IL TRIBUNALE
   Esaminata  la  richiesta  avanzata  dal  difensore di Mansi Luigi,
imputato dei reati di cui agli artt. 581, 582 e 612 c.p. nel processo
penale  n. 193/2005  R.G.  Trib.,  di  emissione  di  sentenza di non
doversi procedere per intervenuta prescrizione; sentito il p.m.;
   Ha  emesso  la  seguente  ordinanza  di rimessione degli atti alla
Corte costituzionale.
                          Premessa in fatto
   La  difesa  dell'imputato ha chiesto emettersi declaratoria di non
doversi  procedere  in  ordine  ai  reati a quest'ultimo ascritti per
intervenuta  prescrizione:  ed  invero, invocando la nuova disciplina
normativa  introdotta  dalla  legge n. 251 del 2005, e rappresentando
che  non  vi  era  ancora  stata  la  dichiarazione  di  apertura del
dibattimento  - momento processuale che scandisce, ai sensi dell'art.
10,  comma  3,  legge  n. 251/2005, l'applicabilita' o meno dei nuovi
termini   di   prescrizione  -,  ha  chiesto  che  fosse  pronunciata
l'estinzione  per  intervenuta  prescrizione con riferimento ai fatti
contestati  come  commessi  in  data  3  luglio 1999, per il quale il
termine  massimo di prescrizione, alla stregua della nuova normativa,
e' di sei anni, anziche' di sette anni e sei mesi.
                          R i l e v a n z a
   Alla  stregua  di  quanto  premesso  in  fatto, dunque, emerge con
evidenza  la rilevanza delle questioni di legittimita' costituzionale
che  verranno  esposte  in  prosieguo:  al  riguardo,  infatti, giova
osservare  che  la  richiesta avanzata all'odierna udienza imporrebbe
una  sentenza  di non doversi procedere per intervenuta prescrizione,
con  riferimento  ai reati di percosse, lesioni e minaccia, commessi,
secondo  l'imputazione,  in data 3 luglio 1999, e con un'applicazione
congiunta degli artt. 6, comma 1 e comma 4 (che modifica i termini di
prescrizione  e  l'efficacia  degli atti interruttivi), e 10, comma 3
(che fa coincidere la non applicabilita' della nuova normativa con la
dichiarazione di apertura del dibattimento), della legge n. 251/2005.
   Sotto  il  profilo  della  rilevanza  va  altresi' rilevato che la
giurisprudenza  della  Corte costituzionale ha evidenziato che «se e'
vero  che  nessun  soggetto  puo' essere chiamato a rispondere per un
comportamento  che all'epoca del fatto non costituiva reato, anche se
la  relativa  norma  permissiva  venga  privata di efficacia ai sensi
dell'art.  136  della Costituzione, non per questo occorre concludere
che  le  questioni  di legittimita' costituzionale di norme penali di
favore  sono  necessariamente  irrilevanti», atteso che «un eventuale
accoglimento    di   un'impugnativa   concernente   tali   norme   si
rifletterebbe  in  ogni caso sul fondamento normativo della decisione
penale  incidendo  sulla  sua  ratio  e  produrrebbe modificazioni al
sistema  normativo»  (Corte  cost.,  sent. 2 giugno 1983 n. 148, rel.
Paladin).
   Ed  invero,  sottrarre  le  norme  di  favore, ovvero che inducano
trattamenti  penali  di  favore  nei confronti degli autori di reati,
all'area  del sindacato di legittimita' costituzionale della Consulta
rischierebbe  di  creare delle «sacche di impunita» e «di privilegi»,
proprio  allorquando  -  e'  questo  il  caso, a  parere  del giudice
remittente  -  le norme di favore vengano introdotte in dispregio dei
piu'  elementari principi costituzionali, e soprattutto di quello che
la   dottrina  costituzionalistica  ha  da  tempo  indicato  come  un
«super-principio costituzionale» - il principio di uguaglianza.
