IL TRIBUNALE

    1.  -  Tratto a giudizio con decreto di giudizio immediato, Kamel
Sabar  - imputato del reato di cui all'art. 73 d.P.R. n. 309/1990 per
avere  detenuto  a  fini  di  illecita  cessione  a terzi gr. 24,5 di
sostanza  stupefacente  tipo  cocaina,  con  un principio attivo pari
all'11%  pari  a complessive 25 dosi - formulava tempestiva richiesta
di   applicazione   della  pena  ex  art. 444  c.p.p.,  chiedendo  il
riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 73, comma 5 del citato
decreto.
    Il  pubblico  ministero,  rilevato  che  Saber  risulta  recidivo
reiterato,  essendo  gravato  da numerose condanne, anche specifiche,
riportate   sotto   generalita'  diverse,  non  prestava  il  proprio
consenso,  risultando  d'ostacolo all'accoglimento della richiesta la
nuova  formulazione  dell'art. 69 comma 4 c.p. introdotta dall'art. 3
della legge 5 dicembre 2005 n. 251.
    Si  procedeva  quindi  con  rito  abbreviato,  richiesto  in  via
subordinata.
    La  norma da ultimo richiamata, novellando per l'appunto la norma
codicistica, stabilisce che «Le disposizioni del presente articolo si
applicano anche alle circostanze inerenti alla persona del colpevole,
esclusi i casi previsti dall'articolo 99, quarto comma, nonche' dagli
articoli  111 e 112, primo comma, numero 4), per cui vi e' divieto di
prevalenza  delle  circostanze  attenuanti sulle ritenute circostanze
aggravanti,  ed  a  qualsiasi altra circostanza per la quale la legge
stabilisca  una  pena  di  specie diversa o determini la misura della
pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato».
    2.  -  Il  tenore  letterale  della  disposizione sopra riportata
appare  chiaro  nell'introdurre una limitazione al potere del giudice
di  formulare  il  giudizio  di  prevalenza  di eventuali circostanze
attenuanti  in  presenza  della  recidiva reiterata, derogando in tal
modo  al  disposto  generale  dell'art. 69,  comma 4, c.p. introdotto
dall'art. della  legge  6  del d.l. 11 aprile 1974 n. 99, convertito,
con modificazioni, nella legge 7 giugno 1974 n. 220.
    In  particolare,  non  puo'  convenirsi  sulla  fondatezza  della
diversa  opinione,  pure  prospettata  al  fine  di  circoscrivere la
portata  applicativa  della  disposizione di legge, che il divieto di
prevalenza  possa  essere  limitato  alle sole circostanze attenuanti
inerenti la persona del colpevole, posto che in tal caso si finirebbe
per  escludere  la praticabilita' del giudizio di prevalenza soltanto
alle attenuanti previste agli artt. 89, 91, 95, 96, 98 c.p. con esiti
del   tutto   marginali,   rispetto   alla  finalita'  conclamata  di
inasprimento  del  trattamento sostanziale e processuale del recidivo
reiterato, e finanche irragionevoli (in via esemplificativa, potrebbe
essere   riconosciuta   la   prevalenza   sulla   recidiva  reiterata
dell'attenuante   di   cui   all'art. 62   n. 2   c.p.  e  non  della
seminfermita' mentale).
    Nemmeno  appare  praticabile  la soluzione ermeneutica che poggia
sulla  distinzione  tra  la  generica  locuzione  «attenuanti» di cui
all'inciso  e  le  attenuanti  «qualificate»  della seconda parte del
comma,  per farne discendere la limitazione del divieto di prevalenza
alle  sole  attenuanti comuni (art. 62 c.p.) e non alle attenuanti ad
effetto  speciale  ovvero  a  quelle che prevedono una pena di specie
diversa da quella ordinaria del reato, posto che, a prescindere dalla
debolezza  del  dato letterale al quale dovrebbe affidarsi il compito
di  marcare  una  consapevole  scelta  di campo del legislatore (che,
interpolando  l'art. 69,  comma 4 c.p. nella formulazione previgente,
ben  potrebbe  avere  adottato,  nell'inciso,  un termine volutamente
omnicomprensivo) non appare scevra anche in questo caso da profili di
irragionevolezza   consentendo   la   possibilita'  di  riservare  un
trattamento  sanzionatorio di maggior favore proprio ai recidivi che,
ad    esempio,    potrebbero    lucrare   l'effetto   di   prevalenza
dell'attenuante  di  cui  all'art. 648,  comma  2  c.p., e non quella
dell'art,. 62 n. 4 c.p.
