IL TRIBUNALE
Esaminata la richiesta avanzata dai difensori di Barbuti
Vincenza, Manzo Maria e Cicalese Maria, imputati dei reati di cui
all'art. 368 c.p. nel processo penale n. 205/2001 R. G. Trib., di
emissione di sentenza di non doversi procedere per intervenuta
prescrizione; acquisito il parere contrario del p.m.; ha emesso la
seguente ordinanza di rimessione degli atti alla corte
costituzionale.
Premessa in fatto
La difesa degli imputati ha chiesto emettersi declaratoria di non
doversi procedere in ordine ai reati a questi ultimi ascritti per
intervenuta prescrizione: ed invero, prescindendo dalla eventuale
dichiarazione di apertura del dibattimento, resa irrilevante ai fini
dell'applicabilita' della nuova disciplina ai giudizi di primo grado
in corso dalla sentenza n. 393 del 2006 della Corte costituzionale,
invocando la nuova disciplina normativa introdotta dalla legge n. 251
del 2005, la difesa ha chiesto che fosse pronunciata l'estinzione per
intervenuta prescrizione in ordine ai fatti contestati
nell'imputazione (falsa testimonianza), commessi in data 8 marzo
1997, per il quale il termine massimo di prescrizione, alla stregua
della nuova normativa, e' di sette anni e sei mesi.
Rilevanza
Alla stregua di quanto premesso in fatto, dunque, emerge con
evidenza la rilevanza delle questioni di legittimita' costituzionale
che verranno esposte in prosieguo: al riguardo, infatti, giova
osservare che la richiesta avanzata all'odierna udienza imporrebbe
una sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione,
in applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 6, comma 1 e
comma 4 (che modifica i termini di prescrizione e l'efficacia degli
atti interruttivi) della legge n. 251/2005.
La risalenza dei fatti, del resto, impone a questo giudice di
sollevare autonoma questione di costituzionalita' - analoga sebbene
non identica, a quelle gia' sollevate da questo medesimo tribunale in
data 24 gennaio 2006 (presso la sezione distaccata di Cava de'
Tirreni), nel procedimento a carico di Degli Esposti Vittorio
(pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 26 del 28 gennaio 2006), e
13 febbraio 2006 (presso la Sezione distaccata di Amalfi), nel
procedimento a carico di Manzi Luigi - atteso che la questione
tuttora pendente non risulta ancora fissata sul ruolo d'udienza della
Corte costituzionale, e che pertanto appare opportuno deferire la
questione di costituzionalita' ai fine di sospendere il corso della
prescrizione, che altrimenti continuerebbe a maturare.
Rilevanza ed ammissibilita' del sindacato sulle norme penali di
favore
La prospettazione di profili di illegittimita' costituzionale
delle norme di favore contenute nella legge n. 251/2005 necessita
tuttavia di talune considerazioni preliminari in ordine alla
sindacabilita' delle norme penali in bonam partem, pena la
dichiarazione di inammissibilita' della questione sollevata per
irrilevanza.
Invero, le peculiarita' della materia penale - caratterizzata,
per quanto interessa in questa sede, dalla «tirannia dei principi» di
riserva di legge e di irretroattivita' - hanno determinato,
soprattutto in passato, un orientamento restrittivo della
giurisprudenza costituzionale, secondo cui il principio di
irretroattivita' della norma piu' sfavorevole al reo (artt. 25,
secondo comma, Cost., e 2 c.p.) imporrebbe una declaratoria di
inammissibilita' della questione concernente il sindacato di norme
penali di favore, necessariamente irrilevante, in quanto, anche
laddove ne fosse stata pronunciata l'incostituzionalita', non
avrebbero comunque potuto trovare applicazione nel giudizio a quo.