   Del   resto,   anche   nei   piu'   recenti   arrets  della  Corte
costituzionale     in     materia,    allorquando,    ridimensionando
l'orientamento   espresso   nelle   pronunce  n. 148/1983,  167/1993,
194/1993  e  25/1994, e' stato sancito che va escluso che la Consulta
«possa  introdurre in via additiva nuovi reati o che l'effetto di una
sua  sentenza  possa  essere quello di ampliare o aggravare figure di
reato  gia'  esistenti,  trattandosi  di  interventi riservati in via
esclusiva alla discrezionalita' del legislatore» (Corte cost. 9 marzo
2004,  n. 161,  rel.  Flick),  il  giudice  ad  quem  ha  escluso che
l'attivita'  caducatoria costituzionalmente rimessa al massimo organo
di garanzia possa introdurre nuove fattispecie di reato, ovvero possa
ampliare  la  portata  o  aggravare  il  trattamento sanzionatorio di
fattispecie criminose gia' esistenti.
   Al  contrario,  nell'ipotesi  in  esame  una pronuncia caducatoria
della  Consulta  sarebbe  idonea soltanto a ripristinare il regime di
perseguibilita'  dell'azione  penale, influendo sulle cause estintive
dei  reati;  pertanto, alcun profilo concernente l'ambito di astratta
applicabilita'   della   norma   penale,   nella  sua  dimensione  di
fattispecie  oggettiva  (condotta,  nesso di causalita', evento) e di
fattispecie  soggettiva  (dolo  o  colpa),  sarebbe  coinvolto da una
sentenza  declaratoria dell'illegittimita' costituzionale delle norme
che  riducono  in  maniera  consistente  i  termini  di prescrizione,
secondo criteri di carattere eminentemente soggettivo.
   Va peraltro aggiunto che il principio di certezza del diritto e la
possibilita'   di   «libere  scelte  d'azione»  (Corte  cost.,  sent.
n. 364/1988,  rel. M. Dell'Andro) non sarebbe in alcun modo scalfito,
alla   stregua   della   stessa  giurisprudenza  costituzionale,  che
nell'analoga  materia  della  successione  di norme penali in caso di
decreti-legge   non   convertiti,   ha   dichiarato  l'illegittimita'
dell'art.  2,  comma  5,  c.p.:  dalla  motivazione  della  sentenza,
infatti,  emerge che la «riespansione» operativa della normativa piu'
sfavorevole,     abrogata     temporaneamente    dal    decreto-legge
successivamente  non  convertito,  limita i propri «effetti negativi»
soltanto  ai  c.d.  «fatti  pregressi»,  commessi nella vigenza della
norma  che  si  riespande,  e  non anche ai «fatti concomitanti» alla
vigenza  del  decreto-legge  non  convertito  (Corte  cost., sent. 19
febbraio 1985 n. 51).
   Mutatis  mutandis,  una declaratoria di illegittimita' delle norme
della   legge   n. 251/2005   consentirebbe   la  riespansione  della
precedente  normativa  solo  con  riferimento  ai  fatti «pregressi»,
commessi   prima   dell'entrata   in   vigore  della  legge  ritenuta
incostituzionale,   mentre   comporterebbe  una  ultrattivita'  della
medesima normativa con riferimento ai fatti concomitanti, in tal modo
assecondando  un  bilanciamento tra i principi costituzionali violati
dalle norme censurate ed il principio di certezza del diritto.
                     Non manifesta infondatezza
   Limitando,   ovviamente,   la   prospettazione   dei   profili  di
illegittimita'   costituzionale   alle   norme  rilevanti  in  questo
processo,  ed  obliterando  ogni  valutazione in ordine ai molteplici
aspetti  di  irragionevolezza  della  legge  n. 251 del 2005, occorre
prendere  le  mosse  dalle  norme che, novellando gli artt. 157 e 161
c.p.,  hanno  ridotto i termini di prescrizione secondo criteri che a
questo  giudice  non  appaiono  dotati  innanzitutto del canone della
ragionevolezza.
1)  Illegittimita'  dell'art. 6, commi 1 e 4, della legge n. 251/2005
per violazione degli artt. 3, 13, 24, 25, comma 2, 27 e 79 Cost.
   Le  norme di cui all'art. 6, commi 1 e 4, della legge n. 251/2005,
come  e'  noto, nel modificare gli artt. 157 e 161 del codice penale,
hanno   sancito   una   quasi   generale  riduzione  dei  termini  di
prescrizione:  ed  invero,  il  decorso  del  tempo corrispondente al
massimo  della  pena edittale stabilita dalla legge, e comunque di un
tempo  non  inferiore  a  sei  anni,  e' sufficiente ad estinguere il
reato;  peraltro,  il corso della prescrizione puo' essere interrotto
da  taluni  atti, comportando un aumento frazionario di un quarto del
tempo necessario a prescrivere in caso di soggetti incensurati, della
meta'  in  caso  di  imputati  cui  sia applicabile (o contestata) la
recidiva  infraquinquennale  o specifica (art. 99, comma 2, c.p.), di
due terzi in caso di imputati cui sia applicabile la recidiva plurima
(art.  99,  comma 4 c.p.), del doppio nel caso di imputati dichiarati
delinquenti abituali (artt. 102 e 103 c.p.) o professionali (art. 105
c.p.).
