle Camere del testo originario; e dunque va senz'altro riconosciuto che il Legislatore abbia inteso conservare alla parte civile il potere di impugnare nel merito le sentenze di primo grado. Dunque: secondo la riforma, l'organo privato d'accusa si vedrebbe riconoscere poteri di impugnazione maggiori rispetto a quelli assegnati all'organo pubblico di accusa. Cio' lede per irragionevolezza il criterio di parita' delle parti nel processo giacche' non e' dato comprendere perche' dovrebbero essere maggiormente garantiti i diritti al risarcimento dei danni di una parte privata rispetto a quelli vantati dalla collettivita' attraverso la pretesa punitiva dello Stato. Infine, e' stato detto che la medesima legge n. 46/2006, modificando la formula di condanna con l'introduzione del presupposto del non travalicamento del ragionevole dubbio, avrebbe di fatto spostato la prospettiva di azione costituzionale del p.m. il quale oggi, in base al principio di non colpevolezza dell'imputato fino alla sentenza definitiva di condanna, dovrebbe prendere atto che una sentenza di proscioglimento pronunciata in primo grado e' di per se' rappresentativa di quel ragionevole dubbio che ne impedisce un ribaltamento in forma di condanna. La Corte non condivide tale impostazione: la stessa Costituzione all'art. 111 stabilisce che tutti i provvedimenti devono essere motivati, e in cio' il nostro sistema processuale si differenzia nettamente da quello anglosassone. Cio' comporta che la portata delle decisioni giurisdizionali non possa essere limitata al mero dispositivo, ma che esso valga in quanto supportato da adeguata motivazione. Sicche' il significato del concetto di ragionevole dubbio non puo' discendere automaticamente dal semplice dictum della sentenza di primo grado ma deve necessariamente articolarsi e confrontarsi con l'apparato argomentativo che la sorregge. Il che significa proprio riconoscere piena ed attuale dignita' alla pretesa del p.m. di vedere quell'apparato argomentativo sottoposto ad un nuovo esame di merito da parte di un giudice superiore. La presunzione di non colpevolezza dell'imputato e' infine concetto che non confligge affatto con tale impostazione giacche' la pretesa di essere ritenuto innocente fino a giudicato non sottrae di per se' alla verifica circa la condivisibilita' o meno della decisione assunta dal giudice di primo grado.