Sollecitata da un dibattito dottrinale che non mostrava adesione
al richiamato orientamento, tuttavia, la Corte costituzionale ha
inaugurato un diverso orientamento con una sentenza di ampio respiro,
che, per la consapevolezza palesata, puo' essere considerata la
leading decision in materia (in termini analoghi, cfr. le sentenze
nn. 167/1993, 194/1993 e 25/1994): sotto il profilo della rilevanza,
infatti, la sentenza n. 148 del 1983 (rel. Paladin) ha evidenziato
che «se e' vero che nessun soggetto puo' essere chiamato a rispondere
per un comportamento che all'epoca del fatto non costituiva reato,
anche se la relativa norma permissiva venga privata di efficacia ai
sensi dell'art. 136 della Costituzione, non per questo occorre
concludere che le questioni di legittimita' costituzionale di norme
penali di favore sono necessariamente irrilevanti», atteso che «un
eventuale accoglimento di un'impugnativa concernente tali norme si
rifletterebbe in ogni caso sul fondamento normativo della decisione
penale incidendo sulla sua ratio e produrrebbe modificazioni al
sistema normativo».
La Consulta, del resto, ha fondato l'essenzialita' di un
sindacato di costituzionalita' a tutto raggio sulla considerazione
che sottrarre le norme di favore, ovvero che inducano trattamenti
penali di favore nei confronti degli autori di reati, all'area del
sindacato di legittimita' costituzionale rischierebbe di creare delle
«sacche di impunita» e «di privilegi», proprio allorquando - e'
questo il caso della legge n. 251/2005 - le norme di favore vengano
introdotte in dispregio dei piu' elementari principi costituzionali,
e soprattutto di quello che la dottrina costituzionalistica ha da
tempo indicato come un «super-principio costituzionale» - il
principio di uguaglianza: «altro, infatti, e' la garanzia che i
principi del diritto penale-costituzionale possono offrire agli
imputati, circoscrivendo l'efficacia spettante alle dichiarazioni
d'illegittimita' delle norme di favore; altro e' il sindacato cui le
norme stesse devono pur sempre sottostare, a pena di istituire zone
franche del tutto impreviste dalla Costituzione all'interno delle
quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile (...) le
norme penali di favore fanno anch'esse parte del sistema, al pari di
qualunque altra norma costitutiva dell'ordinamento».
La sentenza richiamata, dunque, riveste una importanza
fondamentale per tentare un inquadramento corretto del problema della
sindacabilita' delle norme penali di favore, che, talvolta, ma non
sempre, si intreccia con il problema degli obblighi costituzionali di
tutela penale.
Le argomentazioni della Corte, infatti, forniscono gli
appropriati strumenti concettuali per distinguere i piani di
operativita' dei principi «penalistici» coinvolti - il principio di
riserva di legge ed il principio di irretroattivita': in particolare,
viene spostato il rilievo attribuito al principio di
irretroattivita', che da criterio processuale di irrilevanza delle
questioni in malam partem assume la corretta dimensione di criterio
sostanziale, in grado di condizionare, anche dopo l'eventuale
accoglimento della questione di incostituzionalita', lo schema
argomentativo della decisione del giudice a quo (condizionandone la
ratio decidendi, ovvero la formula di proscioglimento), che,
comunque, dovra' rispettare la regola dell'irretroattivita' della
legge piu' sfavorevole.
Cio' che invece viene ribadito e' il limite derivante al
sindacato della Corte costituzionale dal principio di riserva di
legge, che impedisce l'adozione di sentenze di accoglimento in grado
di creare nuove norme penali: profilo che, prendendo le mosse dal
problema della astratta sindacabilita' delle norme penali di favore,
sfocia nel ben piu' ampio problema degli obblighi costituzionali di
tutela penale.
Come e' stato ben rilevato, dunque, esistono due questioni di
ammissibilita' delle questioni di incostituzionalita' in malam
partem: una ammissibilita' processuale delle questioni dedotte, che
si fonda sul requisito della «rilevanza» previsto dall'art. 23,
comma 2, legge n. 87/1953; ed una ammissibilita' sostanziale,
riconducibile all'art. 28 della legge n. 87/1953 («Il controllo di
legittimita' della Corte costituzionale...esclude ogni valutazione di
natura politica e ogni sindacato sull'uso del potere discrezionale
del Parlamento»), che rinviene la propria matrice «ideologica» nel
principio di riserva assoluta di legge statale in materia penale.
