LA CORTE DI APPELLO

    Ha emesso la seguente ordinanza.
    Sciogliendo  la riserva in ordine all'eccezione di illegittimita'
costituzionale  dell'art.  593,  secondo comma c.p.p. come sostituito
dall'art. 1, secondo comma della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella
parte  in  cui  esclude  la possibilita' per il pubblico ministero di
proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento in assenza di
sopravvenienza  di  nuove prove decisive, e dell'art. 10 della stessa
legge,  nella  parte  in  cui  sancisce  l'applicazione  della  norma
novellata  anche  ai procedimenti in corso, sollevata dal procuratore
generale  nel  procedimento  penale  n. 152/2005 a carico di Genovese
Lorenzo e di Musarra Amato Massimo in relazione agli artt. 3, 97, 111
secondo comma e 112 della Costituzione;
    Sentito il difensore dell'imputato;

                            O s s e r v a

    Con  sentenza  emessa  in  data 27 febbraio 2004, il Tribunale di
Patti  assolveva Musarra Amato Massimo dai reati di rapina aggravata,
violenza  carnale ed altro, contestati come commessi in Acquedolci il
22  settembre 1995  e  30  settembre  1995, per non avere commesso il
fatto.
    Avverso  tale  sentenza  interponeva appello il Procuratore della
Repubblica   di   Patti   lamentando   l'erroneita'   della  adottata
declaratoria  e  chiedeva  che  venisse pronunziata nei confronti del
Musarra sentenza di condanna in relazione a tutte le imputazioni.
    Fissato il giudizio di appello, all'udienza del 30 giugno 2006 il
procuratore  generale,  preso atto dell'entrata in vigore della legge
n. 46/2006  e  delle  limitazioni  alla facolta' di appello derivanti
dalla  nuova  formulazione  dell'art. 593  c.p.p.,  ha  sollevato  la
questione  di  legittimita' costituzionale di detta norma nei termini
esposti.
    Orbene,  rileva questa Corte che l'art. 593 c.p.p. come novellato
dall'art.  1,  legge  n. 46/2006  consente  al  pubblico  ministero e
all'imputato   di   proporre   appello   avverso   le   sentenze   di
proscioglimento  solo  allorche'  con  i motivi di impugnazione venga
richiesta  la  rinnovazione  dell'istruzione  dibattimentale ai sensi
dell'art.  603  cpv.  c.p.p. per l'assunzione di prove sopravvenute o
scoperte  dopo  il giudizio di primo grado e sempre che a dette prove
sia riconosciuto il carattere della decisivita'.
    La  norma  prevede  inoltre  che,  ove  il  giudice d'appello non
ammetta  in  via  preliminare  la  rinnovazione  dell'istruttoria, il
gravame  deve  essere  dichiarato  inammissibile. A questo punto alla
parte  appellante rimane soltanto la possibilita' di proporre ricorso
per   Cassazione  entro  il  termine  di  giorni  45  dalla  notifica
dell'ordinanza.  L'art.  8 della legge prevede che di tale rimedio le
parti  possano  avvalersi anche nell'ipotesi di mancata assunzione di
una   prova   decisiva   richiesta   nel   corso   della   istruzione
dibattimentale   e   di   contraddittorieta'   o   illogicita'  della
motivazione,  risultanti da atti del processo specificamente indicati
dal ricorrente.
    Preliminarmente  ritiene  la  corte che la questione proposta dal
procuratore  generale  sia rilevante nel presente giudizio, in quanto
la legge, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 22 febbraio 2006 ed
entrata in vigore il 9 marzo 2006, prescrive all'art. 10 che le nuove
norme trovino applicazione anche ai procedimenti in corso, disponendo
che  l'atto  d'appello  proposto  prima  dell'entrata in vigore della
nuova  normativa  sia  dichiarato  inammissibile  con  ordinanza  non
impugnabile.
    Sussiste  altresi'  la necessita' che la questione sia risolta in
via  pregiudiziale poiche', avendo il pubblico ministero appellato la
sentenza  di  primo grado limitandosi a censurarne il processo logico
argomentativo senza indicare nuove prove decisive per addivenire alla
pronuncia  di  un  diverso  giudizio,  dovrebbe  essere  adottata nel
processo  in  corso ordinanza non impugnabile di inammissibilita' del
gravame.
