LA CORTE DI APPELLO Riunita in Camera di consiglio ha emesso la seguente ordinanza. Letti gli atti del procedimento penale contro Manenti Vincenzo, Carbone Guglielmo, Occhipinti Margherita, Poidomani Elisa, Genesio Vincenzo; Rilevato che i primi tre imputati sono stati assolti con la sentenza di primo grado e nei confronti dei predetti e' stato proposto appello del p.m. e della p.g.; Rilevato che gli imputati Poidomani e Genesio hanno a loro volta proposto appello avverso il capo di condanna che li riguarda; Vista la legge 20 febbraio 2006, n. 46 e l'art. 23, legge Cost. 11 marzo 1953, n. 87; O s s e r v a 1 - La recente legge 20 febbraio 2006, n. 46, in vigore dal 9 marzo 2006, modificando l'art. 593 c.p.p. ha abolito la facolta' del pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento, salvo ipotesi marginali «nuove prove... sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado» che non ricorrono nel presente caso. Contro tali sentenze, dunque, l'ufficio del p.m. puo' oggi di regola proporre solo il ricorso per cassazione, del quale - al contempo - la nuova legge ha ampliato i presupposti (con la modifica delle lettere d) ed e) dell'art. 606 c.p.p.). L'art. 10 della medesima legge detta una normativa transitoria, che rende di fatto retroattiva la nuova disciplina. E' stabilito infatti che la Corte di appello, investita di un gravame avverso sentenza di proscioglimento proposto prima del 9 marzo 2006, debba dichiararlo inammissibile con ordinanza non impugnabile (che nel silenzio della legge parrebbe poter essere ammessa anche de plano), dalla cui emissione decorre un termine di 45 giorni per proporre, avverso la sentenza di primo grado, il ricorso per cassazione. Non e' chiarito se le disposizioni dell'art. 10 si applichino incondizionatamente, o se - ne siano eccettuati i casi in cui la sentenza di primo grado fosse stata di condanna per alcune imputazioni o alcuni imputati e di proscioglimento per altre/i, e l'imputato condannato avesse a sua volta interposto appello. Quest'ultima situazione che si verifica nel presente procedimento e' infatti sostanzialmente analoga a quella disciplinata dall'art. 580 c.p.p.; norma tenuta in vita dalla legge n. 46/2006 (sia pure con una limitazione alle ipotesi di connessione ex art. 12 c.p.p.) e che, nei casi di proposizione di mezzi di impugnazione diversi contro la stessa sentenza, stabilisce la conversione del ricorso per cassazione in appello. Accedendo alla nuova disciplina un appello gia' proposto dal p.m. deve essere dichiarato inammissibile per consentirne la proposizione di un ricorso per cassazione che, inevitabilmente, dovrebbe di nuovo convertirsi in gravame di merito. Il che propone argomenti di irrazionalita' ulteriori a quelli di cui in prosieguo. 2. - La disciplina appena riassunta appare viziata da plurimi profili di illegittimita' costituzionale. La rilevanza della questione di costituzionalita' e' in re ipsa, giacche' dal suo accoglimento discende la possibilita' o meno, per l'organo del p.m. e per gli interessi dallo stesso rappresentati, di vedere tutelate le proprie ragioni attraverso un riesame della sentenza di primo grado in tutte le sue implicazioni di merito, e non soltanto nella pur sempre limitata prospettiva dell'art. 606 lett. d) ed e) c.p.p.. 3. - Il primo fondamentale profilo di contrasto fra il nuovo art. 593 c.p.p. e le norme costituzionali, riguardo il principio della parita' delle parti nel processo penale, consacrato nell'art. 111, secondo comma Cost., con cui appare inconciliabile una disciplina dell'appello che assegna alle parti prerogative differenziate al punto tale che una soltanto di esse puo' vedere soddisfatto il suo interesse sostanziale. Che questa sia la situazione scaturente dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46, risulta palese ove si consideri che in essa, in modo oggettivamente paradossale, i poteri di appello dell'imputato e del p.m. sono connotati da una formale coincidenza (facolta' per entrambi di impugnare la condanna; divieto per entrambi di impugnare il proscioglimento) che si traduce, data la contrapposizione dei rispettivi interessi, in una clamorosa sperequazione. Il primo, infatti, perde la possibilita' di impugnare nel merito la sentenza di primo grado per aspetti del tutto platonici (l'adozione di una formula di proscioglimento piuttosto che un'altra; l'assoluzione ai sensi del primo piuttosto che del secondo comma dell'art. 530 c.p.p.) ma la conserva nei casi in cui la sentenza lede