LA CORTE DI APPELLO

    Ha pronunciato la seguente ordinanza.
    Letta  l'istanza  depositata  il  16 settembre 2006, con la quale
Bonazza Alessandro Valentino, nato a Trieste il 14 febbraio 1961, ivi
residente  in  via  Cotogna n. 41, richiede tempestivamente, ai sensi
degli   artt. 314   e  315  c.p.p.,  la  riparazione  per  l'ingiusta
detenzione  dallo  stesso  subita dall'8 gennaio 1999 all'8 settembre
2000  (anni  uno  e mesi otto), a seguito dell'arresto effettuato dai
Carabinieri del reparto operativo del Comando provinciale di Trieste,
convalidato  dal  g.i.p.  di  Tribunale  di Trieste con ordinanza dd.
11 gennaio  1999,  con  la  quale  era  altresi'  applicata la misura
cautelare  della  custodia in carcere - relativamente a tutti i reati
contestati:
        1)  detenzione  e  porto  in luogo pubblico di arma comune da
sparo (pistola cal. 7,65);
        2) ricettazione della medesima arma, oggetto di furto;
        3)  detenzione  e  porto  di arma comune clandestina, perche'
priva dei numeri di riconoscimento, in quanto abrasi;
        4)  tentato omicidio premeditato in danno di Brazzati Claudio
-,  nell'ambito  del  procedimento  n. 54/1999  RGNR  TS nel quale il
g.u.p.  del  Tribunale  di  Trieste, con sentenza n. 372/1999 di data
26 novembre   1999,   derubricato   il   reato  di  tentato  omicidio
premeditato in quello di lesioni personali volontarie pluriaggravate,
dichiarava  il Bonazza colpevole dei reati ascrittigli e, concesse le
circostanze  attenuanti  della  seminfermita'  e  del danno risarcito
prevalenti   sulle  aggravanti,  riconosciuta  la  continuazione,  lo
condannava  alla  pena  di  anni  uno, mesi otto di reclusione e lire
3.000.000  di  multa,  nonche'  al pagamento delle spese processuali,
escludendo  la  concedibilita'  della  sospensione condizionale della
pena  ed  ordinandone il ricovero in casa di cura e custodia per mesi
sei,  previa ulteriore verifica della pericolosita' sociale; la Corte
di  appello  di  Trieste, con sentenza n. 503/2004 dd. 17 giugno 2004
(irr.  il  17 settembre  2004),  in  parziale  riforma della predetta
sentenza,  ulteriormente  derubricato  il  reato  sub  4)  in  quello
previsto  e  punito  dall'art. 590  c.p.,  dichiarava  di non doversi
procedere   in   ordine  a  tale  reato  per  difetto  di  querela  e
rideterminava  la  pena  per  i  residui  reati  (capi 1) 2) e 3), ex
art. 599 c.p.p., in anni uno, mesi due, giorni venti di reclusione ed
euro  1.600,00  di multa, revocando altresi' la misura di sicurezza e
concedendo i doppi benefici di legge.
    Letta  la  memoria di costituzione dell'Avvocatura dello Stato di
Trieste, nell'interesse del convenuto Ministero dell'economia e delle
finanze, con la quale si conclude per il rigetto dell'istanza ovvero,
in subordine, per la riduzione del quantum a misura di giustizia;
    Fissata l'udienza del 18 gennaio 2007, differita a quella odierna
per l'impedimento del difensore, e sentite le conclusioni delle parti
comparse;
    Ritenuta la propria competenza;

                            O s s e r v a

    Sostiene  il  ricorrente  che  - essendo stata sempre riferita la
detenzione  cautelare  al  tentato  omicidio,  prima, ed alle lesioni
dolose gravi, poi - potrebbe in primo luogo ipotizzarsi, in relazione
all'intervenuto  proscioglimento  per  tale  delitto,  una detenzione
ingiustificata ab inizio.
    Sostiene  in  primo  subordine  il ricorrente, che certamente non
potra'  ritenersi  giustificata  la detenzione per misura superiore a
quella  cautelare  massima  per i reati di ricettazione, detenzione e
porto  dell'arma  comune da sparo e dell'arma clandestina, nettamente
inferiori  anche alla pena irrogata con la sentenza pronunciata dalla
Corte di appello.
