IL TRIBUNALE

    Visti   gli  atti  del  proc.  penale  con  rito  direttissimo  e
abbreviato nei confronti di Akanu Jonathan, nato il 1° maggio 1985 in
Nigeria,  arrestato  il  13  marzo  2006 per violazione dell'art. 14,
comma  5-ter  del  d.lgs. n. 286/1998, come modificato dalla legge 12
novembre  2004,  n. 271,  perche'  si  tratteneva  senza giustificato
motivo nel territorio dello Stato in violazione dell'ordine impartito
dal  Questore di Udine ex art. 14, comma 5-bis, d.lgs. n. 286/1998 in
data  14  novembre  2005  e  notificato  in  pari  data a seguito del
provvedimento  di espulsione dal territorio nazionale del Prefetto di
Udine, emesso e notificato all'interessato nella medesima data.
    Accertato in S. Canzian d'Isonzo il 13 marzo 2006 .
    Rilevato   che  non  essendo  state  richieste  misure  cautelari
l'imputato   e'   stato   rimesso   in  liberta'  dopo  la  convalida
dell'arresto,che  prima  dell'apertura  del  dibattimento  imputato e
difensore  hanno  chiesto prima termine a difesa e quindi il giudizio
abbreviato, ammesso dal giudice.
    Sentite   le  conclusioni  delle  parti  si  ritiene  provata  la
responsabilita'  penale dell' imputato in ordine al reato contestato,
dovendosi   escludere   la  sussistenza  di  giustificato  motivo  in
considerazione  del  tempo  trascorso  dall'ordine al rintraccio, del
fatto  che  l'imputato  non  si  e'  attivato presso il consolato per
ottenere  il  passaporto  e  che  le ragioni di timore per la propria
incolumita'  personale  nel  rientrare  in  Nigeria  sono  state gia'
valutate  in  relazione ad una domanda di asilo e la domanda e' stata
rigettata.  Il  provvedimento  di espulsione appare legittimo e cosi'
pure  l'ordine  del  questore,  entrambi  notificati  anche in lingua
inglese all'imputato.
    L'imputato  e'  incensurato  e  dunque  la  pena va applicata nel
minimo edittale e cioe' un anno di reclusione.
    Con  riduzione  per  le attenuanti generiche e il rito a mesi 5 e
giorni  10  di reclusione. Appare tuttavia preliminare la valutazione
sulla legittimita' costituzionale della pena minima edittale prevista
dalla  legge in un anno di reclusione in relazione ad una fattispecie
equivalente  nella  sostanza alla contravvenzione di cui all'art. 650
c.p.
    Il  dubbio  di  legittimita'  costituzionale, che viene sollevato
d'ufficio,  della  norma  di  cui  all'art.  14,  comma 5-ter, d.lgs.
n. 286/1998  - come sostituito dalla legge 12 novembre 2004, n. 271 -
nella  parte  in  cui prevede il limite minimo edittale di un anno di
reclusione  e' rilevante per la decisione del caso concreto in quanto
la  fattispecie e' idonea ad essere punita nel minimo edittale per la
minima  gravita'  del fatto, trattandosi del primo episodio di questo
tipo  commesso  dall'imputato  e  per  l'incensuratezza dello stesso,
nonche'  per  le  notorie  condizioni  di vita difficili nel Paese di
provenienza,  anche  per  conflitti  etnici  e  religiosi che rendono
verosimili le ragioni di fuga esposte dall'imputato.
    Dunque se la norma e' conforme ai principi costituzionali la pena
deve  essere  inflitta  in  mesi 5 e giorni 10 di reclusione ma se la
norma   venisse   ritenuta   costituzionalmente  illegittima  laddove
determina  il  minimo  edittale  in  un anno di reclusione il giudice
potrebbe  infliggere  una  pena  minore  maggiormente  adeguata  alla
fattispecie in esame.
    La norma da applicare appare invero contrastare con i principi di
cui  agli  artt.  2, 3, 10 e 27, terzo comma della Costituzione per i
motivi che di seguito si esporranno.