in modo concreto i suoi diritti di liberta' e di onorabilita'. Il secondo, invece, resta legittimato all'appello su questioni secondarie se non marginali della pretesa punitiva (la qualificazione del fatto; la quantificazione della pena), mentre se ne vede interdetto nei casi in cui quella pretesa sia stata totalmente sconfessata. Come si vede, si e' ben lungi dalla prospettiva - ammessa in via di principio dalla Corte costituzionale (si veda la sent. 23 luglio 1991, n. 363) da cui puo' trarsi che l'ordinamento ha da sempre conosciuto fattispecie, accomunate dal fatto di riferirsi a ipotesi eccezionali nell'ambito di un piu' vasto istituto, o dalla natura eccezionale dell'Istituto stesso. Per restare al campo delle impugnazioni, si potranno ricordare: a) per un verso, la tradizionale limitazione dell'istituto della revisione alle sole pronunce di condanna (art. 629 c.p.p.), giustificato dalle peculiari radici storiche di tale mezzo di impugnazione e dall'obiettiva incoerenza sistematica (e financo costituzionale) che deriverebbe dalla possibilita' di' infrangere il giudicato di proscioglimento; b) per altro verso, i limitati casi di divieto di appello imposto all'una e/o all'altra parte del processo rispetto a singoli tipi di pronunce, dettati dal ritenuto minor impatto di queste ultime sugli interessi della arte di volta in volta considerata, e quindi dalla ritenuta prevalenza di esigenze di economia processuale tali da far ritenere sufficiente, come strumento di difesa, il solo ricorso per cassazione. Viceversa, come si e' visto, l'odierno divieto di appello contro le sentenze di proscioglimento mutila le prerogative della parte - e di una parte soltanto - in modo generalizzato e proprio nell'aspetto piu' saliente del suo interesse a impugnare, senza che sia individuabile alcun valore costituzionale in grado di bilanciare e di legittimare quel sacrificio. 4. - Invero, come documentano i lavori, la ratio della riforma non risiede in finalita' di deflazione o di semplificazione processuale (che, semmai, avrebbero potuto consigliare limiti ai poteri di appello del p.m. avverso le sentenze di condanna, speculari a quelli posti all'appello dell'imputato contro il proscioglimento), bensi' in un declamata opzione ideologica, secondo cui neutralizzare le possibilita' di reazione dell'Organo dell'accusa, contro la sentenza assolutoria che ritenga ingiusta, risponderebbe a un diritto dell'imputato a non essere riconosciuto colpevole se non dopo due giudizi di merito conformi. In altri termini, il legislatore del 2006 pare essere stati mosso dall'apodittica convinzione che la riforma in appello di una sentenza di proscioglimento sia incompatibile con la necessita' che la condanna sia pronunciata solo in assenza di «ogni ragionevole dubbio», secondo la formula non a caso introdotta dalla stessa legge n. 46/06 nel primo comma dell'art. 533 c.p.p. (ricalcata da ordinamenti che infatti tendono a escludere l'appello del pubblico ministero, quando non l'appello tout court). Sennonche' l'esigenza della c.d. «doppia conforme» e' estranea alla nozione di «diritto al doppio grado di giurisdizione in materia penale» riconosciuto dalle Carte internazionali sui diritti dell'uomo, posto che nel documento in cui quel diritto e' piu' chiaramente enunciato (art. 2 del VII Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dell'uomo e delle liberta' fondamentali, fatto a Strasburgo il 22 novembre 1984 e ratificato in Italia con legge 9 aprile 1990, n. 98) viene espressamente prevista la possibilita' che un soggetto venga «dichiarato colpevole e condannato a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento», e in questo caso anzi si esclude che il soggetto medesimo abbia diritto a un ulteriore gravame. In ogni caso, l'impostazione qui contestata non pare avere cittadinanza nel nostro ordinamento. Questo infatti prevede l'obbligo di motivazione delle sentenze, anche e specialmente in funzione della loro impugnabilita', senza fare eccezione per le sentenze assolutorie (art. 111 Cost., sesto comma), e soprattutto riconosce a tutte le parti processuali, Pubblico Ministero incluso, il diritto di ricorrere per cassazione (art. 111, settimo comma). Del resto, nel potere di impugnazione del p.m. la giurisprudenza costituzionale ha esplicitamente riconosciuto una delle espressioni dell'obbligo di esercizio dell'azione penale consacrato dall'art. 112 Cost., la quale puo' conoscere delle occasionali limitazioni nella legislazione ordinaria, ma