IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
   Ha pronunciato la seguente ordinanza nella pubblica udienza del 27
giugno 2007;
   Visto  il  ricorso  n. 806/2007  proposto  da  Gianfreda  Aurelio,
rappresentato  e  difeso  da  Quinto  Pietro, con domicilio eletto in
Lecce, via Garibaldi, 43, presso Quinto Pietro;
   Contro   Ministero   dell'interno -  Roma,  Comune  di  Poggiardo,
rappresentato  e  difeso  da Carluccio Salvatore, Circolone Giovanni,
Elia  Cosimo, con domicilio eletto in Lecce, viale Leopardi,15 presso
Palma Antonio e nei confronti di Bolognino Alfio, non costituito; per
l'annullamento,    previa    sospensione    dell'esecuzione,    della
deliberazione  n. 18  del  22  maggio  2007 con la quale il Consiglio
comunale  della  Citta'  di Poggiardo ha ritenuto, in via definitiva,
sussistenti  in  capo al ricorrente le condizioni di incompatibilita'
per lite pendente ai sensi dell'art. 63 del T.U.E.L. e lo ha invitato
a rimuoverle nel termine di gg. 10 dalla notifica con l'avviso che in
difetto  provvedera'  a  dichiararlo  decaduto; nonche' di ogni altro
atto  presupposto, connesso o consequenziale e specificatamente della
delibera  del  Consiglio  comunale  di  Poggiardo n. 13 del 24 aprile
2007;     nonche',    per    l'annullamento,    previa    sospensione
dell'esecuzione, dell'avviso di convocazione del Consiglio comunale a
firma  del  Presidente  del  C.C.  datato 7 giugno 2007; nonche', per
l'annullamento,    previa    sospensione    dell'esecuzione,    delle
deliberazioni  nn.  25  e  26  dell'11  giugno  2007  con le quali il
Consiglio  comunale  della  Citta'  di Poggiardo ha, rispettivamente,
dichiarato  la  decadenza  del ricorrente dalla carica di consigliere
comunale e proceduto alla surroga con il sig. Bolognino Alfio;
   Visti gli atti e i documenti depositati con il ricorso;
   Visti i motivi aggiunti depositati l'8, 12 e 13 giugno 2007;
   Vista la domanda di sospensione della esecuzione del provvedimento
impugnato, presentata in via incidentale dal ricorrente;
   Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Poggiardo;
   Udito  il  relatore  ref. Massimiliano Balloriani e uditi altresi'
per  le parti l'avv. Quinto, l'avv. Carluccio e l'avv. Circolone, per
se' e in sostituzione dell'avv. Elia.
                     F a t t o  e  d i r i t t o
   Il ricorrente e' consigliere del Comune di Poggiardo.
   Con  sentenza  dei  Tribunale  di Lecce, n. 711 del 2004, divenuta
definitiva il 1° marzo 2005, e' stato assolto dalla imputazione per i
reati  di cui agli articoli 319, 319-bis e 321 del codice penale, per
non aver commesso il fatto.
   A  seguito  dell'assoluzione  in sede penale, con citazione del 15
febbraio  2007,  Gianfreda Aurelio, dopo aver ricevuto il diniego del
Comune  di  Poggiardo  in  ordine  al  rimborso  delle  spese  legali
sostenute  in  quella  sede  processuale, lo ha convenuto dinnanzi al
giudice  civile  per  ottenere  un  provvedimento  giurisdizionale di
condanna al pagamento di tali spese.
   Il  Comune  di  Poggiardo  con deliberazione del c.c. n. 13 del 24
aprile  2007  ha quindi contestato al ricorrente il verificarsi delle
condizioni  di  incompatibilita'  per  lite  pendente, ai sensi degli
articoli  63  e 68, comma 2 del d.lgs. n. 267 del 2000, assegnandogli
il  termine  di  dieci  giorni  per produrre osservazioni, secondo il
procedimento delineato dall'art. 69 del medesimo d.lgs.
   Con  successiva  delibera  n. 18  del  22  maggio 2007, il c.c. di
Poggiardo  ha  rinvenuto  in  via  definitiva,  nella  situazione del
consigliere    comunale   Gianfreda   Aurelio,   la   condizione   di
incompatibilita'  per  lite  pendente  ed  lo ha pertanto invitato ad
eliminarla entro dieci giorni, pena la decadenza.
   Con   il   ricorso   introduttivo   il   ricorrente   ha   chiesto
l'annullamento delle delibere n. 13 e n. 18 del 2007, rilevando che:
     i  fatti  relativi alla sentenza penale di assoluzione sarebbero
connessi  all'esercizio del mandato e pertanto esclusi espressamente,
dall'ultimo  comma  dell'art. 63, d.lgs. n. 267 del 2000, dall'ambito
di rilevanza dell'incompatibilita' per lite pendente;
     il  Consiglio  comunale  non  avrebbe  tenuto  in alcun conto le
osservazioni  presentate dall'interessato ne' la giurisprudenza della
Cassazione   che,   in   ipotesi   simili,  tenderebbe  ad  escludere
l'esistenza di una causa di incompatibilita'.
   Con  successivi  motivi  aggiunti,  depositati l'8 giugno 2007, il
ricorrente,  chiedendo  una  tutela  cautelare  anche monocratica, ha
impugnato  poi  l'avviso di convocazione straordinaria ed urgente del
Consiglio  comunale  di  Poggiardo,  avente  all'ordine del giorno la
dichiarazione   della  sua  decadenza  dalla  carica  di  consigliere
comunale;  chiedendo  la sospensione di tale avviso di convocazione e
cosi'   dell'ulteriore   prosecuzione  dell'attivita'  amministrativa
funzionale alla sua decadenza, deducendo a tal fine i medesimi motivi
esposti nel ricorso introduttivo.
   Nella  stessa  data  dell'8 giugno 2007, il decreto monocratico e'
stato  respinto, non ravvisandosi la natura provvedimentale dell'atto
di  convocazione del consiglio comunale, ne' l'esistenza, allo stato,
di un pregiudizio di estrema gravita' ed urgenza.
   L'11  giugno  2007,  si  e'  costituito  in  giudizio il Comune di
Poggiardo,   deducendo   il  difetto  di  giurisdizione  del  giudice
amministrativo  in  favore  del  giudice  ordinario,  ai  sensi degli
articoli 69 e 70 del d.lgs. n. 267 del 2000; difetto di giurisdizione
che  secondo un consolidato indirizzo delle sezioni unite della Corte
di  cassazione  permane  anche  nel  caso  in  cui  il giudizio venga
introdotto  mediante  l'impugnazione del provvedimento amministrativo
di  decadenza,  perche'  anche in tali ipotesi la decisione verte non
sull'annullamento   dell'atto   amministrativo,  bensi'  sul  diritto
soggettivo  perfetto  inerente  al  diritto  all'elettorato  attivo o
passivo  (Cass.,  sez.  un.,  4  maggio 2004, n. 8469; 24 marzo 1993,
n. 3518).