    I dubbi di costituzionalita' in ordine alla norma di cui all'art.
14,  comma  5-ter,  d.lgs. n. 286/1998 (nella parte in cui prevede il
limite  minimo  edittale di un anno di reclusione), paiono trovare in
primo  luogo fondamento nei principi giurisprudenziali costituzionali
elaborati  in materia di limiti alla discrezionalita' del legislatore
nella  determinazione  della  quantita'  e  qualita'  della  sanzione
penale.
    In  particolare  la  Corte  costituzionale,  in  diverse pronunce
richiamate   e   ribadite   nella  sentenza  n. 341/1994,  dopo  aver
riaffermato il principio secondo cui appartiene alla discrezionalita'
del  legislatore  la  determinazione della quantita' e qualita' della
sanzione  penale  e non spetta quindi alla Corte stessa rimodulare le
scelte   punitive   effettuate   dal   legislatore,   ne'   stabilire
quantificazioni  sanzionatorie, ha pero' evidenziato come «alla Corte
rimane  il  compito  di  verificare  che l'uso della discrezionalita'
legislativa in materia rispetti il limite della ragionevolezza».
    Detto   principio  e'  stato  cosi'  testualmente  esplicitato  e
ricostruito nella sentenza n. 341/1994:
      «Con  la  sentenza  n. 409 del 1989 la Corte ha definitivamente
chiarito  che  "il principio di uguaglianza, di cui all'art. 3, primo
comma,  Cost.,  esige  che la pena sia proporzionata al disvalore del
fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia
nel  contempo  alla  funzione di difesa sociale ed a quella di tutela
delle  posizioni  individuali; ... le valutazioni all'uopo necessarie
rientrano  nell'ambito  del  potere discrezionale del legislatore, il
cui   esercizio   puo'  essere  censurato,  sotto  il  profilo  della
legittimita'  costituzionale,  soltanto nei casi in cui non sia stato
rispettato  il  limite  della  ragionevolezza»  (v. pure nello stesso
senso  sentenze  nn.  343 e 422 del 1993). Infatti, piu' in generale,
"il  principio  di  proporzionalita ...  nel campo del diritto penale
equivale  a  negare  lettimita'  alle  incriminazioni  che,  anche se
presumibilmente   idonee   a   raggiungere   finalita'   statuali  di
prevenzione,  producono,  attraverso la pena, danni all'individuo (ai
suoi  diritti  fondamentali)  ed  alla  societa'  sproporzionatamente
maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con la
tutela  dei  beni  e  valori  offesi  dalle  predette incriminazioni»
(sentenza n. 409 del 1989).
    In  altre  recenti  decisioni,  inoltre,  la Corte ha maturato la
convinzione  che la finalita' rieducativa della pena non sia limitata
alla  sola  fase  dell'esecuzione, ma costituisca "una delle qualita'
essenziali  e  generali  che caratterizzano la pena nel suo contenuto
ontologico,   e   l'accompagnano   da   quando  nasce,  nell'astratta
previsione  normativa,  fino  a quando in concreto si estingue": tale
finalita'  rieducativa  implica  pertanto  un  costante "principio di
proporzione" tra qualita' e quantita' della sanzione, da una parte, e
offesa, dall'altra (sentenza n. 313 del 1990; v. pure sentenza n. 343
del 1993, confermata dalla sentenza n. 422 del 1993).
    In   applicazione  di  questi  principi  le  sentenze  da  ultimo
ricordate  sono  giunte  a dichiarare costituzionalmente illegittime,
come palesemente irragionevoli, diverse previsioni di sanzioni penali
giudicando   che  la  loro  manifesta  mancanza  di  proporzionalita'
rispetto  ai  fatti-reato si traduceva in arbitrarie e ingiustificate
disparita' di trattamento, o in violazioni dell'art. 27, terzo comma,
Cost. In particolare la sentenza n. 343 del 1993 ha affermato che "la
palese   sproporzione   del   sacrificio  della  liberta'  personale"
provocata  dalla  previsione  di  una  sanzione penale manifestamente
eccessiva   rispetto  al  disvalore  dell'illecito  "produce ...  una
vanificazione  del  fine  rieducativo della pena prescritto dall'art.
