IL TRIBUNALE Nel procedimento indicato in epigrafe nei confronti di De Fecondo Antonino (nato il 22 novembre 1969 a Noto, residente a Catania, viale Benedetto Croce n. 14, ed elettivamente domiciliato ex art. 161 c.p.p. a Termini Imerese, corso Umberto e Margherita n. 61, presso lo studio del proprio difensore di fiducia, avvocato Pietro Sorce), imputato «del delitto p.p. dagli artt. 81 cpv. e 314 c.p. perche', in qualita' di comandante della Compagnia della Guardia di Finanza di Termini Imerese, con piu' atti in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, avendo per ragioni del suo ufficio la disponibilita' di un'autovettura di servizio e del relativo autista, li utilizzava per fini privati ed in particolare per recarsi da Termini Imerese all'aeroporto di Punta Raisi e viceversa. In termini Imerese dal 20 febbraio 2003 all'agosto 2004»; All'udienza preliminare dell'11 ottobre 2007, emette la seguente ordinanza. In data 15 dicembre 2006 il pubblico ministero depositava richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di De Fecondo Antonino per i reati indicati in epigrafe, a seguito della quale veniva fissata l'udienza preliminare del 26 aprile 2007, nella quale, dichiarata la contumacia dell'imputato, su richiesta delle parti, il processo veniva differito al 7 giugno 2007. A tale udienza, presente De Fecondo Antonino, il tribunale revocava la dichiarazione di contumacia dell'imputato e, preliminarmente, invitava le parti ad interloquire sulla questione di giurisdizione, peraltro gia' sollevata dalla difesa con memoria depositata il 20 aprile 2007, in relazione alla previsione di cui all'art. 215 del codice penale militare di pace (c.p.m.p.), anche alla luce delle disposizioni di cui all'art. 3 della legge 9 dicembre 1941, n. 1383. Indi, il pubblico ministero, insistendo nella qualificazione giuridica del fatto operata nell'imputazione, chiedeva di procedere oltre e di essere autorizzato a discutere nel merito; il difensore dell'imputato, insistendo nell'eccezione di giurisdizione gia' formulata nella memoria depositata il 20 aprile 2007 e depositando ulteriore memoria a conforto del proprio assunto, deduceva che il fatto contestato e' riconducibile alla previsione di cui all'art. 3 della legge n. 1383 del 1941 ovvero a quella dell'art. 215 c.p.m.p. e, fatto presente che la cognizione relativa ai reati previsti dalle disposizioni appena citate e' devoluta alla giurisdizione militare, chiedeva al tribunale di pronunciare il proprio difetto di giurisdizione. Al contempo, la difesa eccepiva la nullita' della richiesta di rinvio a giudizio per violazione dell'art. 417, lett. b) c.p.p. nonche' l'incompetenza territoriale di questo tribunale. All'odierna udienza, apparendo logicamente pregiudiziale la questione relativa alla contestata validita' della richiesta di rinvio a giudizio e ritenendo di dover decidere previamente tale questione, il tribunale rigettava l'eccezione di nullita' con separata ordinanza letta in udienza ed allegata al relativo verbale. Cio' posto, va ora osservato che, come risulta dall'imputazione riportata in epigrafe, il pubblico ministero contesta all'imputato alcune condotte, poste in essere tra il febbraio del 2003 e l'agosto del 2004, consistenti nell'avere utilizzato per scopi privati l'autovettura di servizio di cui aveva la disponibilita' per ragioni del suo ufficio servendosi altresi' del relativo autista. Dal punto di vista della qualificazione giuridica delle condotte in questione, il pubblico ministero opera un indistinto riferimento alla violazione dell'art. 314 del codice penale. A ben vedere, pero', utilizzo dell'autovettura ed utilizzo dell'autista, a prescindere da ogni valutazione di merito circa la fondatezza dell'accusa, sono condotte fra loro non assimilabili. Ed invero, l'illegittimo uso personale delle autovetture di servizio da parte di pubblici ufficiali e' pressoche' unanimemente ricondotto dalla giurisprudenza della Corte di cassazione alla fattispecie di peculato c.d. d'uso di cui all'art. 314, comma 2 c.p. (v., tra le altre, Cass. pen., sez. VI, 5 giungo 2003, Buzzanca; nello stesso senso, piu' recentemente, ancorche' escludano nelle ipotesi sottoposte al loro vaglio la concreta sussistenza del reato, Cass. pen., sez. VI, 1 febbraio 2005, n. 9216, e Cass. pen., sez. VI, 10 gennaio 2007, n. 10233). Invece, in ordine alla condotta del pubblico ufficiale che usi a fini privati le prestazioni lavorative di un pubblico dipendente, distogliendolo dalle mansioni istituzionali, si registra un netto contrasto giurisprudenziale. Secondo un primo indirizzo, tale condotta andrebbe inquadrata non gia' nella fattispecie di peculato d'uso bensi' nella piu' grave forma di peculato prevista dal comma 1 dell'art. 314 c.p. (Cass. pen., Sez. VI, 7 novembre 