   L'attuale  assetto  normativo appare a questo giudice contrario ai
fondamentali principi dettati dalla Costituzione in materia penale ed
all'assetto proprio di uno Stato sociale di diritto.
   La  prescrizione,  come  e'  pacifico,  e'  configurata nel nostro
ordinamento  come  causa  di  estinzione del reato, come si evince ad
abundantiam  dall'inserimento  nel  relativo Capo I del Titolo VI del
codice penale.
   Come e' altrettanto noto e pacifico, non solo nella ormai costante
giurisprudenza  costituzionale,  ma altresi' nella pressoche' unanime
opinione   dottrinale,   la   Costituzione  repubblicana  delinea  un
ordinamento improntato ai tratti di un «diritto penale del fatto»: la
tesi,  che  riposa pacificamente su una lettura congiunta degli artt.
13,  25  e  27  della  Costituzione  -  norme  che  impongono  che la
privazione  della  liberta'  personale sia consentita solo in seguito
alla commissione di un «fatto» previsto dalla legge come reato, e per
il  quale  deve  essere prevista (a livello normativo) ed irrogata (a
livello  giudiziario)  una  sanzione  che  persegua  la  finalita' di
risocializzazione  del reo (cfr., al riguardo, Corte cost. n. 313 del
1990, rel. E. Gallo), oggetto di un rimprovero personale -, impedisce
pertanto  di  connotare  le  norme penali secondo i canoni propri del
«diritto  penale  d'autore»,  storicamente  attuati  nell'ordinamento
nazionalsocialista  in Germania (cfr. paragrafo 2 dello StGB) e negli
ordinamenti comunisti dell'Unione Sovietica e della ex Jugoslavia.
   L'attuale   normativa,   invece,   rivela  preoccupanti  segni  di
emersione  dei canoni tipici del diritto penale d'autore, ove collega
i  differenti  aumenti dei termini di prescrizione, per interruzione,
non   gia'   alla   gravita'   oggettiva  del  fatto,  come  avveniva
precedentemente,  bensi'  allo  status soggettivo dell'imputato: alla
stregua  della nuova normativa, infatti, e' la personalita' criminale
del reo, desunta dalla recidiva o dallo stato di delinquente abituale
o  professionale, a determinare un allungamento ovvero una riduzione,
anche  consistente - nel caso in esame, da 7 anni e 6 mesi a sei anni
-, dei termini di prescrizione.
   Tale  impostazione  normativa,  dunque,  prescinde  totalmente dal
fatto   di  reato  e  dalla  sua  oggettiva  gravita',  soffermandosi
unicamente sul reo e sulla sua presumibile personalita' criminale.
   La   scelta,   oltre  ad  assecondare  gli  infidi  confini  della
presunzione di pericolosita', appare non soltanto confliggente con il
diritto  penale  del  fatto,  ma  altresi'  schizofrenica, atteso che
l'allungamento  dei termini di prescrizione puo' essere legato ad una
situazione  di  recidiva  maturata  a distanza di anni dal fatto, nel
corso  del  procedimento,  che,  come  e' noto, puo' talvolta subire,
anche  per  la  estrema farraginosita' del sistema processuale, tempi
molto  dilatati:  una  situazione  quindi  del  tutto  absoluta dalla
commissione del singolo fatto di reato, oggetto di giudizio, e legata
magari  alla  mera,  e  casuale,  divaricazione  temporale tra tempus
commissi delicti ed accertamento processuale.
   Del resto, appare quasi ridondante richiamare le storiche pronunce
n. 364  e 1085 del 1988 della Corte costituzionale (rel. Dell'Andro),
che,  nel  rendere affermazioni di alto valore anche dommatico, hanno
ancorato,  definitivamente,  l'illecito  penale  alla  concezione del
personales  Unrecht:  una  visione del reato che, valorizzando sia il
disvalore  della  condotta che il disvalore d'evento, e' strettamente
connessa ad una impostazione «oggettiva» della colpevolezza.
