LA CORTE DI ASSISE DI APPELLO

    Ha emesso la seguente ordinanza.
    Sciogliendo  la riserva in ordine all'eccezione di illegittimita'
costituzionale  dell'art. 593,  secondo  comma c.p.p. come sostituito
dall'art. 1, comma 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte
in  cui esclude la possibilita' per il pubblico ministero di proporre
appello   avverso  le  sentenze  di  proscioglimento  in  assenza  di
sopravvenienza  di  nuove prove decisive, e dell'art. 10 della stessa
legge,  nella  parte  in  cui  sancisce  l'applicazione  della  norma
novellata  anche  ai procedimenti in corso, sollevata dal procuratore
generale  nel  procedimento  penale  a  carico di Sciarabba Giuseppe,
Iacono  Samuel, Barcia Antonino, Li Puma Giampiero, Cappello Luciano,
Tumminia  Vincenzo  e  Romano  Roberto in relazione agli artt. 3, 97,
111, secondo comma e 112 della Costituzione;
    Sentiti i difensori dell'imputato;

                            O s s e r v a

    Con  sentenza  emessa  l'8 marzo  2003  dalla  Corte di assise di
Messina   Sciarabba  Giuseppe  veniva  assolto  dal  reato  p.  e  p.
dall'art. 584  c.p.,  contestatogli  per  avere cagionato la morte di
Malgioglio  Salvatore,  con atti diretti a percuoterlo; con la stessa
sentenza gli altri odierni imputati venivano parimenti assolti con la
medesima formula dal reato p. e p. dall'art. 378 c.p., contestato per
avere  aiutato  Sciarabba  Salvatore  ad  eludere  le  investigazioni
dell'autorita', dopo essersi reso autore del reato sopra indicato.
    Ha  proposto  impugnazione il Procuratore della Repubblica presso
il Tribunale di Messina, censurando la sentenza, che avrebbe valutato
il  materiale  probatorio acquisito in maniera inadeguata ed erronea,
pervenendo ad una conclusione illogica e contraddittoria.
    Chiedeva,  quindi,  la riforma della sentenza e la condanna degli
imputati in ordine ai rispettivi addebiti.
    Fissato il giudizio di appello, all'udienza del 3 ottobre 2006 il
procuratore  generale,  preso atto dell'entrata in vigore della legge
n. 46/2006  e  delle  limitazioni  alla facolta' di appello derivanti
dalla  nuova  formulazione  dell'art. 593  c.p.p.,  ha  sollevato  la
questione  di  legittimita' costituzionale di detta norma nei termini
esposti.
    Orbene,  rileva questa Corte che l'art. 593 c.p.p. come novellato
dall'art. 1,  legge  n. 46/2006  consente  al  pubblico  ministero  e
all'imputato   di   proporre   appello   avverso   le   sentenze   di
proscioglimento  solo  allorche'  con  i motivi di impugnazione venga
richiesta  la  rinnovazione  dell'istruzione  dibattimentale ai sensi
dell'art. 603  cpv.  c.p.p.  per l'assunzione di prove sopravvenute o
scoperte  dopo  il giudizio di primo grado e sempre che a dette prove
sia  riconosciuto  il  carattere  della decisivita'. La norma prevede
inoltre  che, ove il giudice d'appello non ammetta in via preliminare
la  rinnovazione  dell'istruttoria, il gravame deve essere dichiarato
inammissibile.  A  questo punto alla parte appellante rimane soltanto
la  possibilita'  di proporre ricorso per cassazione entro il termine
di  giorni  45  dalla  notifica  dell'ordinanza. L'art. 8 della legge
prevede  che  di  tale  rimedio  le  parti  possano  avvalersi  anche
nell'ipotesi  di  mancata  assunzione di una prova decisiva richiesta
nel  corso  della istruzione dibattimentale e di contraddittorieta' o
illogicita'  della  motivazione,  risultanti  da  atti  del  processo
specificamente indicati dal ricorrente.
