LA COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE
Ha emesso la seguente ordinanza sull'appello n. 835/06, spedito il 14
febbraio  2006,  avverso  la  sentenza  n. 328/58/2004,  emessa dalla
Commissione  tributaria  provinciale  di Roma, proposto dall'ufficio:
Gestione  Servizi  Pubblici  s.r.l., difeso dagli avv. Foderaro Italo
Antonio e Giuseppe Mazzuti, via del Risaro n. 126 - 00127 Roma.
Controparte  A.P.  Italia  s.r.l.,  via Cerchiara n. 45 - 00131 Roma;
altre parti coinvolte: Labico - 00030 Labico (Roma).
Atti impugnati: Ingiunzione di pagamento pubblicita' 2001.
                              F a t t o
Con  atto  di  accertamento  n. 30  notificato  l'8  gennaio 2003, la
Gestione  Servizi  Pubblici  s.r.l.,  quale concessionario per l'anno
2001  del  servizio  riscossione  per  conto  del  Comune  di Labico,
ingiungeva  alla  A.P. Italia il pagamento della somma di euro 340,86
quale  imposta  di  pubblicita' e accessori in dipendenza di cartelli
istallati nel territorio del comune nell'anno 2001.
Avverso l'atto ricorreva la societa' lamentando:
     1) Difetto di motivazione.
     2)    Inesistenza   di   fattispecie   imponibili.  L'avviso  di
accertamento   non   riguarderebbe   l'imposta   base,  denunciata  e
regolarmente  pagata  dalla  ricorrente, ma l'integrazione recata dal
d.P.C.m.  del  16 febbraio 2001. Secondo l'ordinanza del Consiglio di
Stato  n. 5206/2001  del  18  settembre 2001, l'aumento della tariffa
base  contenuta  nel  decreto  legislativo n. 57 del 1993 puo' essere
applicato solo dai comuni che l'abbiano recepito con deliberazione ed
a  partire  solo  dal  2002,  non  potendo  essere  l'atto impositivo
amministrativo retroattivo.
Si  costitutiva  in giudizio la societa' concessionaria eccependo che
la  decorrenza  degli  effetti  di  aumento  dell'imposta  tramite il
d.P.C.m. previsto dall'articolo 37 del decreto legislativo n. 508 del
1993,  e' determinata dallo stesso d.P.C.m. al 1° marzo 2001. Poiche'
l'approvazione   dei  bilanci  comunali  per  l'anno  2001  e'  stata
prorogata con decreto del Ministro delle finanze del 16 febbraio 2001
al  31  marzo  2001  e  quindi anche il termine di pagamento e' stato
prorogato  a  tale  data,  al momento della scadenza le tariffe erano
quelle previste dal decreto legislativo n. 507 del 1993 modificate ai
sensi dell'articolo 37 del decreto legislativo stesso con il d.P.C.m.
citato e non si e' verificata retroattivita'.
Con   sentenza   n. 328/58/04  del  9  giugno -  8  ottobre  2004  la
Commissione  adita  accoglieva  il ricorso ritenendo che, non potendo
avere una norma tributaria effetto retroattivo, la tariffa recata dal
d.P.C.m.  del  16 febbraio 2001 non poteva avere vigore che dall'anno
2002.
Avverso  la  detta  sentenza  propone  appello  la  societa' Gestione
Servizi  Pubblici  s.r.l.  con  atto  notificato  il 1° febbraio 2006
depositato il 18 febbraio 2006, lamentando:
     1)  L'aumento  previsto dall'articolo 37 del decreto legislativo
n. 507  del 1993 a seguito di emanazione di d.P.C.m. riguarda la sola
tariffa  base  e non la parte variabile dell'imposta. La tariffa base
e' imposta legislativamente e dunque la sua modificazione mediante il
citato d.P.C.m. non abbisogna di recepimento da parte del comune.
