ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio  di  legittimita' costituzionale dell'art. 128, secondo
comma,  del  decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957,
n. 3  (Testo  unico  delle  disposizioni concernenti lo statuto degli
impiegati civili dello Stato), promosso con ordinanza dell'11 gennaio
2006  dal Tribunale amministrativo regionale della Puglia sul ricorso
proposto  da  Bergamo  Antonella  contro il Ministero dell'Istruzione
dell'Universita'  e  della  Ricerca  ed altri, iscritta al n. 220 del
registro  ordinanze  2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 28, 1ª serie speciale, dell'anno 2006.
    Visto  l'atto di costituzione di Antonella Bergamo nonche' l'atto
di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
    Udito nell'udienza pubblica del 5 giugno 2007 il giudice relatore
Sabino Cassese;
    Udito  l'avvocato  Ariosto  Ammassari  per  Antonella  Bergamo  e
l'avvocato dello Stato Diego Giordano per il Presidente del Consiglio
dei ministri.

                          Ritenuto in fatto

    1.  - Il Tribunale amministrativo regionale della Puglia, sezione
staccata di Lecce, ha sollevato - in riferimento agli artt. 3, 4, 35,
51 e 97 della Costituzione - questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 128,  secondo  comma,  del  decreto  del  Presidente  della
Repubblica  10 gennaio  1957,  n. 3  (Testo  unico delle disposizioni
concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato).
    La  disposizione censurata stabilisce che l'impiegato, dichiarato
decaduto  ai  sensi  della  lettera d)  del primo comma dell'art. 127
dello stesso d.P.R. n. 3 del 1957, e, cioe', secondo la previsione di
quest'ultimo   articolo,   quando  sia  accertato  che  l'impiego  fu
conseguito  mediante  la  produzione  di documenti falsi o viziati da
invalidita'  non  sanabile,  non  puo'  concorrere  ad  altro impiego
nell'amministrazione dello Stato.
    Dinanzi  al  Tribunale  pende il giudizio promosso da una docente
per  l'annullamento,  previa sospensiva, delle graduatorie permanenti
del  concorso  (di cui all'art. 1 della legge 3 maggio 1999, n. 124),
formate  dal  dirigente  del  Centro  Servizi Amministrativi (CSA) di
Lecce,  ai  sensi  del  decreto del direttore generale 31 marzo 2005,
limitatamente  alla  mancata inclusione in esse della stessa docente,
in  applicazione  dell'art. 128,  secondo  comma, del d.P.R. n. 3 del
1957.
    1.1.  -  Il giudice espone preliminarmente la vicenda presupposta
al  giudizio  dinanzi  a lui pendente, relativa alla dichiarazione di
decadenza  di  tale  docente,  ai  sensi  dell'art. 127, primo comma,
lettera d), del d.P.R. n. 3 del 1957.
    La  docente,  dichiarando  di essere invalida civile - nonostante
fossa  affetta  da  menomazione  fisica  (certificata) comportante la
riduzione  della  capacita'  lavorativa  del  37  per  cento,  quindi
inferiore  al  minimo  del 46 per cento previsto dalla legge (art. 1,
comma 1,  lett.  a,  della legge 12 marzo 1999, n. 68, recante «Norme
per  il  diritto  al  lavoro  dei disabili») per l'applicazione delle
norme  di tutela in materia di diritto al lavoro dei disabili - aveva
ottenuto  un  contratto di lavoro a tempo determinato di insegnamento
per l'anno scolastico 2002/2003.
    In  seguito ad un controllo d'ufficio, l'amministrazione - avendo
accertato  un  grado  di  invalidita'  inferiore  rispetto  a  quello
dichiarato  dalla  docente  -  aveva  disposto  (con  decreto del CSA
n. 5638   del  3  giugno 2003)  l'esclusione  di  quest'ultima  dalle
graduatorie  permanenti  relative  all'anno  scolastico 2002/2003, la
nullita'  del contratto annuale di lavoro e la decadenza dall'impiego
in  applicazione  dell'art. 127,  primo comma, lettera d), del d.P.R.
n. 3  del 1957. Il giudizio avverso il suddetto decreto si concludeva
con  sentenza,  passata  in  giudicato,  di rigetto dell'impugnativa,
avendo   il   giudice   ritenuto   non  scusabile,  ne'  inevitabile,
l'ignoranza della misura di invalidita' minima prevista dalla legge.