   Secondo  il  comune  resistente,  poi,  al  giudice amministrativo
sarebbe  ontologicamente  precluso un esame del rapporto controverso,
necessario  per  valutare  se la lite pendente sia o meno attinente a
fatti  connessi  con  l'esercizio del mandato; senza contare poi che,
nel  merito, sempre ad avviso del Comune di Poggiardo, tale nesso non
sussisterebbe  affatto,  atteso  che  il  recupero delle spese legali
riguarderebbe    la   soddisfazione   di   un   interesse   economico
squisitamente personale ed individuale.
   Con  le  deliberazioni  del  25  e  26  giugno  2007, il Consiglio
comunale  di  Poggiardo  ha, rispettivamente, dichiarato la decadenza
del  ricorrente  dalla carica di consigliere comunale ed ha proceduto
alla surroga in favore di Bolognino Alfio.
   Con  motivi  aggiunti  depositati  il  13  giugno 2007, sono state
impugnate  anche  queste  ulteriori  delibere  ed e' stata riprodotta
istanza cautelare e di decreto cautelare monocratico.
   Alla  camera  di  consiglio  del  13 giugno 2007, il ricorrente ha
rinunciato   all'istanza   di   decreto  monocratico  ed  ha  chiesto
di riunire  la trattazione dell'istanza cautelare insieme a quella di
merito,  fissata, su accordo delle parti, all'udienza pubblica del 27
giugno 2007.
   In  tale udienza, la causa e' passata in decisione ed il tribunale
ha   ritenuto   di   dover   sollevare   questione   di  legittimita'
costituzionale,  per  le  ragioni  che  si  vengono  ad esporre nella
presente  ordinanza,  e,  nelle  more  della  decisione  della  Corte
costituzionale,  ha ritenuto, con separata ordinanza collegiale, resa
nella  stessa  data  del  27  giugno  2007,  di  accordare  la tutela
cautelare,  chiesta  dal ricorrente ed abbinata al merito per ragioni
di trattazione.
1) Sulla rilevanza della questione di legittimita' costituzionale.
1.1.) Con riferimento all'art. 69 del d.lgs. n. 267 del 2000.
   La questione preliminare che il Collegio si trova a dover superare
per  poter  decidere  sulla  presente  controversia  e'  quella della
giurisdizione del giudice ordinario.
   Secondo  l'art. 69 del d.lgs. n. 267 del 2000 (dopo che l'art. 274
del  medesimo  d.lgs. ha abrogato l'art. 9-bis della legge n. 570 del
1960   che   recava  disposizione  analoga  in  tema  di  riparto  di
giurisdizione),   contro   la  delibera  che  -  dopo  aver  ritenuto
definitivamente   sussistente   la  causa  di  ineleggibilita'  o  di
incompatibilita'  ed aver invitato l'amministratore a rimuoverla o ad
esprimere,  se  del  caso,  la  opzione  per  la  carica  che intende
conservare  -  dichiara decaduto l'amministratore, e' ammesso ricorso
giurisdizionale al tribunale ordinario competente per territorio.
   Appare   allora   evidente   che   la  questione  di  legittimita'
costituzionale  di  tale  previsione  normativa,  che  attribuice  al
giudice  ordinario la giurisdizione sul procedimento di decadenza per
incompatibilita',  assume diretta rilevanza nel caso in esame, atteso
che   solo   l'accoglimento   di  tale  questione  e  la  conseguente
attribuzione   al  giudice  amministrativo  di  queste  controversie,
consentirebbe al Collegio di decidere sul presente ricorso.
1.2) Con riferimento all'art. 63 del d.lgs. n. 267 del 2000.
   Nel  caso  di  accoglimento  della  questione sulla giurisdizione,
questo tribunale si troverebbe poi a dover applicare una disposizione
della cui legittimita' costituzionale dubita fortemente.
   Ed ai fini del presente giudizio cio' assume diretto rilievo.
   Se    la   Corte   costituzionale   ritenesse   costituzionalmente
illegittimo  l'art.  63  citato  - nella parte in cui prevede, tra le
cause di incompatibilita' per i consiglieri comunali, quella per lite
pendente,  nei  limiti che qui rilevano - allora l'esito del giudizio
ne  resterebbe  sicuramente influenzato non potendo il ricorrente che
ottenere una decisione sicuramente conforme al proprio interesse.
   Difatti la lite pendente che egli ha con il Comune di Poggiano non
avrebbe  alcun rilievo come causa di incompatibilita', ai sensi e per
gli  effetti  del  successivo  art. 68, comma 2 del d.lgs. n. 267 del
2000.
2)  Sulla  non manifesta infondatezza della questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 69 del d.lgs. n. 267/2000.
   Commentando  il  riparto di giurisdizione in materia di elettorato
passivo, delineato ancora oggi, dagli artt. 82 e seguenti della legge
n. 570  del  1960,  secondo la dicotomia questioni di eleggibilita' e
questioni  di  regolarita',  parte  della  dottrina  (cfr.,  ad  es.,
Mignone) non ha mancato di rilevare come il suddetto criterio sia non
conforme  a  quello  costituzionale che invece fonda il riparto sulla
dicotomia diritti soggettivi ed interessi legittimi.
   Cio' e' soprattutto evidente in casi come quello in esame, e cioe'
nell'ipotesi  espressamente contemplata dall'art. 69 del d.lgs. n 267
del  2000,  in  cui  v'e'  un  atto soggettivamente ed oggettivamente
amministrativo  da  impugnare,  adottato a seguito di un procedimento
amministrativo.
   A  fronte di cio', la Cassazione, per giustificare la legittimita'
costituzionale  del riparto di giurisdizione cosi' delineato, tende a
distinguere,  forse  in  modo  un po' troppo artificioso, nell'ambito
delle  questioni  pur  sempre  afferenti  l'elettorato  passivo,  tra
interesse  legittimo  alla  regolarita' delle operazioni elettorali e
diritto   soggettivo   alla   eleggibilita'  e  compatibilita'  (cfr.
Cassazione civile, sez. un., 27 aprile 1981, n. 2517).
   Se   si   guarda  al  passato,  tuttavia,  si  trova  anche  nella
giurisprudenza  della  Cassazione la consapevolezza della difficolta'
ed  apoditticita' di una simile distinzione, consapevolezza implicita
in  alcune  decisioni in cui ha giustificato il riparto solo sul dato
formale  della  volonta'  legislativa,  a  prescindere dalla verifica
della  natura  della  posizione  giuridica tutelata (cfr. Cassazione,
sentenza n. 3900 del 1976).
   In  altre  decisioni,  addirittura,  la  Corte  di  cassazione  ha
qualificato  anche il contenzioso sulla regolarita' delle operazioni,
come  afferente pur sempre a posizioni di diritto soggettivo e quindi
come  ipotesi  di  giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
(cfr. Cassazione, sentenza n. 1189 del 1968).