non una compressione tale da vanificare il complessivo assolvimento delle funzioni di accusa (cfr. sent. Cost. 17-11-1971, n. 177 e 24 marzo 1994, n. 9. La logica della novella che si commenta, invece, se coerentemente applicata, dovrebbe portare ad escludere qualsiasi impugnazione del p.m., dal momento che anche una condanna in doppio grado successiva all'annullamento in cassazione della prima sentenza assolutoria, sul piano logico, fa riemergere il mito della «doppia conforme». Peraltro funzione delle impugnazioni non e' quella di superare un ipotetico «dubbio» cui darebbe adito la sentenza, ma di rimuovere l'errore eventualmente in essa contenuto; operazione che ben puo' e deve aspirare a risultati garantiti «al di la' di ogni ragionevole dubbio» (per riprendere la folcloristica definizione inserita nel «nuovo» art. 533 c.p.p.). 5. - Dai rilievi che precedono esce dunque confermato che la scelta di abolire l'appello, non in assoluto (come in via principale sarebbe consentito dalla mancanza di costituzionalizzazione, nel nostro ordinamento, del gravame nel merito), ma per una sola delle parti del processo, e priva di una solida giustificazione sul piano del bilanciamento dei valori che sono al centro del processo penale. In proposito, alle considerazioni gia' esposte, e che riguardano i profili di illegittimita' delle nuove norme per la violazione di principi della parita' delle parti e dell'obbligatorieta' dell'azione penale, si sommano le non meno rilevanti implicazioni che derivano dal loro contrasto con il diritto di difesa garantito dall'art. 24, secondo comma Cost.. Ci si riferisce qui al ruolo che al pubblico ministero compete, non solo di rappresentanza degli interessi pubblici coinvolti nel processo penale, ma anche di veicolo necessitato ed esclusivo- in un ordinamento che non conosce l'accusa penale privata - della tutela degli interessi individuali lesi dal reato. La persona offesa dal reato (anche quella costituita parte civile), il cui diritto ad impugnare e infatti circoscritto ai capi civili della sentenza: artt. 573 e 576 c.p.p) non ha un proprio potere di impugnazione agli effetti penali, rispetto al proscioglimento dell'imputato che ritenga erroneo, sicche' puo' vedere tutelato il proprio dissenso solo attraverso i poteri di impugnazione del p.m.. Per tale motivo, il vigente codice ha previsto in generale che essa possa emotivamente chiedere al p.m. di proporre l'impugnazione con obbligo per l'Organo dell'accusa di pronunciarsi sull'eventuale diniego con decreto motivato (art. 572 c.p.p.). Con l'abolizione delle prerogative di appello del p.m., tale regola e' limitata al solo ricorso per cassazione, con una evidente compressione della tutela giurisdizionale della vittima del reato. E poiche' non vi e' dubbio che i diritti e gli interessi della persona offesa siano inclusi tra quelli che beneficiano delle garanzie dell'art. 24 Cost. (cfr., in termini piu' o meno espliciti, Corte cost. 16 gennaio 1991, n. 353; 9 marzo 1992, n. 94; 10 febbraio 1993, n. 48; 7 dicembre 1994, n. 413), risulta evidente la lesione di quest'ultimo principio costituzionale, il quale sancisce l'inviolabilita' del diritto di difesa «in ogni stato e grado del procedimento». 6. - Vanno poi segnalati i molteplici aspetti per i quali la disciplina dell'art. 593 nuovo testo c.p.p, e conseguentemente quella transitoria di cui all'art. 10, legge n. 46/2006, violano principi di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. introducendo ingiustificate disparita' di trattamento tra situazioni e posizioni processuali che invece (anche per i gia' richiamati principi di parita' tra le parti del processo e di inviolabilita' del diritto di difesa) meriterebbero di essere perequate. In primo luogo, appare microscopicamente irrazionale il fatto che, mentre e' stato praticamente abolito (con le eccezioni su cui subito si tornera) l'appello sui capi penali della sentenza di proscioglimento, e' stato invece mantenuto in vita l'appello della parte civile contro i capi che decidono sulle sue domande risarcitorie e restitutorie. Non si vede infatti perche' la tutela di un interesse di tipo privatistico debba essere piu' ampia di quella degli interessi pubblici che presiedono all'azione penale, escludendo contradditoriamente in un caso quella sorta di «infallibilita' nel merito» del giudice di primo grado che e' stata invece sancita nell'altro. Piu' in generale, in questa prospettiva, resta del tutto privo di supporto razionale ove si consideri fenomeno processuale nelle sue caratteristiche strutturali unitarie, e si tenga conto delle comuni finalita' che la giurisdizione assolve quale che sia l'oggetto dedotto in giudizio - il fatto che all'«attore» nel processo penale siano riservate prerogative inferiori a quelle dell'attore nel processo civile. Non pare potersi seriamente asserire come pure avvenuto nel dibattito anteriore all'emanazione della legge n. 46/2006, che questa diversa modulazione dei poteri impugnativi nel processo civile e in quello penale trovi il suo fondamento costituzionale nella presunzione di non colpevolezza dello imputato, la quale non puo' certo essere vista come un usbergo contro l'esercizio della pretesa punitiva, se non a prezzo di smarrire del tutto il senso stesso della giurisdizione penale. Ma anche limitandosi alle sole implicazioni della «novella» interne alla logica del processo penale, non puo' non rimarcarsi come essa realizzi ingiustificate disparita' di trattamento tra imputati e/o persone offese, laddove contempla un'ipotesi residuale di appello contro la sentenza di proscioglimento da parte del pubblico ministero (e dello stesso imputato: ma e' superfluo insistere sulla residualita' di tale evenienza) per il caso in cui, successivamente al giudizio di primo grado, siano sopravvenute o scoperte nuove prove e queste appaiono decisive (art. 593, comma 2, nuovo testo, che richiama a tale fine la categoria delle prove che, a mente dell'art. 603, comma 2, giustificano la rinnovazione del dibattimento in appello). Tale ipotesi - introdotta dal Parlamento solo in sede di seconda approvazione della legge, a seguito del rinvio del primo testo per «palese incostituzionalita» da parte del Presidente della Repubblica - non ha nulla a che vedere con l'appello inteso quale gravame nel merito», e mutua invece i suoi tratti dall'ipotesi di revisione del processo disciplinata dall'art. 630, lett. b) c.p.p., qui applicata al proscioglimento in primo grado anziche' alla condanna definitiva, e soprattutto con una vistosa peculiarita' tecnica: di applicarsi, cioe', non «in ogni tempo», ma solo nel caso (di incidenza statistica prossima allo zero) in cui le nuove sopravvengano o siano scoperte entro il termine accordato alla parte per impugnare la sentenza (quindici, trenta o massimo quarantacinque giorni a seconda della celerita' del giudice nella redazione della motivazione: artt. 544 e 585 c.p.p.). Ed e' appunto in tale limite massimo che si coglie il carattere discriminatorio della norma, ove si rilevi che, senza alcuna apprezzabile ragione di politica legislativa tale da incidere cosi' pesantemente sull'equilibrio dei diritti delle parti, la possibilita' per l'imputato di' veder messo in discussione nel merito il suo proscioglimento, e per la persona offesa di vedere tutelate le proprie ragioni in quella chiave, e rimessa a un evento del tutto accidentale e imponderabile, con una duplice conseguenza In proposito,un'ulteriore incoerenza, foriera di ingiustificate disparita' di trattamento (benche' non rilevante in questa sede), e' data dal fatto che la disciplina transitoria dell'art. 10, legge n. 46/2006 prevede la declaratoria di inammissibilita' di tutti gli appello proposti sotto il regime precedente, senza alcuna eccezione per l'ipotesi - in se' non escludibile - che medio tempore fossero emerse nuove prove del tipo di quelle che oggi potrebbero legittimare l'appello ai sensi dell'art. 593, comma 2 novellato. 7. - Resta da osservare che i profili di incostituzionalita' sin qui esaminati non possono dirsi in alcun modo esclusi dal fatto che al pubblico ministero sia pur sempre consentito ricorrere per cassazione contro il proscioglimento, ed anzi - per effetto della gia' richiamata riformulazione delle lett. d) ed e) dell'art. 606 c.p.p. - in termini piu' ampi che in passato. Intanto va rilevato che, per quanto indubbiamente segni una tendenziale «meritizzazione» del giudizio di legittimita', specie nella parte concernente la piu' ampia deducibilita' del vizio di motivazione, la nuova formulazione dell'art. 606 non toglie che il ricorso per cassazione resti essenzialmente un rimedio «a critica vincolata», laddove invece l'appello propriamente detto (quello cioe' che oggi rimane consentito all'imputato, e non la impropria «revisione a termine» accordata nel «nuovo» art. 593, comma 2 al p.m.) e' per definizione un mezzo di impugnazione a critica libera, atto a investire la sentenza nella sua eventuale intrinseca ingiustizia.