LA CORTE DI APPELLO

    Ha  pronunciato  la  seguente ordinanza nel procedimento penale a
carico  di Leoni Antonietta, nata a Sassari il 17 giugno 1952, difesa
dall'avv.  Fabrizio  Bonfante  del  foro  di Cuneo, la quale in primo
grado, giudicata con sentenza in data 30 maggio 2006 dal Tribunale di
Torino,  e' stata dichiarata responsabile del reato a lei ascritto e,
concessa   l'attenuante   di   cui   all'art. 73,   comma  5,  d.P.R.
n. 309/1990,  e'  stata  condannata, valutata la diminuente del rito,
alla  pena  di  anni quattro di reclusione e 18.000,00 euro di multa,
oltre  al pagamento delle spese processuali e di mantenimento durante
la custodia cautelare;
    Premesso  che  all'imputata  nel presente giudizio e' ascritto il
reato  di  cui  all'art. 73,  commi  1  e  1-bis, d.P.R. n. 309/1990,
perche',  senza  l'autorizzazione  di  cui  all'art. 17 e fuori dalla
ipotesi  previste  dall'art. 75  stessa  legge,  cedeva, distribuiva,
commerciava,  procurava ad altri, consegnava e comunque illecitamente
deteneva  ad  evidente  fine  di  messa  in  vendita  e commercio, un
involucro  termosaldato  contenente  grammi 9,9703 netti di eroina in
pietra,   sostanza   stupefacente   di   cui  alla  tab.  I  prevista
dall'art. 13,  comma  1 e 14 della legge medesima; commesso in Torino
in  data  16  maggio  2006;  con  la recidiva specifica, reiterata ed
infraquinquennale;
    Rilevato  che il difensore dell'imputata ha presentato tempestivo
appello  avverso  la sentenza pronunciata in primo grado richiedendo,
tra l'altro, che la pena sia contenuta nei minimi edittali;
    Rilevato  che  e' stata pertanto fissata udienza innanzi a questa
sezione  della  Corte di appello per la trattazione dell'appello come
sopra proposto;
    Sentite  le  parti comparse nell'udienza odierna, concludenti, il
p.g.,  per  la  conferma  della  sentenza appellata e, la difesa, per
l'accoglimento dei motivi dell'appello;

                        Osserva quanto segue

    1.   -   Il  difensore  dell'imputata  invoca,  tra  l'altro,  il
riconoscimento  delle  attenuanti  generiche  e comunque la riduzione
della  pena  che  e'  stata irrogata in primo grado alla prevenuta in
forza  della prevalenza sulla recidiva che vorrebbe vedere attribuita
all'ipotesi  attenuata  prevista  dall'art. 73,  quinto comma, d.P.R.
n. 309/1990.
    La  richiesta  cosi'  formulata,  tuttavia,  e'  evidentemente in
contrasto  con  la  previsione  dell'art. 69, quarto comma c.p., come
modificato  dall'art. 3  della  legge  n. 251/2005,  nel punto in cui
stabilisce   che  vi  e'  divieto  di  prevalenza  delle  circostanze
attenuanti  sulle  ritenute  circostanze aggravanti. Infatti, come la
sentenza  appellata  non  ha  mancato  di rilevare nella motivazione,
stante  l'espresso  divieto  di  prevalenza  delle  attenuanti  sulle
ritenute  circostanze  aggravanti  stabilito per i recidivi reiterati
dall'art. 69,  quarto  comma  c.p. (cosi' come modificato dall'art. 3
della  legge  5  dicembre  2005,  n. 251),  nel caso che ne occupa il
giudizio  di  bilanciamento  con la recidiva non puo' andare oltre la
mera   equivalenza.   Poiche'   la   volonta'   del   legislatore  e'
indubbiamente  nel  senso  indicato nella motivazione ora richiamata,
non  e'  quindi  consentito  aderire  alla  richiesta della difesa di
formulare   il   giudizio   di  prevalenza  dell'attenuante  prevista
dall'art. 73,  quinto  comma,  d.P.R  n. 309/1990, - eventualmente in
unione  con  le pure richieste attenuanti generiche, - sulla recidiva
che  la  sentenza  emessa  in  primo  grado  ha  ritenuto fosse stata
correttamente contestata.