    Non   ignora   poi   lo  scrivente  che  l'ordinamento  contempla
l'esistenza  di  disposizioni  di  legge  che, derogando al principio
dell'art. 69,  comma  4  c.p., introducono limitazioni al giudizio di
comparazione delle circostanze eterogenee.
    Si  allude,  in  particolare,  all'art. 1,  comma  3  del d.l. 15
dicembre  1979  n. 625,  convertito nella legge 6 febbraio 1980 n. 15
per  i  reati  commessi  con  finalita'  di terrorismo o di eversione
dell'ordine  democratico; all'art. 7, comma 2 del d.l. 13 maggio 1991
n. 152,  convertito  con  modificazioni  nella  legge  12 luglio 1991
n. 203  per  i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste
dall'art. 416-bis  c.p.  o  al  fine  di agevolare le associazioni di
stampo  mafioso;  all'art. 3, comma 2 del d.l. 26 aprile 1993 n. 122,
convertito,  con modificazioni, nella legge 25 giugno 1993 n. 205 per
i delitti commessi per finalita' di discriminazione o di odio etnico,
nazionale, religioso; all'art. 12 comma 3-quater del d.lgs. 25 luglio
1998  n. 286  introdotto dall'art. 11, comma 1, lett. c), della legge
30 luglio  2002  n. 189  per  i  delitti  di introduzione illegale di
cittadini extracomunitari.
    Con  la prima delle disposizioni sopra citate veniva disposto che
«le  circostanze  attenuanti  concorrenti  con l'aggravante di cui al
primo  comma  (ossia  la  finalita'  di  terrorismo  o  di  eversione
dell'ordine   democratico:   n.d.e.)   non  possono  essere  ritenute
equivalenti  o  prevalenti  rispetto  a  questa  ed  alle circostanze
aggravanti  per  le  quali  la  legge  stabilisce  una pena di specie
diversa  o  ne  determina  la  misura  in modo indipendente da quella
ordinaria del reato».
    La  norma  ebbe  a  superare  il  vaglio di costituzionalita' per
l'asserita  violazione  dell'art. 3,  avendo  il  giudice delle leggi
ritenuto   che  la  preclusione  del  giudizio  di  prevalenza  delle
circostanze  attenuanti  non avrebbe necessariamente impedito la loro
applicazione, dal momento che il venir meno della obbligatorieta' del
giudizio di bilanciamento - determinato proprio dalla limitazione del
potere  discrezionale  del  giudice  imposto  dall'art. 1  comma 3  -
avrebbe   consentito  il  recupero  del  principio  generale  sancito
dall'art. 63,  comma  3  c.p.,  con  la  conseguente  possibilita' di
calcolare    la    diminuzione    di   pena   una   volta   applicata
(obbligatoriamente) l'aggravante (sentenza n.. 38/1985).
    In  altri termini, la corretta interpretazione della disposizione
avrebbe  posto il giudice nell'alternativa tra effettuare il giudizio
di  bilanciamento riconoscendo carattere di prevalenza all'aggravante
-  unico epilogo consentito in questo caso - ovvero escluderlo e dare
luogo   all'aumento   per   l'aggravante   ed  alla  diminuzione  per
l'attenuante o le attenuanti riconosciute.