     2)  L'aumento  disposto dal d.P.C.m. in questione non ha effetto
retroattivo, poiche' e' stabilito con decorrenza dal 1° gennaio 2001,
mentre  la  scadenza  del pagamento dell'imposta e' al 31 marzo 2001,
cosi'   prorogata   indirettamente   dalla   proroga   a  detta  data
dell'approvazione del bilancio preventivo degli enti locali stabilita
con decreto del Ministri delle finanze del 16 febbraio 2001.
     3) Difetto di motivazione della sentenza.
La contribuente non si e' costituita.
Il  d.P.C.m.  in  questione  e'  stato impugnato dinanzi al Tribunale
amministrativo  regionale  del  Lazio, il quale con sentenza n. 13305
del  19  marzo  2003  ha respinto il ricorso, osservando che ai sensi
dell'articolo  3,  comma 5 del decreto legislativo n. 507 del 1993 le
tariffe  sull'imposta  di  pubblicita'  entra in vigore il 1° gennaio
dell'anno  successivo  a  quello  in  cui  la  deliberazione comunale
divenuta  esecutiva,  e che, nella specie, tale delibera da parte del
Comune  di  Roma (amministrazione intimata in detto giudizio) non era
stata adottata.
Ha altresi' osservato non sussistere una violazione degli articoli 23
e  77  della Costituzione poiche' al d.P.C.m. sarebbe stata demandata
solo  una  funzione  di  rideterminazione  tecnica  delle tariffe. La
sentenza non risulta appellata.
                            D i r i t t o
Ritiene  il Collegio che sia rilevante e non manifestamente infondato
il  dubbio di costituzionalita' riguardante l'articolo 37 del decreto
legislativo 15 novembre 1993, n. 507.
Sulla rilevanza.
Com'e'  emerso  in  narrativa,  l'atto impositivo avverso il quale il
ricorrente  propone  le sue doglianze costituisce l'adeguamento della
tariffa  base  dell'imposta  sulla pubblicita', operato dal Comune di
Labico  sulla scorta del d.P.C.m. del 16 febbraio 2001, che tale base
ha rideterminato.
Il   provvedimento   amministrativo  generale  e'  stato  ritualmente
impugnato   presso  il  giudice  amministrativo,  anche  dall'odierno
ricorrente,  in  occasione di un diverso atto di accertamento emanato
dal  Comune  di  Roma,  e  la  decisione  del giudice amministrativo,
riguardando  un  atto  normativo  a valenza generale, dispiega la sua
efficacia oltre i limiti soggettivi del ricorso.
II  Tribunale  amministrativo regionale del Lazio, con la sentenza di
cui  in  narrativa,  ha  respinto  il ricorso sul presupposto, obiter
dictum, che fosse necessaria la deliberazione comunale di recepimento
e   che   questa,   nella   fattispecie,   fosse   intervenuta   solo
successivamente e quindi con effetti a decorrere dall'anno successivo
a quello dell'emanazione e, conseguentemente, dell'atto impugnato.
In  tal  guisa  il  Tribunale  amministrativo regionale da' mostra di
ritenere,  in  via  di  principio,  che sia illegittima la decorrenza
dell'adeguamento  dal  1°  marzo  2001,  ma  che  nella  specie  tale
retroattivita'  non  si  sarebbe verificata, poiche', sul presupposto
della  necessita'  di  una  deliberazione  comunale  di  recepimento,
l'assenza   di   questa,  avrebbe  comunque  determinato  l'efficacia
dell'adeguamento solo dal primo gennaio dell'anno successivo.
