Sentenza
nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 1 della legge 20
febbraio  2006,  n. 46  (Modifiche  al codice di procedura penale, in
materia  di  inappellabilita'  delle  sentenze  di  proscioglimento),
sostitutivo dell'art. 593 del codice di procedura penale, e dell'art.
10  della  stessa  legge,  promossi  con ordinanze del 26 aprile 2006
dalla  Corte  d'appello  di  Roma,  del  9  febbraio 2007 dalla Corte
d'appello  di  Bologna  e  del 30 marzo 2007 dalla Corte d'appello di
Bari,  rispettivamente  iscritte  ai  nn. 543, 668 e 742 del registro
ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
nn. 32, 39 e 44, 1ª serie speciale dell'anno 2007.
   Udito  nella  Camera  di consiglio del 13 febbraio 2008 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
                          Ritenuto in fatto
   1.  -  Con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d'appello di
Roma  ha  sollevato,  in  riferimento agli artt. 3, 24 e 111, secondo
comma,  della  Costituzione, questione di legittimita' costituzionale
dell'art.  1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice
di procedura penale, in materia di inappellabilita' delle sentenze di
proscioglimento),  nella  parte  in  cui,  sostituendo l'art. 593 del
codice  di  procedura  penale,  impedisce  all'imputato  di  proporre
appello contro la sentenza di non doversi procedere per prescrizione,
conseguente  al  riconoscimento  di  circostanze  attenuanti; nonche'
dell'art.  10  della  medesima  legge,  nella  parte in cui impone di
dichiarare  inammissibile  detto  appello, ove proposto anteriormente
alla data di entrata in vigore della legge stessa.
   La  Corte  rimettente  riferisce  di essere investita dell'appello
proposto  da  tre imputati contro la sentenza emessa dal Tribunale di
Frosinone il 2 marzo 2004, che aveva dichiarato non doversi procedere
nei  loro  confronti  in  ordine  ad  una  serie di reati (corruzione
aggravata   per   atti   contrari   ai   doveri  di  ufficio,  truffa
pluriaggravata  e  abuso  in  atti  d'ufficio), per essere i medesimi
estinti   per   prescrizione,   a  seguito  della  concessione  delle
attenuanti   generiche,   ritenute   prevalenti   sulle   circostanze
aggravanti contestate.
   Il   gravame   - prosegue  il  giudice  a  quo -  dovrebbe  essere
dichiarato  inammissibile  ai  sensi  degli  artt. 1 e 10 della legge
n. 46  del  2006,  non  essendo piu' previsto l'appello come mezzo di
impugnazione delle sentenze di proscioglimento.
   Il  rimettente dubita, tuttavia, della legittimita' costituzionale
di tale disciplina.
   E'  ben  vero  -  osserva  il giudice a quo - che il principio del
doppio    grado    di    giurisdizione    di   merito   non   risulta
costituzionalizzato:  tanto  che  si  e'  discussa  l'opportunita' di
abolire  l'appello,  sia  per  rendere piu' celere la definizione dei
processi,  che  per  eliminare  il contrasto tra un giudizio di primo
grado   improntato  all'oralita'  e  un  giudizio  di  secondo  grado
essenzialmente  «cartolare». Ma una volta che la legge n. 46 del 2006
continua    a    prevedere    l'istituto,    le   limitazioni   poste
all'esperibilita'   di   tale   mezzo   di   impugnazione   da  parte
dell'imputato  si  rivelerebbero  contrarie  tanto  al  principio  di
ragionevolezza,  in  correlazione  al  diritto  di  difesa; quanto al
principio di ragionevole durata del processo.
   L'esclusione  di  un secondo grado di merito, rispetto ai processi
conclusisi  in  primo  grado  con  una  declaratoria di prescrizione,
potrebbe  ritenersi,  difatti,  ragionevole  allorche' sia non vi sia
stato,  in  tali  processi, «un sostanziale giudizio di merito»: come
avverrebbe  nel  caso  di sentenza emessa ai sensi dell'art. 129 cod.
proc.  pen., con cui il giudice di prime cure si limita a delibare la
non  evidenza dell'insussistenza del fatto o dell'estraneita' ad esso
dell'imputato.
   Ben  diversa sarebbe, invece, l'ipotesi in cui - come nella specie
- si pervenga alla declaratoria di prescrizione del reato in esito ad
una  valutazione  di  merito,  che presuppone il riconoscimento della
colpevolezza dell'imputato: riconoscimento il quale non sfocia in una
pronuncia di condanna solo a seguito della concessione di attenuanti,
che  fanno rientrare il reato nell'ambito di applicazione della causa
estintiva.  In tale evenienza, negare all'imputato la possibilita' di
ottenere la modifica della decisione, tramite un secondo giudizio «in
fatto», costituirebbe soluzione irrazionale, ove si consideri che, in
base  alla  normativa vigente, l'imputato puo' proporre appello anche
solo  per ottenere la riduzione della pena della multa; ma non quando
-  come  nell'ipotesi  oggetto  del  giudizio  principale - sia stato
ritenuto, nella sostanza, un «corrotto».