2000, Cassetti). La tesi e' fondata, da un lato, sull'idea che l'attivita' lavorativa rientra nella nozione di «cosa mobile» e, dall'altro, sulla considerazione che le energie lavorative illegittimamente destinate a finalita' non istituzionali non sono suscettibili di restituzione (ragion per cui si esclude che possa ricorrere la fattispecie di peculato d'uso). Un diverso orientamento giurisprudenziale, invece, muovendo dall'idea che «non e' concepibile l'appropriarsi di una persona o della sua energia lavorativa», esclude che l'utilizzo del pubblico dipendente per fini privati sia riconducibile all'una o all'altra delle fattispecie di peculato previste dall'art. 314 c.p. ed afferma, invece, che esso puo' essere ricondotto, allorche' ricorrano gli ulteriori presupposti previsti dalla legge, alla fattispecie di abuso d'ufficio di cui all'art. 323 c.p. (Cass. pen., Sez. VI, 13 maggio 1998, Agnello; Sez. VI, 27 gennaio 1994, p.m. in proc. Liberatore). Circa l'evidenziato contrasto, giova rilevare che, a conforto dell'orientamento indicato da ultimo, oltre all'impossibilita' di concepire l'appropriazione di una persona o della sua energia lavorativa, milita il rilievo che, per l'art. 314 c.p., oggetto dell'appropriazione deve essere il «danaro o altra cosa mobile». I concetti di «persona» e di «energie personali», infatti, sono senz'altro estranei all'area semantica circoscritta dall'espressione «danaro o altra cosa mobile». La riconduzione all'art. 314 c.p. dell'impiego di pubblici dipendenti per fini privati da parte di un pubblico ufficiale, pertanto, si risolverebbe in una non consentita applicazione analogica in malam partem della legge penale. Tra i due orientamenti sopra richiamati, dunque, appare preferibile quello che riconduce l'uso a fini privati del personale dipendente da parte del pubblico ufficiale alla fattispecie di abuso d'ufficio prevista dall'art. 323 c.p., sempre che, beninteso, ricorrano tutte le condizioni previste da tale articolo. Sul punto, pertanto, deve conclusivamente affermarsi che l'utilizzo per scopi privati di autovetture di servizio e l'impiego del relativo autista sono condotte astrattamente riconducibili a diverse fattispecie incriminatrici, e precisamente: il primo al reato di peculato d'uso di cui all'art. 314, comma 2 c.p.; il secondo all'abuso d'ufficio di cui all'art. 323 dello stesso codice. Conseguentemente, la condotta del pubblico ufficiale che si serve per scopi privati dell'autovettura di servizio con alla guida il relativo autista risulta astrattamente integrare sia il reato di peculato d'uso di cui all'art. 314, comma 2 c.p. sia quello di abuso d'ufficio previsto dall'art. 323 c.p., in concorso formale tra loro. Alla stregua di quanto precede, le condotte oggetto dell'imputazione - se non fosse per la particolare qualifica soggettiva dell'agente e per la natura di quanto oggetto materiale dell'azione, sulle quali ci si soffermera' tra breve - andrebbero astrattamente ricondotte all'art. 314, comma 2 c.p. (peculato d'uso) per quanto riguarda l'utilizzo dell'autovettura ed all'art. 323 c.p. (abuso d'ufficio) per quanto riguarda l'utilizzo dell'autista. L'inciso di cui al capoverso che precede si spiega in ragione delle speciali previsioni dettate dall'art. 3 della legge 9 dicembre 1941, n. 1383, e dall'art. 215 del codice penale militare di pace. Il comma 1 dell'art. 3 della legge n. 1383 del 1941, infatti, stabilisce: «Il militare della guardia di finanza che commette una violazione delle leggi finanziare, costituente delitto, o collude con estranei per frodare la finanza, oppure si appropria o comunque distrae, a profitto proprio o di altri, valori o generi di cui egli, per ragioni del suo ufficio o servizio, abbia l'amministrazione o la custodia o su cui eserciti la sorveglianza, soggiace alle pene stabilite dagli articoli 215 e 219 del codice penale militare di pace, ferme le sanzioni pecuniarie delle leggi speciali. La cognizione dei suddetti reati appartiene ai tribunali militari». Come e' unanimemente riconosciuto, la disposizione appena citata contempla diverse autonome fattispecie incriminatrici, tra cui quella del c.d. «peculato del militare della Guardia di Finanza», che risulta integrato quando il soggetto che riveste tale qualifica «si appropria o comunque distrae, a profitto proprio o di altri, valori o generi di cui egli, per ragioni del suo ufficio o servizio, abbia l'amministrazione o la custodia o su cui eserciti la sorveglianza». A sua volta, l'art. 215 c.p.m.p. definisce la fattispecie del «peculato militare», prevedendo: «Il militare incaricato di funzioni amministrative o di comando, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso di denaro o di altra cosa mobile, appartenente all'amministrazione militare, se l'appropria, ovvero