   L'esistenza   di   un   atto  impugnabile  e  di  un  procedimento
amministrativo  tipico,  come  si  diceva, tuttavia, rendono ardua la
giustificazione concettuale della giurisdizione ordinaria.
   La Corte di cassazione, a tal fine, afferma che le controversie in
tema  di  eleggibilita'  alla  carica  di  consigliere comunale, come
quelle  in  tema  di  decadenza  dalla medesima, investono il diritto
politico  di elettorato passivo, espressamente riconosciuto dall'art.
51  della Costituzione, la cui consistenza non si modifica, in quanto
manca  qualsiasi  norma che, conferendo alla pubblica amministrazione
poteri  discrezionali al riguardo, valga ad affievolirlo ad interesse
legittimo.
   E proprio sulla base di tali considerazioni, ad avviso della Corte
di  cassazione,  la  devoluzione  di  simili  controversie al giudice
ordinario,  manifestamente  non sarebbe in contrasto con il principio
costituzionale  della  tutela  degli  interessi  legittimi dinanzi al
giudice amministrativo (di cui all'art. 103 della Costituzione) (Cfr.
Cassazione civile, sez. un., 11 novembre 1982, n. 593; 4 maggio 2004,
n. 8469).
   Oltre   alla   evidenziata   artificiosita'  della  distinzione  -
nell'ambito  del  medesimo  procedimento elettorale, che coinvolge il
medesimo  interesse  tutelato  all'elettorato passivo - tra interesse
legittimo  e  diritto  soggettivo  politico  perfetto,  ad avviso del
Collegio,   rievocare  la  categoria  atipica  dei  diritti  pubblici
soggettivi,  nella sub specie dei c.d. diritti funzionali o politici,
vuol  dire far continuare a vivere una categoria ormai superata e non
piu'  attuale,  atteso  che  essa ha fondamento ontologico in sistemi
monistici,  di giurisdizione unica, come si desume anche dal disposto
di  cui  all'art.  2  della  legge 20 marzo 1865, n. 2248 all. E, che
aveva  devoluto  alla  giurisdizione  ordinaria  «tutte  le cause per
contravvenzioni e tutte le cause nelle quali si faccia questione d'un
diritto  civile  o  politico, comunque vi possa essere interessata la
pubblica amministrazione, e ancorche' siano emanati provvedimenti del
potere esecutivo o dell'autorita' amministrativa».
   Tale  categoria  e'  stata  mantenuta in vita dalla giurisprudenza
della  Cassazione, anche nell'attuale sistema dualistico, teorizzando
l'esistenza  di  diritti assolutamente incomprimibili, indegradabili,
anche a fronte del potere pubblico autoritativo.
   Si  tratta,  pero', di una teoria che puo' dirsi ormai superata, e
con  essa quella della c.d. doppia tutela (di annullamento davanti al
giudice  amministrativo  e  poi  di  risarcimento  davanti al giudice
ordinario), dalle seguenti considerazioni:
     l'interesse  legittimo,  anche  se  oppositivo,  ha  consistenza
autonoma:  non  «nasce»  dalla degradazione, dalle ceneri del diritto
soggettivo;  e  cio'  sia  per  la  necessita'  logica secondo cui la
situazione  giuridica  tutelata deve preesistere e resistere alla sua
lesione  (quindi  non  nasce  ne'  scompare  con essa) sia perche' la
stessa Corte costituzionale ha qualificato la tutela risarcitoria del
danno  da  attivita'  provvedimentale  autoritativa  come  una tutela
ulteriore  dell'interesse  legittimo  e  non  del  diritto soggettivo
(Corte costituzionale, sentenza n. 204 del 2004);
     il  giudice  amministrativo  e'  idoneo, da solo (cioe' senza la
necessita'  di  imporre  al  privato  di adire prima il G.A. e poi il
G.O.),    ad    offrire    piena    tutela   anche   agli   interessi
costituzionalmente garantiti, coinvolti nell'esercizio della funzione
amministrativa (Corte costituzionale, sentenza n. 140 del 2007);
     non   osta   all'attribuzione  della  giurisdizione  al  giudice
amministrativo   la  natura  «fondamentale»  dei  diritti  soggettivi
coinvolti,   non   essendovi  alcun  principio  o  norma  nel  nostro
ordinamento   che  riservi  esclusivamente  al  giudice  ordinario  -
escludendone  il  giudice  amministrativo  -  la  tutela  dei diritti
costituzionalmente  protetti.  Peraltro,  l'orientamento  -  espresso
dalle  sezioni unite della Corte di cassazione - circa la sussistenza
della  giurisdizione  del  giudice  ordinario  in  presenza di alcuni
diritti assolutamente prioritari risulta valido solo m ipotesi in cui
vengono   in   considerazione   meri   comportamenti  della  pubblica
amministrazione,   non,   invece,   ove   si   tratta   di  specifici
provvedimenti   o   procedimenti  «tipizzati»  normativamente  (Corte
costituzionale, sentenza n. 140 del 2007);
     al  giudice  naturale  della  legittimita'  dell'esercizio della
funzione  pubblica occorre affidare poteri idonei ad assicurare piena
tutela, anche risarcitoria, per il danno sofferto anche in violazione
di  interessi  fondamentali  in dipendenza dell'illegittimo esercizio
del  potere  pubblico  da parte della pubblica amministrazione (Corte
costituzionale, sentenza n. 140 del 2007).
   Non   appare  poi  pienamente  condivisibile,  anche  sotto  altro
profilo,  ad  avviso  del  Collegio,  la  soluzione ermeneutica della
suprema  Corte  di  cassazione, secondo la quale - mancando una norma
che, conferendo alla pubblica amministrazione poteri discrezionali in
ordine  all'accertamento  della  decadenza,  valga  ad affievolire il
diritto  soggettivo  ad  interesse  legittimo  - la devoluzione delle
controversie  in  materia  al giudice ordinario manifestamente non si
pone  in contrasto con il principio costituzionale della tutela degli
interessi  legittimi  dinanzi  al  giudice amministrativo ex art. 103
Costituzione  (cfr.  anche  Cassazione  civile,  sez. un., 16 ottobre
1985, n. 5074).
   Oltre alla riferita inattualita' della teorica dell'affievolimento
del  diritto  soggettivo  ad  interesse legittimo, non appare neanche
piu'  conforme  al  sistema  escludere  dal  novero dei provvedimenti
amministrativi  autoritativi quelli che sono manifestazione di potere
non discrezionale ma vincolato.
   A  confutare tale assunto puo' essere sufficiente fare riferimento
alla  pressoche' totale giurisprudenza amministrativa, in cui era pur
presente tale distinzione.