    Infine,   ancora  per  certo,  non  potranno  comunque  ritenersi
giustificati i cinque mesi e dieci giorni (o la maggior cifra) in cui
il  Bonazza  fu  ristretto non essendo piu' giustificata la cautelare
per  il  reato di lesioni personali, rivelatosi infine insussistente;
tanto  piu'  che,  tolta  la  pena  inflitta  per  tale  reato, ne e'
risultata pena inferiore al presofferto cautelare.
    Orbene, la domanda, per i primi due profili evidenziati, non puo'
essere accolta.
    L'ordinanza  applicativa  della  misura  cautelare (al pari della
richiesta  del pubblico ministero) e' infatti esplicitamente riferita
a tutte le fattispecie di reato contestate e non solo dunque a quella
di  tentato omicidio aggravato, cosi' che, trattandosi di delitti che
consentono  l'applicazione  della  misura cautelare della custodia in
carcere, non v'e' questione di detenzione ingiustificata ab initio.
    Quanto alla entita' della custodia cautelare massima prevista per
i  reati per i quali e' intervenuta pronuncia definitiva di condanna,
deve  considerarsi  che  quella  massima  prevista  per  il  reato di
detenzione e porto di arma clandestina e' superiore a quella irrogata
con la sentenza definitiva di condanna a norma degli artt. 303 e 407,
comma 2, lettera a) c.p.p.
    Ben  piu' complesse questioni si pongono con riferimento al terzo
profilo evocato dal ricorrente.
    Riassumendo:   si   ha,   nel   caso,  una  detenzione  cautelare
legittimamente  protrattasi  per anni uno e mesi otto, e cioe' per il
periodo   corrispondente   alla   pena   inflitta   -   non   sospesa
condizionalmente,  in  relazione  alla ritenuta pericolosita' sociale
dell'imputato  - con la sentenza di condanna di primo grado per tutti
i  titoli  contestati  (ancorche'  derubricato  il  reato  di tentato
omicidio  premeditato  in  quello  di  lesioni  personali  volontarie
pluriaggravate).  Ormai cessata la custodia, e' sopravvenuta sentenza
di  secondo  grado  (poi divenuta irrevocabile), di condanna, per tre
dei  delitti  ascritti, e di improcedibilita' per difetto di querela,
relativamente  al  quarto, ulteriormente derubricato in tale sede nel
delitto    previsto   e   punito   dall'art. 590   c.p.;   e'   stata
conseguentemente  disposta  la riduzione della pena inflitta in primo
grado  ed accordata la sospensione condizionale della pena, all'esito
di  nuovo  giudizio  negativo  in  ordine alla pericolosita' sociale,
oltre alla non menzione della condanna.
    Orbene,  nella  situazione  data, non v'ha dubbio che il disposto
dell'art. 314  c.p.p., come costantemente interpretato dalla Corte di
cassazione  non  consente  di  ritenere ingiusta la detenzione e, per
l'effetto, di affermare il diritto alla riparazione.
    In   termini  generali,  l'ambito  di  applicazione  della  norma
dell'art. 314,  comma 2  c.p.p. e' stato definito dalla suprema Corte
(Cass.,  sez. un., n. 20, 12 ottobre 1993, Durante, CED 195353, Cass.
Pen.,  1994, n. 162; 12 ottobre 1993, Stablum e Capitali, Cass. Pen.,
1994,  n. 1640)  nel  senso  che non sono idonee a fondare il diritto
alla  riparazione  per  l'ingiusta  detenzione  le  violazioni  degli
artt. 274  e  275 c.p.p., mentre il diritto si configura ove sussista
una causa di illegittimita' enucleabile dall'art. 273 o dall'art. 280
c.p.p.;   con   riferimento  alla  «decisione  irrevocabile»  di  cui
all'art. 314,   comma 2  c.p.p.,  tali  stesse  pronunce  hanno  pure
affermato  che  «in  alcune  ipotesi  l'illegittimita'  della  misura
cautelare  ai  sensi del comma 2 del citato art. 314, puo' risultare,
in   modo  implicito  e  tuttavia  evidente,  dalla  stessa  sentenza
definitiva  di  merito.  Cio' si verifica sicuramente nei casi in cui
l'imputato  sia  stato  condannato  per  un  reato  diverso da quello
contestato  ed  inoltre  punito  con  pena edittale non superiore nel
massimo a tre anni di reclusione, per cui la misura cautelare risulti
ex  post  inflitta in violazione del cit. art. 280 c.p.p., ovvero nel
caso  in  cui l'imputato sia stato viceversa assolto perche' il reato
era  estinto  sin dal momento di applicazione o conferma della stessa
misura»;  «come  per  le  ipotesi  di  cui all'art. 314, comma primo,
c.p.p.   l'ingiustizia   sostanziale   della  custodia  cautelare  e'
individuata   sulla   base   di   una   valutazione  ex  post,  cosi'
l'ingiustizia  formale  o illegittimita' della misura cautelare nelle
ipotesi  di  cui  al  comma  secondo  del  citato  art. 314  non deve
necessariamente  risultare  ex ante (cioe' in termini di errore nella
valutazione    sulla   inesistenza   dei   presupposti   al   momento
dell'emissione  del  provvedimento  con  il quale e' stata disposta o
mantenuta)  ma  puo' risultare sulla base di una valutazione ex post,
alla  luce  delle  emergenze  probatorie  confluite  nella  decisione
irrevocabile  che  accerta  l'illegittimita' e che puo' essere quella
terminativa   del   procedimento.   (Nella  fattispecie  la  custodia
cautelare  era  stata  revocata  con  la  sentenza  con cui era stato
definito  il  giudizio,  in  quanto  nel  fatto  contestato era stato
ravvisato  un  reato  diverso da quello configurato» (Cass., sez. IV,
n. 639,  11 maggio  -  10 novembre  1993,  Ric.  Min. tesoro in proc.
