LA CORTE DI APPELLO

    Ha  emesso la seguente ordinanza nel procedimento penale a carico
di El Aroui Muonir, nato a Casablanca il 30 maggio 1978, residente in
Florinas, via Sassari 65, imputato:
        A)  del  reato di cui all'art. 474 c.p., perche' deteneva per
vendere i seguenti capi contraffatti:
          n. sei maglie marcate «Guru»;
          n. quattro maglie marcate «Energie»;
          n. otto maglie marcate «Puma»;
          n. due pantaloni marcati «Puma»;
          n. tre magliette marcate «Lonsdale»;
          n. una maglietta marcata «Freddy»;
          n. una maglietta marcata «Diesel».
        B)  del  reato di cui all'art. 648 c.p. per avere, al fine di
trarne   profitto,   acquistato   o   comunque  ricevuto  da  persona
sconosciuta,  i  capi  di  vestiario  di  cui  al capo A) consapevole
dell'illecita provenienza.
    Fatti accertati in Alghero, il 12 luglio 2003.
    Ritenuto  che,  tratto  al  giudizio  del  Tribunale  di Sassari,
Sezione  distaccata  di Alghero, per rispondere dei reati in rubrica,
il  El  Aruoi venne, con sentenza dibattimentale del 10 ottobre 2005,
mandato  assolto  dal  reato  sub  A)  per  insussistenza del fatto e
dichiarato responsabile del reato di cui al capo B);
        che  contro  questa  decisione si e' appellato il p.g. presso
questo  ufficio  chiedendo  l'affermazione  di responsabilita' del El
Aroui  e la sua condanna anche in relazione all'accusa di cui al capo
A) della imputazione, nonche' la confisca di quanto in sequestro;
        ritenuto  che,  a  norma dell'art. 10, legge 20 febbraio 2006
n. 46,  dovrebbe  dichiararsi  la inammissibilita' della impugnazione
proposta  dal  p.m.  restando  a  questo  la possibilita' di proporre
ricorso  per  cassazione  giusto  il  disposto  del  terzo  comma del
medesimo art. 10;
        ritenuto   che  vi  e'  tuttavia  motivo  di  dubitare  della
conformita'   della  legge  anzidetta  alla  Costituzione  e  che  il
procuratore  generale presso questo ufficio ha ritenuto ravvisabili i
profili  di  incostituzionalita'  gia'  denunciati da questa Corte in
casi analoghi;

                            O s s e r v a

    L'art. 111  della  Costituzione  garantisce  il  principio  della
parita'   delle   parti  nel  processo,  e  questo  principio,  nella
previsione  costituzionale,  non  soffre  di eccezioni di sorta (come
invece puo' avvenire per altri principi, come quello della formazione
della  prova  in contraddittorio pure stabilito dal medesimo articolo
111). L'esclusione della possibilita' che il pubblico ministero possa
gravarsi  contro  le  sentenze di proscioglimento con lo stesso mezzo
riconosciuto  all'imputato  avverso  le sentenze di condanna comporta
l'introduzione   nel  sistema  delle  impugnazioni  di  una  evidente
irragionevole   disparita'   di  trattamento  che  contrasta  con  il
richiamato  principio della parita' delle parti nello svolgimento del
processo.
    Ad  avviso di questa Corte l'enunciato ora espresso non confligge
con le ripetute pronunce negative della Corte costituzionale chiamata
ad  esprimersi  sulle  limitazioni  al  potere d'appello del pubblico
ministero  stabilite  dall'art. 443.3  c.p.p.,  essendo le disparita'
derivanti  da questa disposizione ragionevolmente giustificabili alla
luce  del  risultato  perseguito  con il ricorso al rito abbreviato e
delle  peculiarita'  di  questo.  Il risultato e' quello della rapida
definizione  dei  processi  penali conseguita attraverso la decisione
del  processo solo sulla base del materiale probatorio raccolto dalla
parte   pubblica  fuori  del  contraddittorio,  e  pertanto  con  una
correlativa  rinuncia dell'imputato, in vista del miglior trattamento
sanzionatorio   a   lui   riservato   in   caso  di  affermazione  di
responsabilita', ad intervenire nel delicato momento della formazione
della prova.