   La  soluzione normativa censurata violerebbe, altresi', il diritto
di  difesa:  giacche'  se, da un lato, la sentenza dichiarativa della
prescrizione  non  costituisce,  in  senso  formale,  una condanna e,
pertanto,  non  puo' fare stato nei processi civili e amministrativi;
dall'altro lato, pero' - a prescindere dall'influenza che la sentenza
stessa  puo'  comunque dispiegare in detti processi - l'art. 24 Cost.
assicurerebbe  all'imputato  il  diritto  ad  esperire  tutti i mezzi
previsti  dall'ordinamento  (e  l'appello  lo  e'  ancora) al fine di
tutelare   la   propria   «immagine   morale»:   immagine  certamente
compromessa   da  una  pronuncia  di  prescrizione  quale  quella  in
discorso.
   Da  ultimo,  l'innovazione  introdotta  dalla legge n. 46 del 2006
gioverebbe  solo  apparentemente  alla  celerita'  del  processo.  In
realta', precludendo all'imputato la possibilita' di ottenere, con un
secondo  giudizio «di fatto», una assoluzione nel merito - e, quindi,
di   giovarsi   del  giudicato  favorevole  in  un  giudizio  civile,
amministrativo  o  disciplinare - la disciplina denunciata esporrebbe
l'imputato  stesso  «all'alea di tre gradi di giudizio in sede civile
e/o di altri due in sede di contenzioso amministrativo», in contrasto
col principio della ragionevole durata del processo.
   2.  -  Con  l'ulteriore  ordinanza  indicata in epigrafe, la Corte
d'appello  di  Bologna ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24
Cost.,  questione  di  legittimita' costituzionale degli artt. 1 e 10
della  legge  n. 46  del  2006,  nella parte in cui, rispettivamente,
escludono  che  l'imputato  possa  proporre  appello  contro sentenze
dichiarative  di  cause di non punibilita' che hanno come presupposto
un  accertamento  della  responsabilita'  penale;  e prevedono che un
simile  appello,  ove  proposto  anteriormente  all'entrata in vigore
della legge, debba essere dichiarato inammissibile.
   La  Corte  rimettente  riferisce  che,  con sentenza del 3 ottobre
2002,  il Tribunale di Ferrara aveva assolto due persone dal reato di
cui  all'art. 387 del codice penale (procurata evasione per colpa del
custode),  in  quanto  non  punibili ai sensi del secondo comma dello
stesso  articolo (in forza del quale «il colpevole non e' punibile se
nel  termine  di  tre  mesi  dalla  evasione procura la cattura della
persona  evasa  o  la presentazione di lei all'Autorita»). Avverso la
sentenza   avevano   proposto  appello  sia  il  pubblico  ministero,
chiedendo che la causa di non punibilita' fosse esclusa e, quindi, la
condanna  degli  imputati;  sia  questi  ultimi,  chiedendo di essere
assolti  per  non  avere  commesso  il  fatto, o perche' il fatto non
costituisce reato.
   Cio' premesso, il giudice a quo osserva come l'«esimente speciale»
di   cui  all'art.  387,  secondo  comma,  cod.  pen.,  da  un  lato,
presupponga  l'accertamento  che  il  preposto  alla  custodia  abbia
cagionato colposamente l'evasione di un detenuto; e, dall'altro lato,
non  costituisca  una  causa  di giustificazione, idonea ad escludere
l'antigiuridicita'   del   fatto,   ma  una  semplice  causa  di  non
punibilita',  prevista  per  evidenti  ragioni di politica criminale.
Tenuto   conto  anche  delle  possibili  conseguenze  amministrative,
contabili  o  disciplinari  della  sentenza  impugnata,  risulterebbe
dunque  evidente l'interesse degli imputati ad ottenere una pronuncia
assolutoria  che  escluda la commissione del fatto da parte loro o la
sussistenza della colpa.
   In  tale  ottica,  le disposizioni censurate - che imporrebbero di
dichiarare  inammissibili i gravami degli imputati - violerebbero gli
artt.  3  e 24 Cost., in quanto renderebbero insindacabile nel merito
una  sentenza  formalmente di non punibilita', ma che, in realta', ha
come  presupposto  un  accertamento  di  responsabilita'  penale; con
conseguente  compromissione  del  principio  di  ragionevolezza e del
diritto  di  difesa,  anche  nel  merito,  in  ogni stato e grado del
procedimento.
   3.  -  Con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d'appello di
Bari  ha  sollevato,  in  riferimento agli artt. 3, 24 e 111, secondo
comma,  Cost.,  questione  di legittimita' costituzionale dell'art. 1
della  legge  n. 46  del 2006, nella parte in cui, sostituendo l'art.
593 cod. proc. pen., esclude che l'imputato possa appellare contro le
sentenze  di proscioglimento, se non nelle ipotesi previste dall'art.