Per quanto concerne le disposizioni della legge n. 251/2005
sospettate di illegittimita' costituzionale, dunque, va osservato che
la proposizione delle questioni in malam partem, soprattutto per
quanto concerne la disciplina della prescrizione, dovrebbe essere
ritenuta ammissibile, in quanto «rilevante»: al riguardo, infatti,
oltre alla richiamata, e condivisibile, giurisprudenza
costituzionale, la dottrina ha distinto tra «rilevanza» ed
«influenza», nel senso che la prima connota la questione che concerne
una norma che si presenta come astrattamente applicabile nel
giudizio, mentre la seconda, non necessaria ai fini del giudizio di
ammissibilita' della questione, riguarda il «risultato», l'influenza
della sentenza della Corte sulla concreta applicabilita' della norma
denunciata.
In tal senso, dunque, la questione di costituzionalita' della
nuova disciplina, di favore, della prescrizione deve essere ritenuta
ammissibile, in quanto rilevante, anche se, in concreto,
potenzialmente priva di «influenza» sul giudizio a quo, salvo quanto
si precisera' in seguito.
Privato, dunque, il principio di irretroattivita' dell'impropria
funzione di filtro processuale dei giudizi costituzionali, va
affrontato, su un piano differente, il problema del rispetto del
principio di riserva di legge in materia penale: il rispetto di
questo fondamentale principio costituzionale, infatti, si intreccia
con il problema della prospettabilita', peraltro negata, di obblighi
costituzionali (ora anche comunitari) di tutela penale.
L'inesistenza di obblighi impliciti di incriminazione, infatti,
si inserisce in un quadro ordinamentale che assegna al solo potere
legislativo la scelta, assolutamente libera, di apprestare sanzioni
penali, che delinea una pena con funzione preventiva, e non gia'
retributiva, e che impedisce alla Corte costituzionale qualunque
attivita' «paralegislativa».
E' in questa dimensione, dunque, che va inquadrata la
giurisprudenza costituzionale che, anche nei piu' recenti arrets in
materia, ha apparentemente ridimensionato l'orientamento espresso
nelle pronunce nn. 148/1983, 167/1993, 194/1993 e 25/1994: proprio
nella sentenza n. 161/2004 (rel. Flick) sulla dedotta
incostituzionalita' delle nuove fattispecie di falso in bilancio,
infatti, e' stato sancito che va escluso che la Consulta «possa
introdurre in via additiva nuovi reati o che l'effetto di una sua
sentenza possa essere quello di ampliare o aggravare figure di reato
gia' esistenti, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva
alla discrezionalita' del legislatore»: dunque, il giudice ad quem,
richiamando esplicitamente l'art. 25, secondo comma, Cost., ha
escluso che l'attivita' caducatoria costituzionalmente rimessa al
massimo organo di garanzia possa introdurre nuove fattispecie di
reato, ovvero possa ampliare la portata o aggravare il trattamento
sanzionatorio di fattispecie criminose gia' esistenti.
In tal senso, dunque, la Corte costituzionale ha dichiarato
l'inammissibilita' delle questioni prospettate ritenendole infondate,
atteso che il principio di riserva di legge impedisce un sindacato
costituzionale sull'uso del potere legislativo, ma, al contempo, ha
riaffermato l'ammissibilita' del sindacato sulle norme penali di
favore, allorquando «l'eventuale ablazione della norma di favore si
limita a riportare la fattispecie gia' oggetto di ingiustificato
trattamento derogatorio alla norma generale, dettata dallo stesso
legislatore (fermo restando, altresi', il divieto di applicazione
retroattiva del regime penale piu' severo ai fatti commessi sotto il
vigore della norma di favore rimossa)».