lo distrae a profitto proprio o di altri, e' punito con la reclusione da due a dieci anni». Orbene, non puo' esservi dubbio che il fatto descritto nell'imputazione, relativamente all'utilizzo dell'autovettura, sia riconducibile alla fattispecie del «peculato del militare della Guardia di Finanza» delineata dall'art. 3 della legge n. 1383 del 1941. All'imputato, infatti, viene contestato di avere utilizzato per fini personali una cosa per sua natura destinata esclusivamente all'espletamento dei tipici compiti di prevenzione e repressione propri del Corpo della Guardia di Finanza -- una delle autovetture di servizio in dotazione alla Compagnia della Guardia di Finanza di Termini Imerese -- e della quale egli disponeva proprio nella qualita' di Comandante della Compagnia della Guardia di Finanza di Termini Imerese (e, quindi, in funzione dell'esercizio dei predetti compiti). Peraltro, in mancanza della speciale previsione del «peculato del militare della Guardia di Finanza», le condotte in questione andrebbero ricondotte alla fattispecie del «peculato militare» previsto dall'art. 215 c.p.m.p., stante che, essendo la Guardia di Finanza un corpo militare (v. Cass. pen., 19 gennaio 2000, n. 1410; Cass. pen., 31 gennaio 2000, n. 3491), ne ricorrerebbero tutti i presupposti. A quest'ultimo riguardo -- in considerazione dell'espunzione dall'art. 215 c.p.m.p., per effetto della sentenza n. 448 del 1991 della Corte costituzionale, delle parole «ovvero lo distrae a profitto proprio o di altri», ossia della sostanziale soppressione del «peculato militare» c.d. per distrazione, al pari di quanto era gia' avvenuto con il peculato comune per effetto dell'art. 1 della legge 26 aprile 1990, n. 86-, giova precisare che, secondo la migliore dottrina e la recente giurisprudenza, condivisa da questo Tribunale, il peculato d'uso, cui e' riconducibile, come detto, l'illecito utilizzo per fini privati dell'autovettura di servizio da parte del pubblico ufficiale, consiste in una vera e propria condotta appropriativa, sia pure momentanea, con la conseguenza che esso, se mancasse la previsione di cui all'art. 314, comma 2 c.p.p., andrebbe ricondotto alla fattispecie di peculato descritta dall'attuale comma 1 dell'art. 314 del codice penale. In quest'ottica, limitando l'attenzione alle pronunce relative a casi di utilizzo di autovetture di servizio, Cass. pen., 1 febbraio 2005, n. 9216, premesso che la fattispecie di peculato d'uso prevista dall'art. 314, comma 2 c.p. e' autonoma rispetto a quella di peculato di cui al primo comma dello stesso articolo e che «uso momentaneo» non significa istantaneo bensi' temporaneo, ha precisato che la relativa condotta «deve caratterizzarsi per consistenza e durata tale da realizzare una appropriazione». Ed ha aggiunto: «La ratio della configurazione del delitto di peculato d'uso ... va individuata nella voluntas legis di sottrarre all'area del peculato comune l'appropriazione di cose di specie ... per un periodo limitato di tempo, cui fa seguito la loro immediata restituzione con ripristino completo della situazione ex ante. In particolare, ... l'elemento oggettivo del reato di peculato e', in ogni caso, costituito esclusivamente dall'appropriazione, la quale si realizza con una condotta del tutto incompatibile con il titolo per cui si possiede, da cui deriva una estromissione totale del bene dal patrimonio dell'avente diritto con il conseguente incameramento dello stesso da parte dell'agente. Sul piano dell'elemento soggettivo si realizza il mutamento dell'atteggiamento psichico dell'agente nel senso che alla rappresentazione di essere possessore della cosa per conto di altri succede quella di possedere per conto proprio. Elementi, questi ultimi, che debbono sussistere anche nell'ipotesi del peculato d'uso pur se, in tale ipotesi, l'appropriazione e' finalizzata ad un uso esclusivamente momentaneo della cosa (Sez. 6ª, 12 dicembre 2000, Genchi ed altri, rv. 219086) ... In altri termini, il peculato d'uso e' una fattispecie penale che, sebbene configuri una ipotesi autonoma del reato, sanziona il colpevole di peculato con una pena minore se egli si sia appropriato della cosa altrui per farne un uso momentaneo e poi l'abbia restituita immediatamente» (negli stessi termini, v. Cass. pen., 10 gennaio 2007, n. 10233). Quanto precede evidenzia che, diversamente da quanto affermato da Cass. pen., 28 giugno 2001, n. 28315, l'eliminazione dell'ipotesi distrattiva dall'art. 215 c.p.m.p. non ha sottratto alla disciplina di tale articolo la condotta del militare che usa per fini privati automezzi in dotazione al reparto. Come si e' appena visto, infatti, quella in esame e' una condotta di appropriazione, sia pure momentanea, e risulta tuttora prevista, pertanto, dall'art. 215 c.p.p.m. Dunque, ribadendo