603,  comma  2,  del  medesimo codice, se la nuova prova e' decisiva;
nonche'  dell'art.  10,  comma  2, della citata legge n. 46 del 2006,
nella  parte  in  cui  prevede  che  l'appello proposto dall'imputato
contro  una sentenza di proscioglimento, prima dell'entrata in vigore
della medesima legge, sia dichiarato inammissibile.
   Il giudice a quo premette che, con sentenza del 14 aprile 2005, il
Tribunale  per  i  minorenni  di  Bari  aveva  dichiarato non doversi
procedere per perdono giudiziale nei confronti di un minore, imputato
dei  reati  di  minacce,  ingiurie,  lesioni e danneggiamento; e che,
contro  tale  sentenza,  il minore aveva proposto tempestivo appello,
onde ottenere un proscioglimento con formula piu' favorevole.
   Cio'  premesso, la Corte rimettente rileva che, ai sensi dell'art.
593  cod.  proc.  pen., come modificato dall'art. 1 della legge n. 46
del  2006,  l'imputato puo' appellare le sentenze di condanna, ma non
quelle  di  proscioglimento,  tra  le  quali  rientra  la sentenza di
concessione del perdono giudiziale.
   La  limitazione  del  potere  di  appello  dell'imputato alle sole
sentenze  di  condanna - prosegue il giudice a quo - si giustificava,
nell'originario  disegno  della novella del 2006, in quanto correlata
alla  quasi  totale soppressione del potere del pubblico ministero di
appellare contro le sentenze di proscioglimento. Tale giustificazione
sarebbe,  peraltro,  venuta meno per effetto della sentenza n. 26 del
2007,  con  la  quale  questa  Corte  ha  dichiarato l'illegittimita'
costituzionale  -  per  contrasto  con  il principio di parita' delle
parti -  tanto dell'art. 1 della legge n. 46 del 2006, nella parte in
cui  sottraeva  al  pubblico ministero il potere di appello contro le
sentenze  di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi di nuova
prova  decisiva;  quanto  dell'art.  10, comma 2, della stessa legge,
nella  parte  in cui prevedeva che l'appello precedentemente proposto
dal pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento dovesse
essere dichiarato inammissibile.
   Di   conseguenza,   alla   limitazione   del   potere  di  appello
dell'imputato   viene  attualmente  a  far  riscontro  un  potere  di
impugnazione  del  pubblico  ministero  intatto  rispetto  al sistema
anteriore:  con  evidente  vulnus  dei  principi di eguaglianza delle
parti -  in  generale e nel processo penale - sanciti dagli artt. 3 e
111, secondo comma, Cost.
   La  limitazione  in  questione  risulterebbe lesiva, altresi', del
diritto  di  difesa  (art. 24 Cost.), in quanto l'imputato prosciolto
con  formula  «non  soddisfacente»  potrebbe  far  valere  le proprie
ragioni solo in condizioni «nettamente deteriori» rispetto alla parte
pubblica. Una giustificazione razionale di tale trattamento deteriore
non  potrebbe  essere  rinvenuta  nella  natura  dei reati per cui si
procede,  giacche'  l'esclusione  della facolta' di appello contro le
sentenze di proscioglimento riguarda ogni tipo di reato; e neppure in
una     ipotetica    soddisfazione    «sostanziale»    dell'interesse
dell'imputato. Il proscioglimento con formule diverse da quelle della
insussistenza  e  della  mancata  commissione  del  fatto  -  oltre a
comprovare  un  «coinvolgimento»  nel  fatto  stesso,  che l'imputato
dovrebbe  avere  il  diritto  di  contestare in modo pieno - potrebbe
essere,    difatti,    valutato   (pur   senza   essere   vincolante)
nell'eventuale  giudizio civile per le restituzioni e il risarcimento
del  danno.  Cio'  risulterebbe  di  tutta  evidenza  nel  caso della
sentenza  che concede il perdono giudiziale, la quale implica un vero
e proprio accertamento di responsabilita'.
                       Considerato in diritto
   1.  -  La  Corte  d'appello  di  Roma  dubita  della  legittimita'
costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111, secondo comma,
della  Costituzione,  dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46
(Modifiche   al   codice   di   procedura   penale,   in  materia  di
inappellabilita'  delle  sentenze di proscioglimento), nella parte in
cui,  sostituendo  l'art.  593  del  codice  di procedura penale, non
consente  all'imputato  di proporre appello contro la sentenza di non
doversi  procedere per prescrizione, conseguente al riconoscimento di
circostanze attenuanti; nonche' dell'art. 10, comma 2, della medesima
legge,  nella  parte  in  cui prevede che detto appello, ove proposto
anteriormente  all'entrata in vigore della legge stessa, debba essere
dichiarato inammissibile.