    Conseguentemente,    dal   menzionato   divieto   di   prevalenza
dell'attenuante  ad  effetto  speciale  dell'art. 73,  quinto  comma,
d.P.R.  n. 309/1990,  sulla  recidiva  discendono l'impossibilita' di
riformare   in   senso  favorevole  all'imputata  la  valutazione  di
equivalenza  della  citata attenuante con la recidiva e la necessita'
di  irrogare la pena nella misura indicata dall'art. 73, primo comma,
d.P.R.  citato,  di  gran  lunga  piu' elevata di quella prevista dal
quinto  comma  della  stessa  disposizione (basti pensare che la pena
detentiva  prevista  dal  primo comma dell'art. 73 e', nel minimo, di
sei anni di reclusione, mentre quella prevista dal quinto comma della
stessa  disposizione e' invece, sempre nel minimo, pari ad un anno di
reclusione,   per   rendersi  conto  della  sensibile  differenza  di
trattamento   che   scaturisce  dal  divieto  di  prevalenza  sancito
dall'art. 69,  quarto  comma  c.p.,  come novellato dall'art. 3 della
legge n. 251/2005).
    Orbene,  secondo  questa  Corte,  non e' manifestamente infondato
sostenere  che  il  limite  posto dal divieto di cui in premessa alla
possibilita'  di  calcolare  il  trattamento sanzionatorio sulla base
della  prevalenza  alle attenuanti appare in contrasto con i principi
che  si ricavano dall'interpretazione combinata degli artt. 27, terzo
comma,  25, secondo comma e 3 della Carta costituzionale, vale a dire
con    i   principi   della   finalita'   rieducativa   della   pena,
dell'offensivita' del reato e, in diretta correlazione con i principi
prima  indicati,  della proporzionalita' e della ragionevolezza della
pena.
    In   effetti,  la  tesi,  prospettata  dalla  difesa  nei  motivi
dell'appello,  secondo  cui la previsione dell'art. 73, quinto comma,
d.P.R.  n. 309/1990, integrerebbe una fattispecie autonoma di reato e
non  un'attenuante ad effetto speciale, si pone in contraddizione con
l'insegnamento   di   numerose   pronunce   della  giurisprudenza  di
legittimita'  (si vedano, tra altre, Cass. pen., sez. IV, 18 novembre
1995,  n. 2611;  Cass.  pen., sez. IV, 1° giugno 1992, n. 3914; Cass.
pen.,  sez.  IV,  11  luglio  1991,  n. 356;  Cass. pen., sez. VI, 20
settembre  1991,  n. 10278;  Cass.  pen., sez. unite, 31 maggio 1991,
n. 9148: tutte concordi nel ritenere che si tratti di una circostanza
attenuante  ad  effetto speciale, anziche' di una distinta ipotesi di
reato). Non puo' percio' essere accolta.
    Inoltre,  non pare si possa affermare che sarebbe sufficiente che
il  giudice  di  merito  decidesse  di  non tenere nessun conto della
recidiva  nel  calcolo della pena per vanificare il divieto stabilito
dall'art. 69,  comma  quarto  c.p.,  sul presupposto che l'aumento di
pena  che  dipende  dall'applicazione  della  recidiva  reiterata  e'
oggetto  di una scelta discrezionale del giudice. Infatti, il divieto
in questione e' stabilito con riguardo all'ipotesi che le circostanze
aggravanti siano ritenute. La formulazione lessicale usata (ritenute)
consente,  percio',  di  presumere  che e' sufficiente che il giudice
accerti  che  sussistono  le condizioni che sono previste dalla legge
per  ritenere  corretta  la  contestazione  della  recidiva reiterata
perche'  il  divieto  stesso  divenga per lui vincolante, sebbene sia
orientato,  nell'esercizio della sua discrezionalita' nel determinare
la  pena,  a  non  applicare  l'aumento  di pena che e' connesso alla
recidiva contestata.
