LA CORTE DI APPELLO
Letta l'istanza con la quale il difensore di Pieretti Claudio Massimo
chiede   dichiararsi  l'inammissibilita'  dell'appello  proposto  dal
Procuratore  della  Repubblica  di Orvieto avverso la sentenza emessa
dal  Tribunale  di  Orvieto in data 17 novembre 2003, con la quale il
Pieretti era stato assolto dalla imputazione ascrittegli;
Ritenuto  che,  nel presente procedimento, si pone la questione della
illegittimita'  costituzionale del combinato disposto degli artt. 593
c.p.p.,  come  modificato  dall'art. 1, legge n. 46/2006, e 10, legge
cit.,  nonche'  degli artt. 6, comma 1, legge n. 46/2006 e 576 c.p.p.
come novellato, piu' volte sollevata da questa corte.
                            O s s e r v a
Nel  presente  processo  la  questine di illegittimita' del combinato
disposto  normativo  di cui sopra si presenta certamente rilevante in
quanto la corte, investita dall'appello proposto dal p.m. avverso una
sentenza  di  proscioglimento, in applicazione delle norme impugnate,
dovrebbe dichiarare l'inammissibilita' dell'appello medesimo;
Ritiene  la  corte,  nella  fase  preliminare  di  delibazione  della
ammissibilita'   dell'appello,   di   dover   sollevare   ex  officio
l'eccezione di incostituzionalita' del combinato disposto degli artt.
593  c.p.p.  -  come modificato dall'art. 1, legge n. 46/2006 - e 10,
legge cit., nella parte in cui inibiscono al p.m. di proporre appello
avverso  le  sentenze di proscioglimento ed impongono la declaratoria
di  inammissibilita' degli appelli gia' proposti, la quale appare non
manifestamente infondata.
La  nuova  normativa  infatti,  per  quanto  si  dira',  realizza una
drastica compromissione dei poteri processuali del p.m., determinando
una  evidente  asimmetria,  quanto  ai  poteri  di impugnazione delle
sentenze,  la  quale  non  puo'  dirsi  assolutamente giustificata da
ragionevoli   considerazioni   di   principio   ovvero   di  politica
legislativa  processuale,  con  conseguente  violazione, sotto questo
profilo degli artt. 111, comma 2, e 3 Cost.
Inoltre   la   stessa,  in  sede  applicativa,  e'  foriera  di  tali
incongruenze, da consegnare nelle mani degli operatori del diritto un
meccanismo  praticamente ingestibile, nell'ambito del quale qualsiasi
opzione  ermeneutica  si  prediliga  e'  ineluttabilmente destinata a
cozzare  con  un  diverso  profilo  di illegittimita' costituzionale,
determinando, soprattutto nel regime transitorio, notevoli disparita'
di   trattamento   ovvero   la  necessita',  onde  evitare  soluzioni
pasticciate, del ricorso ad una sorta di giurisprudenza «creativa», o
«suppletiva»  delle  sviste  del legislatore. Tutto cio' in contrasto
con  il  principio  di  buon andamento della pubblica amministrazione
(Art.  97 Cost.) ed a conferma della irragionevolezza complessiva del
sistema delineato dalla normativa in argomento.
Quest'ultima  inoltre,  in particolar modo nel regime transitorio, e'
destinata   ad   incidere   negativamente   sui   tempi  processuali,
determinando  la necessita' dello svolgimento di un maggior numero di
gradi  di  giudizio, a fronte di sentenze gravemente erronee, laddove
l'errore  ridondi  in  vizio di motivazione, in violazione del citato
comma 2 dell'art. 111 Cost., ultimo periodo.
Risulta  pertanto  necessario,  al fine di porre in luce i profili di
incostituzionalita' delineati in termini generalissimi, rivolgere uno
sguardo  di  insieme  alla  nuova  legge, ai lavori preparatori, alla
interlocuzione  del  Presidente  della  Repubblica,  che ha ravvisato
profili  di  manifesta illegittimita', rinviando la legge alle Camere
per  una  nuova  deliberazione, nonche' alle modifiche apportate onde
correggere le suddette censure di incostituzionalita'.