27,   terzo   comma,  della  Costituzione,  che  di  quella  liberta'
costituisce  una  garanzia  istituzionale  in relazione allo stato di
detenzione"».
    Tutto  cio'  premesso,  va  osservato  che  -  nella  specie - la
discrezionalita'   del  legislatore  non  pare  esplicata  secondo  i
parametri sopra richiamati.
    Premesso  che  l'inasprimento  della sanzione penale in questione
nel  novembre  2004,  benche'  abbia  riguardato  norme  sostanziali,
direttamente  incidenti  sulla liberta' personale, appare ispirato da
valutazioni ed esigenze di natura essenzialmente processuale.
    Infatti  emerge dai lavori preparatori della legge n. 271/2004 la
mancanza  di  riferimenti  a  particolari  fenomeni  nuovi o gravi da
contrastare  attraverso  un  inasprimento di pene quanto piuttosto la
dichiarata  necessita'  di  superare  le  censure  mosse  dalla Corte
costituzionale  con  le  sentenze  n. 222  e  223 del 2004 alla legge
n. 189/2002:
        «....Sul  cammino della Bossi-Fini si e' abbattuta la mannaia
della  Corte  costituzionale ...  Ritengo che con il d.l. in esame il
Governo   ed   il  Parlamento  siano  intervenuti  correttamente  per
rispondere  ai rilievi della Corte ...» (A.C. 5369 discussione d.d. 2
novembre  2004  sul  testo  approvato  in  Senato il 20 ottobre 2004,
repliche del relatore alla legge).
    Va   in   proposito   rammentato  che  le  sentenze  della  Corte
costituzionale  n. 222  e  223  del 2004 hanno avuto ad oggetto norme
diverse  - rispettivamente: l'art. 13, comma 5-bis e l'art. 14, comma
5-quinquies del d.lgs. n. 286/1998.
    In particolare, la sentenza n. 223 ha dichiarato l'art. 14, comma
5-quinquies,  d.lgs.  n. 286/1998  (nel  testo  integrato dalla legge
n. 189/2002)  illegittimo  nella  parte  in  cui  stabiliva l'arresto
obbligatorio  per  la  contravvenzione  prevista al comma 5-ter dello
stesso articolo.
    A  seguito  di  cio',  il legislatore del novembre 2004 ha inteso
intervenire  a modifica del presupposto su cui si fondava la sentenza
n. 223/2004,  rendendo  possibile  con la trasformazione in delitto e
l'inasprimento delle pene - in astratto - l'applicazione delle misure
coercitive  secondo  i  limiti  previsti dall'art. 280, secondo comma
c.p.p.  sia  al  reato  di  cui all'art. 14, comma 5-ter che a quello
dell'art. 13, comma 13.
    La  previsione  di  un  minimo edittale cosi' elevato: un anno di
reclusione,   innanzitutto  non  pare  ragionevole  neppure  ai  fini
dichiarati  del  legislatore: l'esigenza di rendere la fattispecie in
esame  compatibile  con  il  sistema  generale  di applicazione delle
misure  coercitive: infatti a tali fini e' rilevante il parametro dei
massimi edittali inderogabili (cfr. 274, lett. c) e 280 secondo comma
c.p.p.),  non essendo invece di nessun interesse i minimi edittali di
pena.  Inoltre  giustificare una scelta di diritto penale sostanziale
con  una  esigenza  processuale  non  pare rispondente ai principi di
ragionevolezza   e   proporzionalita'   della   pena   rispetto  alla
offensivita'  della condotta con conseguente violazione degli artt. 3
e 27, terzo comma Cost.:
        Appare   poi   nella   sostanza  evidente  la  disparita'  di
trattamento  in  tal  modo  attuata  tra  cittadini extracomunitari e
cittadini  comunitari  che  violino  ordini  amministrativi  dati per
finalita'   di  sicurezza  o  ordine  pubblico:  mentre  i  cittadini
comunitari   vengono  sanzionati  per  tale  condotta  solo  con  una
contravvenzione (art. 650 c.p.) addirittura oblabile o definibile con
una  condanna a pena solo pecuniaria, anche se socialmente pericolosi
(contravvenzione  prevista  dall'art.  2,  legge  27  dicembre  1956,
n. 1423:  inosservanza  di  provvedimenti  del  questore  da parte di
persone pericolose, sanzionata con l'arresto da uno a sei mesi);
        I  cittadini extracomunitari per lo stesso tipo di violazione
vengono puniti con una pena minima di un anno di reclusione.