    D'altro  verso,  non  si  puo'  accogliere  il  diverso indirizzo
ermeneutico  in  forza  del  quale  il giudice di merito, operando in
analogia  con  l'interpretazione  che  e' stata adottata con riguardo
alla  circostanza  aggravante di cui all'art. 1, terzo comma, legge 6
febbraio  1980,  n. 15,  non  e'  tenuto  ad inserire nel giudizio di
comparazione,  in  conformita'  alla  disposizione dell'art. 69 c.p.,
tutte  le  circostanze  aggravanti ed attenuanti che ravvisa, ma puo'
operare la comparazione soltanto tra le circostanze diverse da quella
che  gode di una particolare protezione, applicando prima la pena che
consegue  al  giudizio  di  comparazione  tra  le altre circostanze e
procedendo  poi  all'aumento  di pena per quest'ultima aggravante. In
senso  contrario  e'  dato  opporre  che  la norma dell'art. 1, legge
6 febbraio 1980, n. 15, ora richiamata, oltre a sancire il divieto di
prevalenza  e di equivalenza delle circostanze attenuanti (diverse da
quelle di cui agli artt. 98 e 114 c.p.) rispetto all'aggravante della
finalita'  di terrorismo, prescrive che le diminuzioni di pena per le
attenuanti si operano sulla quantita' di pena risultante dall'aumento
conseguente alle predette aggravanti e percio' fornisce l'indicazione
di  valutare l'incidenza delle attenuanti sul calcolo della pena dopo
che  sia  stato  applicato  l'aumento  che  dipende  dall'aggravante,
mentre,  nel caso che costituisce oggetto della presente discussione,
la  norma  in esame non e' formulata in termini assimilabili a quelli
usati  per  l'aggravante  della finalita' di terrorismo. Pertanto nel
caso  di  specie  non  ci  si  puo'  discostare dalla regola generale
dettata dall'art. 69, comma quarto c.p., come novellato, che, dunque,
costituisce  una  deroga  alla  disposizione  stabilita dall'art. 63,
terzo   comma  c.p.  E',  in  altre  parole,  chiara  intenzione  del
legislatore  di introdurre, per i casi come quello di cui si dibatte,
il  divieto  per  il  giudice  di  merito di operare l'aumento per la
recidiva  sulla pena che sia stata preventivamente diminuita in forza
del  riconoscimento  dell'attenuante  prevista  dall'art.  73, quinto
comma, d.P.R. n. 309/1990.
    Si  pone a questo punto il quesito che chiede di verificare se la
disposizione  dell'art. 69, quarto comma c.p., interpretata nel senso
ora  chiarito,  e'  coerente  con  i  principi  dettati  dalla  Carta
costituzionale  in  tema di pena. E discende dalle osservazioni prima
esposte,   in  virtu'  di  un'inferenza  caratterizzata  da  rigorosa
plausibilita',  che  si tratta di un'indagine rilevante ai fini della
decisione   poiche'  e'  destinata  a  riflettersi  sull'entita'  del
trattamento sanzionatorio.
    2. - Questo giudice, come gia' anticipato, ritiene che i principi
che  devono essere presi in esame nella presente analisi siano quello
che assegna alla pena la funzione rieducativa stabilito dall'art. 27,
terzo  comma  Cost.  e  quello  della  proporzionalita'  della  pena,
ricavato dal principio della necessaria offensivita' del reato che si
evince   dall'art.  25,  secondo  comma  Cost.  e  dal  principio  di
ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. Soccorre al riguardo l'analisi
che segue.