Occorre  a  questo punto osservare che l'oggetto del giudizio dinanzi
al  Tribunale  amministrativo regionale era costituito non gia' da un
atto  impositivo  del  Comune  di Roma, ma dal d.P.C.m. in questione,
dalla  deliberazione  del  Consiglio  dei  ministri  e  dalla  previa
proposta del Ministro delle finanze. A ben vedere, la questione circa
l'illegittimita'  dell'atto  nella  parte  in  cui  determina  i suoi
effetti  dal  1° marzo 2001, ovvero un mese prima della sua adozione,
non  e' stata ne' affrontata ne' risolta dal Tribunale amministrativo
regionale,  il  quale  l'ha considerata, sostanzialmente, venuta meno
sul presupposto che il Comune di Roma aveva dichiarato in giudizio di
non  avere  adottato  la deliberazione, e sulla presupposizione (solo
incidentalmente   affermata  dallo  stesso  Tribunale  amministrativo
regionale  e  dal  Consig1io  di Stato in sede di appello avverso del
Tribunale amministrativo regionale che respingeva l'istanza cautelare
di  sospensione  degli  effetti  dell'atto)  della  necessita'  della
deliberazione   comunale   di  recepimento.  Su  tale  ultimo  punto,
tuttavia,  non  si  e'  formato un giudicato, atteso che il Tribunale
amministrativo regionale, vuoi per la mancanza dello specifico motivo
di  ricorso, vuoi perche' mancava il provvedimento di cui il d.P.C.m.
fosse  atto  presupposto  non  ha potuto pronunciare l'illegittimita'
degli  atti  conseguenti,  anche  se, indirettamente, ha ritenuto che
questi   non  potessero  che  avere  effetto  futuro  poiche'  legati
necessariamente ad una deliberazione comunale di recepimento.
Resta  pertanto  appurato  che  il  d.P.C.m. in questione, quale atto
presupposto   sia   delle   deliberazioni  comunali  sia  degli  atti
impositivi,  e'  indenne  da  illegittimita', essendo ormai decorsi i
termini d'impugnazione e non essendovi piu' pendente alcun ricorso in
sede  di  giurisdizione  amministrativa, ma e' altrettanto chiaro che
l'impostazione  del giudice amministrativo e' quella della necessita'
della deliberazione comunale di recepimento.
Nel giudizio odierno l'atto impositivo impugnato si fonda sul ridetto
d.P.C.m. e, dunque, sulla norma primaria che ha autorizzato tale atto
amministrativo  ad  adeguare  la  base  di calcolo dell'imposta sulla
pubblicita'.
Ritiene il Collegio che tale norma primaria, ovvero l'articolo 37 del
decreto    legislativo    n. 507    del    1993,   sia   affetta   da
incostituzionalita',    come   si   vedra'   avanti,   e   che   tale
incostituzionalita',   pertanto,  travolga  il  potere  regolamentare
attribuito  al Presidente del Consiglio e quindi, conseguenzialmente,
anche gli atti impositivi emanati sulla base di questo.
Come  insegna  la  Corte  costituzionale, tuttavia, la rilevanza deve
essere  giudicata anche in funzione dell'inesistenza di una possibile
diversa   interpretazione,   conforme  a  Costituzione,  della  norma
denunciata ed in funzione di una diversa soluzione della controversia
che     prescinda     dall'applicazione    della    norma    sospetta
d'incostituzionalita'.
Nel caso di specie ne' l'una, ne' l'altra soluzione sono possibili.
In  primo  luogo nessun'altra interpretazione e' possibile del citato
articolo  37  se  non  quella  che  vede  una  delegificazione  della
determinazione  della  tariffa base dell'imposta sulla pubblicita', e
su  tale  delegificazione  si  appuntano, come si vedra', i dubbi del
collegio.
In  secondo  luogo  non  e'  possibile risolvere la questione odierna
senza la diretta applicazione del citato articolo 37.
Due sono, sostanzialmente, le tesi che si contrappongono.
La prima ritiene che l'effetto impositivo non derivi direttamente dal
d.P.C.m.  e  dalla  modifica  apportata all'ordinamento giuridico, ma
solo  dalla  deliberazione  di  recepimento  da  parte del Comune, in
mancanza  della  quale  si  deve  applicare la tariffa base in vigore
prima  della  modificazione  stessa. E'  questa  la  tesi  sostenuta,
incidentalmente,  dal  giudice amministrativo, la cui fondatezza deve
essere  verificata  da  questo  giudice,  poiche'  l'atto  impositivo
impugnato  e' basato su un'atto presupposto che, in tesi, non sarebbe
stato completato nella sua efficacia.