quanto gia' osservato, va affermato che, in assenza della previsione di cui all'art. 3 della legge n. 1383 dei 1941, l'illecito uso per fini privati dell'autovettura di servizio da parte del militare della Guardia di Finanza sarebbe inquadrabile (ancora oggi) nella fattispecie di peculato militare di cui all'art. 215 del codice penale militare di pace. E allora, l'uso che il militare della Guardia di finanza fa per scopi privati dell'autovettura in dotazione al proprio reparto servendosi del relativo autista integra astrattamente due reati e, segnatamente, i seguenti: con riferimento all'uso dell'autovettura, il reato di «peculato del militare della Guardia di Finanza» previsto dall'art. 3 della legge n. 1383 del 1941 e, in ipotesi, mancando questo, il reato di peculato militare previsto dall'art. 215 c.p.m.p.; con riferimento all'impiego dell'autista, il reato di abuso d'ufficio previsto dall'art. 323 del codice penale. Nel caso di specie, pertanto, deve rilevarsi che ciascuna delle condotte contestate all'imputato, ovviamente allo stato prescindendo da ogni valutazione sulla concreta fondatezza dell'accusa, appare astrattamente integrare il reato di «peculato del militare della Guardia di Finanza» relativamente all'uso dell' autovettura e l'abuso d'ufficio relativamente all'impiego dell'autista. Trattandosi di reati commessi con una sola azione, risulta integrata, con riferimento a ciascuna delle condotte in questione, una fattispecie di concorso formale di reati, onde tra i relativi procedimenti ricorrerebbe un'ipotesi di connessione ai sensi dell'art. 12, lett. b) del codice di rito. I due reati, pero', rientrano nella giurisdizione di giudici diversi. Infatti, mentre il «peculato del militare della Guardia di Finanza», cosi' come il «peculato militare», appartiene alla giurisdizione militare, il reato di abuso d'ufficio rientra nella giurisdizione del giudice ordinario. Inoltre, pur ricorrendo un'ipotesi di concorso formale, poiche' il reato di abuso d'ufficio previsto dall'art. 323 c.p. e' meno grave di quello di «peculato del militare della Guardia di Finanza» previsto dall'art. 3 della legge n. 1383 del 1941 (come anche di quello previsto dall'art. 215 c.p.m.p.), la giurisdizione del giudice ordinario in ordine al primo non ha la forza di attrarre a se', ai sensi dell'art. 13 comma 2 c.p.p., anche la giurisdizione in ordine secondo. Stando cosi' le cose, in questa sede, in parziale accoglimento dell'eccezione di giurisdizione sollevata dalla difesa, il Tribunale dovrebbe pronunciare il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, ai sensi dell'art. 20 c.p.p., in relazione al contestato utilizzo dell'autovettura, proseguendo il giudizio limitatamente all'impiego dell'autista. Diversamente, sposando l'indirizzo giurisprudenziale secondo cui la condotta del pubblico ufficiale che si serva per scopi privati di personale dipendente avrebbe natura di «appropriazione definitiva», oggi riconducibile alla previsione di cui all'art. 314, comma 1 c.p., le condotte contestate all'imputato, stante la qualifica soggettiva dell'agente, rientrerebbero nella fattispecie di cui all'art. 3 della legge n. 1383 del 1941 anche con riferimento all'impiego dell'autista. In quest'ottica, quindi, l'eccezione di giurisdizione sollevata dalla difesa andrebbe integralmente accolta. Questo tribunale, pero', dubita della legittimita' costituzionale sia dell'art. 3 della legge n. 1383 del 1941 che dell'art. 215 del codice penale militare di pace. In particolare, dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 3 della legge n. 1383 del 1941 nella parte in cui, dopo avere previsto che il militare della Guardia di Finanza il quale «si appropria o comunque distrae, a profitto proprio o di altri, valori o generi di cui egli, per ragioni del suo ufficio o servizio, abbia l'amministrazione o la custodia o su cui esercita la sorveglianza, soggiace alle pene stabilite dagli articoli 215 e 219 del codice penale militare di pace», non prevede che «tale disposizione non si applica quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l'uso momentaneo, e' stata immediatamente restituita»; dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 215 c.p.m.p. nella parte in cui, infine, non prevede che «tale disposizione non si applica quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l'uso momentaneo, e' stata immediatamente restituita». Come e' noto, l'art. 3 14 c.p. e' stato integralmente sostituito dall'art. 1 della legge 26 aprile 1990, n. 86, contenente modifiche in tema dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Prima dell'intervento riformatore, la fattispecie di peculato, delineata dal primo comma dell'art. 314 c.p., si articolava in due distinte tipologie di condotta, peculato per