Dunque, un orientamento che giustamente ribadisce
l'insindacabilita' sull'uso del potere discrezionale del Parlamento,
soprattutto in una materia, quella penale, caratterizzata da una
«lettura forte» del principio di riserva di legge, ma che non sembra
disconoscere la sindacabilita' delle norme penali di favore,
soprattutto allorquando ne venga denunciata l'irragionevolezza.
Con riferimento, dunque, alla denunciata illegittimita'
costituzionale della nuova disciplina della prescrizione, una
pronuncia caducatoria della Consulta sarebbe idonea soltanto a
ripristinare il regime di «perseguibilita» dell'azione penale,
influendo sulle cause estintive dei reati.
Pertanto, nessun profilo concernente l'ambito di astratta
applicabilita' della norma penale, nella sua dimensione di
fattispecie oggettiva (condotta, nesso di causalita', evento) e di
fattispecie soggettiva (dolo o colpa, sarebbe coinvolto da una
sentenza declaratoria dell'illegittimita' costituzionale delle norme
che riducono in maniera consistente i termini di prescrizione,
secondo criteri di carattere eminentemente soggettivo. In termini
dommatici, si tratterebbe di un intervento privo di riflessi sulle
tre categorie del reato - tipicita', antigiuridicita' e
colpevolezza/responsabilita', la cui incidenza sarebbe circoscritta
alla dimensione della punibilita' c.d. «in concreto».
Dunque, una sentenza di accoglimento della Corte costituzionale
non sembra essere in grado di scalfire il principio di riserva di
legge, atteso che nessuna influenza avrebbe sulle astratte
fattispecie incriminatrici: il profilo coinvolto, infatti, riguarda
il meccanismo di estinzione del reato, che, sacrificando molteplici
parametri costituzionali, e violando altresi' l'art. 3 Cost., anche
sotto il profilo della «condizione personale», fa tracimare la nuova
disciplina nel gorgo dell'irragionevolezza, sindacabile dalla
Consulta.
Va peraltro aggiunto, anche con riferimento alla «rilevanza»
processuale della questione ed alla «influenza» che un eventuale
accoglimento potrebbe determinare sul giudizio a quo, che il
principio di certezza del diritto e la possibilita' di «libere scelte
d'azione» (Corte cost., sent. n. 364/1988) non sarebbero in alcun
modo scalfiti, alla stregua della stessa giurisprudenza
costituzionale, che nell'analoga materia della successione di norme
penali in caso di decreti-legge non convertiti, ha dichiarato
l'illegittimita' dell'art. 2, comma 5, c.p.: dalla motivazione della
sentenza, infatti, emerge che la «riespansione» operativa della
normativa piu' sfavorevole, abrogata temporaneamente dal
decreto-legge successivamente non convertito, limita i propri
«effetti negativi» soltanto ai c.d. «fatti pregressi», commessi nella
vigenza della norma che si riespande, e non anche ai «fatti
concomitanti» alla vigenza del decreto-legge non convertito.
Mutatis mutandis, una declaratoria di illegittimita' delle norme
di favore contenute nella legge n. 251/2005 consentirebbe la
riespansione della precedente normativa solo con riferimento ai fatti
«pregressi», commessi prima dell'entrata in vigore della legge
ritenuta incostituzionale, mentre comporterebbe una ultrattivita'
della medesima normativa con riferimento ai fatti concomitanti, in
tal modo assecondando un bilanciamento tra i principi costituzionali
violati dalle norme censurate ed il principio di certezza del
diritto.
Non manifesta infondatezza
Limitando, ovviamente, la prospettazione dei profili di
illegittimita' costituzionale alle norme rilevanti in questo
processo, ed obliterando ogni valutazione in ordine ai molteplici
aspetti di irragionevolezza della legge n. 251 del 2005, occorre
prendere le mosse dalle norme che, novellando gli artt. 157 e 161
c.p., hanno ridotto i termini di prescrizione secondo criteri che a
questo giudice non appaiono dotati innanzitutto del canone della
ragionevolezza.
Illegittimita' dell'art. 6, commi 1 e 4, della legge n. 251/2005
per violazione degli artt. 3, 13, 24, 25, secondo comma, 27 e 79
Cost.
