LA CORTE DI APPELLO

    Ha  emesso la seguente ordinanza nel procedimento penale a carico
di:  1)  Pittalis  Giovanni,  nato a Orune il 15 febbraio 1963 res. a
Vetralla,  via  Contrada  Mazzocchi Basso n. 41, o meglio residente a
Nuoro,  Via  Togliatti  n. 31;  2)  Brau  Luigi,  nato  a Nuoro il 24
novembre 1981 ivi res., viale Della Costituzione n. 31; 3) Imperatore
Daniele, nato a Nuoro il 29 ottobre 1980 ivi residente, viale Funtana
Buddia,  IACP  Nuove «B», 4) Castangia Enea, nato a Roma il 27 luglio
1983,  residente  a Nuoro, via Del Pozzo n. 26; 5) Pischedda Michele,
nato  a Nuoro il 27 dicembre 1983 ivi residente, localita' Biscollai,
via Pinna IACP «D»; 6) Carpenti Giovanni, nato a Roma il 23 settembre
1981, residente a Nuoro, via Magellano n. 20.
    Concluso  in  primo  grado con sentenza del Tribunale di Nuoro in
data 19 luglio 2005 recante il seguente dispositivo:
        «Visto  l'art. 530,  secondo  comma  c.p.p., assolve Pittalis
Giovanni,  Brau  Luigi,  Imperatore Daniele, Castagna Enea, Pischedda
Michele  e  Carpenti Giovanni dai reati loro in concorso ascritti per
non aver commesso il fatto».
    Nuoro, 19 luglio 2005.
    Essendo i predetti imputati dai seguenti reati:
        A) p. e p. dagli artt. 61 n. 5, 112, n. 1, e 628, commi primo
e  terzo,  n. 1  c.p.  perche'  in  concorso  fra  loro  e  con Sanna
Alessandro  e  Pisanu Stefano - minori degli anni diciotto - e quindi
in  numero  superiore  a  cinque,  al  fine di procurarsi un ingiusto
profitto,  con  violenza,  consistita  nel  privare degli occhiali da
vista  Cadinu  Franco,  nell'aggredirlo  con  pugni  e  calci  e  nel
denudarlo completamente, si impossessavano del portafogli, contenente
la  somma  di  Euro  50,00, di un orologio marca «Seiko» e dei citati
occhiali, sottraendoli allo stesso Cadinu.
    Con l'aggravante di avere profittato di circostanze di tempo e di
persona,  tali da ostacolare la privata difesa, avendo agito in tempo
di notte e in otto persone riunite nei confronti di una sola.
    Con  la  recidiva  specifica  e  reiterata  nel  quinquennio  per
Pittalis Giovanni.
    In Nuoro il 16 marzo 2002.
        B)  p.  e  p.  dagli artt. 61, n. 5, 12, n. 1, 582 e 585 - in
relazione  all'art. 576,  n. 1  - c.p. perche' in concorso tra loro e
con  Sanna Alessandro e Pisanu Stefano - minori degli anni diciotto -
e  quindi  in  numero  superiore  a  cinque, al fine di commettere il
delitto  come  contestato al capo che precede, colpendo ripetutamente
Cadinu  Franco  con pugni e calci, gli procuravano lesioni personali,
consistite in un trauma contusivo toracicoaddominale ed in contusioni
ed   escoriazioni  multiple,  da  cui  derivava  una  malattia  della
presumibile durata di giorni sette, salvo complicazioni.
    Con l'aggravante di avere profittato di circostanze di tempo e di
persona,  tali da ostacolare la privata difesa, avendo agito in tempo
di notte e in otto persone riunite nei confronti di una sola.
    Con  la  recidiva  specifica  e  reiterata  nel  quinquennio  per
Pittalis Giovanni.
    In Nuoro il 16 marzo 2002.