appropriazione e peculato per distrazione, sottoposte al medesimo trattamento sanzionatorio: reclusione da tre a dieci anni e multa non inferiore a lire duecentomila. L'art. 314 c.p. riformato ha riproposto, al primo comma, la figura del peculato c.d. per appropriazione, mantenendo ferma la pena della reclusione da tre a dieci anni (non e' piu' prevista la multa); ha introdotto, al secondo comma, la nuova fattispecie del peculato c.d. d'uso, che si ha quando «il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l'uso momentaneo, e' stata immediatamente restituita», sottoponendola alla ben piu' mite pena della reclusione da sei mesi a tre anni. A seguito della riforma, invece, e' scomparsa la figura del peculato per distrazione. Cio', peraltro, non ha determinato la totale depenalizzazione delle condotte che venivano ricondotte a tale figura. Una parte di tali condotte, infatti, sono confluite nella nuova fattispecie di abuso d'ufficio prevista dall'art. 323 del codice penale. Inoltre, per chi ritiene che il peculato d'uso -- diversamente da quanto, in linea con l'opinione della migliore dottrina e della recente giurisprudenza, qui sostenuto -- integri una condotta distrattiva e non appropriativa, alcune delle condotte che prima costituivano peculato per distrazione rientrerebbero oggi nella fattispecie di peculato prevista nel secondo comma del novellato art. 314 del codice penale. L' intervento riformatore operato con la legge n. 86 del 1990 non ha interessato la figura del «peculato militare» prevista dall'art. 215 c.p.m.p. ne' quella del «peculato del militare della Guardia di Finanza» prevista dall'art. 3 della legge n. 1383 del 1941, alle quali non sono state estese le modifiche introdotte per il peculato comune dall'art. 1 della legge n. 86 del 1990. Cio' si e' tradotto in una diversita' di trattamento tra militari e non militari in materia di peculato, apprezzabile sotto un duplice profilo: 1) mentre le condotte di appropriazione momentanea commesse da pubblici ufficiali non militari sono soggette ad un trattamento sanzionatorio piu' mite di quello previsto per le condotte di appropriazione definitiva, le condotte di appropriazione momentanea commesse da militari e, in particolare da militari appartenenti alla Guardia di Finanza, sono soggette allo stesso trattamento sanzionatorio previsto per le condotte di appropriazione definitiva; 2) mentre il pubblico ufficiale non militare, in caso di uso momentaneo per fini personali con successiva restituzione della cosa di cui disponga in ragione del proprio ufficio, rispondendo del reato di cui all'art. 314, comma 2 c.p., e' soggetto alla pena della reclusione da sei mesi a tre anni, il militare in genere e il militare appartenente al Corpo della Guardia di Finanza in particolare, in caso di analoga condotta, rispondendo dei reati, rispettivamente, di cui all'art. 215 c.p.m.p. e di cui all'art. 3 della legge 9 dicembre 1941, n. 1383, sono soggetti alla pena, macroscopicamente piu' severa, della reclusione da due a dieci anni stabilita dall'art. 215 c.p.m.p. (cui l'art. 3 della legge n. 1383 del 1941 fa rinvio quoad poenam). Orbene, tale disparita' di trattamento appare al tribunale priva di razionale giustificazione e, pertanto, in contrasto con il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione. Al riguardo, giova ricordare che gia' con la sentenza n. 4 del 1974 -- dichiarando l'illegittimita' costituzionale dell'art. 5, lett. c), della legge 21 maggio 1970, n. 282, e dell'art. 5, lett. c), del d.P.R. 22 maggio 1970, n. 283, nella parte in cui non estendevano al peculato militare l'amnistia prevista per il peculato comune -- la Corte costituzionale osservava come «tra il delitto di peculato previsto dall'art. 314 c.p. e quello di peculato militare di cui all'art. 215 c.p.m.p. sussiste una sostanziale identita», sicche' «non si riesce ... a vedere quali obbiettivi ed apprezzabili ragioni abbiano potuto indurre il legislatore ad una diversa valutazione delle anzidette figure delittuose». Inoltre, richiamando tale concetto, la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 473 del 1990 -- pur pervenendo nella specie ad una declaratoria di inammissibilita' della questione posta dal giudice a quo - rilevava che la fattispecie di cui all'art. 215 c.p.m.p., «lungi dall'essere considerata dal legislatore in termini di particolare gravita' perche' attinente all'amministrazione militare, e' valutata addirittura di piu' lieve entita' di quella comune stando alla sanzione che, nel minimo, e' inferiore di ben un anno a quella prevista per il peculato comune», e affermava quindi che «tale essendo la considerazione data alle due fattispecie dallo stesso legislatore, non e' effettivamente conforme a razionalita' che, riformando il peculato comune