   Il   giudice   a   quo  muove  dal  rilievo  che  la  sentenza  di
proscioglimento   per   prescrizione   del   reato   conseguente   al
riconoscimento  di circostanze attenuanti implica, nella sostanza, un
accertamento  di merito in ordine alla colpevolezza dell'imputato. E'
ben vero, d'altra parte - osserva il rimettente - che il doppio grado
di giurisdizione di merito non forma, di per se', oggetto di garanzia
costituzionale:  ma  una  volta  che  la  legge  vigente  continua  a
prevedere l'appello - consentendo all'imputato di proporlo anche solo
per   ottenere   la   riduzione  della  pena  della  multa  -  negare
all'imputato stesso la possibilita' di avvalersi di tale rimedio, per
contestare l'affermazione di responsabilita' insita nella sentenza in
questione,    costituirebbe    scelta   lesiva   del   principio   di
ragionevolezza.
   Sarebbe  vulnerato, altresi', il diritto di difesa: giacche' detta
sentenza  di proscioglimento - pur senza essere vincolante - potrebbe
influire sui giudizi civili e amministrativi, compromettendo, in ogni
caso, l'«immagine morale» del prosciolto.
   Le  disposizioni  censurate  violerebbero, da ultimo, il principio
della  ragionevole  durata  del processo, in quanto - non consentendo
all'imputato   di  ottenere,  con  un  secondo  giudizio  di  merito,
l'assoluzione  con  formula  ampiamente  liberatoria  e  di giovarsi,
quindi,   del   giudicato   favorevole   nei  giudizi  extrapenali  -
esporrebbero il prosciolto «all'alea di tre gradi di giudizio in sede
civile e/o di altri due in sede di contenzioso amministrativo».
   2.  -  I  citati  artt.  1  e  10  della legge n. 46 del 2006 sono
sottoposti  a  scrutinio  di  costituzionalita',  in riferimento agli
artt.  3  e  24  Cost., anche dalla Corte d'appello di Bologna, nella
parte   in  cui,  rispettivamente,  escludono  che  l'imputato  possa
appellare  le  sentenze  dichiarative di cause di non punibilita' che
hanno  come presupposto un accertamento della responsabilita' penale;
e prevedono che l'appello anteriormente proposto contro tali sentenze
vada dichiarato inammissibile.
   Investita dell'appello proposto da due imputati contro la sentenza
che  li aveva assolti dal reato di cui all'art. 387 del codice penale
(procurata evasione per colpa del custode), in quanto non punibili ai
sensi  del  secondo  comma dello stesso articolo, la Corte rimettente
osserva   come   l'«esimente   speciale»   prevista  da  quest'ultima
disposizione  presupponga l'accertamento del fatto contestato e della
sua  antigiuridicita',  limitandosi  ad escluderne la punibilita' per
ragioni  di  «politica  criminale»:  donde l'evidente interesse degli
imputati  -  a  fronte  delle  possibili  conseguenze amministrative,
contabili  o disciplinari del suddetto accertamento - ad ottenere una
pronuncia assolutoria con formula piu' ampia.
   Impedendo  di  impugnare con l'appello una sentenza formalmente di
non  punibilita',  ma  che,  in  realta', comporta un'affermazione di
responsabilita'  penale - col risultato di renderla incensurabile nel
merito  -  le  disposizioni  violerebbero,  di  conseguenza, tanto il
principio di ragionevolezza che il diritto di difesa.
   3.  -  La  Corte  d'appello  di  Bari  sottopone  a  scrutinio  di
costituzionalita',  in  riferimento  agli  artt. 3, 24 e 111, secondo
comma,  Cost.,  l'art.  1  della legge n. 46 del 2006, nella parte in
cui,  novellando  l'art.  593 cod. proc. pen., esclude che l'imputato
possa  appellare  contro le sentenze di proscioglimento, se non nelle
ipotesi  previste  dall'art.  603,  comma  2, cod. proc. pen., ove la
nuova  prova  risulti  decisiva; e l'art. 10, comma 2, della medesima
legge,  nella  parte  in cui prevede che sia dichiarato inammissibile
l'appello    proposto    dall'imputato   contro   una   sentenza   di
proscioglimento, prima dell'entrata in vigore della novella.
   La  Corte  rimettente  osserva  come  la limitazione del potere di
appello  dell'imputato  alle  sole  sentenze  di condanna, introdotta
dalla legge n. 46 del 2006, si giustificasse, nell'originario disegno
della  riforma,  in  quanto  correlata alla quasi totale soppressione
dell'appello   del   pubblico   ministero   contro   le  sentenze  di
proscioglimento.  Venuta  meno,  tuttavia, quest'ultima - per effetto
della  declaratoria di incostituzionalita' di cui alla sentenza n. 26
del  2007 di questa Corte - alla perdurante limitazione del potere di
appello  dell'imputato  si  contrappone,  attualmente,  un  potere di
appello   della  parte  pubblica  intatto  rispetto  alla  disciplina
anteriore:  donde  un  evidente  vulnus  del principio di eguaglianza
delle parti - in generale e nel processo penale - sancito dagli artt.
3 e 111, secondo comma, Cost.