    Preliminarmente  ritiene  la  Corte che la questione proposta dal
procuratore  generale  sia rilevante nel presente giudizio, in quanto
la legge, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 22 febbraio 2006 ed
entrata  in  vigore  il  9 marzo  2006, prescrive all'art. 10. che le
nuove  norme  trovino  applicazione  anche  ai procedimenti in corso,
disponendo che l'atto d'appello proposto prima dell'entrata in vigore
della  nuova normativa sia dichiarato inammissibile con ordinanza non
impugnabile.
    Sussiste  altresi'  la necessita' che la questione sia risolta in
via  pregiudiziale poiche', avendo il pubblico ministero appellato la
sentenza   di  primo  grado  limitandosi  a  censurarne  il  processo
logico-argomentativo   senza   indicare   nuove  prove  decisive  per
addivenire  alla  pronuncia  di  un diverso giudizio, dovrebbe essere
adottata   nel   processo  in  corso  ordinanza  non  impugnabile  di
inammissibilita' del gravame.
    Al  riguardo  va  ribadito che compito di questa Corte di appello
non  e'  quello  di  esprimere  un  giudizio  sulla  fondatezza della
questione  di  legittimita' costituzionale, bensi' soltanto quello di
valutare  se i dubbi di illegittimita' costituzionale prospettati non
siano   «manifestamente   infondati»,  non  siano  cioe'  chiaramente
insussistenti  ovvero siano soltanto apparenti. Al di fuori di questa
ipotesi  la  questione  deve  essere  dichiarata  «non manifestamente
infondata» e va rimessa alla Corte costituzionale, alla quale compete
la  decisione  sulla  legittimita' costituzionale delle leggi e degli
altri  atti aventi forza di legge e quindi di stabilire se i dubbi di
illegittimita'  costituzionale  siano  fondati  o  meno  e  se  siano
superabili  con il richiamo ad altri principi di rango costituzionale
non considerati da chi la questione ha sollevato.
    Fatta  questa  premessa,  reputa  la  Corte  che  la questione di
illegittimita'  costituzionale  dell'art. 10  della legge 20 febbraio
2006  n. 46,  che prescrive che l'art. 593, secondo comma c.p.p. come
novellato  dall'art. 1,  comma 2 della stessa legge si applichi anche
«ai  procedimenti  in  corso  alla  data  di  entrata in vigore della
medesima»,  debba  ritenersi manifestamente infondata con riferimento
ad entrambi i profili prospettati dal procuratore generale.
    Invero,  non  puo'  essere  condivisa l'argomentazione con cui e'
stata  dedotta  la contrarieta' della norma transitoria con l'art. 97
Cost.  In  proposito  la  Corte  costituzionale ha gia' avuto modo di
affermare  che  «il  principio  del  buon  andamento  della  pubblica
amministrazione     -    pur    concernendo    anche    gli    organi
dell'amministrazione  della  giustizia  - si riferisce esclusivamente
alle  leggi  relative  all'ordinamento  degli uffici giudiziari ed al
loro  funzionamento sotto l'aspetto amministrativo, risultando invece
di per se' estraneo all'esercizio della funzione giurisdizionale» (v.
sent.  C.c. 26 marzo /1° aprile 2003 n. 110 e l'ordinanza n. 370/2002
in essa richiamata).
    Va  disattesa  anche l'argomentazione circa il presunto contrasto
della   norma   transitoria  con  l'art. 111  Cost.,  essendo  regola
processuale  ormai  acquisita  ed unanimemente condivisa quella della
immediata  operativita'  delle  norme  di  carattere  processuale  e,
quindi, della loro applicazione ai processi in corso.
    Viceversa   ritiene  questa  Corte  che  non  sia  manifestamente
infondata  la  questione di legittimita' costituzionale dell'art. 593
c.p.p.,  come  novellato  dall'art. 1  della  legge 20 febbraio 2006,
n. 46, con riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma Cost.