   Questa  giurisprudenza  oggi,  prendendo  atto del chiaro disposto
dell'art.   21-octies   della   legge   n. 241   del   1990,  afferma
pacificamente  che  non  e'  annullabile il provvedimento adottato in
violazione  di  norme  sul  procedimento  o  sulla  forma  degli atti
qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il
suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello
in  concreto  adottato; con cio' postulando evidentemente l'esistenza
della  giurisdizione  amministrativa  anche sugli atti amministrativi
vincolati  (come  del  resto si desume pure dalla sentenza n. 204 del
2004  della  Consulta) (cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 1307 del
2007).
   Del   resto,  proprio  il  necessario  rispetto  delle  norme  sul
procedimento  amministrativo  o  sulla  forma  degli atti rappresenta
l'essenza minima del provvedimento amministrativo adottato secondo le
norme  di  azione  di  cui alla legge n. 241 del 1990 (Sentenza della
Corte   costituzionale   n. 241   del  1990),  ed  al  contempo  cio'
rappresenta  anche  il  nucleo  minimo  di  affinita'  tra  gli  atti
amministrativi vincolati e quelli discrezionali.
   Anche  un  atto amministrativo vincolato, nella specie la delibera
di  decadenza  di  cui  all'art.  69 del d.lgs. n. 267 del 2000, deve
rispettare  le norme sul procedimento (si pensi alla competenza degli
organi, al procedimento di convocazione e di voto, alla correttezza e
completezza  dell'istruttoria,  ecc...)  e  sulla  forma  degli  atti
amministrativi.
   E  le  norme  di azione, come noto, sono il parametro naturale del
giudice amministrativo.
   Si  consideri, ad esempio, le questioni relative all'inerzia della
pubblica amministrazione nell'esercizio del potere.
   Qui  la  giurisprudenza, premesso che il giudizio sul silenzio non
vale  ad  estendere  la  giurisdizione  a nuove materie (Consiglio di
Stato, sentenza n. 6003 del 2006), afferma comunemente che il giudice
amministrativo  puo' decidere sulla fondatezza dell'istanza (come ora
gli  consente  espressamente  l'art.  2 della legge n. 241 del 1990),
solo  ove  si  tratti  di  attivita' amministrativa non discrezionale
(cfr.  Consiglio  di  Stato,  sentenza  n. 1332  del  2006), con cio'
confermando  evidentemente  la propria giurisdizione anche in materia
di atti vincolati.
   Tutto  cio' premesso, dovrebbe essere emerso che nell'ambito della
funzione  amministrativa  in  materia  elettorale,  che include anche
l'eventualita'  della  deliberazione di decadenza adottata secondo il
procedimento  delineato  dall'art. 69 del d.lgs. n. 267 del 2000, non
vi  sono  ragioni  dogmatiche  che  giustificano  una distinzione tra
diritto  soggettivo  perfetto  all'elettorato  passivo  ed  interesse
legittimo alla regolarita' delle operazioni elettorali.
   Anzi,  proprio  la  natura  soggettiva  dell'ente  deliberante, la
tipicita'  e  procedimentalizzazione  degli  atti  adottati,  la loro
autoritativita'  ed unilateralita', inducono a ritenere che si tratta
dell'esercizio,  procedimentalizzato, di una funzione amministrativa,
a  fronte  della  quale  esistono  posizioni  giuridiche di interesse
legittimo,  le  quali,  come  di  recente  evidenziato dalla Consulta
(sentenza  n. 140 del 2007), sono idonee ad apprestare tutela anche a
beni  interessi  di  rango costituzionale, qual e' appunto il diritto
all'elettorato passivo (ex art. 51 della Costituzione).
   Cio'  premesso,  occorre  valutare  se,  in  presenza di interessi
legittimi  o,  comunque,  in  presenza dell'esercizio di una funzione
amministrativa  unitaria,  e'  costituzionale  sdoppiare  la  tutela,
imponendo,  tra l'altro, e per quanto di interesse in questa sede, di
ricorrere  al  giudice  ordinario avverso la delibera di decadenza di
cui all'art. 69 del d.lgs. n. 267 del 2000.
   L'art.  113  della  Costituzione  non  riserva in via esclusiva al
giudice  amministrativo  il  giudizio avverso gli atti della pubblica
amministrazione.
   Secondo il comma 3, difatti, la legge potrebbe attribuire anche al
giudice    ordinario    il   giudizio   impugnatorio   avverso   atti
amministrativi.
   Il  medesimo  art.  103  della  Costituzione,  al  comma 1, pero',
riserva  solo  al  giudice  amministrativo  la tutela degli interessi
legittimi.
   A  ben  vedere,  inoltre,  la  Carta  costituzionale non detta una
definizione  di  interessi  legittimi  e  diritti soggettivi ma, dopo
averli  posti  sullo stesso piano all'art. 24, rimette anche qui alla
legge la loro definizione e determinazione.
   Sia sotto il profilo del petitum (art. 113) che sotto quello della
causa petendi (art. 24), quindi, il rinvio alla legge ordinaria rende
il  sistema elastico e libero di tendere - come sembra ormai avvenire
sempre  piu'  velocemente,  in risposta alle moderne esigenze - verso
l'unificazione   e   l'omogeneizzazione   delle   tutele,  nonostante
l'opzione formale della pluralita' delle giurisdizioni.
   Cio'  premesso,  occorre altresi' rilevare che - dato che, a mente
dell'art.  113,  terzo  comma, spetta alla legge la determinazione di
quali   organi  giurisdizionali  possono  annullare  gli  atti  della
pubblica  amministrazione,  e che l'art. 103, comma 1 riserva solo al
giudice  amministrativo  la  tutela  degli  interessi  legittimi - la
legge,   quando   impone,   a   fronte  di  un  atto  della  pubblica
amministrazione,  che  la  tutela  debba  essere  affidata al giudice
ordinari,  implicitamente  qualifica  le  posizioni  giuridiche  come
diritti  soggettivi  (non  potendo,  per  il  menzionato art. 103, il
giudice ordinario conoscere degli interessi legittimi).
   Cio'  avviene,  in  via  generale  e  salvo le varie eccezioni, ad
esempio,  in  materia di sanzioni amministrative, in virtu' di quanto
dispone l'art. 22 della legge n 689 del 1981.
   Ora,  se e' vero che la Costituzione ha lasciato al legislatore la
delimitazione   e   determinazione   delle  posizioni  giuridiche  di
interesse  legittimo  e  diritto  soggettivo, e' vero altresi' che lo
stesso  legislatore  ricava  dalla  Carta  fondamentale anche precise
direttive che lo devono guidare, tra le quali:
     il principio di ragionevolezza che impone di tenere conto che il
giudice  amministrativo  esiste  in  quanto  giudice  naturale  della
legittimita' dell'esercizio della funzione pubblica (articoli 3 e 103
della  Costituzione;  Corte costituzionale, sentenze n. 204 del 2004;
n. 191 del 2006; n. 140 del 2007);
     il  principio  di  pari  dignita' della funzione giurisdizionale
amministrativa ed ordinaria (artt. 24 e 101 della Costituzione, Corte
costituzionale, sentenza n. 204 del 2004 e sentenza n. 140 del 2007);
     il  principio  di  concentrazione  ed  effettivita' della tutela
giurisdizionale   (artt.   24   e   111   della  Costituzione;  Corte
costituzionale, sentenze n. 77 del 2007 e n. 140 del 2007).