    Di tenore sostanzialmente analogo le ulteriori disposizioni sopra
richiamate  che,  con formulazione non dissimile prevedono il divieto
di  equivalenza o prevalenza delle circostanze attenuanti, diverse da
quella  di  cui  all'art. 98  c.p.,  rispetto alle aggravante da esse
introdotte,  stabilendo  altresi'  che  «le  diminuzioni  di  pena si
operano  sulla  quantita' di pena risultante dall'aumento conseguente
alla ... aggravante».
    La  rottura  dell'obbligatorieta'  del  giudizio di bilanciamento
delle  circostanze,  evidenziata  da  parte della dottrina, affermata
dalla   sentenza  n. 38/1985  con  riferimento  all'aggravante  della
finalita'  di  terrorismo,  sostanzialmente  ripresa  e puntualizzata
dalle   successive   disposizioni  derogatrici,  potrebbe  indurre  a
ritenere   che   anche   nel   caso   di   specie   l'interpretazione
costituzionalmente  orientata imponga una lettura dell'art. 69, comma
4  c.p.  su  una  duplicita'  di piani, scindendo l'ipotesi in cui il
giudice  intenda  procedere  al  bilanciamento  -  nel  qual  caso la
rilevanza  della  recidiva  reiterata  imporrebbe  di pervenire ad un
giudizio  di  prevalenza  o di equivalenza - da quella in cui ritenga
prevalenti  le  attenuanti,  nel  qual  caso l'effetto della norma in
questione si risolverebbe nell'imporre l'applicazione, a questo punto
obbligatoria,    dell'aggravante    sulla   pena   risultante   dalla
comparazione tra attenuanti diverse dalla recidiva reiterata.
    Reputa  tuttavia  chi  scrive  che una simile interpretazione non
possa ricavarsi ne' dal testo normativo, ne' per via sistematica.
    In primo luogo, e' il caso di constatare che l'art. 3 della legge
n. 251  e' intervenuto direttamente sul testo dell'art. 69 c.p., cio'
che  pare assumere effetti conformativi della disciplina del concorso
di  circostanze eterogenee, modellandola in via generale nel senso di
precludere  uno  dei  possibili  esiti  dell'esplicazione  del potere
discrezionale  del  giudice,  quello  cioe'  della  prevalenza  delle
attenuanti    sulla    recidiva    reiterata.   In   altri   termini,
l'interpolazione   del   testo   codicistico   parrebbe  riaffermare,
vincolandone  gli esiti giudiziali, il principio del bilanciamento di
circostanze, piuttosto che implicarne la rottura.
    In  secondo  luogo  la  disposizione  in  oggetto  non prevede, a
differenza  delle  norme  di  legislazione speciale, il richiamo alla
disciplina  del  concorso  eterogeneo  stabilita dall'art. 63 c.p., e
tale  scelta  non  sembra  priva  di  significato, dal momento che la
formulazione  delle deroghe al principio ricavabile dall'art. 69 c.p.
appariva  giustificarsi  proprio in ragione dell'adesione all'opzione
interpretativa  della  Corte  che  si  adisce,  e della necessita' di
dissolvere le ambiguita' interpretative cui aveva dato luogo la norma
capostipite.
    In  altri termini, la nuova formulazione dell'art. 69 c.p. sembra
imporsi  come  consapevole  limitazione  del potere discrezionale del
giudice  di  procedere  al  giudizio  di  bilanciamento  in  tutte le
possibili esplicazioni attraverso la preclusione di uno dei possibili
esiti  (il  giudizio  di  prevalenza  delle attenuanti sulla recidiva
reiterata).
    3.  - Cio' premesso, poiche' appare assolutamente non controverso
che  la  disposizione  di cui all'art. 73, comma 5 d.P.R. n. 309/1990
integri  una  circostanza attenuante ad effetto speciale, e' di tutta
evidenza  che  a  fronte della contestazione della recidiva reiterata
sarebbe  precluso il giudizio di prevalenza della prima che, al piu',
potrebbe  incidere,  unitamente  ad  altre attenuanti - ad esempio le
generiche - a fondare un giudizio di equivalenza.
    Da  cio'  discenderebbe che fatti di contenuta rilevanza sotto il
profilo oggettivo, tanto per modalita' dell'azione quanto per entita'
del  dato  ponderale,  destinati  di  norma  a  trovare  la  risposta
sanzionatoria nell'area di applicabilita' dell'ipotesi attenuata, ove
consumati  da  recidivi  reiterati (ed indipendentemente dalla natura
della  recidiva)  dovrebbero  necessariamente essere puniti a termini
del  ben piu' severo art. 73, comma 1 d.P.R. n. 309/1990, vale a dire
con  una  pena  minima  edittale  di  anni  6  di  reclusione ed Euro
26.000,00 di multa.
    Piu'  in  generale,  il  divieto  di prevalenza delle circostanze
attenuanti,   c.d.  ad  effetto  ordinario  e  ad  effetto  speciale,
priverebbe il giudice della possibilita' di inquadrare il trattamento
sanzionatorio  nell'ambito  valutativo della rninor gravita' in tutti
quei  casi di riconoscimento normativo - attraverso l'introduzione di
ipotesi attenuate - del minor disvalore del fatto (e' il caso, in via
meramente esemplificativa degli artt. 609-bis u.c. c.p., 648, comma 2
c.p.  o,  con riguardo alle attenuanti ad effetto ordinario o comune,
323-bis c.p.).
    L'interpretazione  dell'art. 69,  comma  4  c.p.  come modificato
dall'art. 3 della legge n. 251/2005 sopra prospettata, che si ritiene
la  sola praticabile, sia sotto il profilo letterale che sotto quello
sistematico,  non  sembra  sottrarsi  a fondati dubbi di legittimita'
costituzionale per violazione degli art. 25, comma 2 e 27, comma 3.
    La  giurisprudenza  della Corte che si adisce ha da tempo fissato
le  coordinate che segnano la dimensione ontologica e finalistica del
trattamento   sanzionatorio   secondo   i   precetti   costituzionali
ricavabili dall'art. 3 dai commi primo e terzo dell'art. 27.
    La  personalita' della responsabilita' penale, in particolare, e'
assicurata   soltanto   da   un  trattamento  sanzionatorio  che  sia
proporzionato  rispetto  al  disvalore  del  fatto  concreto,  e tale
proporzione  diviene altresi' misura della uguaglianza dei consociati
rispetto  alla  pena,  la  cui  applicazione  viene  in  tal  modo ad
affrancarsi  da  connotazioni  tali  da  privilegiare,  in tutto o in
parte,  finalita'  di  difesa  sociale  spesso discendenti da moti di
opinione non sempre rispondenti a criteri di razionalita'.
    Difatti,  «l'adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti
-  in  termini  di  uguaglianza e/o differenziazione di trattamento -
contribuisce  da  un lato a rendere quanto piu' possibile "personale"
la  responsabilita'  penale,  nella prospettiva segnata dall'art. 27,
primo comma; e nello stesso tempo e' strumento per una determinazione
della  pena  quanto  piu'  possibile "finalizzata", nella prospettiva
dell'art. 27,  terzo  comma,  Cost. L'uguaglianza di fronte alla pena
viene a significare, in definitiva, "proporzione" della pena rispetto
alle  "personali" responsabilita' ed alle esigenze di risposta che ne
consegnano, svolgendo una funzione che e' essenzialmente di giustizia
e  anche  di  tutela  delle  posizioni  individuali e di limite della
potesta'   punitiva  statale»  (sent.  n. 50/1980,  richiamata  dalle
sentenze nn.299/1992, 306/1993).
    Sotto   altro   ma  connesso  profilo,  superando  la  concezione
restrittiva  che voleva il principio rieducativo destinato ad operare
soltanto  nella  fase  esecutiva, si e' riconosciuto che la finalita'
enunciata  dall'art. 27,  comma  3  contiene un precetto rivolto allo
stesso  legislatore,  segnalando  «una  delle  qualita'  essenziali e
generali  che  caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e
l'accompagnano  da  quando nasce, nell'astratta previsione normativa,
fino a quando in concreto si estingue» (sent. n. 313/1990).