Franceschini, CED 196185).
    Piu'  in  particolare,  «in  tema  di  riparazione per l'ingiusta
detenzione (art. 314 c.p.p.) deve ritenersi che, nel caso di processo
cumulativo, se il provvedimento restrittivo della liberta' e' fondato
su  piu'  contestazioni, il proscioglimento con formula non di merito
anche  da  una  sola  fra  queste - sempreche' autonomamente idonea a
legittimare  la  compressione  della  liberta'  stessa - impedisce il
sorgere del diritto alla riparazione, irrilevante risultando il pieno
proscioglimento  dalle  altre imputazioni» - (Cass., sez. IV, n. 421,
9 febbraio  -  4 aprile  1996,  Zaccaria, CED 204426); ed ancora, «in
tema  di  riparazione  per l'ingiusta detenzione, nel caso di diversa
qualificazione  giuridica del delitto originariamente contestato (che
ha determinato il provvedimento restrittivo) in altro delitto che non
consenta  la  custodia  cautelare,  il diritto alla riparazione sorge
esclusivamente  se,  in  seguito a tale «derubricazione», la custodia
cautelare    sia   illegittimamente   mantenuta,   come   si   ricava
dall'espressione  «o  mantenuto»  contenuta  nell'art. 314,  comma 2,
c.p.p.»  (Cass., sez. IV, n. 683, 11 marzo - 17 luglio 1997, Cesario,
CED  208529);  «in  tema  di  riparazione  per l'ingiusta detenzione,
l'ingiustizia  formale  della  detenzione,  anche  se  conseguente  a
diversa  qualificazione  del  fatto  contestato nell'imputazione come
reato  procedibile  a querela, tuttavia mancante, e/o punito con pena
edittale  non  superiore  nel  massimo a tre anni di reclusione, deve
risultare da una decisione irrevocabile in fase (o comunque, come nel
giudizio  direttissimo,  con  valenza  anche)  cautelare:  invero, la
«derubricazione»  che avvenga al di fuori del giudicato (con valenza)
cautelare e nel giudizio di merito - per effetto della valutazione di
circostanze  emerse  solo  nella istruzione dibattimentale o rilevate
dal  giudice  di  ufficio, senza che abbiano costituito oggetto della
controversia  -  e'  estranea alla categoria dell'errore giudiziario,
giacche'  in  tal caso l'applicazione della misura e' originariamente
legittima  e  manca il titolo del diritto alla riparazione, che sorge
esclusivamente   se,  in  seguito  alla  detta  «derubricazione»,  la
custodia  cautelare  sia  illegittimamente  mantenuta, come si ricava
dalla  seconda  previsione contenuta nell'art. 314 cpv. c.p.p. (Nella
fattispecie  la  decisione  di  merito  che  riconosceva  il  diritto
all'indennita' - annullata senza rinvio in applicazione del principio
massimato  -  era  relativa  ad  una detenzione disposta per il reato
originariamente  contestato  di  sequestro di persona, derubricato in
ratto  a  fine  di  libidine  e  dichiarato  improcedibile per la non
equipollenza dell'atto di denuncia a querela, rilevata d'ufficio solo
dalla Corte di appello)» Cass., sez. IV, n. 36, 12 gennaio - 13 marzo
1999, Onori, CED 213231; conf. n. 12781, 26 febbraio - 19 marzo 2003.