   Proprio  sulla base di tali principi, ad avviso del Collegio, puo'
allora  cogliersi  la  non  manifesta infondatezza della questione di
legittimita'  dell'art.  69  del  d.lgs.  n. 267  del  2000,  laddove
attribuisce  alla  giurisdizione  del giudice ordinario la cognizione
dell'impugnazione  della  delibera  di decadenza per incompatibilita'
del consigliere eletto.
   Atteso  che,  come  si  e'  cercato  di  evidenziare,  la funzione
amministrativa  elettorale  - sia per quanto riguarda le attivita' di
accertamento   dei   voti,   dell'ammissibilita'  delle  liste  e  di
proclamazione  degli  eletti  sia per quanto riguarda quelle relative
all'accertamento  delle  cause di ineleggibilita' ed incompatibilita'
ed   alle  statuizioni  di  decadenza  -  ha  natura  ontologicamente
unitaria;  occorre  allora rilevare che, se il giudice amministrativo
e'  il  giudice  naturale  della funzione pubblica amministrativa, vi
devono   essere   delle  ragioni  per  sottrarre  a  quest'ultimo  la
giurisdizione     su     alcuni    segmenti    di    tale    funzione
procedimentalizzata.
   E  se  tali  ragioni  non  si  trovano  (e  non possono ovviamente
risiedere  solo nel carattere storico e sostanzialmente tralatizio, o
traslatizio,  della  normativa in materia di riparto di giurisdizione
sul  contenzioso  elettorale,  cosi' come a noi pervenuta dal sistema
preunitario), allora, per quanto fin ora si e' cercato di esporre, la
legge di riparto appare in possibile contrasto con la Costituzione, e
non   solo   con   riferimento   alla  violazione  del  principio  di
ragionevolezza di cui all'art. 3.
   Proprio  il  carattere  unitario della funzione amministrativa che
incide  sulle  elezioni locali, difatti, rende evidente come affidare
parte  della  giurisdizione  sul  contenzioso  elettorale  al giudice
ordinario,  determini  la  violazione  dei  principi che impongono la
necessita'  di  assicurare concentrazione ed effettivita' alla tutela
giurisdizionale  del  bene-interesse  all'elettorato passivo, in tale
funzione   resta  unitariamente  coinvolto  (artt.  24  e  111  della
Costituzine;  Corte  costituzionale, sentenze n. 77 del 2007 e n. 140
del 2007).
   D'altro  canto,  poi, il principio di pari dignita' della funzione
giurisdizionale  amministrativa  ed  ordinaria  (artt. 24 e 101 della
Costituzione;  Corte  costituzionale,  sentenza  n. 204  del  2004  e
sentenza  n. 140  del  2007)  appare  violato  qualora si ritenga dai
giustificare la devoluzione delle controversie di cui all'art. 69 del
d.lgs.  n. 267  del  2000  al  giudice  ordinario,  con  una presunta
inidoneita'  del giudice amministrativo ad apprestare adeguata tutela
ai beni interessi tutelati dall'art. 51 della Costituzione.
   Giova  poi rilevare, sebbene subordinatamente, che se anche non si
condividesse   la   qualificazione   dell'interesse  oppositivo  alla
deliberazione   di  decadenza  per  incompatibilita'  -  avente,  tra
l'altro,  natura  omogenea  all'interesse  alla  legittima e corretta
proclamazione  degli  eletti  - come interesse legittimo a tutela del
bene-interesse  all'elettorato  passivo  di  cui  all'art.  51  della
Costituzione;  i  principi  surrifeniti  dovrebbero  comunque imporre
degli obblighi al Legislatore.
   E cio', per le seguenti considerazioni;
   L'art.  103 della Costituzione dispone che il Consiglio di Stato e
gli  altri  organi  di giustizia amministrativi hanno, in particolari
materie  indicate  dalla  legge, anche la giurisdizione per la tutela
dei diritti soggettivi.
   Una  volta  che si e' riconosciuta la natura particolare di alcune
materie,  riconoscibili  come  tali  per  il  prevalente  intreccio e
interferenza   di  posizioni  giuridiche  di  diritto  soggettivo  ed
interesse legittimo (Corte costituzionale, sentenza n. 204 del 2004),
il   Legislatore  dovrebbe  essere  obbligato  a  devolvere  la  loro
cognizione  al  giudice  amministrativo,  in attuazione sia dell'art.
103,  comma  1 (che altrimenti potrebbe essere del tutto svuotato del
suo  contenuto)  sia,  soprattutto,  del  principio di effettivita' e
concentrazione della tutela (articoli 3, 24 e 111 della Costituzione,
sentenze n. 77 e n. 140 del 2007 della Corte costituzionale).
   Da  un  lato,  la  Consulta  ha evidenziato che la presenza di una
pluralita' di giurisdizioni (retaggio storico del nostro passato) non
puo'  essere  di  ostacolo  all'effettivita' della tutela, dall'altro
questa effettivita', in ipotesi di stretta connessione tra diritti ed
interessi  (nei  quali, in definitiva, si esprime, con forme diverse,
un  identico  valore  sostanziale  coinvolto  nella medesima funzione
amministrativa),  si  puo',  e si deve, perseguire proprio attraverso
l'attribuzione  all'unico  giudice  della  cognizione  di  ambedue le
posizioni giuridiche soggettive.
   Questo  giudice non puo' che essere quello amministrativo, proprio
in  virtu' dell'art. 103, primo comma della Costituzione, che esprime
una  preferenza espressa per la concentrazione, di cui il Legislatore
dovrebbe tenere conto.
3)  Sulla  non manifesta infondatezza della questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 63 del d.lgs. n. 267/2000.
   In  virtu'  dell'art.  63  del  d.lgs.  n. 267  del 2000, non puo'
ricoprire la carica di (...) consigliere comunale (...): 4) colui che
ha  lite  pendente,  in  quanto  parte  di  un procedimento civile od
amministrativo  (...)  con  il  comune  (...). L'ipotesi (...) non si
applica  agli  amministratori  per fatto connesso con l'esercizio del
mandato.
   Nel  sollevare la questione di costituzionalita' di tale norma, il
Collegio,  anche  per  evitare  di riproporre aspetti gia' affrontati
dalla  copiosa  giurisprudenza  costituzionale in materia, ritiene di
doversi  far  carico  di  una  breve  esposizione  di alcuni principi
fondamentali  espressi  in  questioni  analoghe gia' affrontate dalla
Consulta.
   Come noto, la Corte costituzionale, si e' gia' occupata piu' volte
della  questione di costituzionalita' delle norme che gia' in passato
prevedevano la incompatibilita' per lite pendente.