La  seconda ritiene che l'effetto modificativo della tariffa base sia
avvenuto ex lege a seguito dell'emanazione di un atto avente forza di
legge  (ma  non  valore  essendo  pur  sempre  un atto amministrativo
regolamentare).  La  deliberazione  comunale sarebbe stata necessaria
solo  ove  il Comune avesse voluto imporre anche gli aumenti previsti
dal   decreto   legislativo   nella   cosi'   detta  parte  variabile
dell'imposta,  ma non in relazione alla tariffa base, che e' fissa ed
uguale per tutti i comuni d'Italia.
Entrambe  le  tesi,  come  si vede, si basano su un giudizio circa la
valenza  del  d.P.C.m., e dunque diviene rilevante accertare che esso
sia stato emanato in base ad una norma primaria non incostituzionale.
Come  corollario delle due tesi citate si pone un ulteriore problema,
riguardante   la  legittimita'  dell'eventuale  retroattivita'  della
disposizione contenuta nel d.P.C.m.
Anche in questo caso si contrappongono due tesi:
     La  prima  ritiene  che la determinazione della tariffa base con
decorrenza  1°  marzo  2001,  anteriore all'adozione dell'atto (ed in
verita'  di  molto  anteriore  alla sua efficacia, essendo stato esso
pubblicato  sulla  Gazzetta  Ufficiale  del  17 aprile 2001, n. 89 ed
entrato   in   vigore   dopo   la  vacatio)  violi  il  principio  di
irretroattivita' delle norme fiscali stabilito, con valenza generale,
dall'articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212.
     La  seconda  tesi  ritiene  che l'efficacia non sia retroattiva,
poiche'  il d.P.C.m. e' intervenuto primi della scadenza dell'obbligo
di  pagamento  dell'imposta  e  che,  comunque, l'atto amministrativo
avrebbe  determinato  solo un adeguamento all'aumento del costo della
vita secondo gli indici dell'ISTAT.
Anche  per  dirimere questo punto della controversia, occorre in ogni
caso ritenere legittima l'adozione dell'atto amministrativo generale.
Sembra, infatti, preferibile la tesi per cui, avendo l'articolo 37 in
questione   effetto   delegificante,  il  d.P.C.m.  abbia  introdotto
un'inserzione  automatica di norma primaria derogando all'articolo 3,
comma 1 della legge n. 212 del 2000, il quale, pur avendo una valenza
generale,  e' esso stesso norma primaria modificabile o derogabile da
una norma successiva avente pari rango.
Considerata  la  rilevanza  della  questione,  occorre ora affrontare
l'ulteriore profilo.
Sulla non manifesta infondatezza.
Il   meccanismo   giuridico   di  cui  all'articolo  37  del  decreto
legislativo    n. 507    del   1993   costituisce   chiaramente   una
delegificazione  dell'articolo  12  del medesimo testo, il quale, nel
suo  test  originario,  determinava,  con  valore  e  forza  di legge
ordinaria, la tariffa base.
Cio'  sembra collidere con l'articolo 23 della Costituzione, il quale
dispone  una riserva di legge per la determinazione delle prestazioni
patrimoniali imposte.
A  questa  Commissione  non  sfugge  la  giurisprudenza  della  Corte
costituzionale,  la quale ha chiarito che la riserva di cui al citato
articolo 23 e' relativa e quindi che esso non esige che l'istituzione
dei  tributi  avvenga  «per  legge»,  ma  «in  base alla legge». Cio'
consente   che   sia   rinviata  a  provvedimenti  amministrativi  la
determinazione  di  elementi  o  di presupposti della prestazione che
siano  espressione  di  discrezionalita'  tecnica,  purche' risultino
assicurate  le  garanzie atte ad escludere che la discrezionalita' si
trasformi  in arbitrio. (Sentenza n. 48 del 4 luglio 1961) ovvero che
sia  assicurata,  nella procedura relativa, una congrua garanzia agli
interessati. (Sentenza n. 122 del 4 luglio 1957).