      Al  riguardo va ribadito che compito di questa Corte di appello
non  e'  quello  di  esprimere  un  giudizio  sulla  fondatezza della
questione  di  legittimita' costituzionale, bensi' soltanto quello di
valutare  se i dubbi di illegittimita' costituzionale prospettati non
siano   «manifestamente   infondati»,  non  siano  cioe'  chiaramente
insussistenti  ovvero siano soltanto apparenti. Al di fuori di questa
ipotesi  la  questione  deve  essere  dichiarata  «non manifestamente
infondata» e va rimessa alla Corte costituzionale, alla quale compete
la  decisione  sulla  legittimita' costituzionale delle leggi e degli
altri  atti aventi forza di legge e quindi di stabilire se i dubbi di
illegittimita'  costituzionale  siano  fondati  o  meno  e  se  siano
superabili  con il richiamo ad altri principi di rango costituzionale
non considerati da chi la questione ha sollevato.
    Fatta  questa  premessa,  reputa  la  Corte  che  la questione di
illegittimita'  costituzionale  dell'art.  10 della legge 20 febbraio
2006,  n. 46, che prescrive che l'art. 593, secondo comma c.p.p. come
novellato  dall'art.  1, secondo comma della stessa legge si applichi
anche  «ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della
medesima»,  debba  ritenersi manifestamente infondata con riferimento
ad entrambi i profili prospettati dal procuratore generale.
    Invero,  non  puo'  essere  condivisa l'argomentazione con cui e'
stata  dedotta  la contrarieta' della norma transitoria con l'art. 97
Cost.  In  proposito  la  Corte  costituzionale ha gia' avuto modo di
affermare  che  «il  principio  del  buon  andamento  della  pubblica
amministrazione     -    pur    concernendo    anche    gli    organi
dell'amministrazione  della  giustizia  - si riferisce esclusivamente
alle  leggi  relative  all'ordinamento  degli uffici giudiziari ed al
loro  funzionamento sotto l'aspetto amministrativo, risultando invece
di per se' estraneo all'esercizio della funzione giurisdizionale» (v.
sent.  C.c. 26 marzo-1° aprile 2003, n. 110 e l'ordinanza n. 370/2002
in essa richiamata).
    Va  disattesa  anche l'argomentazione circa il presunto contrasto
della   norma  transitoria  con  l'art.  111  Cost.,  essendo  regola
processuale  ormai  acquisita  ed unanimemente condivisa quella della
immediata  operativita'  delle  norme  di  carattere  processuale  e,
quindi, della loro applicazione ai processi in corso.
    Viceversa   ritiene  questa  Corte  che  non  sia  manifestamente
infondata  la  questione di legittimita' costituzionale dell'art. 593
c.p.p.,  come  novellato  dall'art.  1  della legge 20 febbraio 2006,
n. 46, con riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma Cost.
    Si  ricorda  che l'art. 111, secondo comma Cost. recita che «ogni
processo  si svolge nel contraddittorio tra le parti in condizioni di
parita',  davanti  ad  un  giudice  terzo  ed imparziale. La legge ne
assicura la ragionevole durata».
    Il  nuovo  art.  593  c.p.p.,  con il prevedere al primo comma la
possibilita'  del  pubblico  ministero  e  dell'imputato  di proporre
appello  avverso  la  sentenza  di  condanna  e  al  secondo comma la
limitazione  di  tale  diritto  di  appellare  avverso le sentenze di
proscioglimento  solamente  se  il  pubblico  ministero  o l'imputato
appellante   abbia   chiesto   una   prova  nuova  e  decisiva,  solo
apparentemente   soddisfa   l'esigenza  di  parita'  garantita  dalla
disposizione  costituzionale,  atteso  che  in  realta'  e'  solo con
riferimento  al  pubblico  ministero  che  la limitazione di proporre
gravame contro le sentenze assolutorie assume preponderanza e rilievo
centrale,  poiche'  all'imputato  era  gia'  inibito dalla precedente
normativa appellare sentenze di proscioglimento con formula piena.
    Ma anche a prescindere da tale considerazione, e' evidente che la
parita'  che  si  e'  voluto  realizzare  con  la  norma in parola e'
soltanto  apparente, avendo solo il pubblico ministero l'interesse ad
impugnare le sentenze di proscioglimento.
    Peraltro,  la  soluzione adottata dal legislatore di temperare le
conseguenze  negative  della  nuova normativa con la previsione della
possibilita' di articolare rilevanti e decisivi mezzi di prova appare
quasi irridente: non sfugge a nessuno come sia del tutto avulsa dalla
realta'  la  possibilita'  che  il pubblico ministero sia in grado di
produrre,  dopo  la  pronunzia  di  primo  grado,  una  prova nuova e
decisiva,   capace  di  capovolgere  la  decisione  assolutoria,  non
rinvenuta durante tutta la fasti dedicata alle indagini preliminari e
durante  l'istruzione  dibattimentale,  e  che  cio'  riesca  a  fare
nell'arco  ristrettissimo  corrispondente  ai  termini di 15, 30 o 45
giorni  concessi  per  l'impugnazione;  non gli e' infatti consentito
prendersi  un  maggior  lasso  temporale,  ritardando la richiesta di
rinnovazione  sino  alla  presentazione  dei  motivi  nuovi  a  norma
dell'art.  585,  quarto  comma  c.p.p., poiche' la formulazione della
richiesta  di  rinnovazione  costituisce  requisito di ammissibilita'
dell'atto di proposizione di appello, che ad essa si riduce.
    Pertanto,  va condivisa l'argomentazione del procuratore generale
il  quale  ha  rilevato  che  «poiche' l'ipotesi della prova a carico
nuova  e  decisiva sopravvenuta durante la decorrenza dei termini per
l'impugnazione    costituisce   ipotesi   praticamente   inattuabile,
l'aggiunta effettuata dal legislatore va ritenuta tamquam non esset e
la  norma  regredisce alla formulazione gia' censurata dal Presidente
della Repubblica nel messaggio di rinvio alle Camere».
    E'  di  tutta  evidenza,  quindi,  che  il nuovo art. 593 c.p.p.,
impedendo  sostanzialmente al pubblico ministero l'appello in caso di
esito  assolutorio  del  giudizio di primo grado e consentendo invece
all'imputato  di proporre appello in caso di sentenza di condanna, ha
finito con l'introdurre un rilevante squilibrio tra le parti.
    Vero  e'  che  la  Corte  costituzionale  ha  avuto  occasione di
sottolineare  che  il principio della parita' nel contraddittorio non
comporta  necessariamente  l'identita' tra i poteri processuali delle
parti  (v.  sentenza  n. 165/2003 e n. 46/2005); ma e' anche vero che
della  disparita'  eventualmente  introdotta in deroga all'equilibrio
imposto  dalla  norma  costituzionale il legislatore e' tenuto a dare
una  giustificazione  che  risponda  a  criteri di ragionevolezza, la
quale   va   valutata  nella  prospettiva  della  tollerabilita'  del
sacrificio che la norma impone al principio del contraddittorio nella
parita'   delle   parti   rispetto  ad  altro  interesse  preminente,
costituzionalmente tutelato.
    La   disamina   delle   ragioni  quali  si  evincono  dai  lavori
preparatori  non  giustificano  -  ad  avviso  di  questa  Corte - il
sacrificio del principio che assicura il giusto processo.
    Non  possono,  infatti, essere invocate esigenze di accelerazione
dell'iter  processuale,  risolvendosi  la  scelta  legislativa  nella
evidente soppressione di un mezzo di impugnazione a danno di una sola
parte   processuale.   Tale   scopo  il  legislatore  avrebbe  potuto
realizzare concretamente prevedendo la non impugnabilita' di tutte le
sentenze (di condanna o di proscioglimento) sia da parte del pubblico
ministero che da parte dell'imputato, in tal modo abolendo totalmente
il giudizio di appello.
    Una  simile  scelta, infatti, condivisibile o meno, sarebbe stata
compatibile  con  la Costituzione, la quale non garantisce un secondo
grado   del   giudizio   di  merito,  come  evidenziato  dalla  Corte
costituzionale  con  ordinanza n. 421/2001, e non avrebbe contrastato
con  l'art.  2  della  Convenzione  europea  per  la salvaguardia dei
diritti   dell'uomo   e   delle  liberta'  fondamentali,  adottata  a
Strasburgo  il 22 novembre 1984, tenuto conto che la previsione di un
tribunale   superiore,  cui  fa  riferimento  la  normativa  europea,
prescinde  dalla  necessita' di un secondo giudizio di merito e resta
rispettata con la previsione del ricorso per cassazione gia' presente
nella  Costituzione  italiana  (in  tal  senso  sentenza  della Corte
costituzionale n. 288/1997).
    Non  ritiene  poi  la Corte che al fine di giustificare la scelta
del   legislatore   si  possa  attribuire  rilievo  alla  particolare
posizione istituzionale del pubblico ministero all'interno del nostro
ordinamento, caratterizzata dal potere-dovere di ricercare in sede di
indagini  anche  le  prove  favorevoli  all'imputato e di operare una
valutazione  obiettiva  degli  elementi  a  carico  dello stesso, che
potrebbe indurlo a richiedere l'archiviazione o il proscioglimento.
    Questi rilievi, invero, restano superati nella fase d'appello, la
cui  proposizione presuppone la determinazione del pubblico ministero
di ottenere una sentenza di condanna nella maturata convinzione della
sussistenza di congrue prove a carico dell'imputato.
    E'  quindi  lo  stesso sistema che esige che il processo mantenga
una  posizione  di  equilibrato  contraddittono  tra  le  ragioni del
pubblico  ministero  e quelle della difesa dell'imputato, in modo che
nessuna  opportunita'  di  ricerca  della  verita'  venga  ad  essere
sottratta al giudizio.
    Un'ulteriore  dimostrazione  di  come il legislatore abbia inteso
mortificare e limitare in maniera del tuffo irragionevole le funzioni
della  pubblica accusa si rinviene nell'art. 576, primo comma c.p.p.,
come  modificato dall'art. 6 della legge n. 46/2006, laddove continua
ad  essere  riconosciuto  alla  parte civile il diritto di presentare
appello, sia pure ai soli effetti della responsabilita' civile, anche
contro  le sentenze di proscioglimento; mentre analoga facolta' viene
negata  al  pubblico ministero, portatore non di un interesse proprio
bensi' di istanze di legalita' e di difesa sociale.
    Ma  l'irrazionalita'  della  riforma  raggiunge  l'acme allorche'
continua  a  riconoscere  al  pubblico  ministero  la possibilita' di
proporre  appello in caso di condanna dell'imputato, al solo scopo di
ottenere  una  pena  diversa  da  quella  comminata.  In proposito e'
sufficiente  richiamare  le  obiezioni  espresse dal Presidente della
Repubblica  nel  messaggio  con  cui ha rinviato alle Camere la prima
versione della legge.
    Nell'occasione  il  Capo  dello  Stato  ha  rappresentato che «le
asimmetrie  tra  accusa  e  difesa costituzionalmente compatibili non
debbono  mai travalicare i limiti fissati dal secondo comma dell'art.
111  della  Costituzione ...  una  ulteriore incongruenza della nuova
legge  sta nel fatto che il pubblico ministero totalmente soccombente
non  puo'  proporre  appello, mentre cio' gli e' consentito quando la
sua  soccombenza  sia  solo  parziale,  avendo  ottenuto una condanna
diversa da quella richiesta».
    Neppure  manifestamente  infondata  s'appalesa  la  questione  di
costituzionalita'  del  nuovo  art.  593  c.p.p. con riferimento alla
dedotta  violazione  del  principio  di  obbligatorieta'  dell'azione
penale sancito dall'art. 112 Cost.
    Questo   collegio   non   ignora   che   in  proposito  la  Corte
costituzionale,  dopo avere affermato con la sentenza n. 177/1971 che
«il  potere  di  impugnazione  del pubblico ministero costituisce una
estrinsecazione  ed un aspetto dell'esercizio dell'azione penale», ha
modificato il proprio orientamento, ritenendo che siffatto potere non
costituisce    manifestazione   dei   poteri   inerenti   l'esercizio
dell'azione penale (Sent. C.c. n. 206/1997; sent. C.c. n. 110/2003).
    A   tale   conclusione  i  giudici  delle  leggi  sono  pervenuti
attraverso  l'esegesi  stessa  dei  lavori  preparatori  della  Carta
costituzionale  (resoconti  delle  sedute  della Commissione c.d. dei
settantacinque  e resoconti delle sedute dell'Assemblea Costituente),
nei  quali  non  e'  dato  rinvenire  la benche' minima traccia di un
collegamento  tra  obbligo  di esercitare l'azione penale e potere di
impugnazione del pubblico ministero.
    Proseguendo  in questo indirizzo la Corte costituzionale ha anche
evidenziato  che  tutto  il  sistema  delle  impugnazioni  penali, in
particolare dell'appello, tanto sotto il codice abrogato quanto sotto
quello vigente, depone nel senso che il potere del pubblico ministero
di  proporre  appello avverso la sentenza di primo grado, anche se in
certe   situazioni   ne  possa  apparire  istituzionalmente  doveroso
l'esercizio,  non e' riconducibile all'obbligo di esercitare l'azione
penale,  come  comprovato  dai  due  istituti  dell'acquiescenza alla
sentenza  e  della  rinuncia al gravame senza obbligo di motivazione,
che  mal  si  concilierebbero  con  una costruzione dell'impugnazione
quale  estrinsecazione del principio dell'obbligatorieta' dell'azione
penale.