    Si  ricorda  che l'art. 111, secondo comma Cost. recita che «ogni
processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di
parita',  davanti  ad  un  giudice  terzo  ed imparziale. La legge ne
assicura la ragionevole durata».
    Il  nuovo  art. 593  c.p.p.,  con  il prevedere al primo comma la
possibilita'  del  pubblico  ministero  e  dell'imputato  di proporre
appello  avverso  la  sentenza  di  condanna  e  al  secondo comma la
limitazione  di  tale  diritto  di  appellare  avverso le sentenze di
proscioglimento  solamente  se  il  pubblico  ministero  o l'imputato
appellante   abbia   chiesto   una   prova  nuova  e  decisiva,  solo
apparentemente   soddisfa   l'esigenza  di  parita'  garantita  dalla
disposizione  costituzionale,  atteso  che  in  realta'  e'  solo con
riferimento  al  pubblico  ministero  che  la limitazione di proporre
gravame contro le sentenze assolutorie assume preponderanza e rilievo
centrale,  poiche'  all'imputato  era  gia'  inibito dalla precedente
normativa appellare sentenze di proscioglimento con formula piena.
    Ma anche a prescindere da tale considerazione, e' evidente che la
parita'  che  si  e'  voluto  realizzare  con  la  norma in parola e'
soltanto  apparente, avendo solo il pubblico ministero l'interesse ad
impugnare le sentenze di proscioglimento.
    Peraltro,  la  soluzione adottata dal Legislatore di temperare le
conseguenze  negative  della  nuova normativa con la previsione della
possibilita' di articolare rilevanti e decisivi mezzi di prova appare
quasi  irridente:  non  sfugge  a  nessuno come sia del tutto avvulsa
dalla  realta' la possibilita' che il pubblico ministero sia in grado
di  produrre,  dopo  la  pronunzia  di primo grado, una prova nuova e
decisiva,   capace  di  capovolgere  la  decisione  assolutoria,  non
rinvenuta  durante tutta la fase dedicata alle indagini preliminari e
durante  l'istruzione  dibattimentale,  e  che  cio'  riesca  a  fare
nell'arco  ristrettissimo  corrispondente  ai  termini di 15, 30 o 45
giorni  concessi  per  l'impugnazione;  non gli e' infatti consentito
prendersi  un  maggior  lasso  temporale,  ritardando la richiesta di
rinnovazione  sino  alla  presentazione  dei  motivi  nuovi  a  norma
dell'art. 585,  comma  quarto  c.p.p.,  poiche' la formulazione della
richiesta  di  rinnovazione  costituisce  requisito di ammissibilita'
dell'atto di proposizione di appello, che ad essa si riduce.
    Pertanto,  va condivisa l'argomentazione del procuratore generale
il  quale  ha  rilevato  che  «poiche' l'ipotesi della prova a carico
nuova  e  decisiva sopravvenuta durante la decorrenza dei termini per
l'impugnazione    costituisce   ipotesi   praticamente   inattuabile,
l'aggiunta effettuata dal Legislatore va ritenuta tamquam non esset e
la  norma  regredisce alla formulazione gia' censurata dal Presidente
della Repubblica nel messaggio di rinvio alle Camere».
    E'  di  tutta  evidenza,  quindi,  che  il nuovo art. 596 c.p.p.,
impedendo  sostanzialmente al pubblico ministero l'appello in caso di
esito  assolutorio  del  giudizio di primo grado e consentendo invece
all'imputato  di proporre appello in caso di sentenza di condanna, ha
finito con l'introdurre un rilevante squilibrio tra le parti.