    1.2.  -  Riferisce  il Tribunale rimettente che la ricorrente del
giudizio  principale  ha eccepito l'illegittimita' costituzionale, in
riferimento  a  piu'  profili  di irragionevolezza, dell'art. 128 del
d.P.R.  n. 3 del 1957, in applicazione del quale non e' stata inclusa
nelle  graduatorie,  e  delle  altre  disposizioni  che richiamano la
disposizione  censurata  espressamente  (art. 2, comma 3, del decreto
del  Presidente  della  Repubblica  9 maggio 1994, n. 487, contenente
«Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche
amministrazioni  e  le  modalita'  di  svolgimento  dei concorsi, dei
concorsi  unici  e  delle  altre  forme  di  assunzione  nei pubblici
impieghi»)   o   implicitamente  (art. 402  del  decreto  legislativo
16 aprile  1994,  n. 297, recante «Approvazione del testo unico delle
disposizioni  legislative  vigenti in materia di istruzione, relative
alle scuole di ogni ordine e grado»).
    1.3.  -  In  ordine alla rilevanza, il rimettente sottolinea che,
nonostante  la  doglianza  della  ricorrente  nel giudizio principale
concerna  il  dato negativo della non inclusione in graduatoria e non
un  atto  positivo  di  esclusione,  risulta  certo  che  la  mancata
inclusione e' derivata dall'applicazione dell'art. 128 suddetto e non
da altri motivi ostativi. Di conseguenza, se la Corte costituzionale,
pur  ritenendo  di  per  se'  non  illegittima  una  disposizione che
connetta  alla  produzione  di  documenti non veridici la preclusione
alla  partecipazione  a  successivi  concorsi,  stabilisse  che  tale
preclusione  debba  necessariamente  essere disposta all'esito di una
valutazione   in  concreto,  il  giudizio  dovrebbe  concludersi  con
l'accoglimento    della    domanda,   risultando   dagli   atti   che
l'amministrazione  ha omesso ogni verifica in concreto. Viceversa, se
la   Corte   ritenesse  non  fondata  la  questione  di  legittimita'
costituzionale,  il  giudizio  si  concluderebbe con il rigetto della
domanda.  In  conclusione,  il  rimettente  sostiene che la causa non
possa  essere  definita  indipendentemente  dalla  risoluzione  della
questione di costituzionalita'.
    1.4.  -  Quanto  alla  non manifesta infondatezza, il Collegio si
sofferma  sulla  violazione  dell'art. 3  Cost., sotto il profilo del
difetto di ragionevolezza.
    Non  sarebbe  ragionevole  la  scelta legislativa di riconnettere
l'applicazione  di  una misura di tipo «para-sanzionatorio», quale la
preclusione,  peraltro  definitiva,  alla  partecipazione  a concorsi
pubblici,    al    verificarsi    di   un   determinato   presupposto
storico--fattuale,  come  il  conseguimento  dell'impiego mediante la
produzione di documenti falsi o viziati da invalidita' insanabile, in
considerazione   del   carattere   eterogeneo   dei   diversi   fatti
presupposti,  quanto  alla  gravita'  obiettiva di essi (dal reato di
falso alla irregolarita' documentale).
    Tale  scelta  del  legislatore  contrasterebbe con il principio -
enucleato  dalla  giurisprudenza  costituzionale  -  del  tendenziale
superamento  di  sanzioni rigide ed «avulse da un confacente rapporto
di  adeguatezza  con  il  caso concreto»; principio ormai «largamente
tendenziale - in adempimento del principio di eguaglianza - nell'area
punitiva penale e con identica incidenza anche nel campo disciplinare
amministrativo» (sentenza n. 971 del 1988). L'estrema rigidita' della
disposizione  impugnata  contrasterebbe  con il canone di gradualita'
sanzionatoria,  affermato  pure  dalla  Corte costituzionale, volto a
salvaguardare   il   parallelismo   fra  gravita'  delle  condotte  e
conseguenze  «(para)sanzionatorie», e violerebbe percio' il canone di
razionalita'  normativa  (sentenze n. 126 del 1995, n. 134 del 1992 e
n. 415 del 1991).