   Risulterebbe  leso,  correlativamente, anche il diritto di difesa,
giacche'  il  proscioglimento  con  formule  diverse  da quelle della
insussistenza  e della mancata commissione del fatto comproverebbe un
«coinvolgimento»  nel  fatto  stesso,  che  l'imputato dovrebbe poter
contestare  in  modo  pieno: e cio' anche a fronte della possibilita'
che  la pronuncia penale venga valutata - pur senza essere vincolante
-   nell'eventuale   giudizio   civile   per  le  restituzioni  e  il
risarcimento  del  danno.  La  validita'  dell'assunto  risulterebbe,
d'altro  canto,  di  particolare  evidenza nell'ipotesi - oggetto del
giudizio   a   quo  -  di  proscioglimento  per  perdono  giudiziale,
trattandosi  di  pronuncia  che  implica una sostanziale affermazione
della colpevolezza dell'imputato.
   4.  - Le  ordinanze  di  rimessione  sollevano  questioni analoghe
relative  alle  medesime norme, onde i relativi giudizi vanno riuniti
per essere definiti con unica decisione.
   5.  -  La questione e' fondata, nei sensi e nei termini di seguito
indicati.
   5.1.  -  La  legge  n. 46 del 2006 - ispirata, secondo le univoche
risultanze dei lavori parlamentari, al precipuo intento di sopprimere
l'appello    del   pubblico   ministero   contro   le   sentenze   di
proscioglimento - ha inciso, in modo parallelo, anche sullo speculare
potere dell'imputato.
   In  base  al  nuovo  testo  dell'art.  593  cod.  proc. pen., come
riscritto  dall'art.  1  della  novella,  l'imputato  e  il  pubblico
ministero  possono  appellare  incondizionatamente  -  come  gia'  in
precedenza  -  le sentenze di condanna (comma 1), fatta eccezione per
quelle  che abbiano applicato la sola pena dell'ammenda (comma 3). Di
contro  -  ed  in  cio'  risiede il novum della riforma - la norma in
questione,  prima  dell'intervento  di  questa  Corte con la sentenza
n. 26   del   2007,   consentiva  tanto  al  pubblico  ministero  che
all'imputato  di  appellare  le  sentenze  di proscioglimento solo in
un'ipotesi  del tutto marginale sul piano pratico, cioe' quella della
sopravvenienza  o  della  scoperta  di  nuove  prove decisive dopo il
giudizio di primo grado (in sostanza, nel corso del breve termine per
appellare).
   Al  di sotto della formale equiparazione delle parti, tale assetto
racchiudeva - avuto riguardo alle pretese sostanziali di cui le parti
stesse  sono  portatrici  - due  asimmetrie di segno contrapposto. Di
fronte  ad  una  pronuncia  di  primo  grado  totalmente sfavorevole,
l'asimmetria  era  a  svantaggio del pubblico ministero; quest'ultimo
non poteva appellare la sentenza che avesse disatteso per integrum la
pretesa  punitiva  fatta  valere  con  l'azione  intrapresa;  invece,
l'imputato  era  (ed e) ammesso a censurare con l'appello la sentenza
che   abbia   completamente  disatteso  la  propria  affermazione  di
innocenza.  Per  contro,  con riferimento all'ipotesi della decisione
solo parzialmente sfavorevole, le posizioni risultavano - e risultano
- invertite:  il  pubblico  ministero  e'  abilitato  ad appellare la
sentenza  di  condanna  che  abbia  accolto  solo in parte le proprie
richieste;  l'imputato,  invece,  non  fruisce dell'omologo potere in
rapporto   alla   sentenza   di   proscioglimento  non  integralmente
satisfattiva.
   In  effetti,  la categoria delle sentenze di proscioglimento - che
la  riforma assoggetta ad un regime uniforme, quanto alla sottrazione
all'appello  dell'imputato  -  non  costituisce un genus unitario, ma
abbraccia  ipotesi  marcatamente  eterogenee,  quanto  all'attitudine
lesiva degli interessi morali e giuridici del prosciolto. A fianco di
decisioni  ampiamente liberatorie - quelle pronunciate con le formule
«il  fatto  non  sussiste»  e l'«imputato non lo ha commesso» - detta
categoria  comprende,  difatti,  sentenze che, pur non applicando una
pena,  comportano  -  in  diverse forme e gradazioni - un sostanziale
riconoscimento   della  responsabilita'  dell'imputato  o,  comunque,
l'attribuzione  del  fatto  all'imputato  medesimo. Paradigmatiche le
fattispecie oggetto dei giudizi a quibus: dichiarazione di estinzione
del  reato  per  prescrizione  (nel  regime  anteriore  alla  legge 5
dicembre  2005, n. 251), conseguente al riconoscimento di circostanze
attenuanti;  proscioglimento  per  cause  di non punibilita' legate a
condotte  o  accadimenti post factum; proscioglimento per concessione
del  perdono  giudiziale;  quest'ultimo, in particolare, si traduce -
per  communis  opinio  -  in  una  vera  e  propria  affermazione  di
colpevolezza,  non  seguita dall'irrogazione della pena (peraltro con
effetti preclusivi della reiterazione del beneficio: art. 169, quarto
comma, cod. pen.).
