Sentenza
nei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 616, ultimo
periodo, del codice di procedura civile, come sostituito dall'art. 14
della  legge  24  febbraio  2006,  n. 52  (Riforma  delle  esecuzioni
mobiliari),   promossi   dalla   Corte   d'appello  di  Salerno,  nei
procedimenti  civili  vertenti  tra R. S. e la Banca della Campania e
tra G. S. e E. I., con ordinanze del 18 ottobre 2006 e del 25 gennaio
2007 rispettivamente iscritte ai nn. 512 e 610 del registro ordinanze
2007  e  pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27 e
n. 36, 1ª serie speciale, dell'anno 2007;
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
ministri;
   Udito  nella  Camera  di  consiglio del 30 gennaio 2008 il giudice
relatore Francesco Amirante.
                          Ritenuto in fatto
   1.  -  La  Corte d'appello di Salerno, nel corso di un giudizio di
appello  (introdotto  con  atto notificato il 30 maggio 2006) avverso
una  sentenza resa su un'opposizione all'esecuzione (pubblicata il 30
maggio  2005), ha sollevato questione di legittimita' costituzionale,
in  riferimento  agli  artt. 3, primo comma, 24 e 111, secondo comma,
della  Costituzione,  dell'art.  616,  ultimo  periodo, del codice di
procedura  civile  (r. o. n. 512 del 2007), come sostituito dall'art.
14  della  legge  24  febbraio  2006, n. 52 (Riforma delle esecuzioni
mobiliari).
   La  norma  e' censurata nella parte in cui, a seguito della citata
novella   (entrata   in  vigore  il  1°  marzo  2006),  ha  soppresso
l'appellabilta'    della   sentenza   che   definisce   l'opposizione
all'esecuzione.
   Quanto  alla  rilevanza, il remittente afferma l'applicabilita' di
tale  norma  nel  giudizio  a  quo  (con conseguente inammissibilita'
dell'appello)  sulla  base  di una ricognizione dei principi generali
del  processo,  in difetto di una normativa transitoria (quale invece
e'  stata dettata per i precedenti interventi legislativi di cui alle
leggi  14  maggio  2005,  n. 80,  e  28  dicembre  2005,  n. 263). In
particolare,  la  Corte d'appello fa applicazione della regola tempus
regit  actum,  rilevandone  il  carattere talmente generale da essere
derogabile soltanto per le questioni di giurisdizione e di competenza
ai  sensi  dell'art.  5 del codice di rito civile, con la conseguenza
della    assoluta   eccezionalita'   della   cosiddetta   perpetuatio
iurisdictionis  e  dell'impossibilita'  di una applicazione analogica
della  normativa che la prevede. Secondo il giudice a quo, va escluso
che una sentenza emessa prima dell'entrata in vigore della norma (nel
caso  di specie, il nuovo testo dell'art. 616 cod. proc. civ.) che ne
sopprime  la  appellabilita'  abbia  come effetto il mantenimento del
regime delle sue impugnazioni.
   Un  giudizio  di  appello  ha,  secondo  il  remittente, quale suo
presupposto  processuale  specifico,  la  vigenza  di  una  norma che
l'appello  stesso  consenta:  ne  consegue  che  e' al momento in cui
l'appello  e'  proposto  che  va  verificato  se esso sia previsto e,
quindi, ammissibile.
   Nella specie, l'appello, proposto con atto di citazione notificato
il  30 maggio 2006, andrebbe dichiarato inammissibile per l'immediata
applicabilita'   della   norma   denunciata,   ma  proprio  una  tale
interpretazione   di   quest'ultima   rende,  a  parere  della  Corte
remittente,  immediatamente  rilevante  la  questione di legittimita'
costituzionale sollevata.