Le norme di cui all'art. 6, commi 1 e 4, della legge n. 251/2005,
come e' noto, nel modificare gli artt. 157 e 161 del codice penale,
hanno sancito una quasi generale riduzione dei termini di
prescrizione: ed invero, il decorso del tempo corrispondente al
massimo della pena edittale stabilita dalla legge, e comunque di un
tempo non inferiore a sei anni, e' sufficiente ad estinguere il
reato; peraltro, il corso della prescrizione puo' essere interrotto
da taluni atti, comportando un aumento frazionario di un quarto del
tempo necessario a prescrivere in caso di soggetti incensurati, della
meta' in caso di imputati cui sia applicabile (o contestata) la
recidiva infraquinquennale o specifica (art. 99, comma 2, c.p.), di
due terzi in caso di imputati cui sia applicabile la recidiva plurima
(art. 99, comma 4 c.p.), del doppio nel caso di imputati dichiarati
delinquenti abituali (artt. 102 e 103 c.p.) o professionali (art. 105
c.p.).
L'attuale assetto normativo appare a questo giudice contrario ai
fondamentali principi dettati dalla Costituzione in materia penale ed
all'assetto proprio di uno Stato sociale di diritto.
La prescrizione, come e' pacifico, e' configurata nel nostro
ordinamento come causa di estinzione del reato (da ultimo, in tal
senso, Corte cost., sent. n. 393 del 2006), come si evince ad
abundantiam dall'inserimento nel relativo Capo I del Titolo VI del
codice penale.
Come e' altrettanto noto e pacifico, non solo nella ormai
costante giurisprudenza costituzionale, ma altresi' nella pressoche'
unanime opinione dottrinale, la Costituzione repubblicana delinea un
ordinamento improntato ai tratti di un «diritto penale del fatto»: la
tesi, che riposa pacificamente su una lettura congiunta degli artt.
13, 25 e 27 della Costituzione - norme che impongono che la
privazione della liberta' personale sia consentita solo in seguito
alla commissione di un «fatto» previsto dalla legge come reato, e per
il quale deve essere prevista (a livello normativo) ed irrogata (a
livello giudiziario) una sanzione che persegua la finalita' di
risocializzazione del reo (cfr., al riguardo, Corte cost. n. 313 del
1990, rel. E. Gallo), oggetto di un rimprovero personale, impedisce
pertanto di connotare le norme penali secondo i canoni propri del
«diritto penale d'autore», storicamente attuati nell'ordinamento
nazionalsocialista in Germania (cfr. paragrafo 2 dello StGB come
sostituito nel 1935) e negli ordinamenti comunisti dell'Unione
Sovietica e della ex Jugoslavia.
L'attuale normativa, invece, rivela preoccupanti segni di
emersione dei canoni tipici del diritto penale d'autore, ove collega
i differenti aumenti dei termini di prescrizione, per interruzione,
non gia' alla gravita' oggettiva del fatto, come avveniva
precedentemente, bensi' allo status soggettivo dell'imputato: alla
stregua della nuova normativa, infatti, e' la personalita' criminale
del reo, desunta dalla recidiva o dallo stato di delinquente abituale
o professionale, a determinare un allungamento ovvero una riduzione,
anche consistente - nel caso in esame, da 15 anni a 7 anni, e 6 mesi
-, dei termini di prescrizione.
Tale impostazione normativa, dunque, prescinde totalmente dal
fatto di reato e dalla sua oggettiva gravita', soffermandosi
unicamente sul reo e sulla sua presumibile personalita' criminale.
La scelta, oltre ad assecondare gli infidi confini della
presunzione di pericolosita', appare non soltanto confliggente con il
diritto penale del fatto, ma altresi' schizofrenica, atteso che
l'allungamento dei termini di prescrizione puo' essere legato ad una
situazione di recidiva maturata a distanza di anni dal fatto, nel
corso del procedimento, che, come e' noto, puo' talvolta subire,
anche per la estrema farraginosita' del sistema processuale, tempi
molto dilatati: una situazione quindi del tutto absoluta dalla
commissione del singolo fatto di reato, oggetto di giudizio, e legata
magari alla mera, e casuale, divaricazione temporale tra tempus
commissi delicti ed accertamento processuale.
Del resto, appare quasi ridondante richiamare le storiche
pronunce n. 364 e 1085 del 1988 della Corte costituzionale (rel.
Dell'Andro), che, nel rendere affermazioni di alto valore anche
dommatico, hanno ancorato, definitivamente, l'illecito penale alla
concezione del personales Unrecht: una visione del reato che,
valorizzando sia il disvalore della condotta che il disvalore
d'evento, e' strettamente connessa ad una impostazione «oggettiva»
della colpevolezza.
Colpevolezza per il «fatto», dunque, e non per «l'autore».
Non va del resto obliterata un'ulteriore considerazione:
l'assetto normativo inaugurato dalla legge n. 251/2005 asseconda i
canoni del diritto penale d'autore, anche perche', di fatto, conduce
ad un trattamento sfavorevole della delinquenza c.d. da strada (si
pensi al soggetto condannato per piu' fatti di furto di estrema
esiguita), e ad un trattamento favorevole della delinquenza dei c.d.
«colletti bianchi», categoria criminologica, come e' noto, elaborata
da Sutherland, e dotata di assoluta affidabilita' empirica (si pensi
a tutti gli autori di truffe, ovvero di reati contro la p.a. ovvero
in materia economica, di regola «inseriti» nel contesto sociale, e
non gravati da precedenti penali, che, oltre a godere di termini piu'
brevi, difficilmente rischiano di entrare nel circuito penale,
allorquando vengano prosciolti per prescrizione).
Tale considerazione, relativa all'impatto della riforma sulla
prassi della giustizia penale, sebbene apparentemente priva di
agganci a parametri costituzionali vincolanti in sede di sindacato di
legittimita' costituzionale, da' forma e spessore al paventato
rischio dell'emersione di un diritto penale d'autore, che, del resto,
appare in contrasto anche con il principio di uguaglianza.
Infatti, ove si ritenga che la nuova normativa, con i differenti
termini di prescrizione, non riveli i tratti di un diritto penale
d'autore, in verita' evidenti, non si comprenderebbe quale sia il
canone di ragionevolezza adoperato per sancire una tale distinzione
legislativa: la nuova normativa, infatti, appare censurabile sia
sotto il profilo del principio di uguaglianza, sia sotto quello del
principio di ragionevolezza, per violazione dell'art. 3 Cost., che
sancisce l'illegittimita' di trattamenti normativi differenti in
ragione delle condizioni personali del cittadino; un regime di
estinzione del reato legato allo status di recidivo, invero, sembra
proprio introdurre un trattamento normativo imbevuto della
riprovazione dell'ordinamento per la condizione personale del reo che
abbia gia' subito precedenti condanne, a prescindere dalla gravita'
del fatto in contestazione, ed anche dei fatti, magari bagattellari,
per i quali si e' gia' riportata condanna.
La violazione palese del principio di uguaglianza, del resto, si
scorge agevolmente nel caso, invero frequente, della contestazione di
un medesimo reato a carico di una pluralita' di imputati: in tal
caso, infatti, si potrebbe assistere ad un esito processuale del
tutto opposto - declaratoria di estinzione del reato per prescrizione
ovvero condanna - a seconda che i diversi imputati abbiano riportato
o meno precedenti condanne; l'ipotesi, oltre ad offendere i piu'
elementari canoni di giustizia, viola palesemente il principio
costituzionale di cui all'art. 3 Cost., che consente trattamenti
diversi soltanto in situazioni diverse.
La potenziale obiezione alla stregua della quale la situazione
diversa, in grado di giustificare il differente trattamento,
ricorrerebbe proprio per i precedenti penali che integrano la
situazione di recidiva o di delinquenza abituale o professionale
lascia emergere ictu oculi il profilo di illegittimita'
precedentemente evocato: far dipendere un differente trattamento
normativo, in materia penale, da uno status soggettivo, e non gia' da
connotati oggettivi, riguardanti la gravita' del fatto-reato,
rappresenta l'emblema del diritto penale d'autore, che tante sciagure
storiche e giuridiche ha assecondato.