    2.1.  - Sotto il profilo che concerne la funzione rieducativa che
viene attribuita dall'art. 27, terzo comma Cost. alla sanzione penale
non  si  puo',  infatti,  evitare  di rilevare che la norma ordinaria
della  cui  legittimita'  costituzionale  si  controverte  pone  alla
discrezionalita'  del  giudice  un  limite nella determinazione della
pena  che  deve  essere inflitta al colpevole che in questo caso trae
origine  essenzialmente  da  una  qualita' personale (quella cioe' di
essere  stato  gia'  condannato  almeno due volte per delitto) che e'
considerata indipendentemente dalla gravita' del fatto che l'imputato
ha  commesso  e  per  cui egli viene condannato. L'irrogazione di una
sanzione  che  si  caratterizza,  come  nel  caso  di specie, per una
notevole  severita',  e soprattutto non e' in diretto rapporto con la
gravita'  del  fatto  commesso, appare, pertanto, in contrasto con il
criterio,   al   quale   peraltro   e'   stato   riconosciuto  valore
costituzionale,  della finalita' rieducativa della pena: criterio che
non  dovrebbe  soltanto  guidare  il  giudice,  ma anche orientare le
scelte  compiute dal legislatore. E', infatti, ovvio che una pena che
l'imputato  e' portato a ritenere sproporzionata per eccesso rispetto
all'effettiva  gravita' del fatto di cui egli si e' reso responsabile
non  adempie  alla  funzione  di risocializzazione che e' chiamata ad
assolvere  perche'  viene  da  costui  soggettivamente percepita come
iniqua e genera percio' dei sentimenti di ripulsa e di ribellione.
    L'osservazione  ora  svolta  vale,  a  maggiore ragione, se, come
accade  appunto  nella fattispecie in esame, il divieto di prevalenza
delle  circostanze  attenuanti si estende ad un'attenuante ad effetto
speciale, quale e' quella prevista dall'art. 73, quinto comma, d.P.R.
n. 309/1990.  Infatti,  in  questo  caso  lo  stesso  legislatore  ha
ritenuto,  sulla  scorta  di  una previsione generale ed astratta, di
valutare  come  accentuatamente  lieve  la  lesivita'  della condotta
tenuta  dall'agente,  fino  al punto di prevedere una pena base molto
piu'  mite  di  quella  che  invece  e'  prevista  per  il  reato non
attenuato.  Cio'  nondimeno,  con  la modifica del testo dell'art. 69
quarto  comma  c.p., ha escluso che detta attenuante, nel giudizio di
correparazione con la recidiva reiterata, possa assolvere la funzione
di diminuire la pena.
    Non  e'  fuori luogo porre in rilievo che la giurisprudenza della
Corte  di  cassazione  ha  chiarito,  al  riguardo,  che l'attenuante
speciale  prevista dall'art. 73, comma quinto, d.P.R. 9 ottobre 1990,
n. 309,  per  i reati di produzione e traffico di stupefacenti, trova
applicazione  quando  la fattispecie concreta risulti di trascurabile
offensivita',  sia  per  l'oggetto  materiale del reato, in relazione
alle  caratteristiche  qualitative e quantitative della sostanza, sia
per   la  condotta,  riferibile  ai  mezzi,  alle  modalita'  e  alle
circostanze  della stessa (cosi' inter plures Cass. pen., sez. IV, 24
febbraio  2005,  n. 20556;  Cass.  pen.,  sez.  IV, 21 dicembre 2004,
n. 10211; Cass. pen., sez. un., 21 giugno 2000, n. 17).
    La   constatazione   che,   nonostante  il  riconoscimento  della
trascurabile   offensivita'  del  fatto  commesso,  la  pena  che  in
definitiva viene irrogata al soggetto colpevole di un fatto giudicato
di  lieve  entita'  e'  equivalente  a  quella,  molto  piu' elevata,
prevista  per  il  fatto  dotato  di  ordinaria  offensivita'  di cui
all'art.  73,  primo  comma, d.P.R. citato appare, con ogni evidenza,
suscettibile   di   generare   delle   conseguenze   negative   sulla
possibilita' che essa sia realmente idonea a tendere, nell'ipotesi in
esame, alla rieducazione del condannato.