Un  tale  discorso  di  insieme, lungi dal coinvolgere in un generico
giudizio  negativo  l'impianto  generale  della  legge, in violazione
della regola della obbligatoria rilevanza della questione, e' utile e
necessario  al  fine  di evidenziare la profonda irrazionalita' della
norma da applicare nel caso di specie.
Al  riguardo  va  in  primo  luogo  sgombrato  il  campo  da un falso
presupposto teorico che riecheggia nei lavori preparatori della legge
n. 46/2006,  secondo  cui  la  eliminazione  del  potere  del p.m. di
appellare  le  sentenze  di  proscioglimento  sarebbe  conforme ad un
principio   generale,   sancito  dalla  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo. In base a tale tesi l'imputato
potrebbe essere riconosciuto colpevole solo a seguito di due pronunce
di  merito  conformi  nella affermazione di colpevolezza. Diritto del
quale  sarebbe privato in caso di condanna in secondo grado a seguito
dell'accoglimento   dell'appello   avverso  il  proscioglimento,  non
essendovi  in  questo  caso  spazio  per  un riesame nel merito della
affermazione della colpevolezza.
Tale  tesi  dimentica  tuttavia  che  l'art.  2  del  VII  Protocollo
addizionale  alla Convenzione europea per la salvaguardia dell'uomo e
delle liberta' fondamentali, sottoscritto a Strasburgo il 22 novembre
1984  e  ratificato in Italia con legge 9 aprile 1990, n. 98, prevede
la  possibilita'  che  un  soggetto  venga  «dichiarato  colpevole  e
condannato a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento», e
in questo caso anzi si esclude che il soggetto medesimo abbia diritto
a un ulteriore gravame di merito.
Se  dunque  e' erroneo il presupposto teorico di fondo della novella,
ne  discendono  per li rami le conseguenze in punto di irrazionalita'
di  una  disciplina  che, nel differenziare drasticamente i poteri di
impugnazione  delle  parti,  e nel sacrificare pressocche' totalmente
quelli del p.m. (e di riflesso della persona offesa), non risponde ad
alcuna logica giustificazione.
Se  a  cio'  si aggiunge che, nel concreto della disciplina, le nuove
norme  risultano  mal  coordinate e tali da rendere obbligatori degli
sbocchi  processuali  del tutto incongrui, la incostituzionalita' per
irragionevolezza si manifesta in tutta la sua evidenza.
Ed infatti, calandoci dai supremi principi alla applicazione pratica,
si   rilevano   plurime   anomalie  ed  irragionevoli  disparita'  di
trattamento  tra  p.m.  e  persona offesa da un lato, parte civile ed
imputato  dall'altro,  con la «stranezza» che la parte civile viene a
condividere  con  l'imputato, suo contraddittore naturale, un destino
di maggior favore rispetto a quello riservato al p.m.
A)  Nella previgente disciplina il piu' vistoso caso di asimmetria in
relazione  ai  poteri  di  impugnazione  delle  parti  riguardava  le
sentenze  emesse  all'esito  del  giudizio abbreviato, non potendo il
p.m.,  salvo  il  caso  del  mutamento del titolo del reato, proporre
appello avverso la sentenza di condanna.
Tale  disciplina era stata pacificamente ritenuta conforme al dettato
costituzionale,  in  quanto  la  limitazione al potere di appello del
p.m.  riguardava  una  sentenza che, pur eventualmente deludendolo in
punto di trattamento sanzionatorio, comunque accoglieva la tesi della
penale   responsabilita'   dell'imputato.   E   tale  sacrificio  era
giustificato   dalla   circostanza  che  il  p.m.  beneficiava  della
possibilita'  di  far  valere  come prove tutti gli atti raccolti nel
corso delle indagini preliminari.
