LA CORTE DI APPELLO Letta l'istanza con la quale il difensore di Nouri Dennis chiede dichiararsi l'inammissibilita' dell'appello proposto dal Procuratore della Repubblica di Orvieto avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Orvieto in data 1 luglio 2005, con la quale il Nouri era stato assolto dalle imputazione ascrittegli; Ritenuto che, nel presente procedimento, si pone la questione della illegittimita' costituzionale del combinato disposto degli artt. 593 c.p.p., come modificato dall'art. 1, legge n. 46/2006, e 10 legge cit., nonche' degli artt. 6, comma 1, legge n. 46/2006 e 576 c.p.p. come novellato, piu' volte sollevata da questa corte. O s s e r v a Nel presente processo la questione di illegittimita' del combinato disposto normativo di cui sopra si presenta certamente rilevante in quanto la corte, investita dall'appello proposto dal p.m. avverso una sentenza di proscioglimento, in applicazione delle norme impugnate, dovrebbe dichiarare l'inammissibilita' dell'appello medesimo; Ritiene la corte, nella fase preliminare di delibazione della ammissibiita' dell'appello, di dover sollevare ex officio l'eccezione di incostituzionalita' del combinato disposto degli artt. 593 c.p.p. -- come modificato dall'art. 1, legge n. 46/2006 - - e 10 legge cit., nella parte in cui inibiscono al p.m. di propone appello avverso le sentenze di proscioglimento ed impongono la declaratoria di inammissibilita' degli appelli gia' proposti, la quale appare non manifestamente infondata. La nuova normativa infatti, per quanto si dira', realizza una drastica compromissione dei poteri processuali del p.m., detenninando una evidente asimmetria, quanto ai poteri di impugnazione delle sentenze, la quale non puo' dirsi assolutamente giustificata da ragionevoli considerazioni di principio ovvero di politica legislativa processuale, con conseguente violazione, sotto questo profilo degli artt. 111, comma 2, e 3 Cost. Inoltre la stessa, in sede applicativa, e' foriera di tali incongruenze, da consegnare nelle mani degli operatori del diritto un meccanismo praticamente ingestibile, nell'ambito del quale qualsiasi opzione ermeneutica si prediliga e' ineluttabilmente destinata a cozzare con un diverso profilo di illegittimita' costituzionale, determinando, soprattutto nel regime transitorio, notevoli disparita' di trattamento ovvero la necessita', onde evitare soluzioni pasticciate, del ricorso ad una sorta di giurisprudenza «creativa», o «suppletiva» delle sviste del legislatore. Tutto cio' in contrasto con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) ed a conferma della irragionevolezza complessiva del sistema delineato dalla normativa in argomento. Quest'ultima inoltre, in particolar modo nel regime transitorio, e' destinata ad incidere negativamente sui tempi processuali, determinando la necessita' dello svolgimento di un maggior numero di gradi di giudizio, a fronte di sentenze gravemente erronee, laddove l'errore ridondi in vizio di motivazione, in violazione del citato comma 2 dell'art. 111 Cost., ultimo periodo. Risulta pertanto necessario, al fine di porre in luce i profili di incostituzionalita' delineati in termini generalissimi, rivolgere uno sguardo di insieme alla nuova legge, ai lavori preparatori, alla interlocuzione del Presidente della Repubblica, che ha ravvisato profili di manifesta illegittimita', rinviando la legge alle Camere per una nuova deliberazione, nonche' alle modifiche apportate onde correggere le suddette censure di incostituzionalita'. Un tale discorso di insieme, lungi dal coinvolgere in un generico giudizio negativo l'impianto generale della legge, in violazione della regola della obbligatoria rilevanza della questione., e' utile e necessario al fine di evidenziare la profonda irrazionalita' della norma da applicare nel caso di specie. Al riguardo va in primo luogo sgombrato il campo da un falso presupposto teorico che riecheggia nei lavori preparatori della legge n. 46/2006, secondo cui la eliminazione del potere del p.m. di appellare le sentenze di proscioglimento sarebbe conforme ad un principio generale, sancito dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. In base a tale tesi l'imputato potrebbe essere riconosciuto colpevole solo a seguito di due pronunce di merito conformi nella affermazione di colpevolezza. Diritto del quale sarebbe privato in caso di condanna in secondo grado a seguito dell'accoglimento dell'appello avverso il proscioglimento, non essendovi in questo caso spazio per un riesame nel merito della affermazione della colpevolezza. Tale tesi dimentica tuttavia che l'art. 2 del VII Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dell'uomo e delle liberta' fondamentali, sottoscritto a Strasburgo il 22 novembre 1984 e ratificato in Italia con legge 9 aprile 1990 n. 98, prevede la possibilita' che un soggetto venga «dichiarato colpevole e condannato a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento», e in questo caso anzi si esclude che il soggetto medesimo abbia diritto a un ulteriore gravame di merito. Se dunque e' erroneo il presupposto teorico di fondo della novella, ne