   Come   evidenziato   da  questa  Corte  in  numerose  decisioni  -
concernenti  le  disposizioni del codice di procedura penale del 1930
che   ponevano   ampi  limiti  all'appello  dell'imputato  contro  il
proscioglimento, sia dibattimentale (artt. 512 e 513) che istruttorio
(artt.  387,  395  e 399) - sentenze come quelle dianzi indicate sono
idonee  ad  arrecare  all'imputato  significativi  pregiudizi, sia di
ordine  morale  che di ordine giuridico (si vedano, con riguardo alle
sentenze   di   proscioglimento   per   estinzione   del   reato  che
presuppongano  un  sostanziale  riconoscimento  di  colpevolezza,  le
sentenze  n. 249  del  1989, n. 922 del 1988, n. 299 del 1985, n. 224
del  1983, n. 53 del 1981, n. 72 del 1979, n. 73 del 1978 e n. 70 del
1975;  con  riferimento  al  proscioglimento  perche'  il  fatto  non
costituisce  reato,  la  sentenza  n. 200  del  1986; con riguardo al
proscioglimento  per difetto di imputabilita', la sentenza n. 140 del
1989).
   Il  pregiudizio  di  ordine morale puo' risultare, in taluni casi,
persino  superiore  a  quello  derivante da una sentenza di condanna:
basti pensare al proscioglimento per totale infermita' di mente o per
cronica  intossicazione  da  alcool o da sostanze stupefacenti, anche
quando  non  venga applicata una misura di sicurezza (al riguardo, si
veda la sentenza n. 151 del 1967).
   I  pregiudizi  di  ordine giuridico si connettono a loro volta, in
via generale, alla possibilita' che l'accertamento di responsabilita'
o comunque di attribuibilita' del fatto all'imputato, contenuto nelle
sentenze  in questione - ancorche' privo di effetti vincolanti - pesi
comunque  in  senso  negativo  su  giudizi  civili,  amministrativi o
disciplinari   connessi  al  medesimo  fatto.  Talora,  peraltro,  il
nocumento  giuridico puo' discendere dalla pronuncia in modo diretto,
come  nel  caso  della sentenza di proscioglimento per estinzione del
reato, che disponga la confisca di beni dell'imputato (eventualmente,
di  rilevante  valore).  Rispetto a tale misura di sicurezza - per il
disposto  dell'art.  579,  comma  3, cod. proc. pen. - si ritiene non
possa  venire comunque in rilievo la clausola di salvezza degli artt.
579  e  680,  contenuta  nell'art.  593,  comma  1,  cod. proc. pen.:
clausola  da  cui un indirizzo interpretativo (peraltro non pacifico)
desume  che  l'imputato avrebbe conservato, anche dopo la riforma, il
potere   di   appellare   quantomeno   il   capo  della  sentenza  di
proscioglimento relativo all'applicazione di misure di sicurezza.
   5.2.  -  Con  la  sentenza  n. 26 del 2007 questa Corte ha rimosso
l'asimmetria  introdotta  dalla  legge  n. 46  del 2006, a svantaggio
della  parte  pubblica,  in  punto  di  impugnazione  delle decisioni
totalmente sfavorevoli. Essa, infatti, ha dichiarato l'illegittimita'
costituzionale,  per  contrasto con l'art. 111, secondo comma, Cost.,
dell'art.  1  di  detta legge, nella parte in cui, sostituendo l'art.
593  cod.  proc.  pen.,  esclude  che  il  pubblico  ministero  possa
appellare  contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per
l'ipotesi di novum probatorio; nonche' della disposizione transitoria
di cui all'art. 10 della legge stessa, nella parte in cui prevede che
l'appello  anteriormente  proposto  dal pubblico ministero contro una
sentenza di proscioglimento, e' dichiarato inammissibile.
   Nell'occasione - a fianco dei rilievi che hanno indotto a ritenere
incompatibili  con  il principio di parita' delle parti le previsioni
censurate;  e  pur ribadendo che il doppio grado di giurisdizione non
forma  oggetto  di  autonoma  garanzia  costituzionale - la Corte, ha
osservato  come  «l'inappellabilita'  - sancita per entrambe le parti
- delle  sentenze  di  proscioglimento»  si  prestasse «a sacrificare
anche    l'interesse   dell'imputato,   segnatamente   allorche'   il
proscioglimento  presupponga  un  accertamento  di  responsabilita' o
implichi  effetti  sfavorevoli».  Profilo,  questo, atto ad originare
ulteriori   dubbi   di   costituzionalita',  in  quell'occasione  non
sottoposti, peraltro, alla Corte stessa.
   5.3.  -  Nell'odierno  frangente,  in  cui  proprio il tema dianzi
indicato forma oggetto di scrutinio, non v'e' dubbio che - al fine di
assicurare  il  pieno rispetto dei parametri costituzionali evocati -
la  limitazione  dei  poteri  di  appello  dell'imputato  avverso  le
sentenze  di  proscioglimento, sancita dal comma 2 del novellato art.