Cannavo', CED 223828).
    Come s'e' detto, nel caso di specie, la derubricazione di uno dei
reati  contestati in fattispecie procedibile a querela di parte, e la
conseguente  declaratoria  di  improcedibilita',  si  ebbe  quando la
vicenda  cautelare si era ormai esaurita e la relativa detenzione era
da   tempo  cessata  (onde  la  stessa  non  venne  ingiustamente  ed
ingiustificatamente «mantenuta»).
    Cio'  posto,  non  puo'  non  prendersi atto che le sezioni unite
della  Corte  di cassazione (ord. n. 25084, c.c. 30 maggio 2006, dep.
19 luglio   2006)  hanno  ritenuto  rilevante  e  non  manifestamente
infondata,  in  riferimento  agli  artt. 2,  3,  24,  e  77 Cost., la
questione  di legittimita' costituzionale dell'art. 314 c.p.p., nella
parte  in  cui  non  prevede il diritto alla riparazione per ingiusta
detenzione  per  la  durata  della  custodia  cautelare  che  risulti
superiore alla misura della pena inflitta.
    Sebbene  la  questione  posta all'esame delle sezioni unite della
Corte  di  cassazione  concernesse  un'ipotesi di detenzione per piu'
titoli cautelari di pari durata, con assoluzione di merito da uno dei
reati   ascritti   e  declaratoria  di  estinzione  per  prescrizione
relativamente   ad   altra  fattispecie  delittuosa,  anche  al  caso
all'esame  della  Corte  di  appello  (condanna  e  declaratoria,  di
improcedibilita'  per difetto di querela) si attaglia la questione di
legittimita'  costituzionale negli esatti termini teste' evidenziati,
posto  che  il  Barazza  ha  oggettivamente  sofferto  un  periodo di
detenzione  cautelare  superiore  alla  misura  della  pena detentiva
inflittagli.
    Ed  infatti,  le  sezioni unite, dopo aver richiamato i limiti di
applicazione    dell'istituto,    come   delineati   nella   costante
interpretazione  giurisprudenziale  («In  riferimento alla previsione
della  seconda parte del comma 4, il diritto vivente, nell'ipotesi di
concorrenza di una pluralita' di titoli cautelari, ammette il diritto
alla  riparazione  alla tassativa condizione che tutte le imputazioni
siano  definite  con  un  proscioglimento  nel merito o che sia stata
accertata  l'illegalita' della custodia cautelare a norma del comma 2
dell'art. 314, qualora per ciascuno di detti titoli l'art. 303 c.p.p.
preveda  pari  durata...  in  una  siffatta situazione, il periodo di
detenzione  cautelare  e'  unico  ed  inscindibilmente  imputabile ad
ognuno  e  a  tutti  i  titoli  custodiali  (Sez.  IV, 9 maggio 2000,
Comisso, rv. 217721), di guisa che se questi hanno un identico limite
massimo  di durata, e' sufficiente la mancanza di proscioglimento nel
merito  per  uno  solo  di essi perche' l'intera detenzione cautelare
debba  essere  ad esso riferita, indipendentemente dalla misura della
pena  che sarebbe stata in concreto inflitta se fosse intervenuta una
pronuncia  di  condanna.  Inoltre... la portata della disposizione di
cui  al  comma  4  dell'art. 314  puo'  essere compiutamente definita
soltanto coordinandola con quella contenuta nel comma 1, in quanto da
quest'ultima  traspare  inequivocamente  l'intenzione  legislatore di
escludere,  integralmente  la  riparazione per ingiusta detenzione in
tutti  i  casi di proscioglimento non di merito e, a maggior ragione,
di  condanna prescindendo totalmente dall'effettiva misura della pena
applicabile  o  in  concreto  applicata,  quand'anche  questa risulti
largamente  inferiore al periodo di custodia cautelare effettivamente
subita»),  hanno  rimarcato  come  due  recenti  sentenze della Corte
(n. 1451,  c.c.  6 luglio  2005,  Cinanni;  n. 1467,  8 luglio  2005,
Femia), fossero pervenute a risultati asimmetrici rispetto all'ambito
dell'istituto   configurato   dall'art. 314   c.p.p.,   finendo   per
riconoscere,  in  buona sostanza, «che il diritto all'indennizzo deve
essere  determinato  non  in  riferimento  alla  durata massima della
misura  custodiale,  ma  all'entita'  della  pena  che  sarebbe stata
inflitta  in  caso di condanna, aprendo, cosi', un varco che dilata a
dismisura  l'area  della  riparabilita'  e la estende oltre i precisi
termini  tassativamente fissati dalla normativa vigente», conclusione
avvalorata  «dalle  implicazioni insite nel dictum delle predette due
decisioni  dal  quale  deriva  che  il  diritto  alla  riparazione e'
configurabile  non  solo in caso di proscioglimento non di merito per
uno dei reati contestati, ma anche nell'ipotesi di condanna, giacche'
il  periodo  di  privazione  della liberta' eccedente la misura della
pena  in  concreto  inflitta  dovrebbe  in  ogni  caso  imputarsi  al
concorrente reato per il quale e' stata pronunciata l'assoluzione nel
merito».