   Colpevolezza per il «fatto», dunque, e non per «l'autore».
   Non va del resto obliterata un'ulteriore considerazione: l'assetto
normativo  inaugurato  dalla legge n. 251/2005 asseconda i canoni del
diritto  penale  d'autore,  anche  perche',  di  fatto, conduce ad un
trattamento sfavorevole della delinquenza c.d. da strada (si pensi al
soggetto  condannato  per piu' fatti di furto di estrema esiguita), e
ad  un  trattamento  favorevole  della delinquenza dei c.d. «colletti
bianchi»,  categoria  criminologica, come e' noto, elaborata da oltre
un  cinquantennio  da  Sutherland, e dotata di assoluta affidabilita'
empirica  (si  pensi  a  tutti  gli autori di truffe, ovvero di reati
contro  la p.a. ovvero in materia economica, di regola «inseriti» nel
contesto  sociale,  e  non gravati da precedenti penali, che, oltre a
godere  di termini piu' brevi, difficilmente rischiano di entrare nel
circuito penale, allorquando vengano prosciolti per prescrizione).
   Del resto, ove si ritenga che la nuova normativa, con i differenti
termini  di  prescrizione,  non  riveli i tratti di un diritto penale
d'autore,  in  verita'  evidenti,  non si comprenderebbe quale sia il
canone  di  ragionevolezza adoperato per sancire una tale distinzione
legislativa: le norme infatti appaiono afflitte altresi' dal vizio di
irragionevolezza, per violazione dell'art. 3 Cost.
   La  violazione  palese del principio di uguaglianza, del resto, si
scorge agevolmente nel caso, invero frequente, della contestazione di
un  medesimo  reato  a  carico  di una pluralita' di imputati: in tal
caso,  infatti,  si  potrebbe  assistere  ad un esito processuale del
tutto opposto - declaratoria di estinzione del reato per prescrizione
ovvero  condanna - a seconda che i diversi imputati abbiano riportato
o  meno  precedenti  condanne;  l'ipotesi,  oltre ad offendere i piu'
elementari  canoni  di  giustizia,  viola  palesemente  il  principio
costituzionale  di  cui  all'art.  3  Cost., che consente trattamenti
diversi soltanto in situazioni diverse.
   La  potenziale  obiezione  alla  stregua della quale la situazione
diversa,   in   grado  di  giustificare  il  differente  trattamento,
ricorrerebbe  proprio  per  i  precedenti  penali  che  integrano  la
situazione  di  recidiva  o  di  delinquenza abituale o professionale
lascia   emergere   ictu   oculi   il   profilo   di   illegittimita'
precedentemente  evocato:  far  dipendere  un  differente trattamento
normativo, in materia penale, da uno status soggettivo, e non gia' da
connotati   oggettivi,   riguardanti  la  gravita'  del  fatto-reato,
rappresenta l'emblema del diritto penale d'autore, che tante sciagure
storiche e giuridiche ha assecondato.
   Ed  invero,  i  precedenti penali sono ordinariamente valutati dal
giudice  in sede di concreta commisurazione della pena, astrattamente
irrogata,  nell'ambito  di  un giudizio individualizzato che assume a
parametro   i   criteri   finalistici   di  cui  all'art.  27,  terzo
comma Cost.,  ma  non  possono  essere  assunti  a  discrimen  di  un
differente   trattamento   normativo,   che,   al   contrario,   deve
intrinsecamente   possedere   i   caratteri   della   generalita'  ed
astrattezza;  laddove  si  registri una tale situazione normativa, si
declina la responsabilita' penale secondo canoni del tipo d'autore, e
cio'   contrasta   con   i  principi  elementari  della  Costituzione
repubblicana.
   Non  va  infine  sottaciuto  che  la  riforma  dettata dalla legge
n. 251/2005,   riducendo   in   maniera   consistente  i  termini  di
prescrizione   determinera'   una  estinzione  generalizzata  di  una
molteplicita'   di  ipotesi  di  reati  (cfr.  al  riguardo,  i  dati
statistici  pubblicati dal Ministero della giustizia e dalla Corte di
cassazione),   di   solito  commessi  dai  «colletti  bianchi»:  tale
conseguenza,  invero,  sembra  rivelare  i  tratti di una amnistia di
fatto,  mascherata  da  un  mutamento  delle  regole  in  materia  di
prescrizione, e conseguita per il tramite di un aggiramento dell'art.
79  Cost.,  che,  come  e' noto, richiede una legge approvata con una
maggioranza  parlamentare  dei  due  terzi dei componenti di ciascuna
Camera.
   Ultimo profilo di illegittimita' da considerare e', secondo questo
giudice,   la  violazione  del  principio  costituzionale  di  difesa
sociale,  che  pur  rinvenendo  il  proprio «aggancio» costituzionale
nell'art.  24  Cost.,  e'  in  realta'  immanente  all'intero sistema
costituzionale,  e  tale  da  giustificare  la pretesa punitiva dello
Stato:   la   riduzione   consistente  dei  termini  di  prescrizione
impedisce,  di  fatto,  il perseguimento e la punizione di molteplici
fatti  di  reato,  con  una obliterazione della sicurezza collettiva,
atteso  che  i  consueti  tempi  processuali, dilatati all'estremo da
improvvide  elargizioni  di  pseudogaranzie  prive di reali contenuti
difensivi  e  dalla asfitticita' dell'organizzazione giudiziaria, non
consentono  un  reale  esercizio  dell'azione  penale con conseguente
affermazione  di  responsabilita'  in termini cosi' ridotti: si pensi
all'ipotesi  delittuosa,  paradigmatica  a  fini dialettici, di false
comunicazioni sociali, per desumere l'assoluta inadeguatezza di sette
anni  e  sei  mesi  per  la  definizione del relativo processo, in un
tempo,  invece, sufficiente al piu' alla scoperta ed alla conclusione
delle complesse indagini preliminari.
2)  Illegittimita' dell'art. 10, comma 3, della legge n. 251/2005 per
violazione dell'art. 3 Cost.
   L'art.  10,  comma  3,  della  legge  n. 251/2005  appare a questo
giudice  in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, nella parte in
cui   sancisce  l'applicabilita'  della  nuova  normativa,  ove  piu'
favorevole,  ai  procedimenti  e  ai  processi  pendenti alla data di
entrata  in  vigore  della  legge,  «ad  esclusione dei processi gia'
pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura
del dibattimento...».
   Far   dipendere  l'applicabilita'  della  nuova  disciplina  dalla
dichiarazione   di   apertura   del   dibattimento  appare  priva  di
qualsivoglia  giustificazione razionale, essendo legata ad un momento
processuale   assolutamente   «casuale»   e,   peraltro,   privo   di
qualsivoglia connotato in grado di giustificare una dismissione della
pretesa  punitiva:  ed invero, giova evidenziare che la dichiarazione
di  apertura  del  dibattimento e' un momento del tutto casuale nella
scansione  processuale,  e  ad  essa non e' legata alcuna espressione
della  pretesa punitiva dello Stato, che, al contrario, e' intrinseca
all'esercizio  dell'azione penale; ne' tantomeno e' assimilabile alla
pronuncia   di   una  sentenza  di  condanna  in  primo  grado,  atto
autoritativo   che   esprime   l'accertamento  della  responsabilita'
ipotizzata.
   Non  appare  a questo giudice un caso, infatti, che in ordinamenti
culturalmente  omogenei,  e  sovente  oggetto  di  impropri  richiami
comparatistici,   la   sospensione   della  prescrizione  sia  legata
all'esercizio  dell'azione  penale  (negli  Stati  Uniti) ovvero alla
pronuncia  della  sentenza  di condanna di primo grado (in Germania):
entrambi  gli  atti,  infatti,  appaiono  lapalissianamente dotati di
connotati di una tale pregnanza, ai fini dello sviluppo della pretesa
punitiva  dello  Stato, da essere assunti a termine oltre il quale la
prescrizione   non   opera   piu',   proprio   perche'  lo  Stato  ha
concretamente  manifestato  la  volonta'  di  perseguire  e punire il
reato.
   Nel nostro ordinamento, invece, non soltanto il legislatore non ha
accolto una tale ragionevole impostazione, che peraltro avrebbe avuto
il  pregio  di  assecondare concretamente il principio di ragionevole
durata del processo (art. 111 Cost.), vanificando impugnazioni ovvero
strategie  dilatorie,  ma  ha fatto dipendere l'applicabilita' o meno
della  normativa  in  esame  da un atto processualmente assolutamente
«neutro»,  in  alcun  modo  espressione della volonta' punitiva dello
Stato.