discendono per li rami le conseguenze in punto di irrazionalita' di una disciplina che, nel differenziare drasticamente i poteri di impugnazione delle parti, e nel sacrificare pressocche' totalmente quelli del p.m. (e di riflesso della persona offesa), non risponde ad alcuna logica giustificazione. Se a cio' si aggiunge che, nel concreto della disciplina, le nuove norme risultano mal coordinate e tali da rendere obbligatori degli sbocchi processuali del tutto incongrui, la incostituzionalita' per irragionevolezza si manifesta in tutta la sua evidenza. Ed infatti, calandoci dai supremi principi alla applicazione pratica, si rilevano plurime anomalie ed irragionevoli disparita' di trattamento tra p.m. e persona offesa da un lato, parte civile ed imputato dall'altro, con la «stranezza» che la parte civile viene a condividere con l'imputato, suo contraddittore naturale, un destino di maggior favore rispetto a quello riservato al p.m. A) Nella previgente disciplina il piu' vistoso caso di asimmetria in relazione ai poteri di impugnazione delle parti riguardava le sentenze emesse all'esito del giudizio abbreviato, non potendo il p.m., salvo il caso del mutamento del titolo del reato, proporre appello avverso la sentenza di condanna. Tale disciplina era stata pacificamente ritenuta conforme al dettato Costituzionale, in quanto la limitazione al potere di appello del p.m. riguardava una sentenza che, pur eventualmente deludendolo in punto di trattamento sanzionatorio, comunque accoglieva la tesi della penale responsabilita' dell'imputato. E tale sacrificio era giustificato dalla circostanza che il p.m. beneficiava della possibilita' di far valere come prove tutti gli atti raccolti nel corso delle indagini preliminari. Invece, nella disciplina introdotta dalla legge n. 46/2006, il p.m. e' in primo luogo privato del potere di propone appello (id est di ottenere un riesame nel merito) addirittura avverso una sentenza di proscioglimento, che cioe' sconfessa totalmente la tesi accusatoria, ma tale radicale sacrificio non e' compensato da alcuna previsione di favore per la parte pubblica ne' altrimenti giustificato. E come si e' detto tale giustificazione non puo' rinvenissi nelle fonti sopranazionali (che, nell' interpretazione costante, consentirebbero addirittura l'abolizione dell'appello dell'imputato, essendo il suo diritto alla impugnazione della condanna salvaguardato dalla obbligatoria previsione della ricorribilita' per cassazione delle sentenze), e tantomeno trova albergo al riparo di altri principi quali la ragionevole durata del processo ovvero l'immediatezza ed oralita' del processo. Sotto il primo profilo, come si vedra', le nuove disposizioni sono destinate ineluttabilmente ad allungare i tempi processuali. Il richiamo invece alla oralita' ed immediatezza, secondo cui il giudice d'appello, che decide sulle carte, non puo' sovvertire la decisione del giudice di primo grado che ascolta direttamente i testimoni, prova troppo, dovendo tale argomento necessariamente valere, dal punto di vista logico, anche in relazione all'appello proposto dall'imputato. Ne consegue che la sostanziale esclusione del potere di proporre appello da parte del p.m. sacrifica in maniera del tutto ingiustificata ed irrazionale la parita' delle parti nel processo e la stessa sua funzione di pervenire comunque (o di avvicinarsi tendenzialmente) alla verita' storica, inibendo un controllo giurisdizionale su eventuali errori di merito. B) Del tutto teorica e marginale e' la residua facolta' di appello conservata al p.m. (dopo il rinvio della legge alle Camere) in caso di sopravvenienza o scoperta di una nuova prova dopo il giudizio di primo grado. Anche questa previsione si apprezza per la sua palese inutilita' ed irrazionalita'. Sotto il primo profilo essa relega in un ambito statisticamente irrilevante il potere del p.m. di proporre appello, in considerazione del fatto che la nuova prova deve sopravvenire, in sostanza, durante il breve termine per appellare (di 15, 30 o 45 giorni a seconda dei casi), la cui durata, tra l'altro, dipende da fattori del tutto casuali, quali la indicazione o meno di un termine per il deposito della motivazione, il rispetto ditale termine da parte del giudice, la rapidita' della cancelleria e degli organi a cio' addetti nel notificare l'estratto della sentenza alla parte eventualmente contumace. Con la ulteriore conseguenza che lo stesso rischio per l'imputato di dover subire il processo di appello dipende da circostanze assolutamente imponderabili e non da egli controllabili. A cio' si aggiunga che con i limitati potersi di indagine di cui dispone il p.m. dopo il rinvio a giudizio ex art. 430 c.p.p., la emersione di una nuova prove nel ristretto termine suddetto costituira' evenienza talmente rara da sfiorare i] miracolistico. Sotto il profilo della razionalita' poi davvero non si riesce a comprendere perche' il potere di conservare alla parte pubblica un ulteriore grado di giudizio di merito debba essere riconosciuto solo ad una prova scoperta in quel limitato termine e non anche nelle more della celebrazione del giudizio di