    E'  dunque  evidente  che il legislatore nel bilanciare la tutela
degli  interessi dell'ordine e sicurezza pubblica da un lato e quello
della  liberta'  personale  del  soggetto agente dall'altra non abbia
rispettato  il  criterio  della  parita' di trattamento di situazioni
analoghe-eguali, sancito dalIart. 3 della Costituzione.
    La  pena  di 5 mesi e 10 giorni di reclusione appare pertanto una
pena  sproporzionata  in  eccesso per non aver rispettato l'ordine di
lasciare  l'Italia  e  rientrare  con  i  propri  mezzi in Nigeria in
confronto  alla sanzione massima possibile di tre mesi di arresto per
un cittadino italiano che ad esempio non abbia ottemperato all'ordine
di  demolizione di edificio pericolante, condotta oggettivamente piu'
pericolosa per la pubblica incolumita' di quella oggetto del presente
giudizio.
    La  norma di cui all'art. 14, comma 5-ter, d.lgs. n. 286/1998 non
pare pertanto neppure conforme ai principi di ragionevolezza, sotto i
profili  della  proporzione  tra  la pena e il disvalore per il fatto
illecito  commesso  ex  artt. 3  e 27, terzo comma Cost. impedendo al
giudice di determinare la pena ex art.  133 c.p. anche al di sotto di
tale limite minimo per i casi di gravita' minima come il presente con
proporzionalita' rispetto alla gravita' concreta del fatto.
    La  norma  appare dunque in contrasto, nella parte in cui prevede
un  minimo edittale di un anno di reclusione, con gli artt. 3 e 2, in
rel.  all'art.  10  della  Costituzione  che sanciscono e delineano i
principi  fondamentali  di  uguaglianza  davanti  alla  legge  e pari
dignita'   sociale,  nonche'  di  garanzia  dei  diritti  inviolabili
dell'uomo  tra i quali rientra evidentemente il diritto alla liberta'
individuale,e  non pare dubitabile che, in ragione dell'art. 10 della
Costituzione,  tali  principi  fondamentali  spieghino  piena vigenza
anche  nei  confronti  degli  stranieri presenti sul territorio della
Repubblica.
    La  norma  citata appare infine in contrasto con l'art. 27, terzo
comma  Cost.  anche  sotto il profilo della mancanza di soggettivita'
criminale  da  rieducare,  in  relazione  a  condotte determinate con
evidenza  da  pressanti  esigenze economiche nel Paese di origine che
spingono  alla emigrazione, senza dolo criminale o volonta' di creare
danno a terzi, sia sotto il profilo della impossibilita' materiale di
attuazione  della  finalita' rieducativa della pena per una categoria
di  soggetti  come  gli  extracomunitari presenti clandestinamente in
Italia  e gia' oggetto di legittima espulsione, infatti, tenuto conto
delle  finalita'  e  della intera disciplina legislativa di contrasto
alla  immigrazione  clandestina,  queste  persone  non  potranno  mai
rimanere   in  Italia,  dunque  non  ha  senso  parlare  di  un  loro
inserimento   sociale   in   Italia-Europa,   l'unico  rilevante  per
l'ordinamento.
    La  questione  della  illegittimita' costituzionale dell'art. 14,
comma  5-ter,  d.lgs. n. 286/1998 come sopra illustrata appare quindi
rilevante  per  la  decisione e non manifestamente infondata e induce
pertanto la giudicante a rimettere gli atti alla Corte costituzionale
per le valutazioni di competenza.