   Nel merito, poi, il giudice a quo osserva che, con la soppressione
di un grado di giudizio di merito e l'equiparazione delle opposizioni
all'esecuzione  a quelle agli atti esecutivi, nonostante l'ontologica
diversita'  dei presupposti e degli oggetti delle prime rispetto alle
seconde, risulta sensibilmente limitata la tutela del debitore.
   Pur  premettendo che la questione non e' posta in riferimento alla
pretesa  di un doppio grado di giurisdizione di merito (principio non
assistito  da copertura costituzionale), «ma in relazione al rapporto
tra la soppressione di un grado di merito con il complessivo contesto
normativo  del  processo  esecutivo riformato», il remittente osserva
che,  con  l'inclusione  tra  i titoli esecutivi stragiudiziali delle
scritture  private  autenticate  (suscettibili  di  essere  poste  in
esecuzione  con  la  loro mera trascrizione nel testo del precetto) e
con  la conseguente agevolazione dell'avvio della procedura esecutiva
a  favore del titolare del credito anche prima ed a prescindere da un
controllo giurisdizionale sul contenuto del titolo, vengono a ridursi
le  possibilita',  per  il  debitore,  di  contestare  il  merito del
rapporto  (che potrebbe non essere mai stato in precedenza sottoposto
al vaglio del giudice, come invece accade normalmente nell'ipotesi di
un titolo esecutivo giudiziale), in quanto limitate ad un solo grado,
potendo  semmai  egli  dolersi  per  esclusivi motivi di legittimita'
dell'unica pronuncia di merito che potra' conseguire sul punto.
   Peraltro,   rileva   il   remittente,   il   principio  della  non
costituzionalizzazione del doppio grado risulta «talvolta temperato»,
per  escludere  i  sospetti  di  non conformita' con i principi degli
artt.  3  e  24  Cost.,  dalla  necessita' del riscontro di ulteriori
elementi,  come  la  correlazione con la scarsa consistenza economica
della  controversia  e  con la sua decisione secondo equita'. Solo in
tal  modo  l'inappellabilita'  non si espone a sospetti di violazione
delle  invocate  norme costituzionali, tenendo conto che il parametro
del  valore  rende giustificata e ragionevole l'opzione di accelerare
il procedimento (negando il rimedio dell'appello), sulla scorta di un
apprezzamento  di  prevalenza dell'interesse (individuale e generale)
ad  una  sollecita  definizione della causa e che, inoltre, la tutela
del  diritto  di difesa va coordinata con l'esigenza, di pari livello
costituzionale,  di disciplinare i modi ed i limiti del suo esercizio
in concreto, al fine di assicurare la conclusione della lite entro un
congruo termine.
   Del  resto  questa Corte, in relazione al regime di impugnabilita'
delle sentenze di opposizione allo stato passivo fallimentare, ha, in
passato,   ritenuto   possibile   un   sindacato  sulla  razionalita'
dell'ambito  dell'appellabilita'  in  riferimento  all'art.  3 Cost.,
dichiarando  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  99,  ultimo
comma,  del  regio  decreto 16 marzo 1942, n. 267, nella parte in cui
sanciva l'inappellabilita' delle sentenze rese su crediti di lavoro e
di  previdenza e assistenza obbligatorie, contemplati negli artt. 409
e  442 cod. proc. civ. (sentenza n. 69 del 1982). La Corte remittente
individua  significative  analogie tra il decisum di tale sentenza ed
il  tema  della  soppressione  dell'appello in argomento, contestando
anzitutto che la possibile ratio dell'intervento risieda nel recupero
di  snellezza,  velocita'  ed  efficienza  del processo esecutivo. Al
riguardo,  si  ricorda  che,  con  l'opposizione  all'esecuzione,  il
debitore  puo'  soltanto:  a)  quando  si  tratta di titolo esecutivo
giudiziale,  fare  valere fatti impeditivi o modificativi o estintivi
del diritto azionato, che siano successivi alla formazione del titolo
esecutivo  (o alla conclusione del processo in cui esso si e' formato
e  avrebbe potuto essere modificato), ma non anche quei fatti che, in
quanto  verificatisi  in  epoca  precedente,  avrebbero potuto essere
dedotti  nel giudizio di cognizione preordinato alla costituzione del
titolo   giudiziale;   b)   quando  si  tratta  di  titolo  esecutivo
stragiudiziale, contestare per la prima volta i fatti costitutivi del
diritto   consacrato   nel   titolo  o  dedurre  fatti  impeditivi  o
modificativi  o  estintivi,  proprio  perche' - trattandosi di titolo
formatosi  al  di  fuori  di un processo - in precedenza potrebbe non
essersi  mai  data  l'occasione  di dedurre in giudizio gli uni o gli
altri.