    Nella stessa ordinanza di rimessione si era rilevato che «l'avere
l'imputato  scontato  una  custodia cautelare di durata maggiore alla
pena  inflitta,  se  pure possa considerarsi oggettivamente ingiusto,
non  vale  -  nel  presente  quadro  normativo  e  allo  stato  della
giurisprudenza  -  a  ritenere  "ingiusta"... la detenzione cautelare
eccedente  il  limite  della  pena»  e tuttavia si osservava che alle
citate   decisioni   sottostavano  «valide  ragioni  sostanziali  che
consistono  nel  non ritenere conforme ad equita' l'impossibilita' di
riparazione  per  ingiusta  detenzione  in  presenza  di una custodia
cautelare  ampiamente  superiore  a  quella  della pena che viene poi
stabilita   dal   giudice»,   indicandosi   «molteplici  profili  che
potrebbero  far  dubitare della compatibilita' con i principi sanciti
dalla  Carta  costituzionale della normativa racchiusa nell'art. 314,
commi  1  e  4  c.p.p.,  nella  parte  in cui esclude il diritto alla
riparazione  per  la  custodia  cautelare  che risulti superiore alla
misura della pena inflitta, precludendo di riflesso - nell'ipotesi di
piu'  titoli  cautelari  con  pari  limiti  di  durata  massima  - la
liquidazione  dell'indennita'  in ordine all'imputazione per la quale
e'  intervenuta  assoluzione nel merito, anche se l'effettivo periodo
di  custodia  cautelare  risulti  superiore  alla  misura  della pena
inflitta (o che sarebbe stata inflitta) per l'altra imputazione se il
reato non fosse stato dichiarato prescritto».
    Premesso  che, nel caso sottoposto all'esame delle sezioni unite,
andava   riconosciuta   l'impossibilita'   di  utilizzare  il  metodo
dell'interpretazione  secundum  costitutionem, non potendosi superare
il   limite   rappresentato   dall'univoco   senso   letterale  delle
disposizioni  dei  commi  1  e  4  dell'art. 314  e dalle convergenti
ragioni  logiche  che  sorreggono  la  specifica strutturazione della
normativa,   le   stesse   sezioni  unite  rilevavano  -  nell'ottica
particolare   della   durata   della  custodia  in  carcere  rispetto
all'entita' della pena applicata (o applicabile) - la possibilita' di
formulare   fondati   dubbi   sulla   compatibilita'   con  le  norme
costituzionali della disciplina risultante dal combinato disposto dei
commi  1 e 4 dell'art. 314 c.p.p., e cio' in rapporto agli artt. 76 e
77  Cost.,  in riferimento alla non fedele attuazione della direttiva
contenuta nell'art. 2, comma 1 n. 100 della legge di delega n. 81 del
1987,  anche in relazione alla direttiva che impone di adeguarsi alle
norme   delle   convenzioni   internazionali  ratificate  dall'Italia
(artt. 5-5  della  Convenzione europea e 9-5 del Patto internazionale
relativo ai diritti civili e politici), nonche' agli artt. 2, 3 e 24,
quarto comma Cost.
    Per i motivi esposti, ritiene conclusivamente questa corte che la
questione  di  legittimita'  costituzionale, subordinatamente dedotta
dal  difensore  del  Barazza  all'odierna  udienza, sia rilevante nel
presente  procedimento  e,  per  le ragioni e nei termini prospettati
dall'ordinanza  delle  sezioni  unite della Corte di cassazione sopra
citata,  cui  deve  farsi  integrale richiamo, sia non manifestamente
infondata.