IL TRIBUNALE Esaminati gli atti del procedimento penale n. 801/06 r. g. Trib., nei confronti di Azara Omar, imputato del seguente: a) reato previsto e punito dall'art. 73, d. P.R. n. 309/1990, per avere illecitamente detenuto, al fine di cederli a terzi, grammi 72 circa di sostanza stupefacente del tipo hashish e per avere ceduto parte della stessa sostanza a Nativo Fabio e Vittoria Francesco; b) Reato previsto e punito dall'art. 14, comma 5-quater del d.lgs. n. 286/1998 perche', essendo stato colpito da decreto di espulsione dal territorio dello Stato, si faceva sorprendere in Santa Croce Camerina. Accertato in Santa Croce Camerina (RG) il 1° dicembre 2006. Con la recidiva specifica e reiterata nel quinquennio ex art. 99 c.p. Ritenuta ammissibile e rilevante nel predetto giudizio la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 69, comma quarto, del codice penale, nella parte in cui prevede che il giudice non possa operare il giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti nei confronti di un soggetto recidivo aggravato reiterato, e dell'art. 99, comma quarto, del codice penale, nella parte in cui rende obbligatorio un aumento fisso della pena per detta categoria di imputati; O s s e r v a 1) Sulla rilevanza della questione. In data 1° dicembre 2006, alle ore 12,30 circa, Azara Omar veniva colto nella flagranza del delitto di cessione di qualche grammo di sostanza stupefacente di tipo hashish, meglio precisato nel verbale di arresto. Tratto davanti al giudice monocratico per la convalida della misura precautelare per i delitti sopra menzionati, contestata, altresi', la recidiva specifica e reiterata, all'udienza del 4 dicembre 2006 il giudice convalidava l'arresto e, su richiesta del p. m., applicava nei confronti dell'arrestato la custodia cautelare in carcere. Disposto il giudizio direttissimo, dopo la lettura dell'imputazione contestata, l'imputato chiedeva un termine a difesa. Concesso il rinvio, all'udienza del 6 dicembre 2006, Azara Omar chiedeva la definizione del procedimento con il rito abbreviato. Il giudice ammetteva l'imputato al rito extradibattimentale prescelto, disponeva procedersi nelle forme dell'art. 421 e seguenti del c.p.p., ed invitava le parti alla discussione. Nel corso di quest'ultima fase del procedimento il difensore invitava il giudici a valutare la opportunita' della promozione di un giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 69 e 99 del codice penale, come modificati dalla legge n. 251/2005. Il giudice, ritenuta la ammissibilita' e rilevanza della questione, rinviava al 18 dicembre 2006. Le circostanze desumibili dal verbale di arresto e la parziale ammissione dei fatti resa dall'imputato in sede di interrogatorio di garanzia consentono di ritenere accertato in fatto l'episodio di cessione dell'hashish ai nominativi indicati in epigrafe. All'esito della discussione, il p.m. chiedeva affermarsi la penale responsabilita' dell'imputato e la conseguente condanna dello stesso alla pena di anni sei di reclusione, ed 26.000,00 di multa in ordine al reato sub a) ed a quella di anni uno di reclusione in ordine al delitto sub b). Il difensore dell'imputato chiedeva applicarsi il minimo della pena, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche. Dal certificato del casellario giudiziale emerge che l'imputato Azara Omar ha riportato una sentenza di applicazione della pena su richiesta per il delitto di furto, divenuta definitiva il 22 settembre 1998, nonche' una condanna per reati in materia di stupefacenti (art. 73, comma 5, d. P.R. n. 309/1990) alla la pena di otto mesi di reclusione e Lit. 5.000.000 di multa, reato commesso 1'11 marzo 2001, ritenuta la ipotesi di cui al comma 5 di quest'ultima norma; il 12 febbraio 2002 diventava irrevocabile la sentenza del Tribunale di Catania. Dal breve excursus svolto emerge la rilevanza, nel giudizio a quo, della questione di legittimita' costituzionale degli artt. 69 e 99 c.p. come recentemente modificati a seguito della legge n. 251/2005. Invero l'accertamento dei fatti emersi in dibattimento comporta la applicazione degli istituti della recidiva reiterata e del bilanciamento delle circostanze di cui all'art. 69 c.p. Per le concrete modalita' di commissione del fatto, per la modesta