593  cod.  proc. pen., debba essere anch'essa rimossa: e debba essere
rimossa  -  salvo  quanto si osservera' poco oltre - nei termini ampi
richiesti  dalla Corte d'appello di Bari, con assorbimento dei petita
piu'   ristretti   formulati  dagli  altri  due  giudici  rimettenti,
calibrati sulle ipotesi di specie.
   Come  gia'  osservato in precedenza, difatti, la norma censurata -
accomunando  nel  medesimo  regime  situazioni  tra  loro  fortemente
eterogenee - nega all'imputato, salvo il novum probatorio, un secondo
grado  di  giurisdizione  di  merito  nei confronti delle sentenze di
proscioglimento,  anche  quando  le stesse comportino una sostanziale
affermazione  di  responsabilita' o attribuiscano, comunque, il fatto
al  prosciolto,  cosi'  da  rendere  configurabile  un  suo interesse
all'impugnazione;  e cio' pur a fronte del riconoscimento al pubblico
ministero  della  facolta'  di  dolersi  nel merito della sentenza di
condanna,  la  quale  abbia  solo  parzialmente recepito le richieste
dell'accusa.
   A  cio'  viene  ad aggiungersi che, per effetto dell'intervento di
riequilibrio  operato  dalla  sentenza  n. 26  del  2007 con riguardo
all'ipotesi   delle  sentenze  totalmente  sfavorevoli,  il  pubblico
ministero si trova, allo stato, a poter appellare incondizionatamente
la sentenza di primo grado - diversamente dall'imputato - in rapporto
ad entrambi gli esiti (proscioglimento e condanna).
   Giova osservare ancora, sotto altro profilo, che - alla luce di un
orientamento  giurisprudenziale  che  appare  ormai consolidato, dopo
l'intervento  delle sezioni unite della Corte di cassazione sul punto
-  la  legge  n. 46  del 2006 non ha inciso, in senso limitativo, sul
potere   di   appello  della  parte  civile  contro  le  sentenze  di
proscioglimento  (al  riguardo,  si  veda anche l'ordinanza n. 32 del
2007  di  questa Corte). Ne consegue che anche rispetto a detta parte
si  riscontra  un'analoga sperequazione, poiche' la parte civile puo'
appellare,   a   differenza   dell'imputato,   tanto   la   pronuncia
assolutoria, quanto - ove vi abbia interesse - quella di condanna.
   Tale  assetto  -  palesemente asimmetrico - risulta lesivo sia del
principio di parita' delle parti (art. 111, secondo comma, Cost.), in
quanto  non  appare  sorretto -  per  quanto  attiene ai rapporti tra
imputato  e  parte  pubblica  -  da alcuna razionale giustificazione,
correlata al ruolo istituzionale del pubblico ministero o ad esigenze
di  corretta  e  funzionale  esplicazione  della  giustizia;  sia dei
principi  di  eguaglianza  e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), stante
l'evidenziata  equiparazione  di  esiti  decisori tra loro ampiamente
diversificati  -  quali quelli ricompresi nel genus delle sentenze di
proscioglimento  -  nel  medesimo regime di inappellabilita' da parte
dell'imputato.  Il  medesimo  assetto  si  pone  correlativamente  in
contrasto  con  il  diritto  di  difesa  (art. 24 Cost.), al quale la
facolta' di appello dell'imputato risulta collegata come strumento di
esercizio  (si  vedano,  in  quest'ultimo  senso, oltre alla sentenza
n. 26  del  2007,  la  sentenza  n. 98  del 1994 e le sentenze, sopra
citate, relative alle disposizioni del codice di rito abrogato).
   La  residua  censura  della  Corte  d'appello  di  Roma,  relativa
all'asserita  violazione  del  principio  di  ragionevole  durata del
processo, resta assorbita.
   6.  -  Dalla  declaratoria  di illegittimita' costituzionale vanno
escluse,   peraltro,   le  sentenze  di  proscioglimento  relative  a
contravvenzioni  per  le  quali potrebbe essere inflitta la sola pena
dell'ammenda.
   Al  riguardo, va infatti rilevato come - nel ripristinare, dopo il
rinvio della legge alle Camere da parte del Capo dello Stato, una sia
pur    limitata   possibilita'   di   appello   delle   sentenze   di
proscioglimento   (quella   legata   alle   nuove   prove  decisive):
possibilita' che il testo originariamente approvato non contemplava -
il   legislatore   della   legge  n. 46  del  2006  abbia  omesso  di
reintrodurre  la  previsione  di cui al previgente art. 593, comma 3,
seconda  parte,  cod.  proc.  pen.,  che  dichiarava inappellabili le
sentenze  di proscioglimento relative a contravvenzioni punite con la
sola  pena  dell'ammenda o con pena alternativa. E cio' quantunque il
nuovo  art.  593,  comma  3,  cod.  proc.  pen.  continui a prevedere
l'inappellabilita'    delle   sentenze   di   condanna   relative   a
contravvenzioni  per  le  quali  e'  stata  applicata  la  sola  pena
dell'ammenda.
