IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso n. 8642/2006 Rg. proposto da Luciano Di Noto, rappresentato e difeso dal prof. avv. Adriano Rossi e dall'avv. Francesco Camerini, elettivamente domiciliato presso lo studio del primo in Roma, via Brofferio n. 6; Contro il Consiglio Superiore della Magistratura, in persona del legale rappresentante pro tempore, e il Ministero della giustizia, in persona del Ministro in carica, rappresentati e difesi ex lege dall' Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12, sono domiciliati, e nei confronti di Luigi Antonio Rovelli, rappresentato e difeso dagli avv. Lucio Florino e Tommaso Manferoce, elettivamente domiciliato presso lo studio del secondo in Roma, piazza Vescovio n. 21, per l'annullamento della deliberazione adottata nell'adunanza del 27 luglio 2006, con cui il Consiglio superiore della magistratura ha conferito al dott. Luigi Antonio Rovelli l'ufficio direttivo di Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Genova; di ogni altro eventuale atto connesso e presupposto, e in particolare della deliberazione del C.s.in. prot. P159577/05 del 22 settembre 2005. Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio delle amministrazioni resistenti e del controinteressato; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti gli atti tutti della causa; Sentiti alla pubblica udienza del 20 dicembre 2006, relatore il dott. Mario Alberto di Nezza, l'avv. Rossi, l'avv. Schiavone in sostituzione dell'avv. Manferoce e l'avv. dello Stato E. Arena; Ritenuto e considerato quanto segue in fatto e in diritto. Fatto Con ricorso notificato in data 18 settembre 2006, depositato il successivo 26 settembre, il dott. Luciano Di Noto, magistrato dichiarato idoneo all'esercizio delle funzioni direttive superiori, in servizio quale avvocato generale presso la Corte di appello di Genova, premettendo di aver partecipato alla procedura selettiva indetta l'8 settembre 2005 per la copertura del posto di procuratore generale della Repubblica presso l'anzidetta Corte territoriale, vacante a far data dal 1° luglio 2005, ha chiesto l'annullamento della deliberazione del 27 luglio 2006, con cui il Consiglio superiore della magistratura ha conferito tale incarico al dott. Luigi Antonio Rovelli. A sostegno del gravame l'istante ha denunciato l'illegittimita' del provvedimento di esclusione dalla selezione in quanto adottato sulla base di disposizioni di legge a suo dire incostituzionali. Si sono costituite in resistenza le amministrazioni intimate e il controinteressato. Successivamente, all'udienza del 20 dicembre 2006 il ricorso e' stato, trattenuto in decisione. Diritto 1. - E' in contestazione la deliberazione del 31 maggio 2006 con cui il C.s.m. ha conferito al dott. Luigi Antonio Rovelli l'incarico direttivo di procuratore generale della Corte di appello di Genova. L'odierno ricorrente ed altri aspiranti al medesimo incarico sono stati ritenuti dal C.s.m. «non [...] legittimati ai sensi dell'art. 2, comma 45, legge n. 150/2005». Di qui l'odierna impugnativa, essenzialmente diretta a denunciare l'illegittimita' costituzionale delle norme primarie preclusive della partecipazione alla selezione. 2. - La questione e' rilevante e non manifestamente infondata. 2.1. - La materia del conferimento ai magistrati degli incarichi direttivi (di merito e di legittimita) e' stata profondamente incisa dalla legge 25 luglio 2005, n. 150, recante delega per la riforma dell'ordinamento giudiziario, che nel prefigurare una disciplina transitoria, destinata ad aver vigore nel periodo antecedente all'entrata in funzione della Scuola della magistratura, e un assetto «a regime» (caratterizzato dalla obbligatoria frequenza, per l'attribuzione delle funzioni direttive, di un apposito corso di formazione presso detta Scuola), ha introdotto un requisito di «legittimazione» collegato alla data di «ordinario collocamento a riposo» dei magistrati, fissata in settanta anni dall'art. 5 del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511. A) Cominciando dalla disciplina transitoria, l'art. 2, comma 10, lett. a), legge n. 150/2006, prescrive al Governo di «prevedere che gli incarichi direttivi giudicanti e requirenti di legittimita' non possano essere conferiti a magistrati che abbiano meno di due anni di servizio prima della data di ordinario collocamento a riposo [...] e che gli incarichi direttivi giudicanti e requirenti di primo grado e di secondo grado non possano essere conferiti a magistrati che abbiano meno di quattro anni di servizio prima della data di ordinario collocamento a riposo [...]». In attuazione di questa disposizione e' stato emanato il d.lgs. 16 gennaio 2006, n. 20 (intitolato appunto «disciplina transitoria del conferimento degli incarichi direttivi giudicanti e requirenti di legittimita', nonche' di primo e secondo grado, a norma dell'articolo 2, comma 10, della legge 25 luglio 2005, n. 150»), in vigore dal 28 gennaio 2006 (cfr. art. 6), il quale, delimitato il campo di applicazione (alla sola magistratura ordinaria; art. 1), sancisce che gli incarichi direttivi (giudicanti e requirenti) di legittimita' (art. 2) ovvero di merito (di primo e di secondo grado; art. 3) possano essere conferiti esclusivamente ai magistrati che, «al momento della data della vacanza del posto messo a concorso», assicurino rispettivamente almeno due anni e almeno quattro anni di servizio prima del raggiungimento dei settanta anni di eta'. Detto altrimenti, non sono legittimati i magistrati che, al momento della data di vacanza del posto messo a concorso, hanno superato sessantotto anni, in relazione agli incarichi direttivi di legittimita', o sessantasei anni, quanto agli uffici direttivi di merito. Giova ancora ricordare che l'entrata in vigore del d.lgs. n. 20 del 2006 ha determinato (v. art. 6 cit.) la cessazione degli effetti della disposizione transitoria di cui all'art. 2, comma 45, legge n. 150 del 2005 (a sua volta operante a far tempo dal 30 luglio 2005), introduttiva del medesimo requisito di legittimazione. B) I criteri direttivi concernenti la disciplina «a regime» sono invece individuati nell'art. 2, comma 1, lett. h), n. 17 (quanto alle funzioni direttive di primo e di secondo grado) e nell'art. 2, comma 1, lett. i), n. 6 (per le funzioni direttive di legittimita) della legge n. 150/2005. In esercizio di tali deleghe e' stato emanato il d.lgs. 5 aprile 2006, n. 160, nel quale sono stabiliti, al Capo IX (artt. 29 ss.), limiti di eta' coincidenti con quelli innanzi indicati. L'entrata in vigore di queste norme, originariamente prevista per il 28 luglio 2006 (v. art. 56, d.lgs. n. 160/2006), e' stata peraltro differita al 31 luglio 2007 (tanto ha disposto la legge 24 ottobre 2006, n. 269, vigente dall'8 novembre 2006), continuando nel frattempo ad applicarsi gli artt. 2 e 3 d.lgs 20/2006 (con salvezza degli effetti prodotti e delle situazioni esaurite durante la vigenza del d.lgs. n. 160/2006, dal 28 luglio all'8 novembre 2006). C) Nel periodo transitorio (30 luglio 2005 - 31 luglio 2007) rilevano pertanto l'art. 2, comma 45, legge n. 150/2005 fino al 27 gennaio 2006 nonche', dal 28 gennaio 2006 fino al 31 luglio 2007, gli artt. 2 e 3 d.lgs. n. 20 del 2006 (con la salvezza innanzi ricordata). 2.2. - Tanto chiarito, e precisato che il dubbio di costituzionalita' investe - ratione temporis (la deliberazione impugnata e' del 27 luglio 2006) e ratione materiae (e' controversa l'attribuzione del posto di procuratore generale della Repubblica presso una Corte di appello) - le norme transitorie sul conferimento degli uffici direttivi di merito (art. 2, comma 45, legge n. 150 del 2005 e art. 3 d.lgs. n. 20 del 2006, nonche', quale norma di delega, art. 2, comma 10, lett. a), legge n. 150/2005 cit.), reputa il Collegio che la questione sia all' evidenza rilevante. L'esclusione del ricorrente dalla procedura selettiva e' infatti dipesa esclusivamente dall'applicazione di queste disposizioni, il cui chiaro tenore letterale ne rende impossibile una diversa lettura (scil, costituzionalmente orientata). La declaratoria di incostituzionalita' delle stesse ridonderebbe in illegittimita' (e in eventuale caducazione) del provvedimento impugnato, con conseguente riemersione delle chances di assegnazione dell'incarico frustrate dall'esclusione. 2.3. - La questione si presenta inoltre non manifestamente infondata sotto i profili che seguono. 2.3.1. - Valga anzitutto chiarire che la riforma dell'ordinamento giudiziario non incide ne' sul ridetto limite di settanta anni previsto per l'ordinario collocamento a riposo del personale di magistratura (art. 5 r. d.lgs. n. 5 11/1946 cit.) ne' sulle norme che permettono ai magistrati di pernianere in servizio fino al compimento del settantacinquesimo anno di eta' (art. 16, d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503, come modificato dall'art. 34, comma 12, legge 27 dicembre 2002, n. 289). La giurisprudenza amministrativa ha di recente affrontato le implicazioni di tale sistema normativo, affermando per un verso che questa, come tutte le altre disposizioni che conferiscono ai pubblici impiegati la facolta' di trattenersi in servizio al di la' degli limiti anagrafici ordinariamente previsti dalla legge, costituiscono ipotesi eccezionali spiegabili in ragione del perseguimento di finalita' di tipo assicurativo e previdenziale, e, per altro verso, che detta facolta' integra un diritto potestativo esercitabile dall'interessato in ogni tempo antecedente all'automatica risoluzione del rapporto (viene cioe' individuato un «diritto alla prosecuzione del rapporto», rinunciabile attraverso una manifestazione di volonta' uguale e contraria del dipendente; cosi', da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 7 dicembre 2006, n. 7210, che richiama a sua volta Corte cost. 13 giugno 2000, n. 195). Ad avviso del Collegio gli enunciati appena riportati paiono segnalare come detta eccezionalita' sia da intendere in termini prettamente ermeneutici, nel senso che e' preclusa all'interprete l'estensione della facolta' in parola a fattispecie non espressamente contemplate dalle disposizioni di riferimento (v. ad esempio, sul rapporto tra ordinamento della carriera diplomatica e art. 1-quater d.l. 28 maggio 2004, n. 136, conv. in legge 27 luglio 2004, n. 186, Corte cost. 11 maggio 2006, n. 194). Riguardato da una prospettiva che tenga conto del complessivo sviluppo della carriera del dipendente, sembra tuttavia possibile considerare il menzionato «diritto potestativo» alla stregua di un beneficio che il Legislatore ha inteso aggiungere, ferme restando tutte le altre componenti, al patrimonio giuridico dell'interessato. Non puo' infatti sostenersi che la prosecuzione del rapporto in tal modo ottenuta sia in grado di trasformare il servizio «prolungato» in qualcosa di diverso: il magistrato che abbia esercitato questo diritto continuera' a svolgere le sue funzioni, conservera' gli stessi diritti e saranno a suo carico i medesimi obblighi connotanti il pregresso tratto di attivita' professionale, esattamente come se non avesse superato la soglia di settanta anni, con l'unica differenza (evidenziata da Cons. Stato n. 7210/06 cit.) che una «anticipata» cessazione del servizio prolungato (una cessazione che cioe' intervenga prima del compimento del settantacinquesimo anno) determina il collocamento a riposo del magistrato «per raggiunti limiti di eta» (la manifestazione di volonta' del dipendente, letta in termini di revoca del precedente atto di esercizio del menzionato diritto potestativo, si rende cosi' necessaria soltanto per conferire rilievo giuridico all'avvenuto raggiungimento del limite anagrafico ordinario). Orbene, il Legislatore della riforma, collegando la «legittimazione» all'ordinario limite di eta', sembra aver dato origine a una previsione irrazionale, non avendo appunto considerato la possibilita' che il rapporto si protragga per cinque anni oltre la soglia in questione e che quindi il magistrato con piu' di sessantasei anni che in ipotesi aspiri a un incarico direttivo sia, per tale ragione, in grado di assicurare quella permanenza minima nell'ufficio giudicata dalla stessa legge necessaria. In altri termini, proprio la ratio delle nuove norme sulla «legittimazione», preordinate (come sostenuto dalla difesa erariale) a garantire stabilita' agli organigrammi degli uffici direttivi (il dirigente viene messo nella condizione di realizzare «a medio termine» il proprio progetto organizzativo a vantaggio dell'efficienza del servizio giudiziario), sembra dimostrare l'irragionevolezza di un limite che non tiene conto della possibilita' che il magistrato, ove investito di funzioni apicali, sia in grado di attuare detto «progetto», garantendo l'auspicata continuita', anche nel periodo di ulteriore permanenza nell'ufficio. Il limite del periodo minimo di servizio per le funzioni direttive deve cioe' essere, come si e' giustamente osservato, razionalmente rapportato al servizio da espletare in concreto. Prova ne sia che due norme della riforma, quali l'art. 4, d.lgs. n. 20/2006 e l'art. 35, d.lgs. n. 160/2006, sembrano ispirate alla logica appena enunciata, prevedendo, per i magistrati beneficiari del prolungamento o del ripristino del rapporto di impiego ai sensi degli articoli 3, commi 57 e 57-bis, legge 24 dicembre 2003, n. 350, e 2, comma 3, d.l. 16 marzo 2004, n. 66 (convertito, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2004, n. 126), che «alla data di ordinario collocamento a riposo» vada «aggiunto un periodo pari a quello della sospensione ingiustamente subita e del servizio non espletato per l'anticipato collocamento in quiescenza, cumulati fra loro». Dal punto di vista esattamente speculare, il menzionato fine della «stabilita» degli organigrammi sembra irragionevolmente fare aggio sull'interesse, parimenti meritevole di tutela, alla progressione in carriera (funzionale) del magistrato e, in particolare, al suo accesso alla dirigenza. L'assetto creato dalla nuova normativa comporta infatti l'enucleazione di un «periodo minimo garantito» di esercizio delle funzioni direttive pari a ben nove anni, tempo che sembra preludere (piu' che alla stabilita) a una «fissita» degli organigrammi stessi, cui non pare - allo stato - porre rimedio la disposizione sulla «temporaneita' degli incarichi direttivi» ex art. 45, d.lgs. n. 160 del 2006 (in disparte il contenuto precettivo, l'efficacia della norma e' sospesa per effetto della citata legge n. 269 del 2006). Di qui, il dubbio del tribunale circa il contrasto delle menzionate norme primarie con il canone di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.. 2.2.2. - Le osservazioni appena svolte consentono di individuare un altro profilo di criticita' delle disposizioni in esame, dubitandosi della coerenza delle stesse con il principio di buon andamento dell'amministrazione sancito dall'art. 97 Cost.. Come si e' detto, la scelta di richiedere ai dirigenti un'eta' che sia in grado di assicurare una permanenza minima nell'incarico prima della cessazione del servizio risponde, in astratto, a condivisibili esigenze di tipo organizzativo, tant'e' che lo stesso C.s.m. gia' faceva ricorso a un criterio analogo, previsto in sede di autonormazione (peraltro in un contesto nel quale era unicamente possibile l'elevazione del limite di eta' a settantadue anni, in forza dell'art. 16, d.lgs. n. 503/1992, ante legge n. 289/2002). Il punto 2 circ. n. 13000 dell'8 luglio 1999 prevede(va) infatti che «ai fini del buon andamento dell'amministrazione, e per garantire efficacia ed efficienza dell'azione direttiva, viene in rilievo, quale elemento di valutazione positiva, la possibilita' che l'aspirante assicuri, alla data della vacanza dell'ufficio la permanenza nello stesso per un periodo non inferiore a tre anni, salvo che ricorrano particolari circostanze ed esigenze che facciano ritenere necessario un periodo piu' lungo o, adeguato un periodo piu' breve» (la disposizione prosegue sancendo che «in considerazione della particolare organizzazione degli uffici e delle caratteristiche proprie delle funzioni di legittimita', tale periodo e' ridotto a due anni per il conferimento di uffici direttivi superiori presso la Corte di cassazione [...], la Procura Generale presso la stessa Corte [...] ed il Tribunale superiore delle acque pubbliche»). La circostanza che gli aspiranti ai posti direttivi dovessero assicurare una permanenza minima nell'ufficio rileva(va) dunque unicamente alla stregua di elemento (positivo) di cui tener conto nella valutazione comparativa dei candidati. L'irrigidimento indotto dal Legislatore appare percio' censurabile anche in relazione al canone del buon andamento: l'impossibilita' di valorizzare, attraverso il conferimento della dirigenza, funzionari dotati di peculiari attitudini professionali, oltre a ledere le aspettative di carriera di una intera fascia di personale (penalizzato per mere ragioni anagrafiche), impedisce allo stesso tempo di assicurare il migliore funzionamento dell'organizzazione della giustizia, stante la limitazione del novero dei magistrati che possono aspirare alla preposizione a un ufficio giudiziario. Si pensi al caso di un magistrato con pluriennale esperienza semidirettiva (e che abbia in ipotesi svolto per un apprezzabile periodo di tempo funzioni vicarie o di supplenza del dirigente) che partecipi al concorso per la copertura della funzione direttiva del medesimo ufficio. In questa situazione, l'impedimento assoluto all'ottenimento dell'incarico sembra contrastare con la ridetta finalita' dell'art. 97 Cost., essendo l'amministrazione della giustizia impossibilitata ad utilizzare una figura professionale la cui prevalenza nel giudizio comparativo con altri aspiranti non potrebbe certo reputarsi implausibile. Si puo' infine osservare che la garanzia di esercizio novennale dei compiti dirigenziali, come gia' detto, introduce un ulteriore elemento che porta a dubitare della correttezza dell' esercizio della discrezionalita' legislativa. E' infatti notorio il benefico influsso su ogni tipo di organizzazione, e in particolar modo su quelle pubbliche, specie se attributarie di funzioni vitali dell'ordinamento, del principio dell'avvicendamento dei titolari degli organi e delle cariche, secondo un meccanismo idoneo ad evitare quei personalismi talora suscettibili di dar vita a situazioni contrastanti con una sana dialettica democratica. 