    Ritenuto  che  avverso  la  sentenza  del  Tribunale  di Nuoro ha
interposto  appello il p.m. competente e che, a seguito della entrata
in  vigore  della legge 20 febbraio 2006, n. 46, applicabile, a norma
ddll'art. 10  di essa, anche ai procedimenti in corso, il gravame del
Procuratore   della   Repubblica   dovrebbe   essere,  con  ordinanza
inoppugnabile  giusta  l'art. 10.2  della  legge  citata,  dichiarato
inammissibile avendo l'art. 1 della medesima legge reso inappellabili
le  sentenze  di  proscioglimento,  salvo che per i casi previsti dal
comma  secondo  dell'art. 593  c.p.p.  come  novellato dalla medesima
legge,  e  che tuttavia, giusta eccezione sollevata dal p.g. in sede,
essendo  ravvisabile contrasto fra gli articoli 1, 2 e 10 della legge
n. 46/2006  e gli artt. 3 e 111 della Costituzione, la Corte dovrebbe
rimettere gli atti alla Corte costituzionale;

                            O s s e r v a

    I   profili   di  incostituzionalita'  proposti  dal  procuratore
generale   sono   non   manifestamente  infondati:  l'art. 111  della
Costituzione  garantisce  il  principio della parita' delle parti nel
processo,  e  questo  principio, nella previsione costituzionale, non
soffre  di  eccezioni  di  sorta (come invece puo' avvenire per altri
principi, come quello della formazione della prova in contraddittorio
pure   stabilito  dal  medesimo  articolo  111).  L'esclusione  della
possibilita'  che  il  pubblico  ministero  possa  gravarsi contro le
sentenze   di   proscioglimento  con  lo  stesso  mezzo  riconosciuto
all'imputato  avverso le sentenze di condanna comporta l'introduzione
nel   sistema   delle  impugnazioni  di  una  evidente  irragionevole
disparita'  di  trattamento che contrasta con il richiamato principio
della parita' delle parti nello svolgimento del processo.
    Giustamente  ha  poi  osservato  il p.g. che questo enunciato non
confligge   con  le  ripetute  pronunce  negative  rese  dalla  Corte
costituzionale  chiamata  ad  esprimersi  sulle limitazioni al potere
d'appello  del  pubblico  ministero stabilite dall'art. 443.3 c.p.p.,
essendo    le    disparita'    derivanti   da   questa   disposizione
ragionevolmente giustificabili alla luce del risultato perseguito con
il  ricorso  al  rito  abbreviato  e delle peculiarita' di questo. Il
risultato  e'  quello  della  rapida  definizione dei processi penali
conseguita  attraverso  la decisione del processo solo sulla base del
materiale   probatorio   raccolto  dalla  parte  pubblica  fuori  del
contraddittorio,    e   pertanto   con   una   correlativa   rinuncia
dell'imputato,  in  vista del miglior trattamento sanzionatorio a lui
riservato  in caso di affermazione di responsabilita', ad intervenire
nel  delicato momento della formazione della prova. E tuttavia, se in
un  quadro  siffatto  e'  parso  ragionevole  limitare la facolta' di
impugnazione  del pubblico ministero quanto alle sentenze di condanna
(e   pertanto   in   relazione   alla  quantificazione  della  pena),
altrettanto  non  pare proprio possa dirsi in relazione alle sentenze
di  assoluzione, pur pronunciate a seguito di rito abbreviato, stante
il  perdurante  interesse della parte pubblica all'accertamento della
verita'   (e   quindi   della   responsabilita'   dell'imputato   che
dall'acclaramento  della verita' possa risultare), come d'altro canto
dimostra  il  fatto  che  e'  stata conservata al p.m. la facolta' di
appellarsi  contro  le sentenze di condanna che modifichino il titolo
del  reato.  A  proposito  del  generale  interesse del p.m. apropone
appello   contro   le  sentenza  di  proscioglimento  conserva  piena
validita'  il  richiamo  contenuto nel messaggio del Presidente della
Repubblica  alle  Camere  la'  dove  si  osserva che «la soppressione
dall'appello  delle  sentenze  di  proscioglimento  ... fa si' che la
stessa  posizione  delle  parti  nel  processo  venga ad assumere una
condizione  di  disparita'  che  supera  quella  compatibile  con  la
diversita'  delle funzioni svolte dalle parti stesse nel processo. Le
asimmetrie  tra  accusa  e  difesa costituzionalmente compatibili non
devono   mai   travalicare   i   limiti  fissati  dal  secondo  comma
dell'art. 111 della Costituzione».