    Ne',  secondo il rimettente, sussistono particolari condizioni di
gravita'  idonee  a giustificare la deroga al suddetto principio. Nel
caso di specie, infatti, la docente non ha commesso un reato di falso
e  la  sentenza con la quale e' stato rigettato il ricorso avverso il
decreto  che  pronunciava  la  decadenza  dall'impiego  (sentenza del
Tribunale  amministrativo  regionale  Lecce  n. 8908  del 2003) si e'
limitata ad accertare l'inescusabilita' dell'ignoranza in ordine alla
misura  dell'invalidita'  minima  per  il  diritto  alla  tutela  dei
disabili.  Quindi,  non  sarebbe  conforme  al  richiamato  canone di
razionalita'  normativa la previsione di un meccanismo automatico che
riconnetta   un'unica   conseguenza   ad   una  gamma  eterogenea  di
comportamenti    presupposti,   prescindendo   dall'eventuale   stato
soggettivo  di  buona  fede  e  dall'accertamento  in  concreto delle
circostante rilevanti per ricostruire la gravita' della condotta.
    Il   Tribunale   rimettente   da'   atto  che  la  giurisprudenza
costituzionale  in  tema  di  adeguatezza  tra  fatto  presupposto  e
conseguenza  afflittiva ha prevalentemente riguardato il rapporto tra
reato  e  sanzione  disciplinare,  settore  in  cui  e'  possibile la
graduazione  dei  fatti  commessi  e  delle  corrispondenti sanzioni,
mentre  nel  caso  di  specie  non  sarebbe possibile individuare una
graduazione  delle  conseguenze,  avendo  l'amministrazione  la  sola
possibilita'  di  scegliere  tra l'ammettere o meno il candidato alle
prove  concorsuali. Tuttavia, secondo il giudice a quo, cio' non puo'
impedire  l'applicazione  del  principio di gradualita' sanzionatoria
(sentenza n. 363 del 1996). Il legislatore avrebbe potuto considerare
i  presupposti secondo una scala di crescente gravita' e riconnettere
alle   sole   ipotesi   piu'  gravi  la  conseguenza  drastica  della
preclusione  alla  partecipazione  a nuovi concorsi. Inoltre, avrebbe
potuto  rimettere  all'amministrazione  il  compito  di  verificare e
valutare  in  concreto  la  sussistenza  dei  presupposti  «circa  la
maggiore  o  minore  gravita'  della  condotta in concreto realizzata
dall'interessato,  giungendo  solo  all'esito  di  tale valutazione a
poter  esprimere un giudizio circa la sussistenza dei presupposti per
l'applicazione»   della   esclusione   da   tutte   le  future  prove
concorsuali.
    La  norma  censurata sarebbe anche irragionevole sotto il diverso
profilo  del carattere definitivo della misura inflitta, determinando
una sorta di perpetua incapacita' personale anche quando la decadenza
dell'impiego  non  derivi  da  reato,  mentre nel sistema penale sono
delimitate  le  ipotesi  di  interdizione  perpetua  e temporanea dai
pubblici uffici (art. 29 del codice penale).
    Inoltre, tale vizio di costituzionalita' sarebbe di tale gravita'
da  comprimere  -  in  modo  sproporzionato  rispetto all'esigenza di
tutela   della   fede  pubblica,  a  salvaguardia  della  quale  sono
essenzialmente  posti  gli artt. 127 e 128 del d.P.R. n. 3 del 1957 -
altri  diritti a valenza costituzionale, quali il diritto al lavoro e
il diritto di accedere agli uffici pubblici di cui agli artt. 4, 35 e
51 Cost.
    Infine,  la  norma  censurata  violerebbe  il  principio del buon
andamento  della  pubblica  amministrazione  sotto  il  profilo della
migliore  utilizzazione  delle risorse professionali potenzialmente a
disposizione,   impedendo   definitivamente  ad  alcuni  soggetti  di
partecipare  alle  selezioni  per  l'accesso  agli impieghi pubblici,
indipendentemente  dalla  verifica  in  concreto  della  presenza  di
elementi ostativi gravi.