    Vero  e'  che  la  Corte  costituzionale  ha  avuto  occasione di
sottolineare  che  il principio della parita' nel contraddittorio non
comporta  necessariamente  l'identita' tra i poteri processuali delle
parti  (v.  sentenza  n. 165/2003 e n. 46/2005); ma e' anche vero che
della  disparita'  eventualmente  introdotta in deroga all'equilibrio
imposto  dalla  norma  costituzionale il Legislatore e' tenuto a dare
una  giustificazione  che  risponda  a  criteri di ragionevolezza, la
quale   va   valutata  nella  prospettiva  della  tollerabilita'  del
sacrificio che la norma impone al principio del contraddittorio nella
parita'   delle   parti   rispetto  ad  altro  interesse  preminente,
costituzionalmente tutelato.
    La   disamina   delle   ragioni  quali  si  evincono  dai  lavori
preparatori  non  giustificano  -  ad  avviso  di  questa  Corte - il
sacrificio del principio che assicura il giusto processo.
    Non  possono,  infatti, essere invocate esigenze di accelerazione
dell'iter  processuale,  risolvendosi  la  scelta  legislativa  nella
evidente soppressione di un mezzo di impugnazione a danno di una sola
parte   processuale.   Tale   scopo  il  Legislatore  avrebbe  potuto
realizzare concretamente prevedendo la non impugnabilita' di tutte le
sentenze (di condanna o di proscioglimento) sia da parte del pubblico
ministero che da parte dell'imputato, in tal modo abolendo totalmente
il giudizio di appello.
    Una  simile  scelta, infatti, condivisibile o meno, sarebbe stata
compatibile  con  la Costituzione, la quale non garantisce un secondo
grado   del   giudizio   di  merito,  come  evidenziato  dalla  Corte
costituzionale  con  ordinanza n. 421/2001, e non avrebbe contrastato
con  l'art. 2  della  Convenzione  europea  per  la  salvaguardia dei
diritti   dell'uomo   e   delle  liberta'  fondamentali,  adottata  a
Strasburgo  il 22 novembre 1984, tenuto conto che la previsione di un
tribunale   superiore,  cui  fa  riferimento  la  normativa  europea,
prescinde  dalla  necessita' di un secondo giudizio di merito e resta
rispettata con la previsione del ricorso per cassazione gia' presente
nella  Costituzione  italiana  (in  tal  senso  sentenza  della Corte
costituzionale n. 288/1997).
    Non  ritiene  poi  la Corte che al fine di giustificare la scelta
del   Legislatore   si  possa  attribuire  rilievo  alla  particolare
posizione istituzionale del pubblico ministero all'interno del nostro
ordinamento, caratterizzata dal potere-dovere di ricercare in sede di
indagini  anche  le  prove  favorevoli  all'imputato e di operare una
valutazione  obiettiva  degli  elementi  a  carico  dello stesso, che
potrebbe indurlo a richiedere l'archiviazione o il proscioglimento.
    Questi rilievi, invero, restano superati nella fase d'appello, la
cui  proposizione presuppone la determinazione del pubblico ministero
di ottenere una sentenza di condanna nella maturata convinzione della
sussistenza di congrue prove a carico dell'imputato.
    E'  quindi  lo  stesso sistema che esige che il processo mantenga
una  posizione  di  equilibrato  contraddittorio  tra  le ragioni del
pubblico  ministero  e quelle della difesa dell'imputato, in modo che
nessuna  opportunita'  di  ricerca  della  verita'  venga  ad  essere
sottratta al giudizio.
    Un'ulteriore  dimostrazione  di  come il Legislatore abbia inteso
mortificare e limitare in maniera del tutto irragionevole le funzioni
della  pubblica accusa si rinviene nell'art. 576, comma primo c.p.p.,
come  modificato dall'art. 6 della legge n. 46/2006, laddove continua
ad  essere  riconosciuto  alla  parte civile il diritto di presentare
appello, sia pure ai soli effetti della responsabilita' civile, anche
contro  le sentenze di proscioglimento; mentre analoga facolta' viene
negata  al  pubblico ministero, portatore non di un interesse proprio
bensi' di istanze di legalita' e di difesa sociale.
