ha pronunciato la seguente Ordinanza nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 227 del codice penale militare di pace, promosso con ordinanza dell'11 ottobre 2005 dal Tribunale militare di Palermo nel procedimento penale a carico di C. C., iscritta al n. 19 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, 1ª serie speciale, dell'anno 2006. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nella Camera di consiglio del 30 gennaio 2008 il giudice relatore Paolo Maria Napolitano. Ritenuto che il Tribunale militare di Palermo, con ordinanza dell'11 ottobre 2005, ha sollevato questione di legittimita' costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 227 del codice penale militare di pace nella parte in cui non prevede, per il delitto di diffamazione militare, una causa di non punibilita' analoga a quella della prova liberatoria prevista dall'art. 596, quarto comma, del codice penale per il corrispondente delitto di diffamazione «ordinaria»; che il rimettente, quanto al fatto, riferisce unicamente che l'imputato Maresciallo dei carabinieri C.C. e' stato tratto a giudizio per rispondere del reato di diffamazione militare aggravata in quanto avrebbe inviato a diverse autorita' un esposto dal contenuto lesivo della reputazione del Brigadiere dei carabinieri F.M., anche mediante l'attribuzione di fatti determinati; che il collegio rimettente precisa che all'udienza del 5 ottobre 2005 la difesa dell'imputato ha eccepito l'illegittimita' costituzionale dell'art. 227 del codice penale militare di pace, in relazione all'art. 3 Cost., nella parte in cui, a differenza dell'art. 596, terzo e quarto comma, cod. pen. non prevede la possibilita' di provare i fatti attribuiti; che il rimettente compie una ricognizione dei dati normativi vigenti nella quale evidenzia, in primo luogo, che l'art. 596 cod. pen., pur escludendo in via generale la prova liberatoria (primo comma), la ammette nelle limitate ipotesi contemplate nei commi secondo e terzo, prevedendo inoltre (quarto comma) che, una volta provata la verita' del fatto, l'autore dell'imputazione non e' piu' punibile; che tale causa di non punibilita' e', invece, del tutto ignota al codice penale militare di pace, che non contiene alcuna norma analoga; che anche il «codice Rocco», in origine, «non prevedeva la possibilita' della prova liberatoria, ma solo quella - eventuale - del deferimento a un giuri' d'onore del giudizio sulla verita' del fatto»; che, con il decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 288 (Provvedimenti relativi alla riforma della legislazione penale), venne introdotta la modifica dell'art. 596 cod. pen. nei termini tutt'oggi in vigore, senza pero' prevedere una corrispondente disciplina per le fattispecie militari; che, in tal modo, il trattamento penalistico, pressoche' identico quanto alla morfologia complessiva delle due figure criminose di ingiuria e diffamazione, ha finito per diversificarsi profondamente in tema di cause di non punibilita'; che l'attuale disarmonia, a parere del collegio rimettente, «non appare comprensibile sotto il profilo della ragionevolezza, non essendo possibile individuare alcun valido motivo della perdurante sperequazione; e per cio' stesso appare ingiustificata ex art. 3 Cost., poiche' finisce per trattare la posizione dei militari imputati di ingiuria e diffamazione in modo pesantemente diverso da quello previsto per i non appartenenti alle forze armate imputati di illeciti del tutto analoghi»; che il Tribunale militare di Palermo, con riferimento alla rilevanza della questione, sottolinea che l'esito del procedimento sarebbe ben diverso ammettendosi o negandosi la possibilita' della prova liberatoria: poiche' in un caso si potrebbe pervenire a una pronuncia favorevole all'imputato nei termini previsti dall'art. 596, quarto comma, cod. pen. e, nell'altro, ad una soluzione di segno contrario; che e' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto alla Corte di dichiarare la questione inammissibile o infondata. Considerato che il Tribunale militare di Palermo, con ordinanza del 5 ottobre 2005, ha sollevato questione di legittimita' costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 227 del codice penale militare di pace, nella parte in cui non prevede per il delitto di diffamazione militare una causa di non punibilita' analoga a quella della prova liberatoria prevista dall'art. 596, comma quarto, del codice penale per il corrispondente delitto di diffamazione «ordinaria»; che, secondo il rimettente, l'esclusione della prova liberatoria per il delitto di diffamazione militare e' in contrasto con il principio di ragionevolezza in quanto non vi e' alcuna ragione giustificatrice del diverso trattamento dei militari imputati di ingiuria e diffamazione rispetto ai non appartenenti alle forze armate imputati di illeciti del tutto analoghi; che la questione e' manifestamente inammissibile; che il rimettente omette del tutto la descrizione del caso concreto sottoposto al suo esame rendendo in tal modo impossibile ogni valutazione circa la rilevanza della questione; che, in particolare, il Tribunale militare non riporta il capo d'imputazione, ne' indica alcuna circostanza di fatto relativa alla vicenda del giudizio a quo; che l'incertezza sulla vicenda processuale si riflette anche sulla stessa applicabilita' della norma evocata, in quanto l'art. 596 cod. pen., dopo aver stabilito, al primo comma, il principio secondo il quale il colpevole dei delitti di ingiuria e diffamazione non e' ammesso a provare a sua discolpa la verita' o la notorieta' del fatto attribuito alla persona offesa, prevede, al terzo comma, le relative eccezioni; che il rimettente non indica quale delle tre ipotesi previste dall'art. 596, terzo comma, cod. pen. ricorra nel caso di specie, ovvero: se la persona offesa sia un pubblico ufficiale ed il fatto a lui attribuito si riferisca all'esercizio delle sue funzioni; se per il fatto attribuito alla persona offesa penda contro di essa un procedimento penale; se la persona offesa abbia chiesto formalmente l'accertamento della verita' o della falsita' del fatto attribuitole; che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l'insufficiente descrizione della fattispecie, poiche' impedisce di vagliare l'effettiva applicabilita' della norma ai casi dedotti, si risolve in carente motivazione sulla rilevanza della questione, determinandone, conseguentemente, la manifesta inammissibilita' (tra le ultime, ordinanze n. 45 e n. 31 del 2007); Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.