cosi' come si' e' visto piu' sopra, analoga modifica non sia stata apportata a quello militare». Infine, ricordando quanto affermato nelle pronunce suddette, con la sentenza n. 448 del 1991, la Corte costituzionale ha dichiarato 1' illegittimita' costituzionale dell'art. 215 c.p.m.p. limitatamente alle parole «ovvero lo distrae a profitto proprio o di altri», cosi' equiparando il trattamento delle condotte distrattive poste in essere dal militare alle analoghe condotte poste in essere dal pubblico ufficiale non militare. Cio' detto, le considerazioni che precedono appaiono valide anche in relazione, da un lato, alla fattispecie di «peculato del militare della Guardia di Finanza» prevista dall'art. 3 della legge n. 1383 del 1941; dall'altro, alle condotte appropriative contrassegnate da un uso momentaneo della cosa cui segue la restituzione della stessa. Quanto al primo aspetto, la struttura di detta fattispecie, con particolare riferimento alla natura del bene protetto ed alla condotta tipica, non e' diversa da quella del peculato comune oggi prevista dall'art. 314 c.p. e da quella del peculato militare di cui all'art. 215 c.p.m.p., prima che queste ultime fossero modificate per effetto, rispettivamente, dell'art. 1 della legge n. 86 del 1990 e della sentenza n. 448 del 1991 della Corte costituzionale. Inoltre, va considerato che l'art. 3 della legge n. 1383 del 1941, limitandosi quoad poenam a rinviare all'art. 215 c.p.m.p., prevede una pena meno grave di quella che era prevista dall'art. 314 c.p. prima dell'intervento riformatore operato con l'art. 1 della legge n. 86 del 1990 e che oggi e' prevista dal primo comma del riformato art. 314. Di conseguenza, anche per il «peculato del militare della Guardia di Finanzia» deve escludersi che nell'appartenenza dell'agente e dell'oggetto materiale della condotta al Corpo della Guardia di Finanza possa rinvenirsi una valutazione della fattispecie speciale qui considerata in termini di maggiore gravita' rispetto alla fattispecie comune di peculato. Circa il secondo profilo, alla luce dell'evidenziata identita' sostanziale tra le fattispecie, cosi' come la mancata estensione delle modifiche apportate al peculato comune dall'art. 1 della legge n. 86 del 1990 al «peculato militare» in genere ed al «peculato del militare della Guardia di Finanza in particolare» appare irrazionale ed ingiustificata in relazione alle condotte distrattive, allo stesso modo e per le stesse ragioni essa appare irrazionale ed ingiustificata anche in relazione alle condotte appropriative caratterizzate dall'uso solo momentaneo della cosa, seguito dall'immediata restituzione della stessa. In altri termini, cosi' come era irragionevole che la condotta distrattiva del militare fosse soggetta alla pena della reclusione da due a dieci anni prevista dall'art. 215 c.p.m.p. quando l'analoga condotta commessa dal pubblico ufficiale non militare o era (ed e) penalmente non rilevante ovvero era (ed e) soggetta, in presenza delle specifiche condizioni stabilite dall'art. 323 c.p., alla pena della reclusione da sei mesi a tre anni prevista per il reato di abuso d'ufficio, allo stesso modo e' irragionevole che la condotta del militare di appropriazione momentanea seguita dalla restituzione continui ad essere punita con la reclusione da due a dieci anni prevista dall'art. 215 c.p.m.p. e dall'art. 3 della legge n. 1383 del 1941 (per effetto del rinvio all'art. 215 c.p.m.p.) mentre l'analoga condotta del pubblico ufficiale non militare e' soggetta alla ben piu' mite pena della reclusione da sei mesi a tre anni prevista dall'art. 314 comma 2 del codice penale. Peraltro, anche considerando il peculato d'uso una forma non di appropriazione ma di distrazione e ritenendo, quindi, che l'intervenuta soppressione dell'ipotesi distrattiva dal «peculato militare», per effetto della piu' volte richiamata sentenza n. 448 del 1991 della Corte costituzionale, abbia eliminato la disparita' di trattamento determinatasi, a seguito della riformulazione dell'art. 314 c.p. effettuata con la novella del 1990, tra peculato comune e «peculato militare», resterebbe pur sempre fermo il deteriore trattamento riservato al militare della Guardia di Finanza dall'art. 3 della legge n. 1383 del 1941; anzi, tale disparita' sarebbe ancor piu' intensa e intollerabile perche' opererebbe non solo rispetto al personale civile ma anche rispetto al personale militare non appartenente alla Guardia di Finanza. Per eliminare l'evidenziata disparita' e ripristinare l'uniformita' di trattamento tra il militare della Guardia di Finanza ed il pubblico ufficiale non militare, si rende necessario dichiarare l'illegittimita' costituzionale, per contrasto con l'art. 3 della Costituzione, dell'art. 3 della legge n. 1383 del 1941 nella parte in cui, dopo