    Il   divieto   del   giudizio  di  prevalenza  della  circostanze
attenuanti  rispetto alla recidiva reiterata implicherebbe una vera e
propria eterogenesi dei fini, sovvertendo la finalita' rieducativa in
favore  di esigenze di difesa sociale, ossia «sacrificando il singolo
attraverso   l'esemplarita'   della  sanzione»  (sent.  n. 313/1990).
Difatti,  l'incidenza  obbligatoriamente  riconosciuta  alla recidiva
specifica  nella  dosimetria  della  pena  si  presta  ad alterare la
proporzione  tra  fatto  e  sanzione,  connotando  quest'ultima di un
plusvalore  rappresentativo di finalita' eccedenti la funzione stessa
della pena.
    Se  e' vero che il contenuto del principio costituzionale sancito
dall'art. 27,  comma 3, come rilevato dalla piu' aggiornata dottrina,
non  puo'  spingersi  oltre  la  possibilita' di riappropriazione dei
valori  fondamentali della convivenza, tra i quali quello di prestare
osservanza  ai  precetti  dell'ordinamento  penale,  e'  di immediata
evidenza  la  necessita'  che il destinatario percepisca il disvalore
del  reato  commesso  e  l'esistenza  di  un  rapporto  di  immanente
proporzione tra fatto e sanzione.
    Diversamente,  la  rottura  del punto di equilibrio finirebbe per
ingenerare  sentimenti  di  insofferenza  e  ribellione  ad  una pena
percepita,    nella    sua   connotazione   di   esemplarita',   come
ingiustificatamente affittiva.
    E'  quanto  accade nel caso di specie in cui, proprio per effetto
della  preclusione del giudizio di prevalenza, fatti di contenuto, se
non  addirittura  modesto  disvalore  (si  pensi,  per l'appunto alla
detenzione per uso non esclusivamente personale di un quantitativo di
stupefacente   di   poco   eccedente  i  limiti  tabellari,  o  della
ricettazione   di   beni  di  scarso  valore)  verrebbero  ad  essere
sottoposti,  se  commessi  da  qualsiasi  recidivo  reiterato,  ad un
trattamento sanzionatorio manifestamente sproprorzionato, dal momento
che  e'  lo  stesso  legislatore  a  ritagliare  un  area di condotte
meritevoli di una risposta sanzionatoria variabilmente piu' mite.
    Sotto  altro profilo, calibrando la comminatoria della pena anche
in   funzione  della  pericolosita'  sociale  espressa  dal  recidivo
reiterato  secondo  un giudizio sostanzialmente presuntivo (posto che
nessun  rilievo viene riconosciuto alla natura della recidiva ed alla
qualita'  della  capacita' criminale da essa espressa) il legislatore
finirebbe  per  evocare aperture verso un diritto penale dell'autore,
in  evidente  contrasto  con  l'art. 25,  comma  2 Cost, che connette
indefettibilmente  la  responsabilita'  penale  -  ed  il trattamento
sanzionatorio che ne consegue - alla consumazione di un «fatto» nella
sua materialita'.
    La  questione  appare  quindi non manifestamente infondata per la
violazione sia dell'art. 27, comma 3, sia dell'art. 25, comma 2 Cost.
    4.  - Essa e' infine rilevante nel presente processo in quanto il
prevenuto,  pur  dovendo rispondere di un fatto connotato da gravita'
riconducibile   all'ambito  di  applicazione  dell'ipotesi  lieve  ex
art. 73,  comma 5 d.P.R. n. 309/1990, in quanto recidivo reiterato si
vedrebbe   applicato,   in   ipotesi  di  condanna,  il  piu'  severo
trattamento sanzionatorio previsto dal comma 1 dello stesso articolo.