Invece,  nella  disciplina introdotta dalla legge n. 46/2006, il p.m.
e'  in  primo  luogo privato del potere di propone appello (id est di
ottenere  un  riesame nel merito) addirittura avverso una sentenza di
proscioglimento,  che cioe' sconfessa totalmente la tesi accusatoria,
ma tale radicale sacrificio non e' compensato da alcuna previsione di
favore per la parte pubblica ne' altrimenti giustificato.
E  come  si  e'  detto tale giustificazione non puo' rinvenirsi nelle
fonti    sopranazionali    (che,    nell'interpretazione    costante,
consentirebbero  addirittura l'abolizione dell'appello dell'imputato,
essendo il suo diritto alla impugnazione della condanna salvaguardato
dalla  obbligatoria  previsione  della  ricorribilita' per cassazione
delle  sentenze),  e  tantomeno  trova  albergo  al  riparo  di altri
principi   quali   la   ragionevole   durata   del   processo  ovvero
l'immediatezza ed oralita' del processo.
Sotto  il  primo  profilo, come si vedra', le nuove disposizioni sono
destinate ineluttabilmente ad allungare i tempi processuali.
Il  richiamo  invece  alla  oralita'  ed immediatezza, secondo cui il
giudice  d'appello,  che  decide  sulle carte, non puo' sovvertire la
decisione  del  giudice  di  primo  grado  che ascolta direttamente i
testimoni,  prova  troppo,  dovendo  tale  argomento  necessariamente
valere,  dal  punto  di  vista logico, anche in relazione all'appello
proposto dall'imputato.
Ne  consegue  che  la  sostanziale  esclusione del potere di proporre
appello   da   parte   del   p.m.  sacrifica  in  maniera  del  tutto
ingiustificata  ed  irrazionale la parita' delle parti nel processo e
la  stessa  sua  funzione  di  pervenire  comunque  (o di avvicinarsi
tendenzialmente)   alla   verita'   storica,  inibendo  un  controllo
giurisdizionale su eventuali errori di merito.
   B)
Del  tutto  teorica  e  marginale  e'  la residua facolta' di appello
conservata  al  p.m. (dopo il rinvio della legge alle Camere) in caso
di  sopravvenienza  o scoperta di una nuova prova dopo il giudizio di
primo grado.
Anche  questa  previsione si apprezza per la sua palese inutilita' ed
irrazionalita'.
Sotto  il  primo  profilo  essa  relega  in un ambito statisticamente
irrilevante il potere del p.m. di proporre appello, in considerazione
del  fatto che la nuova prova deve sopravvenire, in sostanza, durante
il  breve  termine per appellare (di 15, 30 o 45 giorni a seconda dei
casi),  la  cui  durata,  tra  l'altro,  dipende da fattori del tutto
casuali,  quali  la  indicazione o meno di un termine per il deposito
della  motivazione, il rispetto di tale termine da parte del giudice,
la  rapidita'  della  cancelleria  e  degli organi a cio' addetti nel
notificare   l'estratto   della  sentenza  alla  parte  eventualmente
contumace.
Con  la ulteriore conseguenza che lo stesso rischio per l'imputato di
dover   subire   il   processo  di  appello  dipende  da  circostanze
assolutamente imponderabili e non da egli controllabili.
A  cio'  si  aggiunga  che  con  i limitati poteri di indagine di cui
dispone  il  p.m.  dopo  il  rinvio a giudizio ex art. 430 c.p.p., la
emersione   di   una  nuova  prova  nel  ristretto  termine  suddetto
costituira' evenienza talmente rara da sfiorare il miracolistico.
Sono  il  profilo  della  razionalita'  poi  davvero  non si riesce a
comprendere  perche'  il  potere di conservare alla parte pubblica un
ulteriore  grado di giudizio di merito debba essere riconosciuto solo
ad una prova scoperta in quel limitato termine e non anche nelle more
della  celebrazione  del  giudizio di cassazione instaurato a seguito
del  ricorso proposto dal p.m. (verificandosi altrimenti il passaggio
in  giudicato  della sentenza che preclude ab imis la possibilita' di
far  valere una nuova prova di colpevolezza, non conoscendo il nostro
ordinamento la revisione in malam partem).