quantita' del principio attivo rinvenuto nella sostanza stupefacente (specialmente alla luce del decreto ministeriale 4 agosto 2006, che ha elevato i moltiplicatori della tabella allegata alla legge in materia di stupefacenti), appare indiscutibile, ad avviso di questo decidente, nel caso di specie, la applicazione della circostanza attenuante ad efficacia speciale di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990. Detta norma, come molte altre del cosiddetto testo unico in materia di stupefacenti, risulta modificata a seguito del recente intervento legislativo, avvenuto con decreto-legge n. 272/2005, convertito nella legge n. 49/2006. La pena prevista dal legislatore per dette ipotesi oscilla da uno a sei anni di reclusione, nonche' da 3.000,00 ad 26.000,00 di multa. Per la fattispecie base di cui al comma 1 dell'art. 73, d.P.R. cit., in virtu' della medesima recente novella del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, la disciplina sanzionatoria risulta uguale con riferimento sia alle droghe c.d. leggere (hashish e marijuana in primis), sia a quelle pesanti (ad esempio la cocaina), e prevede indistintamente la reclusione da sei a venti anni e la multa da 26.000,00 ad 260.000,00. A causa della contestata recidiva aggravata reiterata nei confronti dell'odierna imputato deve trovare applicazione, tuttavia, la disposizione di cui all'art. 99, comma 4, c.p. La considerazione della recidiva come circostanza inerente al colpevole comporta, altresi', la necessaria attuazione del giudizio di bilanciainento tra la circostanza attenuante di cui all'art. 73, comma 5, d. P.R. n. 309/1990 e la recidiva. L'art. 69, comma 4, c.p., modificato dalla legge n. 251/2005, recita: «Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle circostanze inerenti alla persona del colpevole, esclusi i casi previsti dall'articolo 99, quarto comma, nonche' dagli articoli 111 e 112, primo comma, numero 4), per cui vi e' divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti, ed a qualsiasi altra circostanza per la quale la legge stabilisca una pena di specie diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato». Non appare possibile, pertanto, operare il giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti nelle ipotesi di recidiva aggravata reiterata (art. 99, comma 4, c.p.). Quest'ultima disposizione comporta che, nel caso concreto, potendosi procedere soltanto ad un giudizio di equivalenza, questa Autorita' procedente non potrebbe irrogare una pena detentiva inferiore ad anni sei di reclusione ed 26.000,00 di multa. La diminuzione per il rito prescelto - scelta processuale volontaria, estranea ai limiti edittali di pena positivizzati dal legislatore - consentirebbe di attutire soltanto parzialmente il peso delle gravosissime sanzioni detentiva e pecuniaria. L'effetto derivante dalla applicazione delle due norme appare in contrasto con alcuni principi fondamentali sanciti dalla Carta costituzionale. 2) Sulla non manifesta infondatezza della questione e sul contrasto con le norme della Carta costituzionale. Questo Tribunale ritiene non manifestamente infondata la questione sotto i profili di seguito esaminati. Art. 3 della Costituzione. Ad avviso del decidente risulta chiaramente leso il principio di ragionevolezza, inteso come declinazione naturale del principio di uguaglianza. Lo status di recidivo, se puo' certamente rilevare ai fini di consentire una dose della pena calibrata alla indole del reo, al fine di meglio commisurare la sanzione alla personalita' del colpevole, secondo gli indici di commisurazione soggettiva della pena previsti dall'art. 133 c.p., non puo' giammai spingersi al punto da creare ingiustificate, illogiche e conclamate disuguaglianze tra imputati di medesimi reati, nonche' irrazionali scelte sanzionatorie tra categorie di persone (cfr. Corte cost. n. 218/1974; Corte cost. n. 26/1979, n. 103/1982 e 409/1989). Tale e', ad avviso dello scrivente, la disciplina derivante dal disposto degli artt. 69 e 99 del codice penale per le ipotesi di reati commessi da soggetti ai quali viene contestata la recidiva aggravata reiterata. La legge n. 251/2005, modificando dette norme, ed incidendo cosi' fortemente sulla disciplina del potere discrezionale del giudice di