    2.  -  E'  intervenuto  il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato   e   difeso   dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,
chiedendo   che  la  questione  di  costituzionalita'  sollevata  sia
dichiarata infondata.
    Secondo  la  difesa  erariale, le censure non rientrano nel solco
della  giurisprudenza  costituzionale  in  materia  di  esclusione di
sanzioni  rigide.  L'Avvocatura  ritiene  che  la  delimitazione  dei
presupposti    di   operativita'   della   norma   effettuata   dalla
giurisprudenza    amministrativa,    nel   senso   della   necessaria
consapevolezza  dell'uso  dei documenti falsi, costituisce il modo di
operare,   «nel   campo  disciplinare  amministrativo,  di  un  unico
principio  dell'ordinamento  [...]  che  sanziona non la creazione di
documentazione  falsa,  bensi'  [...]  il fatto (doloso) del suo mero
utilizzo»,  e, a tal fine, richiama i delitti di cui agli artt. 485 e
489  del  codice penale, nei quali rileverebbe l'uso dell'atto falso.
L'art. 128   censurato,   quindi,   prenderebbe  in  esame  un  unico
comportamento,   consistente   nell'utilizzazione   consapevole   del
documento     falso,     idoneo     a     pregiudicare    l'interesse
dell'amministrazione.  Tale  interesse  consisterebbe  sia  «nel  non
assumere  personale  al  di  fuori  e in violazione dei casi previsti
dalla norma, sia nel precludere l'instaurarsi del rapporto di impiego
con  soggetti  che comunque hanno agito in danno e contro la medesima
pubblica  amministrazione, che pur dovrebbero (e vorrebbero) servire,
vale  a  dire in palese violazione dei principi di fedelta' e lealta'
che costituiscono uno dei cardini del rapporto di impiego».
    Quanto  alla  lesione  del  principio  di ragionevolezza sotto il
profilo  della  definitivita'  dell'esclusione  dai concorsi ad altri
impieghi  statali,  la  difesa erariale sostiene che tale conseguenza
trova  fondamento nella gravita' eccezionale della condotta ed appare
ragionevole  e  di buon senso in relazione alla natura fiduciaria del
rapporto d'impiego.
    3.  -  Si  e'  costituita  la ricorrente del giudizio principale,
chiedendo   l'accoglimento   della   questione  di  costituzionalita'
sollevata  e  delle  «successive  norme  che  ripropongono  lo stesso
precetto»  (art. 2, comma 3, del d.P.R. n. 487 del 1994; art. 402 del
d.lgs. n. 297 del 1994).
    Nell'attuale       contesto       normativo,       caratterizzato
dall'equiparazione   fra   lavoro   pubblico  e  lavoro  privato,  la
limitazione  all'accesso  al  lavoro  pubblico  sarebbe irragionevole
rispetto  alla  liberta'  del  datore  di  lavoro privato di valutare
concretamente   la   compatibilita'   della  condotta  pregressa  del
candidato  con  il  suo  inserimento  nell'organizzazione produttiva.
Inoltre,  l'automatismo  e la perpetuita' che impedisce alla pubblica
amministrazione  qualsiasi  valutazione  concreta  della fattispecie,
contrasterebbero  con  il  diritto  di  accedere agli uffici pubblici
(artt. 4   e   51   Cost.)   e   con   l'interesse   pubblico  a  che
l'amministrazione  possa selezionare la professionalita' dei migliori
cui affidare gli uffici pubblici.
    3.1.  - In prossimita' della data fissata per l'udienza, la parte
privata  ha  depositato  memoria  argomentando ulteriormente rispetto
alle conclusioni gia' formulate.