cassazione instaurato a seguito del ricorso proposto dal p.m. (verificandosi altrimenti il passaggio in giudicato della sentenza che preclude ab imis la possibilita' di far valere una nuova prova di colpevolezza. non conoscendo il nostro ordinamento la revisione in malarn partem). Insomma, non potendo esser fatta valere l'emersione di una nuova prova davanti alla Corte di cassazione, il p.m. dovra' sperare solo nell'annullamento della sentenza con rinvio al giudice di primo grado, davanti al quale far valere la suddetta prova, verificandosi, in caso contrario, il definitivo scollaniento, a causa della scelta di inibire la celebrazione di un secondo grado di merito, tra verita' processuale e verita' storica. Ancora va considerato che, in base alla nuova formulazione dell'art. 593 c.p.p., in caso di emersione di una prova nuova, anche l'imputato potra' proporre appello avverso una sentenza di proscioglimento pronunciata con una formula che possa eventualmente arrecargli pregiudizio (ad es. per difetto di dolo - con conseguente possibilita' di esperimento di azione civile risarcitoria nei suoi confronti per illecito civile colposo - ovvero per difetto di imputabilita). Orbene, in quest'ultimo caso, avverso la stessa sentenza potrebbero essere proposti mezzi di impugnazione diversi - l'appello da parte dell'imputato ed il ricorso per cassazione da parte del p.m. - senza che sia previsto alcuno strumento onde evitare la anomalia della contemporanea pendenza dello stesso processo m gradi diversi, non potendo operare, in una simile ipotesi, il meccanismo della conversione ex art. 580 c.p.p., ristretto ai soli casi di connessione ex art. 12 c.p.p. Infine, sempre con riferimento al tema della prova nuova, e con specifico riguardo alla normativa transitoria, il legislatore non ha previsto la salvezza dell'appello, gia' validamente proposto dal p.m. nel vigore della previgente disciplina, qualora negli stessi motivi di appello ovvero direttamente in dibattimento, l'appellante abbia chiesto la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale deducendo una prova sopravvenuta. Con la irragionevole conseguenza, non superabile in via interpretativa, salvo a ricorrere a soluzioni «creative» o «integrative», che un appello che sarebbe valido anche secondo la nuova normativa - e che e' stato validamente proposto secondo la legge vigente al momento della sua proporzione - debba essere tuttavia dichiarato inammissibile, prevedendo l'art. 10, comma 2, legge n. 46/2006, la declaratoria di inammissibilita' dell'appello tout court, senza alcuna deroga o possibilita' di valutare gli appelli pendenti secondo il nuovo parametro introdotto dal novellato art. 593 c.p.p. C) L'ultimo profilo di incostituzionalita' della soppressione dell'appello del p.m., realizzato con le imperfette modalita' della legge n. 46/2006, riguarda l'incidenza del sistema delineato sui tempi processuali. Ed infatti e' altamente plausibile che, in caso di pronunce gravemente erronee, eliminandosi il potere emendativo della Corte d'appello, a seguito dell'accoglimento del ricorso per cassazione proposto dal p.m., si celebreranno i normali tre gradi di giudizio, con rischio elevatissimo di prescrizione del reato, vieppiu' alla luce della nuova disciplina dell'art. 157 c.p.p. Cio' accadra' a causa della sostituzione della sequenza: I grado, II grado e Cassazione, con la sequenza: I grado, Cassazione, I grado, II grado, Cassazione. E tale situazione e' ancora piu' drammatica nella disciplina transitoria che sconta la dilatazione dei tempi dovuta al decorso del termine per proporre appello ed all'intervallo tra la sua presentazione e la fissazione dell'udienza. Tutto cio', ragguagliato ai nuovi termini di prescrizione, si risolve in una sostanziale vanificazione della pretesa punitiva dello Stato in aperto contrasto con l'insegnamento di Corte costituzionale n. 98 del 24 marzo 1994 secondo cui «la configurazione dei poteri di impugnazione del pubblico ministero rimane affidata alla legge ordinaria che potrebbe essere censurata per irragionevolezza solo se i poteri stessi, nel loro complesso, dovessero risultare inidonei all'assolvimento dei compiti previsti dall'art. 112 Cost.» che risulta, conseguentemente, indirettamente violato. In conclusione l'eliminazione del potere del p.m. di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento: viola l'art. 111, secondo comma, Cost. introducendo una ingiustificata disparita' di trattamento tra le parti del processo, da intendersi in tutti i gradi in cui si esso e' destinato ad articolarsi attraverso la possibilita' concessa alle parti di accedervi; viola l'art. 3 Cost. per la manifesta irragionevolezza delle soluzioni normative adottate, tanto nella disciplina a regime quanto in quella transitoria; viola il principio della durata ragionevole del processo di cui all'art. 111 Cost.; viola l'art. 97 Cost. per la concreta ingestibiita' del processo in caso di applicazione della nuova normativa che determina situazioni di necessaria stasi dello stesso; viola l'art. 112 Cost. avviando ad un sicuro destino di prescrizione numerosissimi reati.