    Ma  l'irrazionalita'  della  riforma  raggiunge  l'acme allorche'
continua  a  riconoscere  al  pubblico  ministero  la possibilita' di
proporre  appello in caso di condanna dell'imputato, al solo scopo di
ottenere  una  pena  diversa  da  quella  comminata.  In proposito e'
sufficiente  richiamare  le  obiezioni  espresse dal Presidente della
Repubblica  nel  messaggio  con  cui ha rinviato alle Camere la prima
versione   della   legge.  Nell'occasione  il  Capo  dello  Stato  ha
rappresentato    che    «le    asimmetrie   tra   accusa   e   difesa
costituzionalmente  compatibili  non debbono mai travalicare i limiti
fissati  dal  secondo  comma dell'art. 111 della Costituzione ... una
ulteriore  incongruenza  della  nuova  legge  sta  nel  fatto  che il
pubblico  ministero totalmente soccombente non puo' proporre appello,
mentre  cio'  gli  e'  consentito  quando la sua soccombenza sia solo
parziale, avendo ottenuto una condanna diversa da quella richiesta».
    Neppure  manifestamente  infondata  s'appalesa  la  questione  di
costituzionalita'  del  nuovo  art. 593  c.p.p.  con riferimento alla
dedotta  violazione  del  principio  di  obbligatorieta'  dell'azione
penale sancito dall'art. 112 Cost.
    Questo   Collegio   non   ignora   che   in  proposito  la  Corte
costituzionale,  dopo avere affermato con la sentenza n. 177/1971 che
«il  potere  di  impugnazione  del pubblico ministero costituisce una
estrinsecazione  ed un aspetto dell'esercizio dell'azione penale», ha
modificato il proprio orientamento, ritenendo che siffatto potere non
costituisce    manifestazione   dei   poteri   inerenti   l'esercizio
dell'azione penale (Sent. C.c. n. 206/1997; sent. C.c. n. 110/2003).
    A   tale   conclusione  i  Giudici  delle  leggi  sono  pervenuti
attraverso  l'esegesi  stessa  dei  lavori  preparatori  della  Carta
costituzionale  (resoconti  delle  sedute  della Commissione c.d. dei
settantacinque  e resoconti delle sedute dell'Assemblea costituente),
nei  quali  non  e'  dato  rinvenire  la benche' minima traccia di un
collegamento  tra  obbligo  di esercitare l'azione penale e potere di
impugnazione del pubblico ministero.
    Proseguendo  in questo indirizzo la Corte costituzionale ha anche
evidenziato  che  tutto  il  sistema  delle  impugnazioni  penali, in
particolare dell'appello, tanto sotto il codice abrogato quanto sotto
quello vigente, depone nel senso che il potere del pubblico ministero
di  proporre  appello avverso la sentenza di primo grado, anche se in
certe   situazioni   ne  possa  apparire  istituzionalmente  doveroso
l'esercizio,  non e' riconducibile all'obbligo di esercitare l'azione
penale,  come  comprovato  dai  due  istituti  dell'acquiescenza alla
sentenza  e  della  rinuncia al gravame senza obbligo di motivazione,
che  mal  si  concilierebbero  con  una costruzione dell'impugnazione
quale  estrinsecazione del principio dell'obbligatorieta' dell'azione
penale.
    Cio'  che  in  questa  sede  viene  auspicato  e'  che  la  Corte
costituzionale riveda la propria giurisprudenza sul punto.
    Le  prerogative  e  le  attribuzioni  istituzionali  del pubblico
ministero  sono  definite e precisate negli artt. 73 e 74 o.g. e sono
tenute   presenti  e  piu'  o  meno  espressamente  richiamate  dagli
artt. 102,  107,  108  e 112 della Carta costituzionale in materia di
giustizia.