    Cio'  che  in  questa  sede  viene  auspicato  e'  che  la  Corte
costituzionale riveda la propria giurisprudenza sul punto.
    Le  prerogative  e  le  attribuzioni  istituzionali  del pubblico
ministero  sono  definite e precisate negli artt. 73 e 74 o.g. e sono
tenute  presenti  e  piu' o meno espressamente richiamate dagli artt.
102,  107,  108  e  112  della  Carta  costituzionale  in  materia di
giustizia.
    E'  indubbio  che quando l'art. 112 Cost. enuncia che il pubblico
ministero  ha  l'obbligo di esercitare l'azione penale faccia diretto
riferimento  alle  funzioni  a  tale organo attribuite dai richiamati
artt.  73  e 74 o.g. Alla stregua di tali norme il pubblico ministero
ha,   tra   gli   altri  doveri  istituzionali,  quelli  di  vegliare
all'osservanza  delle  leggi,  di  assicurare  la  pronta  e regolare
amministrazione  della  giustizia,  di  promuovere la repressione dei
reati. Proprio in considerazione di tali precipue funzioni l'art. 112
Cost.  gli  fa  obbligo  di'  esercitare  l'azione  penale  in  piena
autonomia  ed indipendenza da ogni altro potere (art. 104 Cost.). Nel
definire  tale  obbligo  costituzionale  l'art. 74 o.g. recita che il
pubblico ministero inizia ed esercita l'azione penale.
    E'  chiaro  che  tale  norma  opera  una evidente distinzione tra
inizio  ed  esercizio dell'azione penale ed e' altrettanto chiaro che
il  primo  termine  si  riferisce  al  momento dell'avvio dell'azione
penale  mentre  il  secondo attiene piu' propriamente al suo sviluppo
durante  l'intero  iter processuale. Pertanto, poiche' lo stesso art.
112  Cost.,  cui l'art. 74 o.g. e' direttamente collegato, obbliga il
pubblico  ministero  ad  «esercitare»  l'azione penale, e' quantomeno
opinabile  che  tale dovere costituzionale sia limitato soltanto alla
fase  dell'avvio  del  procedimento  e  non  investa  invece tutto il
processo,   connotando   e   qualificando  l'attivita'  del  pubblico
ministero  sino  all'accertamento definitivo della verita' o comunque
sino alla riparazione dell'ordine giuridico violato.
    Cio'  e' tanto vero che il codice di rito prevede vari momenti di
controllo  afferenti  l'esercizio dell'azione penale: basti accennare
alle  richieste di archiviazione non accolte o all'imputazione coatta
ovvero  al  decreto  che  dispone  il  giudizio  emesso  dal  giudice
dell'udienza   preliminare   pure   a  fronte  di  una  richiesta  di
proscioglimento avanzata dallo stesso pubblico ministero.
    Ne deriva che, sebbene tale potere-dovere debba essere esercitato
nel  rispetto  delle  regole  dettate  dalle leggi processuali, esso,
appunto perche' promana direttamente dalla Costituzione e costituisce
un'estensione  dell'obbligo  di repressione dei reati e del dovere di
vigilanza  sulla  pronta  e regolare amministrazione della giustizia,
intesa  come  valore  costituzionalmente  garantito,  non puo' essere
limitato e compresso secondo l'arbitrio del legislatore ordinario.
    Al  riguardo  non  e'  fuor  di  luogo  ricordare  che  la  Corte
costituzionale,   nell'affermare   la   legittimita'   costituzionale
dell'art. 443, terzo comma c.p.p., che preclude al pubblico ministero
di  appellare  le  sentenze  di  condanna  pronunciate  con  il  rito
abbreviato,  ha  motivato il rigetto dell'eccezione di illegittimita'
di  tale  norma  affermando  che  comunque  «la  sentenza di condanna
costituisce  la realizzazione della pretesa punitiva fatta valere nel
processo  attraverso  l'azione  penale»  (Sent. C.c. n. 363/1991). Ne
deriva  la  logica  conseguenza che se la «pretesa punitiva» e' stata
disattesa  da  una  sentenza  di  proscioglimento,  contrastano con i
principi   costituzionali   le  norme  che  impediscono  al  pubblico
ministero  di  esercitare  le  sue funzioni di controllo anche con lo
strumento dell'appello.