   Pertanto  la  sussistenza,  in  favore  del  creditore, del titolo
esecutivo  non  garantisce affatto il debitore per i casi in cui egli
debba fare valere queste particolari situazioni, ancora piu' delicate
in  quanto  l'aggressione  al  suo  patrimonio,  dopo la notifica del
precetto,  e' prossima, quando non gia' iniziata con il pignoramento.
Il   semplice   possesso   del   titolo  esecutivo,  reso  oltretutto
sensibilmente  piu'  semplice dagli interventi riformatori degli anni
piu'  recenti,  non  rende  la posizione del debitore piu' garantita,
proprio  quando  egli  avrebbe  bisogno di una tutela cognitiva piena
avente ad oggetto diritti.
   E  poiche'  il debitore puo' esercitare, prima dell'opposizione di
cui  all'art. 615 cod. proc. civ., un'ordinaria azione di cognizione,
strutturata  nei  due  gradi  di  merito  e  in  quello successivo di
legittimita',  volta all'accertamento dell'estinzione del diritto del
creditore in caso di titolo giudiziale e per fatti ad esso successivi
(ovvero  alla  contestazione  del  diritto  stesso  in caso di titoli
stragiudiziali),  al  remittente  non  pare  giustificato  il diverso
trattamento   che   alle   ragioni   del   debitore  deriva  con  «il
dimezzamento»  dei  gradi  di  cognizione  di  merito  riservato alle
opposizioni all'esecuzione.
   D'altra parte, non potrebbe mai configurarsi un onere del debitore
di  «precipitarsi»  ad  avviare  un'ordinaria  azione di accertamento
negativo,  ogniqualvolta  abbia  sentore  della  possibilita'  di una
esecuzione  in suo danno, per dedurre fatti modificativi, estintivi o
impeditivi  del  diritto del creditore (ma successivi al titolo ed al
processo  in  cui  il titolo si e' formato, se giudiziale) ovvero per
gli  stessi  fatti  senza limiti (se il titolo e' stragiudiziale): si
tratterebbe,  infatti,  di  imporre  al  debitore medesimo un gravoso
onere di prevenzione giudiziale delle avverse iniziative.
   La Corte d'appello, tuttavia, parifica le due descritte situazioni
e   rileva   un  trattamento  ingiustificatamente  differenziato  per
fattispecie  sostanzialmente  identiche,  con evidente violazione del
canone dell'uguaglianza.
   Il  richiamo  all'esigenza  di  celerita' sarebbe, in conclusione,
inconferente,  essendo  questa  garantita  da  un compiuto sistema di
strumenti  interinali o cautelari in senso lato - del tutto idoneo ad
assicurare  le  ragioni  delle  parti  -  strutturati  anche su di un
sistema  di  impugnazioni e di anticipazione del finale effetto della
cancellazione  del  vincolo  imposto con il pignoramento, di cui alla
nuova formulazione dell'art. 624 cod. proc. civ.