    Per  questo  motivo  appare, dunque, in special modo importante e
non  eludibile  la  necessita'  che  il  giudice  non  venga limitato
nell'esercizio  del  potere  discrezionale  di  valutare  l'incidenza
dell'attenuante  ad  effetto speciale sulla misura della pena e possa
tenere  conto  a  questo  fine  di  ogni  peculiarita' della concreta
fattispecie  sottoposta  al suo vaglio, attribuendo in particolare un
rilievo  non  marginale,  ove  del caso, alla lieve entita' del fatto
prevista   dall'art.   73,   quinto   comma  d.P.R.  n. 309/1990.  La
valutazione  del  legislatore  che,  sulla base della considerazione,
elaborata  una  volta  per  tutte,  della preminente importanza di un
elemento  di  ordine eminentemente personologico qual e' la recidiva,
invece  intende  vietare in modo categorico al giudice di ritenere la
prevalenza   dell'attenuante,  appare  percio'  in  palese  contrasto
nell'ipotesi in cui sia riconosciuta la tenue offensivita' del fatto,
considerato  questo  sia  sotto l'aspetto oggettivo, sia sotto quello
soggettivo.  Pare  integrare,  per  questo motivo, una violazione del
principio costituzionale della finalita' rieducativa della pena.
    2.2.  -  Il divieto di ritenere la prevalenza delle attenuanti ad
effetto   speciale   sulla  recidiva  reiterata  implica  anche,  con
particolare  riferimento all'attenuante prevista dall'art. 73, quinto
comma,  d.P.R.  n. 309/1990, una paventabile violazione del principio
della  necessaria proporzionalita' tra la pena concretamente inflitta
ed  il  fatto  commesso,  desunto  come  corollario  del principio di
offensivita' del reato e di quello della ragionevolezza della pena.
    E'  noto  che la Corte costituzionale ha riconosciuto che, pur in
assenza  di una norma che lo contempli espressamente, il principio di
offensivita'  (nullum crimen sine iniuria) ha valenza costituzionale.
Ha,  infatti, ritenuto che il principio della necessaria offensivita'
del  reato  costituisce  un vincolo non soltanto per l'interprete, ma
anche per il legislatore, avendo affermato, con sentenza n. 519/2000,
che  esso  opera  sia  sul terreno della previsione normativa, sia su
quello  dell'applicazione  giudiziale.  La stessa Corte, con sentenza
n. 360/1995, ha, inoltre, sottolineato che si tratta, in primo luogo,
di  un  limite  di  rango  costituzionale  alla  discrezionalita' del
legislatore  ordinario,  a cui fa riscontro il compito del giudice di
accertare  in  concreto, nel momento applicativo, se il comportamento
posto in essere lede effettivamente l'interesse tutelato dalla norma.
Coerentemente  con  tale  impostazione  ha  parlato,  nella pronuncia
n. 263/2000, di un ininterrotto operare del principio di offensivita'
dal    momento    dell'astratta   previsione   normativa   a   quello
dell'applicazione concreta da parte del giudice.
    Sul  punto  la  dottrina  ha  prevalentemente  osservato  che  il
principio trova radice nella formulazione dell'art. 25, secondo comma
Cost.,  poiche'  l'uso  della  locuzione  fatto  (nessuno puo' essere
punito  se  non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima
del  fatto  commesso)  e'  incompatibile  con  il  riferimento a meri
atteggiamenti   interiori   ed   a   meri  sintomi  di  pericolosita'
individuale,  poiche'  intende  che  siano  punite condotte materiali
connotate dall'essere offensive. Altri referenti normativi sono stati
variamente   individuati:   nell'art. 27,   terzo  comma  Cost.  che,
assegnando  alla  condanna  il  fine di tendere alla rieducazione del
condannato,   presuppone   che  quest'ultimo  percepisca  nitidamente
l'antigiuridicita'  del  proprio  comportamento  e  comporta  che  la
condanna  per  violazioni  di doveri ai quali non corrisponde nessuna
offesa sia destinata a vanificare la funzione rieducativa della pena;
nell'art. 13   Cost.   che  tutela  la  liberta'  personale,  poiche'
l'irrogazione  di  una  pena  limitativa del bene della liberta' puo'
essere  concepita  solo  come reazione ad una condotta che offende un
bene  di uguale rango; nell'art. 21 Cost. che tutela ogni agire umano
come  forma  di libera espressione del pensiero, sicche' la punizione
di  meri  comportamenti  inoffensivi,  benche' corrispondenti al tipo
normativo, concreterebbe un'arbitraria compressione della liberta' di
pensiero.
    E',  dunque,  indiscutibile  che  il principio invocato trova una
molteplice   matrice   costituzionale.  Tuttavia  il  riferimento  al
principio  enunciato  dall'art.  25,  secondo  comma  svolge, in tale
quadro,  il ruolo piu' significativo. In perfetta coerenza con questa
impostazione   la   Corte   costituzionale,   nella  citata  sentenza
n. 263/2000,  ha  espressamente  fatto  rinvio,  appunto, all'art. 25
Cost.  quando  ha  affermato  che  esso  postula,  come gia' esposto,
l'ininterrotto  operare  del  principio  di  offensivita' dal momento
dell'astratta   previsione   normativa   a  quello  dell'applicazione
concreta   da   parte   del  giudice.  Analogamente,  nella  sentenza
n. 354/2002,   ha   ribadito  che  il  limite  alla  discrezionalita'
legislativa   in   materia   penale   costituito   dal  principio  di
offensivita' e' desumibile dall'art. 25, secondo comma Cost., nel suo
legame  sistematico  con  l'insieme dei valori connessi alla dignita'
umana.
    In  conclusione,  e'  certo  che  un  ordinamento che si ispira a
valori di laicita' e di tolleranza e riconosce ad ogni uomo un nucleo
di  diritti  inviolabili, tributando, nell'art. 3, primo comma Cost.,
pari  dignita'  sociale ed eguaglianza davanti alla legge a tutti gli
uomini, non puo' punire la mera disobbedienza, intesa come sintomo di
pura  pericolosita'  e  di individuale antisocialita', svincolate dal
collegamento  ad  un  fatto offensivo di un bene giuridico. E' questa
una  garanzia  irrinunciabile  in un ordinamento ispirato a valori di
liberta' e di uguaglianza e trova consacrazione nell'art. 25, secondo
comma della Carta costituzionale.
    Cio'  premesso, e' dato ricavare dall'elaborazione compiuta dalla
giurisprudenza  della  Consulta  che il principio di offensivita' non
puo' non essere inteso in necessaria correlazione con il principio di
proporzionalita'  della  pena  all'offesa  prodotta in danno del bene
giuridico protetto, interpretato alla luce del fondamentale principio
di ragionevolezza (art. 3 Cost.).
    La  Corte  costituzionale ha, infatti, piu' volte chiarito che la
pena   edittale   non   puo'   mancare   di   essere  necessariamente
proporzionata  al  grado  di  offesa  realizzato  dalla  condotta del
colpevole.  In  conformita'  con  questa  impostazione,  invocando il
principio  di  ragionevolezza,  ha  ammesso  il sindacato delle norme
penali   che  prevedono  sanzioni  non  proporzionate  all'intensita'
dell'offesa  arrecata  sotto  il  profilo che ha ricavato dall'art. 3
Cost.,  laddove  ha ribadito che la pena deve essere proporzionata al
disvalore del fatto illecito. Sviluppando con chiarezza questa stessa
linea   interpretativa,   nella   sentenza   n. 341/1994,   ha,   con
significativa  enunciazione,  espressamente  affermato  che,  pur non
spettando  alla Corte di rimodulare le scelte punitive effettuate dal
legislatore,  ne'  di  stabilire  quantificazioni  sanzionatorie,  le
rimane  il  compito  di  verificare  che l'uso della discrezionalita'
legislativa  in  materia rispetti il limite della ragionevolezza e il
principio   di   proporzionalita'  tra  qualita'  e  quantita'  della
sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra.