    Degne  di piena approvazione appaiono poi le notazioni svolte dal
procuratore generale in risposta alle obbiezioni che potrebbero farsi
alla  sua  tesi  e  secondo  le  quali la soppressione della facolta'
d'appello   del   p.m.   contro   le   sentenze   di  proscioglimento
risponderebbe  ad  esigenze  di celerita' del processo, e sarebbe per
altro  verso coerente con la presunzione di innocenza dell'imputato o
con  il  precetto per il quale la colpevolezza deve essere dimostrata
oltre ogni ragionevole dubbio. Quanto alla prima di tali osservazioni
giustamente  si  e'  ricordato che le esigenze di celerita' non hanno
impedito  la  conservazione  della  facolta'  di  cui  all'art. 443.3
c.p.p., e che, al contrario, saranno proprio le esigenze di celerita'
ad   essere   sacrificate   quando,   nel  caso  non  infrequente  di
accoglimento  del  ricorso per cassazione proposto dal p.m. contro la
sentenza  assolutoria,  il  processo ritornera' in primo grado con la
prospettiva della celebrazione (anche) del giudizio d'appello in caso
di  condanna  dell'imputato. Il principio di non colpevolezza implica
soltanto  il fatto che le conseguenze pratiche della condanna possano
discendere solo dalla sentenza definitiva, e nessuna indicazione puo'
trarsi  da  esso  circa  l'iter  per  il  quale si debba pervenire al
giudicato.  Quello per il quale la colpevolezza puo' essere affermata
solo quando sia provata oltre ogni ragionevole dubbio sembra, invece,
in  questo  caso,  un principio di lettura equivoca, posto che ove si
sostenga  la  inappellabilita' della sentenza con la quale un giudice
abbia pronunciato assoluzione poiche' l'eventuale successiva condanna
non  potrebbe  essere  pronunciata  fuor  di ogni ragionevole dubbio,
potrebbe  altrettanto  legittimamente sostenersi che sarebbe del pari
inutile un giudizio d'appello contro una sentenza di condanna che, ad
esito  di un processo celebrato in condizioni di parita' delle parti,
sarebbe  pronunciata  sulla  scorta  di  prove  che dimostrino con la
stessa sicurezza la colpevolezza.
    Che  poi  l'esclusione  della  appellabilita'  delle  sentenze di
proscioglimento   da   parte   della  accusa  pubblica  sia  coerente
all'esplicazione  dei  diritti  della  difesa  e'  stato  giustamente
contestato  dal  Procuratore Generale osservandosi che insopprimibile
funzione  del  processo  penale  e'  quello  dell'accertamento  della
verita',  e tale prospettiva deve essere perseguita nel rispetto dei,
piu'  che  giusti,  diritti  della  difesa  da  far  valere  tuttavia
nell'ambito del processo e non gia' nel senso che il confronto fra le
tesi  debba  essere evitato (in altri termini deve potersi esercitare
la  difesa  nel processo e non gia' dal processo). Nessuno dubita che
nel   giudizio   d'appello   l'imputato   debba   godere   del  pieno
dispiegamento  dei diritti che la legge gli riconosce: ma non si vede
in che cosa la celebrazione del secondo grado del giudizio di merito,
sia  pure  ad  istanza del pubblico ministero, possa compromettere il
diritto  di  difesa (diverso sarebbe se ci si appellasse al principio
del favor rei, che pero' vale nei soli casi in cui la legge faccia ad
esso  riferimento  e  non  risulta essere stato ricompreso fra quelli
garantiti dalla Costituzione).