   Il  principio  di  eguaglianza (appena) evocato sarebbe, altresi',
violato   sotto   il   profilo   dell'incongrua  equiparazione  delle
opposizioni all'esecuzione a quelle agli atti esecutivi, in quanto le
prime   hanno  ad  oggetto  diritti  soggettivi,  mentre  le  seconde
riguardano   irregolarita'   formali   di   atti  della  procedura  e
difficilmente  possono  riverberare  effetti sul diritto posto a base
dell'esecuzione.  La  sottoposizione delle due categorie di azioni di
cognizione,  ontologicamente  diverse, al medesimo regime processuale
appare   al   remittente   incongrua  e  non  rispettosa  del  canone
richiamato,  che  impone  il trattamento differenziato di fattispecie
diverse.
   Quanto,  infine,  ai  profili di contrasto con gli artt. 24 e 111,
secondo   comma,   Cost.,   la   norma  denunciata  comporterebbe  la
compressione  del diritto del debitore alla piena ed effettiva tutela
delle  proprie situazioni giuridiche soggettive in un processo equo e
giusto,  ancorche'  «a  suo  danno»  sia  aumentata  l'efficienza del
processo  esecutivo e le ipotesi di aggressione del suo patrimonio in
forza  di  titoli  esecutivi  non  giudiziali  e,  quindi,  senza  un
preventivo  controllo  da  parte  del  giudice: e cio', nonostante la
semplice presenza del titolo esecutivo.
   2.  - La medesima Corte d'appello ha sollevato identica questione,
in  riferimento  agli  stessi  parametri,  con ordinanza emessa il 25
gennaio  2007  (r.  o.  n. 610 del 2007), nel corso di un giudizio di
appello,  introdotto  con  atto notificato il 18 luglio 2006, avverso
una  sentenza  - pubblicata il 28 aprile 2006 - resa a conclusione di
un  giudizio di opposizione all'esecuzione, intrapreso per contestare
la  pignorabilita' del bene staggito e, comunque, «la persistenza del
diritto  ad  agire  in  executivis  per intervenuta transazione», con
ricorso  ai  sensi dell'art. 615 cod. proc. civ. depositato in data 8
novembre  1999.  In  proposito,  il  remittente - che svolge poi, nel
merito,  argomentazioni  del tutto analoghe alle precedenti - esclude
che  una sentenza emanata dopo l'entrata in vigore della norma che ne
sopprime   l'appellabilita'   possa   conservare   il   regime  delle
impugnazioni  vigente  al  momento della proposizione del giudizio in
primo grado.
   3.  -  E'  intervenuto,  in  riferimento al giudizio introdotto da
quest'ultima  ordinanza,  il  Presidente  del Consiglio dei ministri,
rappresentato  e  difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha
concluso per la non fondatezza della questione.
   In  particolare,  l'Avvocatura  ritiene  inconferente  il richiamo
della  sentenza  n. 69  del  1982  di  questa Corte che ha dichiarato
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 99 della legge fallimentare
-  nel  testo  anteriore  alla  riforma del 2006 - nella parte in cui
sanciva l'inappellabilita' delle sentenze rese in sede di opposizione
allo   stato   passivo   su   crediti   di  lavoro,  previdenziali  e
assistenziali.   In   tale   occasione  non  sarebbe  stata  ritenuta
irrazionale  tout  court la norma che limitava l'impugnabilita' delle
sentenze  rese  ai  sensi  dell'art. 99 della legge fallimentare (per
disparita'  di  trattamento  tra  creditori  di  soggetti  falliti  e
creditori  di  soggetti in bonis), bensi' dichiarata incostituzionale
la  norma nella parte in cui - secondo il diritto vivente - estendeva
l'inappellabilita',  originariamente prevista per le sentenze rese in
controversie non eccedenti la competenza per valore del pretore, alle
sentenze  rese  in  controversie aventi ad oggetto crediti di lavoro,
previdenziali  e assistenziali (attratte nella competenza per materia
del pretore in base alla legge 11 agosto 1973, n. 533).