    Sottolinea  che dal diritto al lavoro - come fondamentale diritto
di  liberta'  della  persona - discende il principio, affermato dalla
stessa  Corte  costituzionale,  secondo  cui  il legislatore non puo'
introdurre  requisiti  di accesso ai pubblici uffici che si traducano
in  arbitrarie discriminazioni o ingiustificate barriere all'ingresso
nel  posto  di  lavoro  (sentenza  n. 108  del 1994). Si sofferma sul
carattere  irreversibile  della  preclusione  stabilita dall'art. 128
censurato    -    quale    emerge   dall'irrilevanza   dell'eventuale
riabilitazione  penale  o  della  decorrenza della pena accessoria di
interdizione  temporanea  dai  pubblici  uffici  - sostenendo che nel
nostro  ordinamento le ipotesi di privazione del cittadino di diritti
costituzionalmente   garantiti   devono   essere   confinate  a  casi
eccezionali.  A  tal fine, ricorda che la stessa Corte costituzionale
(sentenze n. 284 del 1999 e n. 3 del 1994) ha ritenuto illegittimo il
divieto  di rientro in servizio per il dipendente colpito da dispensa
per   infermita'.   Aggiunge   che  le  altre  cause  di  preclusione
all'accesso  sono  reversibili,  con l'eccezione della destituzione e
della  dispensa  per  incapacita'.  Ma,  in queste ultime ipotesi, il
provvedimento  espulsivo, che determina l'incapacita' a concorrere ad
un futuro impiego, e' assunto (per effetto delle sentenze della Corte
costituzionale,  a  partire  dalla  n. 270 del 1986) all'esito di una
valutazione  in concreto della condotta dell'impiegato nell'ambito di
un  procedimento  disciplinare  (destituzione),  o  all'esito  di  un
procedimento in contraddittorio che da' la possibilita' all'impiegato
di  modificare  il proprio rendimento in servizio (dispensa). Invece,
nel  caso  in  esame  - sottolinea la difesa della parte privata - la
decadenza  di  cui  all'art. 127, primo comma, lettera d), del d.P.R.
n. 3  del  1957  e' vincolata (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 148
del  2006),  la  falsita' o nullita' puo' anche non essere riferibile
all'impiegato e non e' impedita dalla eventuale buona fede (Consiglio
di  Stato,  Sezione VI, n. 1752 del 1994). In sostanza, nella specie,
si  tratterebbe  dell'unico  caso  in  cui  la  legge non consente la
valutazione  del  caso  concreto,  irragionevolmente  comprimendo  un
fondamentale diritto di liberta' della persona.
    Inoltre,  prosegue  la  difesa,  la  presenza  di condanne penali
definitive  non  ostacola  in  se'  la costituzione di un rapporto di
lavoro   pubblico,   procedendo  l'amministrazione  ad  una  autonoma
valutazione della natura e della gravita' del reato in relazione alla
natura e alle funzioni da conferire (Consiglio di Stato, Sezione III,
n. 712  del 1996 e Consiglio di Stato, Sezione VI, n. 1487 del 1997).
Invece,   l'art. 128  censurato  esclude  tale  valutazione,  con  il
«paradossale  risultato» che un soggetto condannato per il delitto di
falso  in  atto  pubblico  puo' essere riammesso in servizio ai sensi
dell'art. 10  della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (se non destituito),
o  ammesso  in  esito  a  concorso,  mentre  un  soggetto  dichiarato
decaduto,  non  per falsita' ma per vizi amministrativi dei documenti
di  assunzione,  e'  considerato  definitivamente  indegno  di essere
riammesso  in  servizio. Tanto renderebbe evidente l'irragionevolezza
della   disposizione   censurata  «che  costituisce  un  dato  oramai
eccentrico  al  sistema  ed  incompatibile  anche  con la ratio della
legislazione successiva».
    Altro     sintomo    dell'irrazionalita'    sarebbe    costituito
dall'indeterminatezza  della fattispecie presupposta (art. 127, primo
comma,  lettera d),  che  non  indica  le modalita' dell'accertamento
(processo  penale  o  istruttoria  amministrativa)  e  rinvia  ad una
categoria   onnicomprensiva,  «l'invalidita'  insanabile»  dell'atto,
senza  coordinamento  con la legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme
in  materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai
documenti    amministrativi),    che    definisce   la   nullita'   e
l'annullabilita'  (artt. 21-septies  e 21-octies). Quindi, secondo la
prospettazione  della  parte,  la  genericita'  e l'eterogeneita' dei
fatti  che possono condurre alla dichiarazione vincolata di decadenza
«postula   necessariamente   che   la   preclusione  alla  successiva
riammissione  in  servizio  sia  oggetto  di una specifica e concreta
valutazione».

                       Considerato in diritto

    1.  -  E'  all'esame  della  Corte costituzionale la questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 128, secondo comma, del decreto
del  Presidente  della  Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico
delle  disposizioni  concernenti  lo  statuto  degli impiegati civili
dello  Stato).  La  disposizione censurata stabilisce che l'impiegato
dichiarato  decaduto  ai  sensi  della  lettera d)  del  primo  comma
dell'art. 127  dello stesso decreto, e cioe' quando sia accertato che
l'impiego  fu  conseguito mediante la produzione di documenti falsi o
viziati  da  invalidita'  non  sanabile, non puo' concorrere ad altro
impiego nell'amministrazione dello Stato.
    Dinanzi  al  Tribunale  amministrativo  regionale  della  Puglia,
Sezione  staccata di Lecce, pende il giudizio promosso da una docente
per  l'annullamento delle graduatorie permanenti del concorso (di cui
all'art. 1 della legge 3 maggio 1999, n. 124), limitatamente alla sua
mancata inclusione, in applicazione dell'art. 128, secondo comma, del
d.P.R.  n. 3  del  1957. La docente era stata dichiarata decaduta, ai
sensi  del  citato  art. 127,  primo  comma,  lettera d) dello stesso
decreto,  da  un contratto annuale di insegnamento, avendo dichiarato
di  essere  invalida  civile, nonostante fossa affetta da minorazione
fisica comportante una riduzione della capacita' lavorativa inferiore
al  minimo  previsto  dalla  legge  per l'applicazione delle norme di
tutela  in  materia  di  diritto  al lavoro dei disabili. Il giudizio
avverso  il  decreto  di decadenza si era concluso con la sentenza di
rigetto  dell'impugnativa,  passata  in  giudicato, avendo il giudice
ritenuto  non  scusabile, ne' inevitabile l'ignoranza della misura di
invalidita' minima prevista dalla legge.
    La  Corte  e' chiamata a decidere se la norma censurata, anche in
considerazione del carattere definitivo della esclusione dai concorsi
ad altro impiego nell'amministrazione dello Stato, violi: a) l'art. 3
Cost., per irragionevolezza, atteso che la diversa gravita' obiettiva
dei   fatti  presupposti  (dal  reato  di  falso  alla  irregolarita'
documentale)  contrasterebbe  con  il  principio  -  enucleato  dalla
giurisprudenza costituzionale - della gradualita' sanzionatoria e del
tendenziale  superamento di sanzioni rigide, volto a salvaguardare il
parallelismo fra gravita' delle condotte e conseguenze sanzionatorie;
b)  gli  artt. 4, 35 e 51 Cost., essendo il difetto di ragionevolezza
suddetto  di  tale  gravita'  da  comprimere  altri diritti a valenza
costituzionale,  quali  il diritto al lavoro e il diritto di accedere
agli  uffici  pubblici;  c)  l'art. 97  Cost.,  sotto il profilo che,
impedendo  definitivamente  ad  alcuni  soggetti  di partecipare alle
selezioni  per  l'accesso agli impieghi pubblici senza la verifica in
concreto  della  presenza di gravi elementi ostativi, sarebbe violato
il  principio  del  buon  andamento della pubblica amministrazione in
riferimento  alla  migliore utilizzazione delle risorse professionali
potenzialmente a disposizione.
    2.  -  In  via  preliminare,  va  precisato  che e' inammissibile
l'estensione  dell'oggetto  del  giudizio  alle «successive norme che
ripropongono  lo  stesso  precetto»  (cioe'  all'art. 2, comma 3, del
decreto  del  Presidente  della  Repubblica  9 maggio  1994,  n. 487,
contenente  «Regolamento  recante  norme  sull'accesso  agli impieghi
nelle  pubbliche  amministrazioni  e  le modalita' di svolgimento dei
concorsi,  dei  concorsi  unici e delle altre forme di assunzione nei
pubblici  impieghi», e all'art. 402 del decreto legislativo 16 aprile
1994,   n. 297,   recante   «Approvazione   del   testo  unico  delle
disposizioni  legislative  vigenti in materia di istruzione, relative
alle scuole di ogni ordine e grado»), prospettata dalla parte privata
costituita. L'oggetto del giudizio di costituzionalita' e' delimitato
dall'ordinanza   di   rimessione,   potendo  le  parti  private  solo
argomentare  in  ordine  ai profili di illegittimita' prospettati dal
giudice rimettente rispetto alla norma censurata (sentenza n. 220 del
2007).
    3. - La questione e' fondata nei termini di seguito precisati.
    3.1.  - E' opportuno soffermarsi sul quadro legislativo entro cui
si inserisce l'art. 128 del d.P.R. n. 3 del 1957.
    Nell'ambito  dei  requisiti  generali  per  l'accesso all'impiego
pubblico,  l'art. 2,  comma 5,  del testo unico n. 3 del 1957 prevede
alcune  limitazioni.  Non possono accedere all'impiego: a) coloro che
siano  esclusi  dall'elettorato attivo (in base all'art. 2 del d.P.R.
20 marzo 1967, n. 223, contenente «Approvazione del testo unico delle
leggi  per  la disciplina dell'elettorato attivo e per la tenuta e la
revisione  delle  liste  elettorali»,  coloro  che  sono sottoposti a
misure di prevenzione e sicurezza e coloro ai quali e' stata inflitta
l'interdizione  perpetua  o  temporanea - per il tempo della stessa -
dai  pubblici  uffici,  sempre  che  sia intervenuto un provvedimento
definitivo);  b)  coloro  che  siano  stati destituiti (all'esito del
procedimento    disciplinare)   o   dispensati   (per   insufficiente
rendimento) dall'impiego.
    L'art. 128, secondo comma, del testo unico n. 3 del 1957 aggiunge
una  limitazione  all'accesso  per  l'impiegato  dichiarato decaduto,
«quando  sia  accertato  che  l'impiego  fu  conseguito  mediante  la
produzione  di documenti falsi o viziati da invalidita' non sanabile»
(art. 127, primo comma, lettera d).
    Con  riferimento  al  personale  della  scuola, il relativo testo
unico  (art. 402,  comma 4,  del  d.lgs. n. 297 del 1994) richiede il
possesso  dei  requisiti per l'ammissione ai concorsi di accesso agli
impieghi civili dello Stato.
    La   norma   denunciata   non   e'   inclusa   nel   processo  di
contrattualizzazione   del   rapporto  di  lavoro  con  le  pubbliche
amministrazioni.  Essa  concerne  i requisiti per l'accesso e rientra
nell'ambito  dei «procedimenti di selezione per l'accesso al lavoro e
di  avviamento  al  lavoro»,  di cui all'art. 2, comma 1, lettera c),
numero  4, della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per
la  razionalizzazione  e  la revisione delle discipline in materia di
sanita',   di   pubblico   impiego,   di   previdenza  e  di  finanza
territoriale),   richiamati   dall'art. 69,   comma 1,   del  decreto
legislativo  30 marzo  2001,  n. 165 (Norme generali sull'ordinamento
del  lavoro  alle  dipendenze  delle  amministrazioni pubbliche), per
escludere la contrattualizzazione della materia ivi disciplinata. Per
il  personale  della  scuola, l'art. 70, comma 8, dello stesso d.lgs.
n. 165  del  2001,  dispone  che  sono  fatte  salve  le procedure di
reclutamento di cui al d.lgs. n. 297 del 1994.
    3.2.   -  Le  limitazioni  legislative  all'accesso  agli  uffici
pubblici   si   collocano   nell'area   coperta   da   tre   precetti
costituzionali.   Il  legislatore  individua,  infatti,  i  requisiti
negativi  necessari  per  l'ingresso  nel rapporto di lavoro pubblico
contemperando  il  diritto  di tutti di accedere agli uffici pubblici
(art. 51  Cost.)  con  l'esigenza  di  garantire, anche attraverso la
scelta   del   personale,   il   buon   andamento  e  l'imparzialita'
dell'organizzazione  amministrativa (art. 97 Cost.) e il rispetto del
dovere di lealta' dei dipendenti pubblici (art. 98 Cost.).
    L'art. 128,  secondo comma, del d.P.R. n. 3 del 1957 persegue due
obiettivi   conformi  alla  Costituzione.  Il  primo  e'  di  vietare
l'instaurazione  del  rapporto  di  impiego  con soggetti che abbiano
agito  in violazione del principio di lealta', che costituisce - come
notato  -  uno  dei cardini dello stesso rapporto (art. 98 Cost.). Il
secondo  e'  di  tutelare l'eguaglianza dei concorrenti, pregiudicati
dalla  sleale  competizione  con chi abbia partecipato alla selezione
con documenti falsi o viziati (art. 97 Cost.).
    Tuttavia,  esso  non  e' conforme al principio, «che e' alla base
della   razionalita'   che  domina  «il  principio  di  uguaglianza»»
(sentenza n. 16 del 1991) di cui all'art. 3 Cost., di adeguatezza tra
illecito  amministrativo  e  sanzione  (affermato  da  questa Corte a
partire  dalla  sentenza  n. 270  del  1986). Infatti, la preclusione
prevista  nell'art. 128  censurato colpisce per una durata illimitata
nel tempo e automaticamente, senza distinzione, tutti i comportamenti
(dalle varie fattispecie di reato in tema di falsita' alla produzione
di   documenti   viziati  da  invalidita'  non  sanabile)  rientranti
nell'area  della  decadenza  dall'impiego  disciplinata dall'art. 127
dello stesso testo unico.
    Ne   discende  la  necessita'  che  l'amministrazione  valuti  il
provvedimento  di  decadenza  emesso  ai  sensi  dell'art. 127, primo
comma, lettera d), dello stesso decreto, per ponderare la proporzione
tra  la  gravita'  del  comportamento  presupposto  e  il  divieto di
concorrere  ad  altro impiego; potere di valutazione analogo a quello
riconosciuto da questa Corte ai fini dell'ammissione al concorso, con
riferimento  alla  riabilitazione  ottenuta  dal  candidato (sentenza
n. 408 del 1993).
    La discrezionalita' che l'amministrazione pubblica esercitera' in
tal  modo sara' limitata dall'obbligo di tenere conto dei presupposti
e  della  motivazione  del  provvedimento di decadenza, ai fini della
decisione   circa   l'ammissione   a   concorrere  ad  altro  impiego
nell'amministrazione.
    3.4.  - Va, pertanto, dichiarata l'illegittimita' costituzionale,
per  violazione  dell'art. 3 Cost., dell'art. 128, secondo comma, del
d.P.R.  n. 3  del  1957,  nella  parte  in  cui,  facendo  discendere
automaticamente  dalla  dichiarazione  di  decadenza  il  divieto  di
concorrere  ad  altro  impiego  nell'amministrazione dello Stato, non
prevede  l'obbligo  dell'amministrazione di valutare il provvedimento
di  decadenza  dall'impiego,  emesso  ai  sensi  dell'art. 127, primo
comma,  lettera d),  dello stesso decreto, al fine della ponderazione
della  proporzione  tra  gravita'  del  comportamento  e  divieto  di
concorrere ad altro impiego nell'amministrazione dello Stato.
    Restano assorbite le altre censure.