    E'  indubbio  che quando l'art. 112 Cost. enuncia che il pubblico
ministero  ha  l'obbligo di esercitare l'azione penale faccia diretto
riferimento  alle  funzioni  a  tale Organo attribuite dai richiamati
artt. 73  e  74 o.g. Alla stregua di tali norme il pubblico ministero
ha,   tra   gli   altri  doveri  istituzionali,  quelli  di  vegliare
all'osservanza  delle  leggi,  di  assicurare  la  pronta  e regolare
amministrazione  della  giustizia,  di  promuovere la repressione dei
reati. Proprio in considerazione di tali precipue funzioni l'art. 112
Cost. gli fa obbligo di esercitare l'azione penale in piena autonomia
ed  indipendenza  da ogni altro potere (art. 104 Cost.). Nel definire
tale  obbligo  costituzionale  l'art. 74  o.g. recita che il pubblico
ministero  inizia  ed  esercita  l'azione  penale. E' chiaro che tale
norma   opera  una  evidente  distinzione  tra  inizio  ed  esercizio
dell'azione  penale  ed e' altrettanto chiaro che il primo termine si
riferisce  al momento dell'avvio dell'azione penale mentre il secondo
attiene  piu'  propriamente  al  suo  sviluppo  durante l'intero iter
processuale.
    Pertanto, poiche' lo stesso art. 112 Cost., cui l'art. 74 o.g. e'
direttamente collegato, obbliga il pubblico ministero ad «esercitare»
l'azione   penale,   e'   quantomeno   opinabile   che   tale  dovere
costituzionale   sia  limitato  soltanto  alla  fase  dell'avvio  del
procedimento  e  non  investa  invece tutto il processo, connotando e
qualificando l'attivita' del pubblico ministero sino all'accertamento
definitivo della verita' o comunque sino alla riparazione dell'ordine
giuridico  violato.  Cio' e' tanto vero che il codice di rito prevede
vari  momenti  di controllo afferenti l'esercizio dell'azione penale:
basti  accennare  alle  richieste  di  archiviazione  non  accolte  o
all'imputazione  coatta  ovvero  al  decreto  che dispone il giudizio
emesso  dal  giudice  dell'udienza  preliminare  pure a fronte di una
richiesta   di   proscioglimento   avanzata   dallo  stesso  pubblico
ministero.  Ne  deriva  che,  sebbene tale potere-dovere debba essere
esercitato nel rispetto delle regole dettate dalle leggi processuali,
esso,  appunto  perche'  promana  direttamente  dalla  Costituzione e
costituisce un'estensione dell'obbligo di repressione dei reati e del
dovere  di  vigilanza  sulla  pronta e regolare amministrazione della
giustizia,  intesa come valore costituzionalmente garantito, non puo'
essere  limitato  e  compresso  secondo  l'arbitrio  del  Legislatore
ordinario.
    Al  riguardo  non  e'  fuor  di  luogo  ricordare  che  la  Corte
costituzionale,   nell'affermare   la   legittimita'   costituzionale
dell'art. 443, comma terzo c.p.p., che preclude al pubblico ministero
di  appellare  le  sentenze  di  condanna  pronunciate  con  il  rito
abbreviato,  ha  motivato il rigetto dell'eccezione di illegittimita'
di  tale  norma  affermando  che  comunque  «la  sentenza di condanna
costituisce  la realizzazione della pretesa punitiva fatta valere nel
processo  attraverso  l'azione  penale»  (Sent. C.c. n. 363/1991). Ne
deriva  la  logica  conseguenza che se la «pretesa punitiva» e' stata
disattesa  da  una  sentenza  di  proscioglimento,  contrastano con i
principi   costituzionali   le  norme  che  impediscono  al  pubblico
ministero  di  esercitare  le  sue funzioni di controllo anche con lo
strumento dell'appello.