   Ora,  la  differente posizione in cui si trova il debitore prima e
dopo  la notificazione del precetto (possibilita', nel primo caso, di
promuovere  un'ordinaria azione di accertamento negativo del credito,
soggetta  al  doppio  grado di giurisdizione di merito; possibilita',
nel   secondo   caso,   di  promuovere  il  giudizio  di  opposizione
all'esecuzione  di  cui all'art. 615 cod. proc. civ., che si conclude
con  sentenza  non  impugnabile)  non  puo'  ritenersi irragionevole,
trovando   la   sua   giustificazione   nella  esigenza  di  definire
rapidamente  le  questioni  relative  alla validita' ed efficacia del
titolo  esecutivo,  che  permea  l'attuale disciplina del processo di
esecuzione  a seguito delle modifiche introdotte con le riforme degli
anni 2005 e 2006.
   Esigenza,  questa,  che consente di escludere che l'equiparazione,
quanto al regime di impugnazione, delle sentenze rese nel giudizio di
opposizione   all'esecuzione   e  di  quelle  rese  nel  giudizio  di
opposizione  agli  atti  esecutivi  sia priva di una sua razionalita'
perche'   non  tiene  conto  della  diversa  natura  degli  interessi
coinvolti.
   Va   infine   escluso,   secondo  l'Avvocatura  dello  Stato,  che
l'inappellabilita'  della  sentenza  resa ai sensi dell'art. 616 cod.
proc.  civ.  si  ponga  in  contrasto con gli artt. 24 e 111, secondo
comma,  Cost.,  in  quanto  l'attuazione dei principi di effettivita'
della  tutela  giurisdizionale  e  del  giusto processo non impongono
affatto la previsione del doppio grado di merito.
                       Considerato in diritto
   1. - Con due ordinanze la Corte di appello di Salerno ha sollevato
questioni  di  legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt.
3,  primo  comma,  24  e  111,  secondo  comma,  della  Costituzione,
«dell'ultimo  periodo  dell'art.  616 del codice di procedura civile,
come  sostituito  dall'art.  14 della legge 24 febbraio 2006, n. 52»,
disposizione  vigente  dal  1° marzo 2006, la quale stabilisce che il
giudizio  di cognizione introdotto dall'opposizione all'esecuzione e'
deciso con sentenza non impugnabile.
   La  remittente,  con  la  prima ordinanza (r. o. n. 512 del 2007),
riferisce che il giudizio di appello di cui e' investita concerne una
sentenza  emessa  prima  dell'entrata  in  vigore  della disposizione
suddetta,  ma  fa  osservare  come,  in  difetto  di  una  disciplina
transitoria,  il regime della non impugnabilita', e quindi della sola
assoggettabilita'  della  sentenza  al  ricorso per cassazione di cui
all'art.  111,  settimo  comma,  Cost.,  si  debba applicare anche ai
giudizi  di  appello  pendenti  relativi  ad  una  sentenza venuta ad
esistenza prima dell'entrata in vigore dell'innovazione legislativa.
   Con  la  seconda  ordinanza (r. o. n. 610 del 2007) - emessa in un
giudizio  avente  ad  oggetto  una sentenza concernente l'opposizione
all'esecuzione spiegata per contestare sia il diritto di procedere in
executivis  sia  la  pignorabilita'  dei beni oggetto dell'esecuzione
stessa  -  la  Corte  remittente  espone che la sentenza impugnata e'
successiva  all'entrata in vigore della disposizione sostitutiva, nei
sensi suindicati, dell'art. 616 cod. proc. civ.
   Tutto cio' in punto di rilevanza della questione.
   2.  -  Riguardo  alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo
premette  che  non  intende  mettere  in  discussione  il consolidato
orientamento  secondo  il quale lo svolgimento dei giudizi attraverso
due gradi di merito non e' principio costituzionalizzato, ma sostiene
che  la disciplina del processo, pur tenendo conto dei larghi margini
di  apprezzamento  di  cui gode il legislatore, deve corrispondere ai
canoni  della  non irragionevolezza, della parita' di trattamento per
situazioni identiche e della non omologazione di fattispecie diverse.