Cio'  implica, per altro verso, che la legge predetermini i parametri
della  discrezionalita'  tecnica,  in  altri termini che indichi, sia
pure  in  linea  di  massima,  quali siano i profili da accertare per
esercitare  su  di essi una valutazione e quindi un calcolo puramente
ancorato  a  profili  tecnici. In effetti, e' ben noto che quella che
comunemente  e'  definita  «discrezionalita'  tecnica»  non e' vera e
propria  discrezionalita'  amministrativa,  cioe' capacita' di scelta
dei modi, dei mezzi e dei fini concreti, in ogni caso funzionalizzati
alla    cura   dell'interesse   pubblico   affidato   alla   Pubblica
Amministrazione.  Ci  si  deve  piuttosto  riferire  alla potesta' di
scelta  quando  occorra applicare, invece che una scienza esatta, una
lex  artis,  cioe'  una norma tecnica che non conduce ad un risultato
univoco, ma comporta l'opinabilita' di esso.
Nell'affidamento   da   parte   della   legge   ad  un  provvedimento
amministrativo  del  compito di determinare l'ammontare dell'imposta,
piu'  che  ad  una  discrezionalita'  tecnica occorre riferirsi ad un
potere  di  accertamento tecnico (come espressamente ritiene la Corte
costituzionale, vedi infra), vale a dire la valutazione, compiuta con
strumenti  tecnici,  di  una  situazione  di  fatto  dalla  quale far
scaturire  conseguenze  giuridiche  predeterminate.  In  mancanza  di
criteri  direttivi  e principi alla base dell'azione di accertamento,
essa  si  risolve  necessariamente in arbitrio, poiche' la latitudine
del  potere affidato alla p.a. diviene potenzialmente senza limiti, e
la  p.a.  puo' porre a fondamento del suo accertamento un fatto o una
circostanza qualsiasi tra le molteplici ipotizzabili.
Ad  avviso  del  Collegio  e'  cio'  che accade con l'articolo 37 qui
denunciato,  il  quale  affida  al Governo un potere regolamentare di
rideterminazione  della base dell'imposta senza indicare per nulla in
relazione  a  quale  evenienza  di  fatto tale rideterminazione debba
essere calcolata.
Viceversa,  la  giurisprudenza  della Corte costituzionale ha, sin da
epoca  risalente  chiarito  «la  necessita' che la legge, nella quale
trova  fondamento  il  potere  di  imposizione,  stabilisca criteri e
limiti,  che,  pur  potendo  essere  variabili  da caso a caso per la
particolarita'  della  materia,  siano,  nel loro complesso, idonei a
delimitare  la  discrezionalita'  dell'ente  impositore,  fissando  i
presupposti  soggettivi  ed  oggettivi  della  prestazione  nonche' i
controlli,  si'  da non lasciare adito all'arbitrio».(Sentenza n. 122
del  4  luglio  1957). Del resto la stessa Corte aveva gia' affermato
che  requisito  peri  il  rispetto della Costituzione e' che le norme
«impegnano, non una discrezionalita' mera dell'ente impositore, ma un
suo  apprezzamento tecnico». (Sentenza n. 48 del 4 luglio 1961) e che
«in   tema  di  applicazione  dell'art.  23  della  Costituzione  (e'
necessario  che)  la legge, nella quale trova fondamento il potere di
imposizione,  stabilisca  criteri  e limiti, che, pur potendo eessere
variabili  da caso a caso per la particolarita' della materia, siano,
nel loro complesso, idonei a delimitare la discrezionalita' dell'ente
impositore,  fissando  i  presupposti  soggettivi  ed oggettivi della
prestazione   nonche'   i   controlli,  si'  da  non  lasciare  adito
all'arbitrio».  (Sentenza  n. 122 del 1957) ed ancora che: «L'art. 23
della  Costituzione  non  esige  soltanto  che  l'imposizione  di una
prestazione  abbia  base  nella  legge,  ma  richiede altresi' che la
legge,  che conferisce il potere di imporre la prestazione, indichi i
criteri  idonei a delimitare la discrezionalita' dell'ente impositore
nell'esercizio  del  potere  attribuitogli'.». (Sentenze n. 30 del 23
gennaio 1957 e n. 4 del 16 gennaio 1957).
