LA CORTE DI APPELLO Nella causa n. 1069/2005 tra O.A.A. e Fitt S.p.A. a scioglimento della riserva formulata nell'udienza del 28 novembre 2006 O s s e r v a O.A.A. era stata licenziata dalla societa' Fitt S.p.A. per aver superato il periodo di comporto a seguito del parto abortivo subito dopo ventuno settimane di gravidanza che avevano determinato un periodo di astensione anticipata dal lavoro (dal 25 gennaio 2002 al 29 marzo 2002) e, dopo il ricovero del 23 marzo e il parto abortivo del 29 marzo 2002, malattia a seguito ditali episodi sino al 31 maggio 2002. La societa', infatti, in data 23 aprile 2002 le aveva comunicato il licenziamento per aver superato con tali periodi il periodo di comporto per malattia. Per questi motivi la O. aveva presentato ricorso davanti al giudice del lavoro presso il Tribunale di Vicenza perche' venisse dichiarato illegittimo il licenziamento in quanto non rispettoso delle tutele accordate alla gravidanza. Il giudice di primo grado aveva respinto il ricorso presentato da O.A.A. per l'illegittimita' del licenziamento osservando che la gravidanza della stessa era cessata prima dei centottanta giorni richiesti dalla normativa per poter parlare di parto e, conseguentemente, fuori dai casi contemplati dalla legge posta a tutela della maternita'. Il giudice aveva deciso la causa richiamando in particolare l'art. 12 del d.P.R. n. 1026/1976 dove e' scritto: «ai fini dell'applicazione dell'art. 20 della legge, l'interruzione spontanea, o terapeutica, della gravidanza che si verifichi prima del centottantesimo giorno dall'inizio della gestazione, si considera aborto. E' considerata invece come parto, a tutti gli effetti, l'interruzione spontanea, o terapeutica, della gravidanza successiva al centottantesimo giorno dall'inizio della gestazione». La O. presentava appello davanti alla Corte di appello di Venezia, sezione lavoro, avverso la sentenza del giudice del lavoro di Vicenza. A parte gli altri motivi di appello che riguardano il merito della sentenza impugnata l'appellante osserva che la norma richiamata nella sua dizione letterale e non espansiva risulta incostituzionale per violazione del principio di parita' di trattamento, di ragionevolezza, di tutela della salute individuale, della condizione della donna lavoratrice e della maternita'. Ritiene il Collegio che le osservazioni formulate dalla parte possano essere condivise in termini di dubbi di costituzionalita' della normativa richiamata. L'art. 37 della Costituzione tutela la donna lavoratrice riconoscendole parita' di condizioni di lavoro rispetto all'uomo e da questo punto di vista le tematiche relative alla gravidanza devono essere considerate con la massima attenzione e sensibilita' proprio perche' peculiari alla condizione femminile. Basti ricordare il chiaro messaggio sul tema lanciato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 360/2000: «la tutela della maternita' non tollera esclusioni ne' vuoti normativi.». La definizione di aborto e di parto nel caso delle tutele accordate alla donna risulta particolarmente pregnante poiche' se si considera parto il risultato di una gravidanza andranno applicate le norme che sono poste a garanzia della maternita' mentre nel caso di aborto il periodo di malattia connesso non potra' essere tutelato particolarmente, salva una lettura estensiva dell'art. 20 sempre del d.P.R. n. 1026/1976 («non sono computabili, agli effetti della durata prevista da leggi, da regolamenti o da contratti collettivi per il trattamento normale di malattia, i periodi di assistenza sanitaria per malattia determinata da gravidanza») prospettata dalla parte appellante che per altro appare non accoglibile in quanto l'art. 20 della legge n. 1204/1971 considera malattia la sola interruzione della gravidanza e non l'intero periodo di gravidanza conclusosi con un aborto, questo a conferma della rilevanza della questione di costituzionalita' sollevata. Le norme penali utilizzano altri termini temporali per parlare di aborto e di gravidanza. Infatti prendendo come riferimento la legge n. 194/1978 (norme per la tutela sociale della maternita' e per l'interruzione volontaria della gravidanza) dopo aver riconosciuto il diritto all'interruzione volontaria della gravidanza solo entro i primi novanta giorni (art. 4) la legge prevede la possibilita' di interruzione anche successiva per motivi terapeutici (art. 6) ed e' prevista la possibilita' di vita autonoma del feto anche solo dopo novanta giorni senza ulteriore distinzione temporale (art. 7). Questo vuole dire che per una donna lavoratrice l'interruzione volontaria della gravidanza e' possibile solo nei primi novanta giorni ma la sua gravidanza non e' riconosciuta come tale da un punto di vista delle tutele della maternita' fino a centottanta giorni con un periodo grigio (tra i novanta e i centottanta giorni) nel quale non e' possibile se non per ragioni comprovate di salute della donna e del feto interrompere volontariamente la gravidanza ma, se sopravvengono complicazioni che portano all'interruzione della stessa, la malattia sara' una comune malattia da considerare nei termini ordinari del comporto e non potra' essere neppure valutata come collegabile alla gravidanza. Il quadro che se ne ricava e' sospettabile di contrasto, oltre che con la ragionevolezza, con le previsioni costituzionali di eguaglianza (art. 3 Cost.) che devono riguardare anche i diversi ambiti (lavoristico e penalistico) nei quali puo' considerarsi una medesima situazione esistenziale come la maternita', di tutela della maternita' (art. 31 Cost. ) che non puo' ricevere trattamento deteriore dalla legislazione lavoristica rispetto alla normativa penalistica e questo nonostante l'atteggiamento di favore imposto in linea generale dalla nostra Carta fondamentale, nonche' di tutela della condizione della donna che lavora (art. 37 Cost.), che sicuramente di fronte alla possibilita' di un diverso trattamento per la valutazione del periodo di comporto a causa delle gravidanze non portate a termine verrebbe necessariamente ad essere discriminata negativamente. La norma in esame, quindi, appare non adeguatamente elastica laddove individua dei termini precisi ed insindacabili di inizio della maternita' non in sintonia con l'intero sistema e con i dati scientifici in continua evoluzione, basti pensare alle probabilita' di sopravvivenza in caso di interruzione della gravidanza: negli anni sessanta oltre il 90% dei neonati sotto il chilo moriva e solo uno su cento sopravviveva senza conseguenze, nella seconda meta' degli anni novanta le percentuali si erano trasformate rispettivamente del 50 e del 30, questo secondo le piu' recenti acquisizioni della scienza medica che negli ultimi anni, grazie ai progressi realizzati, non considera i dati risalenti da oltre un trentennio validi ed utilizzabili. Pensare di poter ritenere ancora applicabili dei criteri oggettivamente obsoleti oltre che in contrasto con il generale principio di tutela della donna e della sua fondamentale funzione di maternita' puo' apparire in contrasto con i principi fondamentali della nostra Costituzione e questa valutazione non puo' che essere rimessa alla Corte costituzionale. Ritiene il Collegio che i dubbi di costituzionalita' sollevati dalla parte appellante dell'art. 12 del d.P.R. n. 1026/1976 con riferimento agli articoli 3, 31 e 37 Costituzione non appaiano manifestamente infondati e che la questione debba essere considerata rilevante ai fini della decisione richiesta a questa Corte.