Ed invero, i precedenti penali sono ordinariamente valutati dal
giudice in sede di concreta commisurazione della pena, astrattamente
irrogata, nell'ambito di un giudizio individualizzato che assume a
parametro i criteri finalistici di cui all'art. 27, terzo comma
Cost., ma non possono essere assunti a discrimen di un differente
trattamento normativo, che, al contrario, deve intrinsecamente
possedere i caratteri della generalita' ed astrattezza; laddove si
registri una tale situazione normativa, si declina la responsabilita'
penale secondo i canoni del tipo d'autore, e cio' contrasta con i
principi elementari della Costituzione repubblicana.
Non va infine sottaciuto che la riforma dettata dalla legge
n. 251/2005, riducendo in maniera consistente i termini di
prescrizione determinera' una estinzione generalizzata di una
molteplicita' di ipotesi di reati (cfr., al riguardo, i dati
statistici pubblicati dal Ministero della giustizia - tra l'altro, in
Guida al diritto, Dossier mensile, 2006, n. 1, cit., p. 34 -, che
rendono la cifra di 212.397 provvedimenti di prescrizione a favore di
221.880 beneficiari, e dalla Corte di cassazione), di solito commessi
dai «colletti bianchi»: tale conseguenza, invero, sembra rivelare i
tratti di una amnistia di fatto, mascherata da un mutamento delle
regole in materia di prescrizione, e conseguita per il tramite di un
aggiramento dell'art. 79 Cost., che, come e' noto, richiede una legge
approvata con una maggioranza parlamentare dei due terzi dei
componenti di ciascuna Camera.
Tale considerazione, del resto, pur riproponendo il tema,
risalente almeno al c.d. condono edilizio del 1985, delle amnistie
mascherate, ed il problema della ipotizzabilita' di un conflitto
binario con l'art. 79 Cost., non puo' essere posta in disparte,
quantomeno sotto il profilo argomentativo: la scissione concettuale
tra dimensione astratta della norma - che delinea una sorta di
rinuncia alla punibilita' rispetto a fatti passati - ed effetti
concreti - effetti estintivi legati alla concretezza della singola
vicenda penale, e tuttavia di portata amplissima - rischia, infatti,
di assecondare un uso vistosamente distorto del potere normativo.
Ultimo profilo di illegittimita' da considerare e', secondo
questo giudice, la violazione del principio costituzionale di difesa
sociale, che pur rinvenendo un «aggancio» nell'art. 24 Cost., e'
imminente all'intero sistema costituzionale, e tale da giustificare
la pretesa punitiva dello Stato: nonostante l'apparente scarsa
vincolativita' del parametro di legittimita' invocato, che rende
angusto un controllo c.d. «binario» di legittimita' (tra la norma
sospettata di incostituzionalita' e la norma costituzionale), non
puo' essere sottaciuta - senza rendere il diritto «vuota maschera»
della realta' - la considerazione alla stregua della quale la
riduzione consistente dei termini di prescrizione impedisce, di
fatto, il perseguimento e la punizione di molteplici fatti di reato,
con una obliterazione della sicurezza collettiva, atteso che i
consueti tempi processuali, dilatati all'estremo da improvvide
elargizioni di pseudogaranzie prive di reali contenuti difensivi e
dalla asfitticita' dell'organizzazione giudiziaria, non consentono un
reale esercizio dell'azione penale con conseguente affermazione di
responsabilita' in termini cosi' ridotti: si pensi all'ipotesi
delittuosa, paradigmatica a fini dialettici, di false comunicazioni
sociali, per desumere l'assoluta inadeguatezza di sette anni e sei
mesi per la definizione del relativo processo, in un tempo, invece,
sufficiente al piu' alla scoperta ed alla conclusione delle complesse
indagini preliminari.