A  tal  proposito, la Corte d'appello invoca il precedente costituito
dalla  sentenza  di  questa  Corte n. 69 del 1982, dichiarativa della
illegittimita'   della  disposizione  che  sottraeva  all'appello  le
sentenze emesse in sede di opposizione al passivo fallimentare aventi
ad oggetto crediti di lavoro, previdenziali o assistenziali.
   Sotto   tali  profili  il  giudice  a  quo  ritiene  irragionevole
stabilire  la  non  appellabilita'  di  sentenze emesse in giudizi di
opposizione  all'esecuzione  quando la categoria dei titoli esecutivi
si  e',  da  ultimo,  ampliata  fino ad includere numerose ipotesi di
titoli  stragiudiziali,  in precedenza non assoggettati a verifica da
parte  di  un  giudice. La remittente ritiene, altresi', contrastante
con  il  principio  di  eguaglianza  l'aver  sottratto all'appello le
suddette  sentenze  sulle  opposizioni  all'esecuzione,  mentre  sono
appellabili  quelle  emesse  in  giudizi di accertamento negativo del
credito  promossi  dal  debitore  prima  di  essere  assoggettato  ad
esecuzione,   pur   trattandosi   in  entrambi  i  casi  di  pronunce
suscettibili di giudicato sulla esistenza del rapporto.
   Inoltre,   la  remittente  denuncia,  quale  ulteriore  violazione
dell'art.   3   Cost.,   l'equiparazione,   quanto  al  regime  delle
impugnazioni,  delle  opposizioni  all'esecuzione  a quelle agli atti
esecutivi: le prime concernenti l'accertamento del rapporto, le altre
mere irregolarita' del procedimento esecutivo.
   Le  ordinanze  di remissione sostengono, infine, che la previsione
della  sola  ricorribilita'  per  cassazione delle sentenze di cui si
tratta  impedirebbe  la  piena  realizzazione del diritto di difesa e
contrasterebbe con i principi del giusto processo.
   3.  -  In via preliminare deve essere disposta la riunione dei due
giudizi,  aventi  ad  oggetto  la  medesima  disposizione  di  legge,
censurata per motivi identici.
   Si  rileva, anzitutto, l'inammissibilita' della questione proposta
con   l'ordinanza   n. 512   del   2006,  per  implausibilita'  della
motivazione sulla rilevanza.
   Infatti,  contrariamente a quanto assume la remittente, in caso di
successione  di leggi e in mancanza di una disciplina transitoria, il
regime di impugnabilita' dei provvedimenti giurisdizionali va desunto
dalla normativa vigente quando essi sono venuti a giuridica esistenza
(come  osservato  dalla  giurisprudenza  di  legittimita':  Cass., 12
maggio  2000, n. 6099, e 20 settembre 2006, n. 20414). E, nel caso in
esame,  la  sentenza  oggetto  dell'appello  era stata depositata ben
prima  dell'entrata  in  vigore della disposizione che prevede la non
impugnabilita'  delle  sentenze  emesse  in  giudizi  di  opposizione
all'esecuzione.
   4.  -  Per  differenti  ragioni,  anche la questione sollevata con
l'ordinanza  n. 610 del 2007 dalla stessa Corte di appello di Salerno
non  e'  ammissibile.  La  suddetta  ordinanza,  infatti,  non  ha  i
requisiti  necessari per dare ingresso ad un giudizio di legittimita'
costituzionale  in  via incidentale, in quanto presenta carenze nella
esposizione  dei  fatti,  contiene  affermazioni  non  motivate nella
ricostruzione  del  quadro normativo ed incorre in contraddizioni tra
motivazione   e   richiesta   di   una   sentenza  di  illegittimita'
costituzionale integralmente ablativa della disposizione impugnata.