avere previsto che «il militare della Guardia di Finanza che ... si appropria o comunque distrae, a profitto proprio o di altri, valori o generi di cui egli, per ragioni del suo ufficio o servizio, abbia l'amministrazione o la custodia o su cui esercita la sorveglianza, soggiace alle pene stabilite dagli articoli 215 e 219 del codice penale militare di pace», non prevede che «tale disposizione non si applica quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l'uso momentaneo, e' stata immediatamente restituita». Si rende altresi' necessario, ad avviso del tribunale, dichiarare l'illegittimita' costituzionale dell'art. 215 c.p.m.p. nella parte in cui, infine, non prevede che «tale disposizione non si applica quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l'uso momentaneo, e' stata immediatamente restituita». Infatti, come si e' gia' detto, la condotta di appropriazione caratterizzata dall'uso momentaneo della cosa posta in essere dal militare della Guardia di Finanza, in assenza dell'art. 3 della legge n. 1383 del 1941, sarebbe comunque attratta nella previsione di cui all'art. 215 c.p.m.p, cosi' come esso e' ancora oggi vigente dopo la dichiarazione di parziale incostituzionalita' operata con la sentenza n. 448 del 1991 della Corte costituzionale. Diversamente, ove si ritenesse che l'uso momentaneo per fini privati della cosa di cui si dispone per ragioni d'ufficio costituisca una condotta distrattiva e non appropriativa, e si ritenesse, quindi, che l'art. 215 c.p.m.p. non punisce le condotte di questo genere commesse dai militari, ai fine di ripristinare la parita' di trattamento tra militari della Guardia di Finanza, da un lato, pubblici ufficiali e militari non appartenenti al suddetto Corpo, dall'altro, sarebbe sufficiente di chiarare l'illegittimita' costituzionale dell'art. 3 della legge n. 1383 del 1941 limitatamente alle parole «o comunque distrae, a profitto proprio o di altri». Va rilevato, comunque, che un'eventuale accoglimento della questione che qui si pone, al pari di quanto avvenuto con la pronuncia di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 448 del 1991, non determinerebbe un vuoto di disciplina ne' una non consentita introduzione di nuove fattispecie incriminatrici; determinerebbe, invece, in conformita' a quanto previsto dall'art. 16 c.p., l'applicazione delle norme del codice penale comune in luogo dell'art. 3 della legge n. 1383 del 1941 e dell'art. 215 c.p.m.p. in quanto questi ultimi, nella materia de qua, non stabilirebbero piu' diversamente. In altri termini, un'eventuale declaratoria di illegittimita' costituzionale delle predette speciali disposizioni nei termini dianzi prospettati, sottrarrebbe l'appropriazione momentanea di cose di cui il militare della Guardia di Finanza dispone per ragioni di servizio alla disciplina dell'art. 3 della legge n. 1383 del 1941 e (gradatamente) dell'art. 215 c.p.m.p. (nonche' alla giurisdizione del giudice militare) per ricondurla alla disciplina, piu' favorevole, dell'art. 314 comma 2 c.p. (ed alla giurisdizione del giudice ordinario), cosi' eliminando l'evidenziata ed ingiustificabile disparita' di trattamento. Giova infine fare presente che una pronuncia di incostituzionalita' nei termini appena invocati non pare implicare, ad avviso del tribunale, una manipolazione normativa sottratta al potere della Corte costituzionale, tanto che quest'ultima non si e' sottratta, con la sentenza n. 448 del 1991, alla produzione di un analogo effetto in ordine alle condotte distrattive di cui l'art. 215 c.p.m.p.; essa, inoltre, a quasi diciassette anni dal monito lanciato al legislatore con la sentenza della Corte costituzionale n. 473 del 1990, appare necessaria per porre fine all'ulteriore perpetuazione dell'ingiustificata ed ormai non piu' tollerabile disparita' di trattamento sin qui evidenziata. Le questioni prospettate hanno rilevanza nel presente procedimento. Come si e' gia' rassegnato, infatti, l'eventuale declaratoria di incostituzionalita' nei termini evidenziati, oltre ad incidere sulla qualificazione giuridica delle condotte descritte nell'imputazione e sulla pena per esse prevista, determinerebbe la sottrazione di talune di esse all'area delineata da fattispecie di reato soggette alla giurisdizione militare per ricondurla a quella prevista dall'art. 314, comma 2 c.p., rientrante nella giurisdizione del giudice ordinario, con l'immediata conseguenza, nel presente processo, di condizionare la decisione di questo tribunale sull'eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dalla difesa dell'imputato. Ed invero, si e' evidenziato come l'imputazione sulla quale si e' chiamati a decidere contenga condotte riconducibili a diverse fattispecie penali: l'uso a fini privati dell'autovettura di servizio che, essendo