    Il punto di equilibrio tra il principio di legalita' e l'esigenza
di  individualizzazione  della  pena  in  cui,  dunque, si colloca il
principio  di  proporzionalita'  deve  indubbiamente essere ricercato
nella  predeterminazione,  per ogni singola ipotesi normativa, di una
cornice  di  pena,  vale  a  dire  di  un  minimo  e  di  un  massimo
edittalmente  previsti dal legislatore entro il quale il giudice deve
scegliere la sanzione che ritiene adeguata al caso concreto.
    La   Corte  costituzionale,  a  tale  riguardo,  ha  puntualmente
precisato,  con  pronuncia n. 131/1970, che il principio di legalita'
della  pena  non puo' prescindere dall'individualizzazione di questa,
ossia   non   puo'  prescindere  dal  suo  adeguamento  alle  singole
fattispecie.  Inoltre,  con sentenza n. 50/1980, ha posto in evidenza
che l'individualizzazione della pena si pone come naturale attuazione
e  sviluppo  di  principi  costituzionali,  tanto  di ordine generale
(principio  di eguaglianza), quanto attinenti direttamente la materia
penale.  Con la stessa sentenza ha inteso, altresi', sottolineare che
l'adeguamento  delle  risposte punitive ai casi concreti - in termini
di uguaglianza e/o di differenziazione di trattamento - contribuisce,
da   un   lato,   a   rendere  quanto  piu'  possibile  personale  la
responsabilita'  penale nella prospettiva segnata dall'art. 27, primo
comma; e nello stesso tempo e' strumento per una determinazione della
pena    quanto   piu'   possibile   finalizzata   nella   prospettiva
dell'art. 27,   terzo   comma   Cost.   Ha,  pertanto,  concluso  che
l'uguaglianza di fronte alla pena viene a significare, in definitiva,
proporzione  della  pena  rispetto  alle personali responsabilita' ed
alle esigenze di risposta che ne conseguono.
    L'intento  di  assicurare  la  proporzionalita'  della  pena  non
esclude,   per   altro   verso,   che  il  dubbio  di  illegittimita'
costituzionale  suscitato da una sanzione troppo rigida possa essere,
caso  per  caso,  superato  quando la previsione di una pena edittale
fissa  (o  comunque,  viene  fatto  di  soggiungere,  non modulata in
relazione   alla   particolarita'   del   caso   di   specie)  appaia
ragionevolmente   proporzionata  all'intera  gamma  di  comportamenti
riconducibili allo specifico tipo di reato. Ma, salva l'eccezione qui
menzionata, in linea di massima, stando alle statuizioni della Corte,
le  previsioni  sanzionatorie  connotate  da  eccessiva rigidita' non
appaiono in armonia con il volto costituzionale del sistema penale.
    Il profilo che nel caso di cui si discute appare, in particolare,
di dubbia compatibilita' con il criterio guida della proporzionalita'
della  pena, - che pure, si ripete, possiede un rango costituzionale,
essendo  correlato  al  principio  di  ragionevolezza  ed a quello di
offensivita', - e' rappresentato dal rilievo che il limite posto alla
discrezionalita'  del  giudice  nel  determinare  la  sanzione che e'
concretato  dal divieto di prevalenza delle attenuanti in generale, e
in  particolare  delle attenuanti ad effetto speciale, sulla ritenuta
recidiva   reiterata   non   viene   fatto   derivare   dal  grado  e
dall'intensita'  dell'offesa  che  il  fatto  arreca al bene protetto
dall'ordinamento,   bensi'  dalle  precedenti  condanne  dalle  quali
dipende  la  possibilita'  che sia ritenuta la recidiva reiterata. Si
delinea,  quindi,  il  pericolo che venga punita, ricorrendo al mezzo
rappresentato   dal  divieto  in  questione,  non  gia'  in  primo  e
principale    luogo   l'offesa   causata   al   bene   tutelato,   ma
prevalentemente  la  colpevolezza  per la condotta di vita tenuta dal
colpevole nel tempo che ha preceduto il fatto costituente reato.
    Ritiene  questa  Corte,  in  altre  parole,  che  la disposizione
esaminata   comporti   lo  spostamento  dell'accento  dagli  elementi
oggettivi  agli  elementi soggettivi e personalistici del reato e che
la  volonta' colpevole non sia intesa come il criterio vincolante per
l'attribuzione  all'imputato  della  responsabilita' di avere causato
offesa  ad  un  bene  giuridico protetto dall'ordinamento, ma come il
fondamento   principale  della  responsabilita'  penale  in  funzione
dell'intrinseca  attitudine  antisociale  della  persona  e della sua
pericolosita'  presunta,  ancorche' queste qualita' siano determinate
mediante   il   rinvio   agli  elementi  oggettivi  costituiti  dalle
precedenti  condanne.  Avverte  inoltre che affiora, sullo sfondo, la
tentazione di riesumare la figura del tipo di autore.
    Nel  caso  qui  analizzato  e',  in  special modo, fonte di forte
perplessita'  che  sia riconosciuto solo un risalto alquanto limitato
alla lieve entita' del fatto di cui all'art. 73, quinto comma, d.P.R.
n. 309/1990,  cioe'  alla  sua trascurabile offensivita', rispetto al
peso   preponderante   che  invece  viene  attribuito  alla  recidiva
reiterata,   dando   cosi'  luogo  ad  ingiustificate  ed  importanti
ripercussioni  sulla  misura  della  pena.  E  la  perplessita' viene
accresciuta  dal  rilievo  che la recidiva e' assunta dal legislatore
come  l'indice  sulla  scorta  del  quale  il  giudice deve presumere
obbligatoriamente  la  pericolosita'  del  soggetto senza che gli sia
lasciata  la  possibilita'  di sindacare l'attendibilita' in concreto
della  presunzione  formulata,  nonostante  questa  sia  destinata  a
riflettere drasticamente i suoi effetti sul trattamento sanzionatorio
applicato all'imputato.
    E',   pertanto,  dato  individuare,  nei  sensi  segnalati  nelle
osservazioni   che   precedono,   un   possibile   contrasto  tra  la
disposizione  esaminata  e le norme degli artt. 25, secondo comma e 3
della  Costituzione,  nella  parte  in  cui  la disposizione presa in
considerazione  prevede il divieto della prevalenza delle circostanze
attenuanti  ad  effetto speciale e, in particolare, della circostanza
attenuante  prevista  dall'art. 73, quinto comma, d.P.R. n. 309/1990,
sulla  ritenuta  recidiva  reiterata.  La  norma ordinaria oggetto di
valutazione  appare,  infatti,  in  conflitto  con il principio della
proporzionalita'  della pena che, come esposto, assurge a criterio di
primario  rango  costituzionale perche', a sua volta, e' strettamente
collegato  con  il  principio della necessaria offensivita' del fatto
costituente reato e con quello della ragionevolezza della pena.
    3.  -  La  questione di legittimita' costituzionale dell'art. 69,
quarto  comma  c.p.  prospettata  nelle  precedenti  osservazioni  e'
sicuramente  rilevante,  poiche' il presente giudizio non puo' essere
definito  indipendentemente  dalla  sua  risoluzione. Inoltre, per le
ragioni  illustrate,  non  si  puo' ritenere manifestamente infondata
sotto  il  duplice  profilo  del  contrasto  con  il  principio della
finalita'  rieducativa della pena e del contrasto con il principio di
proporzionalita'  della  sanzione  rispetto  all'offesa,  desunto dai
principi  di offensivita' del reato di cui all'art. 25, secondo comma
citato e di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.
    Deve,   dunque,   essere   sottoposta   al   vaglio  della  Corte
costituzionale.