   Con la risalente sentenza n. 42 del 1961, in particolare, la Corte
ha  gia'  esaminato  l'eventuale  contrasto  dell'art. 15 del T.U. 16
maggio  1960,  n. 570,  che  prevedeva  i casi di ineleggibilta' alla
carica  di  consigliere  comunale,  con  riguardo all'ipotesi di lite
pendente  (n. 6) e di morosita' (n. 9), con gli artt. 3, 24, 51 e 113
della Costituzione.
   La  Corte  ha  rilevato  che  i  casi  di ineleggibilita' indicati
nell'art.   15  del  T.U.  del  1960  (che  trovano  riscontro  nella
legislazione  precedente a partire dalla legge comunale e provinciale
del  20  marzo  1865,  n  2248, all. A, art. 25, con le modificazioni
successivamente  apportate),  non  apparivano  in contrasto con detti
articoli della Costituzione.
   Ad  avviso della Corte, l'esclusione dall'elettorato passivo delle
categorie anzidette risponde ad imprescindibili esigenze di interesse
generale,  necessariamente  inerenti  alle consultazioni elettorali e
particolarmente a quelle locali; esigenze che richiedono, da un lato,
che   l'espressione   del   voto  rappresenti  la  libera  e  genuina
manifestazione  di  volonta' dell'elettorato, donde l'ineleggibilita'
delle  persone  e  dei funzionari (nn. 1, 2 e 10 dell'art. 15 citato)
che possono esercitare pressioni sugli elettori stessi, ed impongono,
dall'altro, che, all'attivita' degli organi elettivi, non partecipino
soggetti  che,  per  i rapporti di dipendenza diretta o indiretta dal
comune  (nn.  3 e 4 dell'art. 15) o di affari col comune medesimo (n.
7)  o per posizioni personali di conflitto con l'amministrazione (nn.
5,  6,  8  e 9), non danno garanzia di obiettivita' e di disinteresse
nell'esercizio delle funzioni alle quali aspirano.
   Con riguardo alle lite pendente, si e' ritenuto che questa ipotesi
di  incompatibilita' risponderebbe ad esigenze di particolare rilievo
proprio  per quanto riguarda le amministrazioni degli enti autarchici
territoriali,    dato   il   carattere   localizzato   dell'attivita'
amministrativa e normativa ad essi attribuita.
   Questa  incompatibilita'  metterebbe  in  rilievo il conflitto tra
l'interesse  personale  del  candidato  e l'interesse pubblico che la
legge ha inteso salvaguardare.
   Il che sarebbe confermato anche dalla disposizione che ancora oggi
esclude  l'applicabilita'  della  ricordata  disposizione  per  fatti
connessi con l'esercizio del mandato gia' affidato all'amministratore
(che,  tra  l'altro,  nella  vecchia  formulazione  dell'ultimo comma
dell'art.  15  del  T.U.  n. 570  del  1960  -  che  riproduceva  una
disposizione  aggiunta all'art. 6 della legge 23 marzo 1956, n. 136 -
postulava  in  tal  caso  comunque la sospensione dell'amministratore
dalla  carica di sindaco o di assessore, fino all'esito del giudizio,
se   l'esercizio   della   carica  comportava  evidente  pericolo  di
pregiudizio per l'ente).
   Ne',  sempre  secondo  la Corte costituzionale (sentenza n. 42 del
1961),  si potrebbe ritenere che l'esclusione dall'elettorato passivo
per  lite pendente, e in generale, per posizione di contrasto con gli
interessi del comune, costituiscano cautele del tutto superflue, date
le  disposizioni,  tuttora in vigore, che impongono ai componenti del
consiglio  comunale  o  della  giunta  di astenersi dal partecipare a
deliberazioni  riguardanti  interessi  propri o dei loro congiunti ed
affini fino al quarto grado (oggi cfr. l'art. 78 del d.lgs. n. 267del
2000).
   L'astensione  dalle  deliberazioni non soddisferebbe compiutamente
l'esigenza cui si ispira la legge, la quale considera non rispondente
al  buon andamento dell'amministrazione che ne facciano parte persone
che,   pur   dovendosi   astenere   dal   partecipare   alle  singole
deliberazioni  che  e  riguardano,  per  le cariche occupate, possano
tuttavia  spiegare attivita' a proprio vantaggio in contrasto con gli
interessi dell'ente.
   La Corte costituzionale ha ritenuto che seppure la legge considera
le  situazioni  di  che  trattasi  con  particolare  rigore, cio' non
potrebbe  avere  rilevanza  ai fini della legittimita' costituzionale
delle   disposizioni   impugnate  cosi'  come  non  potrebbero  avere
rilevanza  i  numerosi  inconvenienti,  ai  quali  le disposizioni in
questione  hanno  dato  luogo  nella  pratica,  ove  spesso  si  sono
verificati  casi  di  liti temerarie proprio per creare situazioni di
incompatibilita'.
   Inconvenienti  che  si  sono  rimessi all'opportuno intervento del
legislatore  (ibidem,  sentenza  n. 42 del 1961), che tuttavia finora
non  appare  avervi  posto definitivi rimedi, nonostante si tratti di
aspetti  che spesso vengono a limitare e condizionare notevolmente il
diritto  all'elettorato  passivo;  tanto  che  a  cio'  ha cercato di
ovviare   con   maggiore  tempestivita'  la  giurisprudenza,  negando
rilevanza alla lite temeraria o artificiosamente promossa (Cassazione
civile, sez. I, 19 luglio 1979, n. 4303).
   Nella medesima sentenza n. 42 del 1961, la Corte costituzionale ha
ritenuto  infondata la questione di legittimita' delle norme in esame
anche in riferimento agli artt. 24 e 113 della Costituzione.
   Si  trattava,  tra l'altro, di una questione sollevata proprio con
riguardo all'alternativa in cui la previsione dell'ipotesi della lite
pendente  viene  e  porre  il  cittadino candidato alle elezioni, che
potrebbe  solo  rinunciare  definitivamente  all'esercizio  di  uno o
dell'altro  dei  due diritti costituzionalmente garantiti: il diritto
di  partecipare  alla  formazione  degli  organi elettivi e quello di
agire o difendersi in giudizio.
   Secondo la Consulta, la rinunzia ad uno dei diritti sopra indicati
deriverebbe  comunque  dalla  libera  iniziativa  del cittadino, che,
nell'ambito  della  propria  autonomia e in base alla valutazione del
proprio  interesse,  indirizza  la  sua  attivita'  al  conseguimento
dell'una  o  dell'altra  posizione  di vantaggio, non diversamente da
quanto  avviene  anche  nei  casi  di  incompatibilita'  fra  cariche
pubbliche,  o  fra  queste  e pubblici uffici, come previsto anche in
varie norme della Costituzione.
   E  tali  considerazioni,  a  ben  vedere, potrebbero apparire oggi
rafforzate,  allorche'  la  lite  pendente  e' prevista come causa di
incompatibilita' e non di ineleggibilita'.