l'agente il Comandante della Compagnia di Termini Imerese della Guardia di Finanza ed avendo la condotta ad oggetto autovetture in dotazione alla predetta Compagnia, va inquadrato nella fattispecie di cui all'art. 3 della legge n. 1383 del 1941; l'uso a fini privati dell'autista delle predette autovetture che, sulla scorta di quanto in precedenza osservato, in presenza delle ulteriori condizioni richieste dall'art. 323 c.p., integra il reato di abuso d'ufficio previsto da tale ultimo articolo. Pertanto, in relazione alle condotte di illecito utilizzo dell'autovettura contestate all'imputato, essendo esse astrattamente riconducibili al reato di cui all'art. 3 della legge n. 1383 del 1941, questo tribunale dovrebbe dichiarare il proprio difetto di giurisdizione. Infatti, poiche' il reato di abuso d'ufficio, astrattamente configurabile in relazione alle condotte di utilizzo dell'autista contestate all'imputato, rientrante nella giurisdizione del giudice ordinario, e' meno grave del reato di cui all'art. 3 della legge n. 1383 del 1941, ai sensi del comma 2 dell'art. 13 c.p.p., non opererebbe la connessione tra il procedimento relativo all'utilizzo dell'autovettura e quello relativo all'utilizzo dell'autista, sicche' il secondo non avrebbe la forza di attrarre il primo sotto la giurisdizione del giudice ordinario. Ove invece fosse accolta la prospettata eccezione di illegittimita' costituzionale, anche le contestate condotte di utilizzo dell'autovettura, finendo col rientrare nella fattispecie di cui all'art. 314, comma 2 c.p., diventerebbero soggette alla giurisdizione del giudice ordinario, con la conseguenza che il tribunale procedente dovrebbe rigettare, almeno con riferimento a tali condotte, l'eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dalla difesa. Il giudizio di rilevanza resta fermo anche a volere aderire all'orientamento giurisprudenziale -- non condiviso da questo Tribunale -- che riconduce le condotte di utilizzo a fini privati dell'autista alla fattispecie di peculato (per appropriazione) di cui all'art. 314, comma 1 c.p. e, quindi, a volere ritenere che, se commesse dal militare della Guardia di Finanza, dette condotte siano riconducibili al reato di cui all'art. 3 della legge n. 1383 del 1941. Infatti, aderendo a questa prospettiva, allo stato della legislazione, tutte le condotte contestate all'imputato, sia quelle di utilizzo a fini privati dell'autovettura che quelle di utilizzo a fini privati dell'autista, sarebbero astrattamente riconducibili alla fattispecie di cui all'art. 3 della legge n. 1383 del 1941, pertanto punite con la pena da due a dieci anni di reclusione e soggette alla giurisdizione militare. Conseguentemente, l'eccezione sollevata dalla difesa dovrebbe essere integralmente accolta. Orbene, come si e' gia' ampiamente evidenziato, l'eventuale accoglimento dell'eccezione qui prospettata avrebbe l'effetto di sottrarre le condotte di utilizzo dell'autovettura contestate all'imputato alla fattispecie prevista dall'art. 3 della legge n. 1383 del 1941 (e, gradatamente, a quella prevista dall'art. 215 c.p.m.p.) per ricondurle a quella prevista dall'art. 314 comma 2 c.p., con i conseguenti effetti sulla pena, che passerebbe dalla reclusione da due a dieci anni alla reclusione da sei mesi a tre anni, e sulla giurisdizione, che transiterebbe dal giudice militare al giudice ordinario. E tale effetto, come e' evidente, esplicherebbe immediate conseguenze sulla decisione di questo Tribunale in merito all'eccezione sollevata dalla difesa. Infatti, a seguito di un'eventuale declaratoria di incostituzionalita' nei termini qui prospettati, le condotte contestate all'imputato sarebbero astrattamente riconducibili al reato di peculato d'uso previsto dall'art. 314 comma 2 c.p. per quanto attiene all'utilizzo dell'autovettura e (beninteso aderendo alla prospettiva da ultimo indicata) al piu' grave reato previsto dall'art. 3 della legge n. 1383 del 1941 relativamente all'impiego dell'autista. Saremmo di fronte dunque a condotte integranti una fattispecie di concorso formale di due reati: il piu' grave, costituito dall'impiego per scopi privati dell'autista, previsto dall'art. 3 della legge n. 1383 del 1941, soggetto alla giurisdizione del giudice militare; il meno grave, costituito dall'uso a fini privati dell'autovettura, previsto dall'art. 314 comma 2 c.p., soggetto alla giurisdizione del giudice ordinario. In tal caso, in base a quanto stabilito dall'art. 13, comma 2 c.p.p., la connessione non opererebbe e, pertanto, la giurisdizione del giudice ordinario in ordine alle condotte di' utilizzo a fini privati dell'autovettura di servizio resterebbe ferma. L'eccezione della difesa, quindi, andrebbe accolta limitatamente alle condotte di impiego per scopi privati dell'autista.