    E  tuttavia,  se  in  un  quadro  siffatto  e'  parso ragionevole
limitare  la  facolta'  di impugnazione del pubblico ministero quanto
alle   sentenze   di   condanna   (e   pertanto   in  relazione  alla
quantificazione della pena), altrettanto non pare proprio possa dirsi
in  relazione alle sentenze di assoluzione, pur pronunciate a seguito
di  rito  abbreviato,  stante  il  perdurante  interesse  della parte
pubblica    all'accertamento    della   verita'   (e   quindi   della
responsabilita'  dell'imputato  che  dall'acclaramento  della verita'
possa  risultare),  come d'altro canto dimostra il fatto che e' stata
conservata  al  p.m.  la facolta' di appellarsi contro le sentenze di
condanna  che  modifichino  il  titolo  del  reato. E a proposito del
generale  interesse del p.m. a proporre appello contro la sentenza di
proscioglimento  conserva  piena  validita' il richiamo contenuto nel
messaggio  del  Presidente  della  Repubblica alle Camere la' dove si
osserva   che   «la   soppressione  dell'appello  delle  sentenze  di
proscioglimento  ...  fa  si' che la stessa posizione delle parti nel
processo  venga  ad  assumere una condizione di disparita' che supera
quella  compatibile  con  la  diversita'  delle funzioni svolte dalle
parti  stesse  nel  processo.  Le  asimmetrie  tra  accusa  e  difesa
costituzionalmente  compatibili  non  devono mai travalicare i limiti
fissati dal secondo comma dell'art. 111 della Costituzione».
    Ne'  appaiono  decisive  le  obbiezioni che potrebbero farsi alla
tesi  qui sostenuta e secondo le quali la soppressione della facolta'
d'appello   del   p.m.   contro   le   sentenze   di  proscioglimento
risponderebbe  ad  esigenze  di celerita' del processo, e sarebbe per
altro  verso coerente con la presunzione di innocenza dell'imputato o
con  il  precetto per il quale la colpevolezza deve essere dimostrata
oltre ogni ragionevole dubbio. Quanto alla prima di tali osservazioni
giustamente  si  e'  ricordato che le esigenze di celerita' non hanno
impedito  la  conservazione  della  facolta'  di  cui  all'art. 443.3
c.p.p., e che, al contrario, saranno proprio le esigenze di celerita'
ad  essere  sacrificate  quando, nel caso di accoglimento del ricorso
per  cassazione  proposto dal p.m. contro la sentenza assolutoria, il
processo   ritornera'   in  primo  grado  con  la  prospettiva  della
celebrazione  (anche)  del  giudizio  d'appello  in  caso di condanna
dell'imputato.  Il principio di non colpevolezza implica soltanto che
gli  effetti  pratici  della  condanna  possano discendere solo dalla
sentenza  definitiva, e nessuna conseguenza puo' trarsi da esso circa
l'iter per il quale si debba pervenire al giudicato.
    Quello  per  il  quale la colpevolezza puo' essere affermata solo
quando  sia  provata oltre ogni ragionevole dubbio sembra, invece, in
questo  caso,  un  principio  di  lettura  equivoca,  posto che se si
sostiene  la  inappellabilita' della sentenza con la quale un giudice
abbia pronunciato assoluzione poiche' l'eventuale successiva condanna
non  potrebbe  essere  pronunciata  fuor  di ogni ragionevole dubbio,
potrebbe  altrettanto  legittimamente sostenersi che sarebbe del pari
inutile un giudizio d'appello contro una sentenza di condanna che, ad
esito  di un processo celebrato in condizioni di parita' delle parti,
sarebbe   pronunciata   sulla  scorta  di  prove  che  dimostrino  la
colpevolezza con lo stesso grado di sicurezza.
    E'  stato  peraltro  espresso  l'avviso  che  l'esclusione  della
appellabilita'  delle  sentenze  di  proscioglimento  da  parte della
accusa  pubblica  sia  coerente  all'esplicazione  dei  diritti della
difesa:  deve in proposito osservarsi che insopprimibile funzione del
processo  penale  e'  quello  dell'accertamento della verita', e tale
prospettiva  deve  essere  perseguita  nel rispetto dei diritti della
difesa da far valere tuttavia nell'ambito del processo e non gia' nel
senso  che  il  confronto  fra le tesi debba essere evitato (in altri
termini:  deve  esercitarsi  la  difesa  nel  processo e non gia' dal
processo). Nessuno dubita che anche nel giudizio d'appello l'imputato
debba  godere  del  pieno  dispiegamento dei diritti che la legge gli
riconosce:  ma  non  si  vede in che cosa la celebrazione del secondo
grado  del  giudizio  di  merito,  sia  pure  ad istanza del Pubblico
Ministero,  possa compromettere il diritto di difesa (diverso sarebbe
se  ci  si  appellasse al principio del favor rei, che pero' vale nei
soli  casi  in  cui la legge faccia ad esso riferimento e non risulta
essere stato ricompreso fra quelli garantiti dalla Costituzione).
    A  tutte  le  notazioni  sopra  svolte  puo'  aggiungersi  che il
contrasto  delle  disposizioni  denunciate  rispetto all'art. 111 (ed
anche, a questo punto, all'art. 3) della Costituzione apparira' ancor
piu'  evidente  quando  si osservi che nella stesura definitiva della
legge  20  febbraio  2006  n. 46  alla  parte  civile e' stato invece
conservato  il  diritto  d'appellare  le  sentenze di assoluzione (la
genesi  della  locuzione  del  secondo  periodo  dell'art. 576 c.p.p.
alinea  nell'attuale  formulazione  persuade  che  l'impugnazione ivi
menzionata  consista nell'appello, tanto piu' che nessunamenzione del
gravame  della  parte  civile  si  rinviene  nell'art. 10 della legge
n. 46/2006  che  detta  regole  sul  regime transitorio in materia di
appello  dell'imputato o del p.m.: e in effetti per il riconoscimento
del diritto della parte civile a proporre appello avverso le sentenze
di  assoluzione  si  e'  pronunciata  la  Corte  di cassazione con la
recente  sentenza  22924  del  4  luglio  u.s.).  Si  deve constatare
pertanto   che   alla  parte  pubblica,  portatrice  degli  interessi
rilevantissimi  su  cui  si  tornera'  tra  breve, e' stato del tutto
ingiustificatamente  riservato un potere di impugnazione piu' ridotto
che  alle parti private e questo dato, indubitabile, non puo' che far
risaltare  in  maniera  ancor  piu'  evidente  il  vulnus subito, per
effetto  delle  norme  che vengono sottoposte al Giudice delle leggi,
dal principio della parita' delle parti.
    Oltre  a  tutto  quanto sopra enunciato, partendo dal rilievo che
gli  interessi  tutelati dal pubblico ministero sono, in uno Stato di
diritto,  apprezzabili  quanto  quelli  delle  altre  parti, compreso
l'imputato  (ed  in  realta', per quanto le ultime riforme in materia
processuale  abbiano  avuto di mira soprattutto il riequilibrio della
posizione  dell'imputato rispetto a quella del p.m., mai l'importanza
degli  interessi  tutelati  attraverso  l'azione  di questo era stata
reputata  sottovalente  rispetto a quella degli interessi delle altre
parti), puo' ancora osservarsi che sottrarre al pubblico ministero il
potere   di  appellarsi  contro  le  sentenze  di  assoluzione  o  di
proscioglimento  significa  rendere  piu'  difficoltosa  l'attuazione
della  ricerca  della  verita'  e,  quindi  dell'istanza di giustizia
propria della collettivita', istanza che e' addirittura pregiuridica,
posto  che su di essa si basa qualsiasi civile convivenza nella quale
si voglia evitare che i consociati siano tentati di ricorrere a forme
private di giustizia.
    Di  questo  primario interesse della collettivita' e' espressione
la  previsione  dell'art. 112  della  Costituzione  e, in definitiva,
anche  quella  circa  l'emenda del condannato sancita dal terzo comma
dell'art. 27  della  stessa Costituzione: dalla lettura coordinata di
queste due norme si ricava che il pubblico ministero (parte pubblica,
e  quindi  tenuta  al  rispetto  di  comportamenti ispirati a massima
correttezza  e moralita', oltre che onerata anche della ricerca degli
elementi  favorevoli all'imputato) non e' un ottuso persecutore degli
incolpati,  ma  soggetto  che persegue il compito, della cui primaria
importanza  si e' detto, di far si' che i devianti vengano recuperati
ad  una convivenza civile e ordinata. E menomare i mezzi attraverso i
quali  l'azione del pubblico ministero, nel rispetto del principio di
parita'  delle  parti,  si  deve  esplicare  significa  in definitiva
legiferare  in contrasto, anche, con le due previsioni costituzionali
ora richiamate.
    La  Corte,  riconosciuta  pertanto  la non manifesta infondatezza
delle  sopra  illustrate  questioni  di  legittimita' costituzionale,
riconosciuta  la  impossibilita'  di  addivenire  alla  decisione del
processo   sottoposto   al   suo   giudizio  indipendentemente  dalla
risoluzione  delle  cennate  questioni  (l'applicazione  delle  norme
denunciate  impedirebbe  infatti  la  definizione del processo con il
possibile  ribaltamento  della decisione di primo grado e la condanna
dell'imputato   anche   in   relazione  al  primo  dei  reati  a  lui
contestati),   dispone   la   trasmissione   degli  atti  alla  Corte
costituzionale sospendendo il giudizio in corso.