    A  tutte le notazioni svolte dal procuratore generale, che questa
Corte condivide e fa proprie, puo' aggiungersi che il contrasto delle
disposizioni  denunciate  rispetto  all'art. 111  (ed anche, a questo
punto,  all'art. 3)  della Costituzione apparira' ancor piu' evidente
quando  si  osservi  che  nella  stesura  definitiva  della  legge 20
febbraio 2006, n. 46, alla parte civile e' stato invece conservato il
diritto d'appello avverso le sentenze di assoluzione (la genesi della
locuzione   del   secondo   periodo   dell'art. 576   c.p.p.   alinea
nell'attuale  formulazione persuade che l'impugnazione ivi menzionata
consista   nell'appello,   tanto   piu'   che   di   inammissibilita'
dell'appello  proposto  dalla  parte  civile nell'art. 10 della legge
n. 46/2006,  che  detta  la  disciplina  transitoria,  non  si  parla
affatto).  Si  deve  constatare  pertanto  che  alla  parte pubblica,
portatrice  degli  interessi  rilevantissimi  su  cui si tornera' tra
breve,  e'  stato  del  tutto ingiustificatamente e irragionevolmente
riservato  un  potere  di  impugnazione  piu'  ridotto che alle parti
private  e  questo  dato, indubitabile, non puo' che far risaltare in
maniera ancor piu' evidente il vulnus subito, per effetto delle norme
che  vengono  sottoposte  al giudice delle leggi, dal principio della
parita' delle parti.
    Oltre  a  tutto  quanto sopra enunciato, partendo dal rilievo che
gli  interessi  tutelati dal pubblico ministero sono, in uno Stato di
diritto,  apprezzabili  quanto  quelli  delle  altre  parti, compreso
l'imputato  (ed  in  realta',  sebbene  le  ultime riforme in materia
processuale  abbiano  avuto di mira soprattutto il riequilibrio della
posizione  dell'imputato rispetto a quella del p.m., mai l'importanza
degli  interessi  tutelati  attraverso  l'azione  di questo era stata
reputata  sottovalente  rispetto a quella degli interessi delle altre
parti), puo' ancora osservarsi che sottrarre al pubblico ministero il
potere   di  appellarsi  contro  le  sentenze  di  assoluzione  o  di
proscioglimento  significa  rendere  piu'  difficoltosa  l'attuazione
della  ricerca  della  verita'  e,  quindi  dell'istanza di giustizia
propria della collettivita', istanza che e' addirittura pregiuridica,
posto  che su di essa si basa qualsiasi civile convivenza nella quale
si voglia evitare che i consociati siano tentati di ricorrere a forme
private   di   giustizia.   Di   questo   primario   interesse  della
collettivita'  e'  espressione  la  previsione  dell'art.  112  della
Costituzione  e,  in  definitiva,  anche  quella  circa  l'emenda del
condannato   sancita   dal  comma  terzo  dell'art. 27  della  stessa
Costituzione:  dalla lettura coordinata di queste due norme si ricava
che  compito  del pubblico ministero (parte pubblica, e quindi tenuta
al  rispetto  di  comportamenti  ispirati  a  massima  correttezza  e
moralita',  oltre  che  onerata  anche  della  ricerca degli elementi
favorevoli  all'imputato)  non  e' quello di ottuso persecutore degli
incolpati,  ma  quello, della cui importanza gia' si e' detto, di far
si'  che  i  soggetti  devianti  vengano recuperati ad una convivenza
civile e ordinata. E menomare i mezzi attraverso i quali l'azione del
pubblico  ministero,  nel  rispetto  del  principio  di parita' delle
parti,  si  deve  esplicare  significa  in  definitiva  legiferare in
contrasto,   anche,   con   le   due  previsioni  costituzionali  ora
richiamate.
    La  Corte,  riconosciuta  pertanto  la non manifesta infondatezza
della   questione   di   legittimita'  costituzionale  sollevata  dal
procuratore   generale  e  ritenuto  di  dovere  sollevare  d'ufficio
l'ulteriore    questione   di   legittimita'   costituzionale   sopra
illustrata,   riconosciuta   la  impossibilita'  di  addivenire  alla
decisione  del  processo sottoposto al suo giudizio indipendentemente
dalla risoluzione delle cennate questioni (l'applicazione delle norme
denunciate  impedirebbe  infatti la definizione del processo a carico
del  Pittalis  e  degli  altri  imputati  assolti,  con  il possibile
ribaltamento   della   decisione   di   primo  grado  e  la  condanna
dell'imputato),   dispone  la  trasmissione  degli  atti  alla  Corte
costituzionale sospendendo il giudizio in corso.