Insomma,  non  potendo  esser  fatta  valere l'emersione di una nuova
prova  davanti  alla Corte di cassazione, il p.m. dovra' sperare solo
nell'annullamento  della  sentenza  con  rinvio  al  giudice di primo
grado,  davanti al quale far valere la suddetta prova, verificandosi,
in caso contrario, il definitivo scollamento, a causa della scelta di
inibire  la  celebrazione  di un secondo grado di merito, tra verita'
processuale e verita' storica.
Ancora  va considerato che, in base alla nuova formulazione dell'art.
593 c.p.p., in caso di emersione di una prova nuova, anche l'imputato
potra'  proporre  appello  avverso  una  sentenza  di proscioglimento
pronunciata  con  una  formula  che  possa  eventualmente  arrecargli
pregiudizio   (ad   es.   per  difetto  di  dolo  -  con  conseguente
possibilita'  di  esperimento  di azione civile risarcitoria nei suoi
confronti  per  illecito  civile  colposo  -  ovvero  per  difetto di
imputabilita).
Orbene,  in  quest'ultimo caso, avverso la stessa sentenza potrebbero
essere  proposti  mezzi  di impugnazione diversi - l'appello da parte
dell'imputato  ed il ricorso per cassazione da parte del p.m. - senza
che  sia  previsto  alcuno  strumento  onde evitare la anomalia della
contemporanea  pendenza  dello  stesso processo in gradi diversi, non
potendo   operare,   in  una  simile  ipotesi,  il  meccanismo  della
conversione ex art. 580 c.p.p., ristretto ai soli casi di connessione
ex art. 12 c.p.p.
Infine,  sempre  con  riferimento  al  tema  della prova nuova, e con
specifico  riguardo alla normativa transitoria, il legislatore non ha
previsto la salvezza dell'appello, gia' validamente proposto dal p.m.
nel  vigore  della previgente disciplina, qualora negli stessi motivi
di  appello  ovvero  direttamente in dibattimento, l'appellante abbia
chiesto  la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale deducendo una
prova sopravvenuta.
Con   la   irragionevole   conseguenza,   non   superabile   in   via
interpretativa,   salvo   a   ricorrere   a  soluzioni  «creative»  o
«integrative»,  che  un  appello  che sarebbe valido anche secondo la
nuova  normativa  -  e  che  e' stato validamente proposto secondo la
legge  vigente  al  momento  della  sua  proporzione  -  debba essere
tuttavia  dichiarato  inammissibile,  prevedendo  l'art. 10, comma 2,
legge  n. 46/2006,  la  declaratoria di inammissibilita' dell'appello
tout  court,  senza  alcuna  deroga  o  possibilita'  di valutare gli
appelli  pendenti secondo il nuovo parametro introdotto dal novellato
art. 593 c.p.p.
   C)  La  irragionevole  disparita' di trattamento introdotta con la
limitazione  (rectius  esclusione)  della  possibilita'  del  p.m. di
appellare  avverso  le sentenze di proscioglimento, si apprezza anche
con riguardo alla posizione della parte civile.
In  proposito,  limitandoci ad una mera ricognizione della questione,
non direttamente rilevante nel caso di specie se non per i profili di
irragionevolezza  che  introduce,  va  rilevato che, paradossalmente,
all'interno  del  processo  penale,  dalla  normativa a regime, viene
tolta  al  p.m. una facolta' che invece viene confermata in capo alla
parte civile (per lo meno secondo la tesi che si fonda sulla voluntas
legislatoris,  malamente  espressa  nel  testo  normativo, emendato a
seguito  del  messaggio  presidenziale), e cio' nonostante il diverso
rango  degli interessi perseguiti, la sedes materiae, e la permanente
possibilita'  del  danneggiato dal reato di percorrere i tre gradi di
giudizio trasferendo l'azione in sede civile.