   Successivamente,  con  sentenza  n. 58  del  23  marzo 1972, si e'
approfondito  il  rilievo  che la limitazione dell'elettorato passivo
nel  caso  di  lite  pendente  mira  ad  assicurare  il  disinteresse
nell'esercizio  delle  funzioni  cui il candidato aspira, per evitare
gli inconvenienti che potrebbero insorgere qualora lo stesso soggetto
fosse  nel  contempo amministratore e litigante, e si e' chiarito che
questa  ratio differenzia tale ipotesi dalle altre dettate invece dal
chiaro  intento di evitare un'indebita influenza, prima del risultato
elettorale,  sulla  libera  manifestazione di volonta' dell'elettore,
cioe'  da  parte di coloro che potrebbero esercitare sullo stesso una
captatio benevolentiae.
   Una  simile  differenza  ontologica,  gia' posta in evidenza nella
sentenza  n. 42  del 1961, non poteva essere ignorata dal Legislatore
che  aveva  invece  accomunato  con uniformita' di disciplina le vane
ipotesi  in evidente contrasto con la diversa ratio ispiratrice delle
medesime e quindi con il principio costituzionale d'uguaglianza.
   La Corte, nella medesima sentenza, ha anche ravvisato il contrasto
con   l'art.   51   della   Costituzione,   ritenendo  che  le  cause
d'ineleggibilita'  devono  essere  rigorosamente  contenute  entro  i
limiti  di quanto sia ragionevolmente indispensabile per garantire la
soddisfazione   delle   esigenze   di  pubblico  interesse  cui  sono
preordinate (cfr. sentenza Corte costituzionale n. 46 del 1969).
   Il  Legislatore,  in  conformita'  a tali principi (ribaditi anche
nella   sentenza  della  Corte  costituzionale  n. 45  del  1977;  ma
soprattutto  nella  n. 129  del  1975,  in  cui  e' affermato che gli
effetti della causa della lite pendente non possono coincidere con le
elezioni,   perche'   queste  non  determinano  ancora  l'investitura
dell'eletto   e   non  gli  conferiscono  una  posizione  di  potere,
suscettibile  di  porre  in essere quel conflitto di interessi che la
norma  e'  diretta  ad  evitare),  da un lato ha eliminato dal novero
delle liti rilevanti le liti tributarie (la cui previsione e' apparsa
comprimere  esageratamente  il  diritto  all'elettorato  passivo,  in
considerazione  della  normalita', e quindi eccessiva ricorrenza, del
contenzioso  in  tale  materia) e, dall'altro, ha configurato la lite
pendente  come  causa  di  incompatibilita'  e non di ineleggibilita'
(rendendo cosi' la previsione piu' aderente alla sua ratio).
   Difatti,  l'art.  15,  n. 6, del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, e'
stato  abrogato dalla legge 23 aprile 1981, n. 154, che ha inquadrato
l'ipotesi  di  lite pendente fra le situazioni di incompatibilita' (e
non  piu' fra quelle di ineleggibilita) e, inoltre, l'ha circoscritta
a  «colui  che  ha  lite pendente, in quanto parte in un procedimento
civile o amministrativo, rispettivamente con la regione, la provincia
o  il  comune»  (cosi'  la disposizione e' conservata oggi nel d.lgs.
n. 267 del 2000).
   Nella   sentenza   n. 48   dell'11   febbraio   1987,   la   Corte
costituzionale  ha  poi  dovuto  riaffrontare  la questione, proposta
sotto  altro  aspetto:  benche'  la  rimuovibilita'  della  causa  di
incompatibilita'  o  ineleggibilita'  era  stato il principio cardine
della  legge n. 154 del 1981, che in tal modo, nella ricordata ottica
volontaristica  e  dispositiva,  si  armonizzava  con l'art. 51 della
Costituzione; tale principio non trovava pero' effettiva applicazione
proprio   nel   caso   di   lite   pendente,   in  cui  la  rimozione
dell'incompatibilita'   non   dipende   sempre  esclusivamente  dalla
volonta'  dell'interessato, bensi' anche e soprattutto dalla volonta'
della controparte nella lite.
   Cio',  nonostante  tale  legge  mirasse  a  favorire  l'elettorato
passivo, non solo riducendo le cause di ineleggibilta' e trasformando
alcune  di  esse  in  cause  di incompatibilita', ma anche dando modo
all'interessato di rimuovere l'incompatibilita'.
   Ebbene,   anche   in   tale   circostanza,  come  noto,  la  Corte
costituzionale ha dichiarato la questione inammissibile, ritenendo di
non  poter  imporre  al legislatore di dettare una disciplina tesa ad
obbligare  gli  enti  locali  ad addivenire a transazione delle cause
intraprese con candidati eletti.
   Come  noto,  poi, su altro fronte, la giurisprudenza ordinaria, di
merito  e  di  legittimita', ha introdotto dei criteri interpretativi
tesi  a  valutare  sommariamente  la  non  pretestuosita'  della lite
pendente.
   Piu'  in  particolare,  l'inconveniente  della lite pretestuosa si
manifestava maggiormente allorche' l'azione veniva proposta ex art. 9
del  d.lgs.  n. 267  del  2000  da  un  cittadino  elettore  e non si
conosceva ancora la posizione che avrebbe assunto il comune, e quindi
era arduo accertare la situazione di effettiva pendenza della lite.
   Per  ovviare a cio', la legge 24 aprile 2002, n 75, di conversione
del  decreto-legge  22 febbraio 2002, n. 13 (Disposizioni urgenti per
assicurare  la  funzionalita' degli enti locali), ha modificato l'art
63,  comma  1, numero 4, del testo unico delle leggi sull'ordinamento
degli enti locali (d.lgs. n. 267 del 2000).
   A  seguito  delle  modifiche  cosi' introdotte, il nuovo testo del
citato  art.  63, comma 1, numero 4, prevede ora, fra l'altro, che la
pendenza  non  solo di una lite in materia tributaria ma anche di una
lite  promossa ai sensi dell'art. 9 del d.lgs. n. 267 del 2000 (cioe'
una  lite  promossa in via di azione popolare per far valere azioni o
ricorsi spettanti al Comune), non determina incompatibilita'.
   Come  si  vede, quello dell'incompatibilita' per lite pendente, e'
un  istituto  molto  travagliato  e  controverso  che ha dato luogo a
notevole  superfetazione  di contenzioso, ed ha richiesto progressivi
interventi  ed aggiustamenti, oltre che da parte della giurisprudenza
di  merito  e di legittimita', anche da parte del Legislatore e della
stessa  Corte  costituzionale, in un opera di graduale restringimento
della  fattispecie,  nel  tentativo  di  renderla  compatibile con la
Costituzione.