   La  remittente  censura,  anzitutto,  la disposizione in argomento
accusandola  di  trascurare  la  circostanza che - per le innovazioni
intervenute  negli  ultimi  anni, innovazioni che la Corte di Salerno
non  precisa  -  e'  aumentato  il numero di atti non giurisdizionali
aventi  efficacia  di  titolo esecutivo, senza pero' indicare se, nel
giudizio  pendente  dinanzi  a  se',  l'esecuzione cui il debitore si
oppone si fondi su un titolo giudiziale o extragiudiziale.
   In  secondo  luogo, al fine di affermarne la totale equiparazione,
riguardo  all'oggetto,  a  un  giudizio  di accertamento negativo del
credito  fatto  valere,  la remittente implicitamente sostiene che il
giudizio   di   opposizione   all'esecuzione  ha  sempre  ad  oggetto
l'accertamento dell'esistenza del rapporto ed e' idoneo ad acquistare
efficacia  di  giudicato su tale accertamento. Tale tesi, in mancanza
di   riferimenti   a  un  orientamento  giurisprudenziale  univoco  e
consolidato  (cosiddetto  diritto  vivente),  avrebbe  richiesto  una
congrua    ancorche'    succinta    motivazione,   tanto   piu'   che
dall'esposizione  in  fatto  risulta che l'opposizione all'esecuzione
nel   processo   a   quo  si  fonda  sull'impignorabilita'  dei  beni
assoggettati  ad esecuzione, nonche' sulla persistenza del diritto ad
agire in executivis per intervenuta transazione.
   Ora,  l'identificazione,  in  linea di principio, dell'oggetto del
giudizio di opposizione all'esecuzione - e cioe' lo stabilire se esso
sia  sempre  l'accertamento  dell'esistenza  del  rapporto di credito
oppure  sia  limitato  al  riscontro  della sussistenza dei requisiti
dell'azione   esecutiva,   alternativa   non   priva  di  conseguenze
sull'ampiezza del giudicato che potra' formarsi - costituisce un nodo
problematico   sul   quale   la   Corte   remittente  avrebbe  dovuto
argomentare.
   Le  considerazioni  svolte consentono di rilevare, in primo luogo,
che  le  censure  appaiono  motivate  non  congruamente, in quanto il
giudizio  di opposizione all'esecuzione puo' concernere anche ipotesi
in  cui  questa  si  fonda  su  titoli  giudiziali,  e addirittura su
sentenza  passata  in  giudicato,  titoli  riguardo  ai  quali non si
ravvisano  le addotte cause di irragionevolezza dell'inappellabilita'
della  sentenza  che  decide  sulla opposizione all'esecuzione. A tal
proposito il giudice a quo, pur argomentando sulle evenienze soltanto
di   alcune  ipotesi  di  opposizione  all'esecuzione,  sollecita  la
emissione di una sentenza di illegittimita' costituzionale totalmente
caducatoria  della  disposizione  censurata,  e quindi anche riguardo
alla  sua  applicabilita'  a  fattispecie  processuali per le quali i
sospetti di incostituzionalita' non vengono neppure prospettati.
   Si   deve,   infine,   osservare   che   la   remittente   censura
l'equiparazione,  quanto  al  regime  di  non  impugnabilita',  delle
opposizioni all'esecuzione a quelle agli atti esecutivi, in quanto le
prime   avrebbero   ad   oggetto   non   mere   irregolarita'  bensi'
l'accertamento  del  rapporto  di  credito,  ma  solleva la questione
basandosi  sul non dimostrato presupposto che l'inappellabilita', per
essere  legittima,  debba  fondarsi sempre sulla medesima ratio e che
non   rientri   nella   liberta'  di  apprezzamento  del  legislatore
individuare  rationes diverse, ciascuna idonea a fornirne ragionevole
giustificazione