irrogare la pena, ha varcato il limite indefettibile tracciato dalla Corte costituzionale nelle sopra menzionate sentenze, ovvero che «il principio d'uguaglianza, di cui all'art. 3, primo comma, Cost., esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia, nel contempo, alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali; ed ha aggiunto che le valutazioni all'uopo necessarie rientrano nell'ambito del potere discrezionale del legislatore, il cui esercizio puo' essere censurato, sotto il profilo della legittimita' costituzionale, soltanto nei casi in cui non sia stato rispettato il limite della ragionevolezza» (Corte cost. n. 409/1989). Nel caso in esame il disposto sia dell'art. 69, comma quarto, del codice penale, sia dell'art. 99, comma quarto, del medesimo codice, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, risultano in contrasto con il parametro di cui all'art. 3 Cost. per le ragioni sopra dette e per quelle che meglio saranno evidenziate infra. Art. 25, comma 2 della Costituzione. Il sistema del diritto penale vigente nel nostro ordinamento giuridico e' improntato ai principi di materialita' e di offensivita' della condotta. Parametro costituzionale di detti principi e' l'art. 25, secondo comma, Cost., che positivizza al massimo livello normativo il principio di legalita' vigente in ambito penale e che sancisce una ineludibile e netta scelta di campo a favore delle teorie oggettive del diritto penale. «Nessuno puo' essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso»: il preciso dettato normativo vuole significare che il sistema penale intende punire soltanto singole e specifiche aggressioni di beni giuridici tutelati dall'ordinamento. Non e' volonta' del legislatore penale quella di perseguire la commissione di un fatto di reato in relazione al suo autore. Si e' parlato di diritto penale del fatto in contrapposizione a diritto penale dell'autore. Questa visione oggettivistica del diritto penale costituisce garanzia contro le incriminazioni degli atteggiamenti umani che lambiscono la sfera interna del soggetto ed altresi' strumento di uguaglianza formale e sostanziale. La centralita' degli elementi oggettivi del reato e la loro fondamentale importanza conducono a dovere valorizzare in modo preminente la condotta oggettiva ascritta all'imputato. Cio' non vuol dire trascurare i profili soggettivi del delitto e, a tal proposito, occorre esaminare la ratio della recidiva, come accolta dal nostro ordinamento. L'istituto, affermatosi dalla meta' del XIX secolo nelle democrazie liberali europee con la diffusione delle concezioni soggettivistiche del diritto penale, trovava ingresso anche nel codice Rocco. L'art. 99, invero, spezza l'equazione della predominante concezione classica reato - pena ancorata a profili rigorosamente retribuzionistici. La recidiva costituisce indice della maggiore capacita' a delinquere del reo e, per questo, rileva sia sotto il profilo retributivo, come aspetto della colpevolezza per il fatto, sia sotto quello preventivo, quale capacita' di nuovi reati. La ratio della norma, tuttavia, e' quella di far conseguire soltanto un aumento di pena nei confronti di detti soggetti, che mostrano una maggiore pericolosita' sociale. Ma cio' non puo' mai implicare il disancoramento della maggiore riprovazione giuridica della condotta posta in essere da persone, gia' condannate per altri reati, dal nuovo fatto delittuoso commesso successivamente al primo (o ai primi). Il codice Rocco, anche a seguito della riforma del 1974, ha previsto la facoltativita', la genericita' (ossia la applicazione della medesima anche per reati disomogenei) e la perpetuita' della recidiva. E la dottrina piu' accorta ha sempre evidenziato i rischi di dette caratteristiche, in quanto esse trascurano che il rimprovero da muovere al condannato deve essere contraddistinto dalla temporaneita', per poter essere meglio compreso e per assolvere la pena la sua funzione rieducativa. La genericita' della recidiva, inoltre, puo' diventare foriera di forti incongruita' in relazione alle diverse ipotesi di reato commesse. Ecco perche' la commisurazione della pena secondo gli indici oggettivi e soggettivi indicati dall'art. 133 c.p. consente di adeguare la sanzione al fatto, cosi' potendo il giudice, nell'esercizio del suo potere discrezionale, che riflette la liberta' e la necessita' di valutare la concreta fattispecie sulla quale deve decidere, irrogare al recidivo una pena piu' consistente, proprio in virtu' dell'art. 99 c.p. Ma impedire in modo assoluto la valutazione concreta della condotta posta in essere dal recidivo, ed agganciare alla condizione personale del reo per fatti compiuti dallo stesso in precedenza il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sussistenti nella fattispecie, ovvero imporre un obbligo fisso di aumento della sanzione (come nei caso del comma quarto dell'art. 99 del codice penale), vuoi dire intaccare profondamente il principio di materialita' del diritto penale, annichilendo i poteri del giudice in sede di determinazione della pena e, in definitiva, stringere «con occhiuta determinazione il cappio sanzionatorio intorno al collo del recidivo», come osservato di recente da autorevolissima dottrina. Nel caso concreto il divieto di prevalenza della circostanza attenuante della lieve entita' del fatto (art. 73, comma 5, d.P.R. 309/1990) comporterebbe, ove si riconoscesse la equivalenza tra le circostanze, la irrogazione di una pena detentiva minima di anni sei di reclusione ed 26.000,00 di multa per la detenzione e cessione di pochi grammi di hashish. La sproporzionata sanzione detentiva e pecuniaria appare lapalissiana ed il divieto succitato si traduce in una indebita mortificazione del principio di materialita' del diritto penale, oltre che di quello di uguaglianza e di ragionevolezza. La condotta posta in essere dall'imputato viene punita con una sanzione assolutamente non proporzionata alla gravita' del fatto e ad alle sue modalita' di realizzazione, nonche' al medesimo elemento psicologico che connota nel caso concreto il fatto delittuoso. A tal proposito appare opportuno, in questa sede (seppure piu' attinente all'art. 3 Cost.), evidenziare un ulteriore profilo di illegittimita' costituzionale della norma per gli effetti che essa e' in grado di cagionare. La mancata modifica dell'art. 74 d.P.R. n. 309/1990 da parte della legge n. 49/2006, in particolare del comma 6 della citata norma, determina, invero, inspiegabili ed ingiustificate disparita' di trattamento sanzionatorio all'interno del medesimo testo unico per gli stupefacenti per fatti di reato il cui disvalore giuridico appare notevolmente diverso. «Nella ipotesi di associazione per fatti di lieve entita' - art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990 - vi e' una vera e propria configurazione autonoma di reato. Infatti l'art. 74, comma 6, non prevede una semplice riduzione di pena rispetto alle ipotesi associative piu' gravi previste in detto articolo - commi 1 e 2 - ma opera un generale richiamo all'art. 416 c.p., che non puo' considerarsi soltanto un richiamo quoad poenam. Il legislatore, tenuto conto del minore allarme sociale suscitato da tali fatti e della minore pericolosita' degli autori delle condotte previste dall'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990, ha voluto riqualificare l'associazione dedita allo spaccio di sostanze stupefacenti per i fatti di lieve entita' di cui all'art. 73, comma 5, come una semplice ipotesi di associazione per delinquere prevista dall'art. 416 c.p.» ( cosi' Cass. 16 marzo 2000 n. 1483, De Santis, in Ced Cass. rv. 216045). Orbene nel caso in esame la condotta dell'imputato per un episodio di cessione di qualche grammo di hashish sarebbe punita con la pena della reclusione non inferiore a sei anni e fino a venti, a causa della natura circostanziale dell'ipotesi di cui al comma 5 dell'art. 73 d.P.R. n. 309/1990 e del divieto di prevalenza di detta circostanza, mentre la condotta del partecipe o del promotore di una associazione dedita al narcotraffico, anche di sostanze stupefacenti pesanti, per fatti di lieve entita', e' punita rispettivamente con la reclusione da uno a cinque anni e da tre a sette anni. Il medesimo imputato recidivo reiterato, dunque, se avesse commesso la piu' grave ipotesi delittuosa del delitto associativo previsto dall'art. 74, comma 6, d.P.R. n. 309/1990, sarebbe stato passibile di una pena che non superava l'entita' di anni sette di reclusione (nel caso di promozione o costituzione od organizzazione del sodalizio) ovvero di anni cinque (nel caso di mera partecipazione). La irragionevolezza della differenza del trattamento sanzionatorio nella medesima normativa in materia di stupefacenti e' talmente evidente, da comportare un ulteriore profilo di censura della medesima sotto il profilo dell'art. 3 Cost. Art. 27 della Costituzione. La modificazione normativa degli artt. 69, comma 4, e 99, comma quarto, del codice penale prospetta innumerevoli dubbi di legittimita' costituzionale con riferimento al principio di rieducazione della pena. La funzione risocializzante della sanzione verrebbe totalmente annullata dal divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti nelle ipotesi in cui autore del fatto sia un recidivo reiterato aggravato. Il principio di proporzionalita' tra reato e pena e' un postulato del principio di legalita' e di offensivita' della condotta penalmente sanzionata. Impedire il giudizio di prevalenza tra circostanze attenuanti ed aggravanti in ipotesi di reati commessi da recidivi reiterati significa ignorare la concreta lesivita' della condotta posta in essere ed infliggere al prevenuto una pena soltanto (rectius: prevalentemente) per la sua condizione personale e non per la effettiva gravita' del fatto, per la intensita' del dolo manifestato nella successiva condotta, per le concrete modalita' di realizzazione. E cio' anche nelle ipotesi, come quella in esame, in cui l'imputato ha commesso in precedenza piu' fatti delittuosi della stessa specie ed indole di quello per cui e' processo. Non viene cosi' salvaguardata nessuna delle istanze sottese alla irrogazione della pena al colpevole. Non quella retribuzionistica, in quanto, al contrario, verrebbe totalmente trascurata la componente oggettiva del fatto. Non quella della prevenzione generale in quanto, anche per essa, la dottrina ritiene parametro indefettibile la adeguatezza della sanzione, atteso che anche pene troppo severe, seppure suscitino timore, non rafforzano la coscienza giuridica dei consociati e possono, viceversa, rivelarsi criminogene. Non, infine, quella della prevenzione speciale, in quanto anche il piu' incallito criminale non comprenderebbe il significato di una pena totalmente sproporzionata in relazione al fatto commesso. Il divieto di prevalenza delle attenuanti rileva anche sotto ulteriore profilo, gia' evidenziato dai primi autorevoli commentatori della legge c.d. ex Cirielli. Se la finalita' del giudizio di comparazione tra le circostanze e' quella di apprezzare in modo pieno e completo la personalita' del colpevole e la vera entita' del fatto (cfr. Cass. 28 giugno 2005, Matti), la regola posta dall'art. 69, comma 4, del codice penale puo' determinare un «appiattimento del trattamento sanzionatorio per situazioni completamente diverse». il giudizio di equivalenza si imporrebbe anche in presenza di plurime circostanze attenuanti, anche di quelle autonome o indipendenti, come nel caso in esame, e cio' comporterebbe delle ingiustificate discriminazioni anche tra recidivi reiterati, atteso che tutti meriterebbero il medesimo trattamento. L'impossibilita' di operare il giudizio di prevalenza tra circostanze puo', infine, ostacolare una condotta di resipiscenza del condannato, che non avrebbe stimolo alcuno, invero, a porre in essere condotte riparatorie o risarcitorie post factum (ad esempio quelle di cui all'art. 62, n. 6, cod. pen.). Ne' possono sottovalutarsi le considerazioni svolte a proposito della ingiustificata diversita' di trattamento sanzionatorio nei casi di associazione finalizzata a fatti di lieve entita' in materia di stupefacenti. L'attuale stato della normativa, per quanto sopra detto, invoglierebbe il recidivo abituale e reiterato a partecipare a detti sodalizi criminosi, anche con il ruolo di promotore ed organizzatore, con la certezza di subire, nel caso di condanna, un migliore trattamento sanzionatorio. L'aumento «notarile» della pena previsto dalla nuova disposizione dell'art. 99, comma 4, c.p., infine, annullando ogni discrezionalita' nell'esercizio della funzione giurisdizionale, impedisce ulteriormente l'adeguamento della pena al fatto e dimostra un totale disinteresse dello Stato nella finalita' di rieducazione e risocializzazione del reo.