   Nella  sentenza  n. 344  del  1993,  la  Corte  costituzionale  ha
chiarito espressamente che in materia di elettorato passivo la regola
e'   costituita  dalla  piu'  ampia  apertura  possibile  a  tutti  i
cittadini,   essendo  consentite  le  limitazioni  a  tale  principio
soltanto   se   basate   su   criteri   di   rigorosa   razionalita':
l'eleggibilita'    e'   la   regola,   mentre   l'ineleggibilita'   e
l'incompatibilita' rappresentano l'eccezione.
   Piu'  in  particolare, ad avviso della Consulta, l'ineleggibilita'
risulta    giustificata   soltanto   se   ragionevolmente   collegata
all'esigenza  di  evitare  la  captatio benevolentiae degli elettori;
l'incompatibilita', invece, soltanto se strettamente connessa al fine
di assicurare il corretto esercizio delle funzioni elettive.
   Tutto  cio'  premesso, e tenuto conto degli interventi del giudice
costituzionale  e  del legislatore in materia, il Collegio ritiene di
dover  sollevare,  per  le  nuove  ragioni  che seguono, questione di
legittimita'  costituzionale dell'art. 63 del d.lgs. n. 267 del 2000,
nella  parte  in  cui  prevede, in relazione all'art. 68, comma 2 del
medesimo d.lgs. n. 267 del 2000, tra le cause di incompatibilita' per
i consiglieri comunali, quella per lite pendente.
   I)  La  previsione appare irrazionale e sproporzionata, quantomeno
con   riferimento  ai  consiglieri  comunali,  rispetto  al  fine  di
assicurare  il  corretto esercizio delle funzioni elettive (contrasto
con gli artt. 3, 24 e 51 della Costituzione).
   E'  noto  che  rientra  nella  sfera  di attribuzioni legali della
giunta  comunale  (art.  48 del d.lgs. n. 267 del 2000) la competenza
(di  carattere  generale  e residuale rispetto a quella consiliare) a
decidere  la  resistenza  alle liti in giudizio (in difetto di che e'
inammissibile  la  stessa  costituzione in giudizio dell'ente) mentre
spetta  al  sindaco  la  capacita' processuale, senza che occorra una
specifica investitura e/o mandato da parte del comune.
   L'influenza  che  il singolo consigliere comunale puo' avere sulla
causa  che  lo vede parte contro il comune, allora, non e' diretta ed
immediata al punto tale da richiedere l'incisione significativa ed il
pregiudizio  di  un  bene  interesse  di rango costituzionale qual e'
quello all'elettorato passivo.
   Le  funzioni  elettive  del consigliere comunale (senza contare le
ipotesi   in   cui  non  e'  neanche  componente  della  maggioranza)
difficilmente potranno influire sulla lite pendente.
   Tale  influenza non e', nei fatti, maggiore di quella che potrebbe
avere  un  funzionario  o un dirigente del comune stesso (nonche', ad
esempio, un qualsiasi soggetto vicino al partito di maggioranza), per
i  quali  non  opera affatto una simile incompatibilita', ritenendosi
sufficiente la previsione dell'obbligo di astensione.
   II)  La sproporzione tra il fine (assicurare il corretto esercizio
delle  funzioni  del consigliere) ed il mezzo (incompatibilita' della
lite  addirittura  con la stessa conservazione della carica elettiva)
emerge   anche   sotto   altro  profilo,  ove  si  consideri  che  e'
particolarmente  ed  assolutamente  inciso non solo il bene-interesse
all'elettorato  passivo  (senza,  tra  l'altro, ipotizzarsi soluzioni
alternative  e  piu' proporzionali, come potrebbe essere, ad esempio,
la  mera  sospensione  dal  mandato  o  la previsione di disposizioni
analoghe  a quella dettata dall'art. 2941 n. 7) del codice civile) ma
anche  quello  alla difesa giurisdizionale dei propri interessi (art.
24  della  Costituzione),  atteso che non sono previste, nell'ipotesi
che  il  consigliere opti per la conservazione della carica, cause di
sospensione  o  interruzione dei termini di decadenza o prescrizione,
dell'azione o del diritto.
   E  cosi'  si  finisce,  indirettamente,  per  incidere  ancor piu'
pesantemente  sul diritto all'elettorato passivo, atteso che si pone,
come  conseguenza  dell'opzione  per  la  conservazione  della carica
elettiva,  il rischio, non di un mero ritardo, ma da un definitivo ed
irrimediabile pregiudizio della propria tutela giurisdizionale.
   III)  Atteso  poi che il fine perseguito dal legislatore e' quello
di evitare il conflitto di interessi nell'esercizio della carica, non
e' agevole comprendere le ragioni per cui debbano essere escluse solo
le  cause  tributarie,  le  quali  possono  vertere  su  questioni ed
interessi  molto  piu'  rilevanti economicamente e politicamente, sia
per il comune che per il singolo consigliere, rispetto a cause civili
ed  amministrative di scarso rilievo, come, appunto, una causa per il
mero recupero delle spese di giudizio.
   La  frequenza  delle  cause  tributarie rispetto a quelle civili o
amministrative  non pare una buona ragione per escluderle, esse sole,
dal  novero  delle  incompatibilita',  senza  creare  una  situazione
irragionevole.
   Se  veramente esse sono piu' frequenti, allora, escludendole si e'
tolta proprio la parte della norma che garantiva maggiormente il fine
della   disposizione,   ossia  evitare  le  situazioni  di  probabile
conflitto  di  interesse  e  di  scorretto  esercizio  della funzione
elettiva.
   E  si  sono conservate invece le ipotesi che meno sono idonee, per
minor  frequenza  (cui  non  si  accompagna  una  ontologica maggiore
importanza), al perseguimento della ratio della legge.
   Tutto  cio'  depone  per la sproporzione ed irragionevolezza della
previsione  della  incompatibilita' del consigliere comunale per lite
civile  (o  amministrativa) pendente con conseguente violazione degli
articoli 3, 24 e 51 della Costituzione.
   IV)  Per  tutte  le ragioni che precedono, il Collegio ritiene non
manifestamente  infondate,  ai fini che qui rilevano, la questione di
legittimita'  costituzionale,  per  contrasto con gli articoli 3, 24,
101,  103,  111  e  113 della Costituzione, dell'art. 69, comma 5 del
d.lgs.  n. 267  del  2000,  nella  parte  in cui devolve al tribunale
ordinario  la tutela giurisdizionale avverso la delibera di decadenza
dalla  carica  di  amministratore  per  incompatibilita';  nonche' la
questione  di  legittimita'  costituzionale,  per  contrasto  con gli
articoli  3,  24 e 51 della Costituzione, dell'art. 63, comma 1 n. 4)
del  d.lgs.  n. 267  del 2000, nella parte in cui prevede, anche agli
effetti di cui al successivo art. 68, comma 2, che, colui il quale ha
una  lite  pendente,  in  quanto  parte di un procedimento civile (od
amministrativo),  con  il  comune,  e' incompatibile con la carica di
consigliere comunale.