Ancor  piu'  evidente  tale  disparita'  di  trattamento emerge nella
normativa  transitoria ove e' pressocche' certo - a prescindere dalla
tesi  prescelta  in relazione alla normativa a regime - che l'appello
illo  tempore  proposto dalla parte civile conservi efficacia, con la
conseguenza  di  mantenere la cognizione della Corte d'appello penale
esclusivamente  su  questioni civilistiche, che coinvolgono il merito
della vicenda, privandola della corrispondente cognizione penale.
Senza  considerare  l'ulteriore  distonia, ridondante in un ulteriore
profilo  di  irrazionalita',  in  caso del ricorso per cassazione del
p.m., della contemporanea pendenza della medesima vicenda processuale
in  due  gradi diversi, di merito e di legittimita', con possibilita'
di  soluzioni  contrastanti,  e  senza  che possa operare - in virtu'
della  disposizione  dell'art.  580  c.p.p.  -  il  meccanismo  della
conversione.
   D)  L'ultimo  profilo  di  incostituzionalita'  della soppressione
dell'appello  del  p.m., realizzato con le imperfette modalita' della
legge  n. 46/2006,  riguarda  l'incidenza  del  sistema delineato sui
tempi processuali.
Ed   infatti  e'  altamente  plausibile  che,  in  caso  di  pronunce
gravemente  erronee,  eliminandosi  il  potere emendativo della Corte
d'appello,  a  seguito  dell'accoglimento  del ricorso per cassazione
proposto  dal  p.m., si celebreranno i normali tre gradi di giudizio,
con  rischio  elevatissimo  di  prescrizione del reato, vieppiu' alla
luce della nuova disciplina dell'art. 157 c.p.p.
Cio'  accadra' a causa della sostituzione della sequenza: I grado, II
grado e Cassazione, con la sequenza: I grado, Cassazione, I grado, II
grado, Cassazione.
E   tale  situazione  e'  ancora  piu'  drammatica  nella  disciplina
transitoria che sconta la dilatazione dei tempi dovuta al decorso del
termine   per   proporre   appello   ed  all'intervallo  tra  la  sua
presentazione  e la fissazione dell'udienza. Tutto cio', ragguagliato
ai  nuovi  termini  di  prescrizione,  si  risolve in una sostanziale
vanificazione  della pretesa punitiva dello Stato in aperto contrasto
con l'insegnamento di Corte cost. n. 98 del 24 marzo 1994 secondo cui
«la  configurazione dei poteri di impugnazione del pubblico ministero
rimane  affidata  alla  legge ordinaria che potrebbe essere censurata
per  irragionevolezza  solo  se  i  poteri stessi nel loro complesso,
dovessero  risultare  inidonei  all'assolvimento dei compiti previsti
dall'art.  112  Cost»  che  risulta, conseguentemente, indirettamente
violato.
In conclusione l'eliminazione del potere del p.m. di proporre appello
avverso le sentenze di proscioglimento:
     viola l'art. 111, comma 2, Cost. introducendo una ingiustificata
disparita' di trattamento tra le parti del processo, da intendersi in
tutti  i  gradi in cui si esso e' destinato ad articolarsi attraverso
la possibilita' concessa alle parti di accedervi;
     viola  l'art.  3  Cost.  per la manifesta irragionevolezza delle
soluzioni  normative adottate, tanto nella disciplina a regime quanto
in quella transitoria;
     viola  il principio della durata ragionevole del processo di cui
all'art. 111 Cost.;
     viola  l'art.  97  Cost.  per  la  concreta  ingestibilita'  del
processo  in caso di applicazione della nuova normativa che determina
situazioni di necessaria stasi dello stesso;
     viola  l'art.  112  Cost.  avviando  ad  un  sicuro  destino  di
prescrizione numerosissimi reati.