Nei  fatti,  la  dimostrazione  dell'eccessiva latitudine concessa, e
quindi  dell'inevitabile  arbitrio che essa comporta, e' data proprio
dalla motivazione che sorregge il piu' volte citato d.P.C.m..
Dopo :avere dato giustificazione del potere richiamando l'articolo 37
del  decreto legislativo n. 507 del 1993, ed avere indicato l'oggetto
dell'intervento,  vale  a  dire  l'articolo 12 dello stesso testo, il
d.P.C.m.  richiama  il decreto legislativo 29 settembre 1973, n. 602,
recante  disposizioni,  sulla  riscossione delle imposte sul reddito;
osserva che l'art. 12-bis di tale testo prevede che non si proceda ad
iscrizione  a ruolo per somme inferiori a lire ventimila; osserva che
l'importo  minimo  delle  attuali  tariffe  (comuni  di  classe V) e'
fissato  in  lire  sedicimila  e  che  pertanto  tale importo risulta
inferiore a quello per il quale e' possibile procedere all'iscrizione
a  ruolo;  ritiene di conseguenza esistente la necessita' di adeguare
il predetto importo minimo al fine di assicurarne l'accertamento e la
riscossione anche in caso di omesso adempimento spontaneo, nonche' di
rideterminare  gli  altri  importi (comuni di classe IV, III, II e I)
nella  proporzione  attualmente prevista ed infine procede alla parte
dispositiva.
Risulta  quindi evidente che l'unico motivo che ha sorretto il potere
di  rideterminazione e' quello di elevare l'importo minimo per potere
applicare, anche ad esso, la procedura di iscrizione a ruolo.
Si  tratta,  chiaramente,  di  una  decisione  non  scaturente  da un
accertamento tecnico (come richiesto dall'interpretazione della Corte
costituzionale),  ne'  dall'uso  di  una  discrezionalita' tecnica ma
derivante  da  una  decisione  politica, che, in astratto, puo' anche
essere  corretta  e  condivisibile,  ma  che  sicuramente  esula  dai
limitati  poteri  di  cui,  anche  secondo l'insegnamento della Corte
costituzionale,    dovrebbe    essere    munito    un   provvedimento
amministrativo  che determina la prestazione patrimoniale imposta «in
base alla legge», per essere riservata alla discrezionalita' politica
del Legislatore primario.
Per  quanto  l'oggetto  del  giudizio  di costituzionalita' non possa
essere  il  regolamento  in questione l'analisi della sua motivazione
rende palese la deficienza costituzionale della norma base.
Questa,   per   altro,   risulta   contraria  all'articolo  23  della
Costituzione anche sotto un altro profilo. Infatti, la giurisprudenza
della  Corte  gia'  citata ha chiarito, in sede di interpretazione di
rigetto,   che   uno  degli  elementi  perche'  si  abbia  un  rinvio
costituzionalmente  legittimo  all'atto amministrativo e' l'esistenza
di  una  procedura  nell'emanazione  dell'atto che assicuri le dovute
garanzie  agli interessati. L'articolo 37 nulla prevede in tal senso,
ed, infatti, il d.P.C.m. e' stato adottato su iniziativa del Ministro
delle  finanze,  solo sentito il parere della Conferenza Stato-citta'
ed   autonomie  locali,  che  e'  esponenziale  degli  interessi  del
prenditore, ma non certo dei contribuenti.
In   conclusione,   ritenendo   che   la  questione  di  legittimita'
costituzionale  per violazione dell'articolo 23 della Costituzione da
parte  dell'articolo  37 del decreto legislativo n. 507 del 1993, sia
rilevante  e non manifestamente infondata, la Commissione sospende il
giudizio,  ai  sensi  dell'articolo  1  della  legge costituzionale 9
febbraio 1949, n. 1, e dell'articolo 23 della legge costituzionale il
marzo  1953,  n. 87  e,  riservata ogni altra decisione in rito e nel
merito, invia gli atti alla Corte costituzionale.