2.2.3. - Un ulteriore dubbio concerne la lesione della sfera di attribuzioni costituzionalmente garantite del Consiglio superiore della magistratura. A tenore dell'art. 105 Cost. spettano al C.s.m., «secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati». Questa disposizione, che attribuisce all'Organo (per l'appunto) di autogoverno l'esclusiva competenza sui provvedimenti concernenti lo status dei magistrati (C. cost. 27 luglio 1992, n. 379) in diretta attuazione del precedente art. 104 Cost., e' posta a presidio delle garanzie di indipendenza e di autonomia dell'ordine giudiziario. La norma, sulla cui interpretazione non vi e' peraltro uniformita' di vedute (la dottrina costituzionalistica talvolta ne valorizza la portata di limite estrinseco alle attribuzioni consiliari e talaltra sottolinea il carattere assoluto della riserva di legge), sembra tuttavia precludere al Legislatore ordinario di intervenire sul concreto atteggiarsi del rapporto di servizio del personale di magistratura, attraverso provvedimenti direttamente intesi a regolare posizioni individuali. In particolare, se la norma primaria impeditiva dell'accesso alla dirigenza dei magistrati con una determinata eta' anagrafica limita in modo notevole le possibilita' del C.s.m. di espletare le sue attribuzioni in materia di «promozioni», di contro un assetto derivante dall'esercizio dell'autonomia regolamentare del C.s.m. (che in concreto aveva previsto, ragionevolmente, la mera «valutabilita» in positivo della permanenza per un certo tempo nell'ufficio direttivo) ha il pregio della flessibilita', essendo suscettibile di modulazioni diverse in dipendenza di fattori finanche contingenti. Questo sembra essere, del resto, l'intento avuto di mira dal Costituente, che con l'espressione «norme dell'ordinamento giudiziario» ha voluto certamente riservare al Legislatore le scelte di fondo, strutturali, che reggono questo peculiare plesso organizzativo, vale a dire quelle strumentali alla delimitazione dell'insieme «personale di magistratura», all' individuazione dei diritti e degli obblighi derivanti dal rapporto di servizio con lo Stato nonche' alla relazione tra magistrato-persona fisica e ufficio giudiziario (in termini di preposizione organica, titolarita' delle funzioni giurisdizionali, ecc.). Ne segue che la scelta legislativa in esame, che incide direttamente sulle «promozioni», sembra privare il C.s.m. della prerogativa di individuare, nella piu' ampia platea composta anche dai magistrati ultrasessantaseienni, il candidato piu' adatto a rivestire un certo incarico. 2.2.4. - E' invece inammissibile, per difetto di rilevanza, il rilievo di incostituzionalita' della disciplina transitoria rispetto a pretese situazioni di vantaggio insorte in capo agli interessati. Asserisce in proposito il ricorrente di esser titolare di un vero e proprio «diritto» di partecipare al concorso impugnato, per il fatto che l'ufficio era gia' vacante prima dell'entrata in vigore dell'art. 2, comma 45, legge n. 150/2005. La prospettazione in termini di «diritti quesiti» va tuttavia disattesa, occorrendo considerare che il concorso e' stato indetto (in data 8 settembre 2005, ossia) dopo che era entrata in vigore la nuova normativa; la quale risulta dunque senz'altro applicabile alla procedura. 3. - Quanto precede giustifica la valutazione di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale, in relazione agli articoli 3, 97 e 105 Costituzione, dell'art. 2, comma 45, della legge 25 luglio 2005, n. 150, e del combinato disposto degli articoli 2, comma 10, lett. a), della citata legge n. 150/2005 e 3 del decreto legislativo 16 gennaio 2006, n. 20, nella parte in cui prevedono che il conferimento degli incarichi direttivi di primo e di secondo grado possa avvenire soltanto in favore di aspiranti che assicurino almeno quattro anni di servizio prima della data di «ordinario collocamento a riposo» ex art. 5, r.d.lgs. n. 511 del 1933. Si rende conseguentemente necessaria la sospensione del giudizio e la rimessione degli atti alla Corte costituzionale affinche' si pronunci sulla questione.