   Un   simile   regime   potrebbe   avere   -   teoricamente  -  una
giustificazione  ove  si  guardi  al solo pubblico ministero, dal cui
punto   di   vista   il  proscioglimento  e'  un  esito  maggiormente
sfavorevole  rispetto  alla  condanna  non  congrua; ma non - per una
ragione   opposta  -  in  relazione  all'imputato.  Appare,  infatti,
palesemente  irrazionale che quest'ultimo sia ammesso ad appellare la
sentenza  che  l'abbia prosciolto da una contravvenzione punibile con
la  sola  ammenda  (ancorche' senza un pieno riconoscimento della sua
innocenza),  quando invece gli e' precluso in radice l'appello contro
la    sentenza   che,   dichiarandone   la   responsabilita',   abbia
concretamente irrogato detta pena.
   Occorre,  dunque,  evitare  che  la  rimozione,  con  la  presente
sentenza,   della   condizione  posta  dalla  legge  n. 46  del  2006
all'appellabilita'   delle   sentenze  di  proscioglimento  da  parte
dell'imputato,   legata   alle   nuove  prove  decisive,  generalizzi
l'anzidetta  incongruenza  (circoscritta, attualmente, ad una ipotesi
del tutto marginale, come appunto quella delle nuove prove decisive).
A  tal  fine  la declaratoria di incostituzionalita' va limitata alle
sentenze   di   proscioglimento   relative   a  reati  diversi  dalle
contravvenzioni  per  le quali potrebbe essere inflitta, in concreto,
la  sola  pena  dell'ammenda (ossia dalle contravvenzioni punite solo
con detta pena o con pena alternativa).
   Tale  soluzione  appare  maggiormente aderente alle linee generali
del   sistema  rispetto  all'altra  -  in  astratto  alternativamente
ipotizzabile  - di rimuovere, tramite lo strumento della declaratoria
di incostituzionalita' in via conseguenziale, la previsione del comma
3   dell'art.  593  cod.  proc.  pen.,  consentendo  all'imputato  di
appellare  anche  contro  le  sentenze  di  condanna  alla  sola pena
dell'ammenda;   questa   seconda   soluzione   assumerebbe  carattere
marcatamente  «creativo»,  determinando  un  risultato - la caduta di
ogni  limite oggettivo all'appello - privo di riscontro nel pregresso
assetto dell'istituto ed estraneo alla stessa voluntas legis. Si deve
escludere,  infatti,  che  - al  di  la' del difetto di coordinamento
normativo  dianzi  evidenziato - il legislatore della legge n. 46 del
2006 intendesse innovare il regime anteriore, quanto alla sottrazione
all'appello  delle  sentenze  relative alle contravvenzioni di minore
gravita'.  Militano  in  tal  senso  sia  il  mantenimento del limite
oggettivo  all'appellabilita'  delle  sentenze di condanna, di cui al
comma  3 dell'art. 593 cod. proc. pen.; sia il carattere, come detto,
del  tutto marginale dell'ipotesi di appellabilita' delle sentenze di
proscioglimento  introdotta dopo il rinvio della legge alle Camere da
parte  del Capo dello Stato; sia, infine, la circostanza che la legge
n. 46  del  2006 aveva come obiettivo generale il contenimento, e non
gia' l'ampliamento, dell'area dell'appellabilita'.
   7.  - L'art. 1 della legge n. 46 del 2006 va dichiarato, pertanto,
costituzionalmente illegittimo nella parte in cui, sostituendo l'art.
593 cod. proc. pen., esclude che l'imputato possa appellare contro le
sentenze   di   proscioglimento   relative   a  reati  diversi  dalle
contravvenzioni  punite  con  la sola ammenda o con pena alternativa,
fatta  eccezione  per le ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, del
medesimo codice, se la nuova prova e' decisiva.
   Correlativamente,  va  dichiarata  l'illegittimita' costituzionale
anche dell'art. 10, comma 2, della citata legge n. 46 del 2006, nella
parte  in  cui  prevede  che l'appello proposto prima dell'entrata in
vigore della medesima legge dall'imputato, a norma dell'art. 593 cod.
proc.  pen., contro una sentenza di proscioglimento, relativa a reato
diverso  dalle  contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena
alternativa, sia dichiarato inammissibile.
   La  Corte  -  non potendo applicare l'art. 27 della legge 11 marzo
1953,  n. 87,  per  la  non  omogeneita'  delle fattispecie - segnala
tuttavia al legislatore l'opportunita' di eliminare la dissimetria di
poteri   tra   pubblico   ministero   e  imputato,  a  svantaggio  di
quest'ultimo,   escludendo   l'appellabilita',  anche  da  parte  del
pubblico  ministero,  delle  sentenze  di  proscioglimento relative a
contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa.