IL CONSIGLIO DI STATO Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso in appello n. 8683/1996 proposto da Bertoia Antonella, Cincotti Angela e Martini Rigamonti Cornelia, tutte rappresentate e difese dagli avv. Anna Maria Cipolla, Cristiano Romano ed Eugenio Merlino ed elettivamente domiciliate presso lo studio di quest'ultima, in Roma, via Genovesi n. 3; Contro il Ministero di grazia e giustizia (ora: della giustizia), in persona del Ministro pro tempore; il Ministero del tesoro (ora: dell'economia e delle finanze), in persona del Ministro pro tempore, costituitisi in giudizio, ex lege rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato e domiciliati presso gli uffici della stessa, in Roma, via dei Portoghesi n. 12, per l'annullamento della sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, sez. III, n. 812/1996, in data 17 giugno 1996. Visto l'atto di appello con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dei Ministeri di grazia e giustizia e del tesoro; Vista l'ordinanza n. 7630/2004, di sospensione del giudizio e di «trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, per la definizione della questione della costituzionalita' dell'art. 3, comma 1, della legge 19 febbraio 1981, n. 27, nella parte in cui esclude la corresponsione - durante i periodi di astensione obbligatoria dal lavoro ai sensi dell'art. 4 della legge 30 dicembre 1971 - della speciale indennita' dallo stesso istituita, per violazione dell'art. 3 della Costituzione, in relazione all'art. 21 del d.P.R. 17 gennaio 1990, n. 44 e delle omologhe previsioni dei contratti collettivi successivi relativi al personale del comparto Ministeri»; Vista la conseguente pronunzia della Corte costituzionale (ordinanza n. 10/2006); Visto l'atto di riassunzione del giudizio da parte delle appellanti; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive domande e difese; Visti gli atti tutti della causa; Data per letta, alla pubblica udienza del 13 aprile 2007, la relazione del consigliere Salvatore Cacace; Uditi, alla stessa udienza, l'avv. Anna Maria Cipolla per l'appellante e l'avv. Wally Ferrante dello Stato per l'Amministrazione della giustizia; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue. F a t t o e d i r i t t o 1. - Con la sentenza appellata veniva respinto il ricorso proposto da diverse donne magistrato al fine di ottenere l'accertamento del loro diritto alla corresponsione, anche nel periodo in cui si sono dovute astenere dal lavoro per maternita' e puerperio ai sensi dell'art. 4 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, dell'indennita' prevista dall'art. 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27 (c.d. «indennita' giudiziaria»). 1.1. - Avverso tale decisione proponevano appello le ricorrenti indicate in epigrafe, criticando le argomentazioni assunte a sostegno della gravata statuizione reiettiva ed insistendo per l'accertamento della spettanza in loro favore della reclamata indennita', previa riforma della sentenza appellata. 1.2. - Resistevano i Ministeri di grazia e giustizia e del tesoro. Il primo, con memoria, concludeva per la reiezione dell'appello. 1.3. - Alla pubblica udienza dell'8 luglio 2004 il ricorso veniva trattenuto in decisione all'esito della quale, con ordinanza n. 7630/2004, la sezione sospendeva il giudizio, ordinando la «trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, per la definizione della questione della costituzionalita' dell'art. 3, comma 1, della legge 19 febbraio 1981, n. 27, nella parte in cui esclude la corresponsione - durante i periodi di astensione obbligatoria dal lavoro ai sensi dell'art. 4 della legge 30 dicembre 1971 - della speciale indennita' dallo stesso istituita, per violazione dell'art. 3 della Costituzione, in relazione all'art. 21 del d.P.R. 17 gennaio 1990, n. 44 e delle omologhe previsioni dei contratti collettivi successivi relativi al personale del comparto Ministeri». 1.4. - Con ordinanza n. 10 del 2006 la Corte costituzionale, riunito il giudizio con altri di identico oggetto, ha ordinato la restituzione degli atti a questo Consiglio, rilevando: «che, successivamente alla pronuncia delle ordinanze di rimessione, e' entrata in vigore la legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge finanziaria 2005), il cui art. 1, comma 325, ha disposto che «all'art. 3, primo comma, della legge 19 febbraio 1981, n. 27, le parole «assenza obbligatoria o facoltativa previsti negli articoli 4 e 7 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204» sono sostituite dalle seguenti «astensione facoltativa previsti dagli articoli 32 e 47, commi 1 e 2 del testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151» (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternita' e della paternita', a norma dell'art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53); che la sopravvenuta modificazione del quadro normativo di riferimento impone il riesame da parte del rimettente della perdurante rilevanza della questione, competendo altresi' al giudice a quo la preliminare valutazione in ordine all'applicabilita' dello jus superveniens alla fattispecie sottoposta al suo esame». 1.5 - Con atto notificato in data 4 luglio 2006 e depositato il successivo 14 luglio, le appellanti hanno riassunto il giudizio, «ritenendo applicabile lo jus superveniens ed in via subordinata la perdurante rilevanza della questione di legittimita' costituzionale oggetto della citata ordinanza». 1.6 - Le stesse, con successiva memoria, hanno ribadito la loro pretesa di annullamento dei provvedimenti oggetto del giudizio, con cui e' stata a suo tempo respinta l'istanza di corresponsione dell'emolumento anzidetto e, in via subordinata, di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, «qualora dovesse persistere la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3, legge n. 27/1981 per contrasto con l'art. 3 Cost.». Anche il Ministero della giustizia ha depositato memoria conclusiva, chiedendo la conferma della decisione di primo grado, «attesa l'applicabilita' al caso di specie dell'art. 3, legge n. 27/1981 in senso restrittivo». La causa e' stata chiamata e trattenuta in decisione alla udienza pubblica del 13 aprile 2007. 2. - Le parti controvertono sulla spettanza alle ricorrenti dell'indennita' di cui all'art. 3 della legge n. 27/1981, anche nei periodi di astensione obbligatoria dal lavoro per maternita' o puerperio. Gia' con ordinanza n. 7630/2004 la sezione rifiutava la lettura della norma in considerazione (nella sua versione anteriore alle modifiche alla stessa apportate dall'art. 1, comma 325, della legge 30 dicembre 2004 n. 311), proposta dalle appellanti «in un senso che consenta l'invocata affermazione della spettanza dell'indennita' anche per i periodi in contestazione», ritenendola «sprovvista di ogni apprezzabile riscontro positivo, posto che, a fronte dell'univoca portata letterale della norma (che esclude espressamente la debenza dell'emolumento nei periodi di assenza obbligatoria per maternita' e puerperio), non e' dato ricavare nell'ordinamento alcuna disposizione successiva che, per il suo carattere radicalmente incompatibile con la prima, consenta di affermare l'avvenuta abrogazione tacita di quest'ultima». Donde, verificata positivamente la rilevanza e la non manifesta infondatezza dell'eccezione di incostituzionalita' della disposizione controversa sollevata dalle appellanti. rimetteva, con la stessa ordinanza, gli atti alla Corte costituzionale, «per la definizione della questione della costituzionallita' dell'art. 3, comma 1, della legge 19 febbraio 1981, n. 27, nella parte in cui esclude la corresponsione - durante i periodi di astensione obbligatoria dal lavoro ai sensi dellart. 4 della legge 30 dicembre 1971 - della speciale indennita' dallo stesso istituita, per violazione dell'art. 3 della Costituzione, in relazione all'art. 2 1 del d.P.R. 17 gennaio 1990, n. 44 e delle omologhe previsioni dei contratti collettivi successivi relativi al personale del comparto Ministeri». 3. - In ordine alla rilevanza della questione di costituzionalita' in considerazione, la Corte costituzionale, nel disporre la restituzione degli atti con ordinanza n. 10 del 2006, ha invitato questo giudice ad effettuarne un riesame, alla luce della sopravvenuta modificazione del quadro normativo di riferimento, rappresentata dall'art. 1, comma 325, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, che ha disposto che «all'art. 3, primo comma, della legge 19 febbraio 1981, n. 27, le parole assenza obbligatoria o facoltativa previsti negli articoli 4 e 7 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204» sono sostituite dalle seguenti «astensione facoltativa previsti dagli articoli 32 e 47, commi 1 e 2 del testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151». Compete altresi' al giudice a quo, ha aggiunto l'anzidetta ordinanza della Corte, «la preliminare valutazione in ordine all'applicabilita' dello jus superveniens alla fattispecie sottoposta al suo esame». Indubbiamente, rileva in proposito il Collegio, la questione centrale oggetto della controversia, e cioe' la sussistenza o meno del diritto delle interessate a vedersi riconosciuto l'elemento retributivo di cui trattasi anche durante il periodo di assenza obbligatoria per maternita', l'espressa previsione normativa sopravvenuta, eliminando dal novero delle ipotesi di non corresponsione dell'emolumento stesso proprio i periodi di astensione obbligatoria anzidetti, in astratto risolve in senso favorevole alle odierne appellanti, in quanto la nuova norma rimuove esattamente quell'ostacolo positivo al riconoscimento della loro pretesa, che alle stesse e' stato opposto prima dall'Amministrazione, poi dal giudice di primo grado ed infine, con le argomentazioni svolte nella precedente ordinanza di rimessione, da questo stesso giudice. Oggi, pertanto, sulla base del nuovo testo dell'art. 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27 (come risultante dalle modifiche allo stesso apportate dall'art. 1, comma 325, della legge 30 dicembre 2004, n. 311), la materia della erogazione di detta indennita' e' disciplinata con il riconoscimento ai magistrati ordinarii della spettanza della stessa anche durante i periodi di astensione obbligatoria dal lavoro per maternita'. Tale nuova disciplina non e', pero', ad avviso della sezione, applicabile alle situazioni, come quella in cui versano le odierne appellanti, esauritesi prima del 1° gennaio 2005, data di entrata in vigore della norma, che la disciplina stessa ha recato. Il Collegio deve infatti rilevare che, con riguardo a tali situazioni, non sussistono i presupposti pacificamente delineati in giurisprudenza per l'applicazione retroattiva del nuovo regime. Invero, la novella, di cui all'art. 1, comma 325, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, puo' ben leggersi come una sorta di intervento correttivo, volto ad uniformare il sistema della erogazione dell'emolumento in questione e ad attenuare le stridenti differenze tra i destinatari dello stesso, poste in luce proprio nella precedente ordinanza di rimessione di questa sezione; con la conseguenza che la ratio adeguatrice ai principii costituzionali, cosi' attribuibile al predetto art. 1 della legge n. 311 cit., giustificherebbe il carattere retroattivo del medesimo. Ma un tale carattere, sottolinea il Collegio, poteva essere attribuito alla norma solo dal legislatore stesso, il quale, ponendo in essere una norma innovativa con efficacia retroattiva (sul cui genus vedasi Corte cost., 7 luglio 2006, n. 274), avrebbe palesato di ritenere, al meditato esame proprio della sede legislativa, la disposizione originaria dell'art. 3 in considerazione, per la parte che qui interessa, in contrasto con i principii costituzionali e da espungere quindi dall'ordinamento in occasione del primo intervento correttivo. Una tale ratio della disposizione correttiva non essendo stata tuttavia resa esplicita dal legislatore con l'attribuzione ad essa della sua massima potenzialita' rispetto alla sua ragione ed alla sua funzione e cioe' dell'efficacia retroattiva, ad una siffatta attribuzione non puo' pervenire questo giudice attraverso una operazione interpretativa, che, se da un lato assicurerebbe la conformita', messa in dubbio dalla precedente ordinanza di rimessione, ai principi costituzionali della normativa precedente alla novella e se pure apparentemente rispettosa del criterio secondo cui deve preferirsi l'interpretazione di una norma che comporti un quadro normativo compatibile con le prescrizioni costituzionali, travalicherebbe in sostanza dall'ambito meramente interpretativo per sostituirsi al legislatore, il quale soltanto puo' emanare sia disposizioni di «interpretazione autentica» (che determinano - chiarendola - la portata precettiva della norma interpretata fissandola in un contenuto plausibilmente gia' espresso dalla stessa), sia norme innovative con efficacia retroattiva, idonee, cioe', a disciplinare con efficacia retroattiva anche situazioni pregresse, in deroga al principio, secondo cui la legge non dispone che per l'avvenire; «tipi» di legislazione, questi, entrambi in grado di toglier valore, purche' con adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza (v. Corte cost., n. 274/2006, cit.), al divieto di retroattivita' della legge, che, pur non elevato a dignita' costituzionale (salva per la materia penale la previsione dell'art. 25 della Costituzione), costituisce fondamentale elemento di civilta' giuridica e principio generale dell'ordinamento. La sezione ritiene, peraltro, che il nuovo testo dell'art. 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27 (come risultante dalle modifiche allo stesso apportate dall'art. 1, comma 325, della legge 30 dicembre 2004, n. 311) non abbia nemmeno carattere interpretativo e che, quindi, esso non possa che disporre per il futuro. Il carattere di norma di interpretazione autentica va infatti riconosciuto soltanto alle norme dirette a chiarire il senso di quelle preesistenti, ovvero ad escludere o ad enucleare uno dei sensi tra quelli ragionevolmente ascrivibili alle norme interpretate (Cons. St., ad. plen., 24 marzo 2006, n. 3); mentre, nel caso della nuova disposizione di cui trattasi, la scelta assunta dal legislatore del 2004 con la nuova formulazione dell'art. 3 della legge n. 27 del 1981 non rientra in nessuna delle varianti di senso compatibili con il tenore letterale del disposto del pregresso art. 3, che, anzi, come rilevava proprio la precedente ordinanza di rimessione, presentava e presenta una «univoca portata letterale», escludendo «espressamente la debenza dell'emolumento nei periodi di assenza obbligatoria per maternita' e puerperio». Siffatta disposizione, con riguardo al periodo precedente l'entrata in vigore della novella, non consente, sotto alcun versante interpretativo, la corresponsione dell'indennita' di cui qui si controverte, si che la sua rilevanza nel presente giudizio, alla luce della veduta non retroattivita' della novella stessa, appare immutata nella sua palese evidenza. 4. - La norma non appare scevra dai dubbi di incostituzionalita' gia' espressi nella precedente ordinanza di rimessione (nella quale la questione di legittimita' costituzionale sollevata dalle appellanti e ritenuta non manifestamente infondata da questo giudice ha in sostanza funzione strumentale per la decisione della controversia, quale mezzo al fine di conseguire una sentenza piu' favorevole di quella impugnata), che, nel riportare qui di seguito, il Collegio fa integralmente propri: a) quanto alla «astratta proponibilita' della questione»: «La differenza del regime della regolamentazione del rapporto di lavoro tra le due categorie considerate - magistrati e personale dirigente delle cancellerie e delle segreterie giudiziarie (contrattualizzata la prima, ma non la seconda) - non vale, ad avviso del Collegio, ad escludere la configurabilita' della prospettata violazione dell'art. 3 della Costituzione e, quindi, della denunciata disparita' di trattamento. La circostanza che un tipo rapporto trovi la sua fonte nella legge e l'altro in un contratto collettivo (anche prescindendo dalla natura latu sensu normativa di quest'ultimo) non esime, invero, il legislatore che regola il primo dal rispetto del suddetto precetto costituzionale (quand'anche il trattamento piu' favorevole venga introdotto da un contratto collettivo successivo alla legge), ne' preclude la verifica dell'osservanza di quel dovere ed il riscontro della sua violazione (secondo il procedimento incidentale di scrutinio della costituzionalita' del regime legislativo deteriore). L'eterogeneita' della natura della fonte della disciplina delle condizioni del rapporto di lavoro (e, in particolare, dei diritti e degli obblighi dei lavoratori) non impedisce, in definitiva, il sindacato costituzionale della compatibilita' delle differenze riscontrate nelle condizioni stabilite dalla legge e dal contratto collettivo con il principio della Carta fondamentale che impone (alla prima) di garantire il medesimo trattamento a situazioni sostanziali identiche. Diversamente opinando, si perverrebbe, peraltro, all'inaccettabile conclusione di impedire un controllo di costituzionalita' di una disposizione di legge che esclude la spettanza di un diritto, viceversa riconosciuto, a parita' di situazioni, ad un'altra categoria di lavoratori da un'altra fonte del diritto, e, quindi, in definitiva, di convalidare una palese ingiustizia, legittimando una diversa disciplina di situazione sostanziali identiche. Senza considerare che la regolamentazione del rapporto di personale «contrattualizzato» non puo' che essere negoziale e che escludendo la prospettabilita', come tertium comparationis, del contratto collettivo si finisce per sottrarre il legislatore che disciplina il rapporto di una categoria di lavoratori sostanzialmente omologa alla prima (nel senso che opera nello stesso settore dell'ordinamento) all'ambito applicativo dell'art. 3 della Costituzione, di avvalorare eventuali trattamenti deteriori del personale non «contrattualizzato» e di ridurre, anzi di eliminare, (inammissibilmente) in danno di quest'ultimo le garanzie costituzionali connesse all'esigenza di parita' di trattamento di situazioni uniformi. Quand'anche, tuttavia, si intendesse negare la configurabilita' di una disparita' di trattamento tra legge e contratto, si dovrebbe, in ogni caso, riconoscere che, per effetto dell'attribuzione (con il contratto collettivo) al personale femminile delle cancellerie e delle segreterie giudiziarie del diritto all'indennita' giudiziaria anche nei periodi di astensione obbligatoria per maternita' e puerperio, si e' determinato un diverso assetto del trattamento della predetta categoria di dipendenti, in relazione alla cui sopravvenienza la disposizione censurata conserva, per le donne magistrato, un regime giuridico ormai connotato da un'ingiustificata difforme configurazione, che ne implica una palese incompatibilita' costituzionale. Resta, in ogni caso, confermata, anche sulla base delle considerazioni da ultimo svolte, la configurabilita' della dedotta inosservanza del precetto costituzionale che prescrive l'uniforme regolamentazione normativa di situazioni uguali e che vieta al legislatore, pena l'incostituzionalita', di introdurre, o di mantenere, discipline diverse di fattispecie omologhe»; b) quanto alla verifica se l'eccezione nella specie formulata, per come prospettata, cioe', nei termini sopra riferiti, sia mai stata esaminata dalla Corte: «Per quanto consta, il giudice delle leggi ha delibato la questione della costituzionalita' dell'art. 3, legge n. 27/1981, sotto tre distinti profili: con una prima sentenza (n. 238 dell'8 maggio 1990) ha escluso la sussistenza della denunciata disparita' di trattamento delle donne magistrato rispetto alla generalita' delle dipendenti statali; con una seconda pronuncia (n. 407 del 24 dicembre 1996) e' stata esclusa la prospettata disparita' di trattamento delle donne magistrato obbligatoriamente assenti per maternita' rispetto ai magistrati in servizio ed e' stata riconosciuta la compatibilita' dell'art. 3, legge n. 27/1981 con il precetto costituzionale che impone un'adeguata protezione della lavoratrice madre (art. 37 della Costituzione); con un'altra decisione (n. 106 del 18 aprile 1997) e' stata, infine, esclusa la sussistenza della disparita' di trattamento tra magistrati donne e magistrati uomini e della prospettata violazione delle norme costituzionali che prescrivono la tutela della famiglia, della maternita' e dell'infanzia (artt. 30 e 31 della Costituzione). Come si vede, quindi, la Corte non ha mai esaminato la questione, nei termini in cui e' stata posta dalle odierne ricorrenti, della sussistenza di una disparita' di trattamento tra le donne magistrato e le dipendenti del Ministero della Giustizia addette alle cancellerie ed alle segreterie giudiziarie»; c) quanto, infme, alla valutazione della non manifesta infondatezza della questione: Giova premettersi, in fatto, che con l'art. 1 della legge n. 221/1988 e' stata attribuita al personale dirigente delle cancellerie e delle segreterie giudiziarie l'indennita' di cui all'art. 3, legge n. 27/1981, che con la medesima disposizione e' stata espressamente esclusa la spettanza di tale emolumento nei periodi di astensione obbligatoria dal lavoro per maternita' e puerperio, che, tuttavia, con l'art. 21, d.P.R. 17 gennaio 1990, n. 44 (di recepimento dell'accordo relativo al personale del comparto Ministeri) e' stata prevista l'attribuzione alle lavoratrici madre in astensione obbligatoria ai sensi dell'art. 4 della legge n. 1204/1971 delle "quote di salario accessorio fisse e ricorrenti relative alla professionalita' ed alla produttivita'" che tale previsione e' stata interpetetata ed applicata dal Ministero della giustizia nel senso della spettanza alle proprie dipendenti addette alle cancellerie ed alle segreterie dell'indennita' giudiziaria anche nei periodi di assenza obbligatoria per maternita' e puerperio (cfr. circolare n. 22 in data 22 settembre 1993 della Direzione generale organizzazione giudiziaria e affari generali), che la predetta previsione e' stata ribadita nei contratti collettivi nazionali successivi del personale del comparto Ministeri e che, a quanto consta, l'emolumento controverso risulta regolarmente corrisposto alla suddetta categoria di personale nei periodi considerati. Attualmente, quindi, per effetto delle predette previsioni dei contratti collettivi (per come interpretate ed attuate dall'amministrazione della giustizia), le lavoratrici addette alle cancellerie ed alle segreterie giudiziarie percepiscono l'indennita' di cui aIl'art. 3 n. 27/1981 (loro estesa dall'art. 1, legge n. 221/1988) anche nei periodi di astensione obbligatoria per maternita' e puerperio, mentre le donne magistrato non ricevono alcunche', nella medesima situazione, a quel titolo. Osserva, al riguardo, il Collegio, nei limiti della valutazione della non manifesta infondatezza della prospettata eccezione di incostituzionalita' dell'art. 3, legge n. 27/1981, che la posizione delle diverse categorie di lavoratrici considerate non presenta differenze tali da giustificare l'attribuzione ad una sola del diritto all'indennita' di giudiziaria nei periodi di astensione obbligatoria dal lavoro per maternita' e puerperio e che, anzi, l'identita' della ratio dell'attribuzione ad entrambe del medesimo emolumento (agevolmente ravvisabile nell'esigenza di compensare con un'ulteriore voce retributiva la gravosita' dell'impegno connesso all'esercizio dell'attivita' giudiziaria, cui concorre anche il personale dirigente delle cancellerie e delle segreterie) impone di escludere la compatibiita' di una diversa disciplina dei relativi diritti tra classi di dipendenti del tutto omologhe, quanto alla spettanza dell'indennita' giudiziaria, con il parametro costituzionale (art. 3) che esige la parita' di trattamento di situazioni uguali (cfr. Corte cost. 26 novembre 2002, n. 476, in cui si ribadisce il principio, costituzionalmente garantito, della necessita' dell'identita' di disciplina di fattispecie connotate dagli stessi caratteri o, comunque, non adeguatamente differenziate tra loro». In conclusione, sottolinea il Collegio, se la protezione del valore della maternita' puo' essere attuata con interventi legislativi di contenuto e modalita' anche diversi in relazione alle caratteristiche di ciascuna delle situazioni considerate (Corte cost., 14 dicembre 2001, n. 405), appare discriminatoria l'assenza di tutela, che si realizza nel momento in cui, in presenza di una identica situazione e di un medesimo evento, alcuni soggetti si vedono privati di provvidenze riconosciute, invece, in capo ad altri, che si trovano nelle medesime condizioni (Corte cost., 14 ottobre 2005, n. 385); discriminazione oggi evidente, alla luce della norma sopravvenuta, all'interno della stessa categoria delle donne-magistrato, che si vedono attribuite una differente tutela della maternita', senza alcuna ragione logica, solo a seconda della collocazione temporale dell'evento maternita' rispetto all'entrata in vigore della norma stessa. 5. - Le suesposte considerazioni fondano, in definitiva, il giudizio di persistente rilevanza e di non manifesta infondatezza della questione della illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 1, della legge n. 27/1981, nella versione antecedente alle modifiche ad esso apportate dall'art. 1, comma 325, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, nella parte in cui esclude la corresponsione, durante i periodi di astensione obbligatoria dal lavoro ai sensi dell'art. 4 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, della speciale indennita' dallo stesso istituita, per violazione dell'art. 3 della Costituzione, in relazione all'art. 21 del d.P.R. n. 44/1990 (da valersi quale tertium comparationis, unitamente alla uniforme contrattazione collettiva successiva) ed in relazione, altresi', alla nuova disciplina recata dall'art. 3 medesimo nella versione sopravvenuta. 6. - Ne consegue che della risoluzione dell'anzidetta questione va investita la Corte costituzionale, con conseguente sospensione del presente procedimento.