IL TRIBUNALE Ha pronunciato il seguente decreto. Il tribunale, letti gli atti, vista la nota del curatore in data 12 dicembre 2007, sentita la relazione del g.d. al fallimento 51 s.a.s., osserva quanto segue. In data 6 dicembre 2007 il g.d. del fallimento 51 s.a.s., ricevuta l'informativa ex art. 35 l.f.. con la quale la dott.ssa Paola Palagi, curatrice del fallimento 51, comunicava l'imminente perfezionamento, a seguito di autorizzazione del comitato dei creditori, di atto di transazione e vendita a trattativa privata della quota di un quarto della proprieta' dei terreni caduti nel fallimento del socio accomandatario per un prezzo corrispondente al valore di stima, avendo rilevato che non risultava effettuata alcuna pubblicita' in ordine alla vendita in oggetto per cui non era dato sapere se il mercato era in grado di esprimere offerte piu' convenienti per la massa dei creditori, ritenuto che in tale situazione la vendita a trattativa privata, nei termini indicati dal curatore, sia pure in presenza dell'autorizzazione del comitato dei creditori, non solo avrebbe potuto essere viziata sotto un profilo di merito in quanto eventualmente inidonea a realizzare il massimo interesse economico dell'intero ceto creditorio, ma anche affetta da un profilo di illegittimita' per contrasto con la norma di cui all'art. 107, comma 1 l.f. che, pur nella liberta' delle forme, vincola la curatela alla adozione di «procedure competitive», dirette ad assicurare con «adeguate forme di pubblicita» la massima informazione e partecipazione degli eventuali interessati, riferiva immediatamente quanto sopra al Collegio. Il tribunale, in tal modo informato dal g.d., emetteva in pari data decreto col quale, ritenuti a seguito di esame sommario non infondati i rilievi del g.d., in via di urgenza, disponeva che il curatore del fallimento 51 s.a.s., allo stato e provvisoriamente, non desse corso al perfezionamento degli atti di transazione e vendita a trattativa privata nei modi e nei termini di cui alla informativa ex art. 35, comma 2, in data 6 dicembre 2007, fissava la Camera di consiglio del 12 dicembre 2007 ore 10 per gli ulteriori provvedimenti del caso, con facolta' del curatore e del comitato dei creditori di comparire ovvero di far pervenire proprie memorie. Tanto premesso in fatto, ritiene il Collegio di dovere preliminarmente inquadrare giuridicamente il presente procedimento, attivato dalla iniziativa del g.d., al fine di affermarne la legittimita' e doverosita', in base all'attuale sistema delineato dalla riforma della legge fallimentare (d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5). Il novellato art. 41 l.f. configura in linea generale il potere di autorizzare gli atti del curatore in capo al comitato dei creditori (comma 1), con identico potere al g.d. solo in ipotesi residuale (comma 4). L'art. 35, nella sua attuale formulazione, costituisce pregnante applicazione di tale principio. Al g.d., fuori della ipotesi di cui al comma 4 dell'art. 41, resta un limitato potere autorizzatorio, che si consuma quasi per intero nella fase che potrebbe definirsi statica della procedura ovvero in sede di approvazione del programma di liquidazione (art. 104-ter) posto che l'approvazione tiene luogo delle singole autorizzazioni (art. 104-ter, comma 4, seconda parte). Per altro, la riformulazione della norma alla luce del decreto correttivo n. 169/2007, quale che ne sara' la non agevole lettura, riduce vieppiu' il potere autorizzatorio del g.d.. Cosi' stando le cose, diviene scottante la questione del controllo sugli atti del curatore autorizzati da parte del comitato dei creditori. L'art. 25 l.f. individua i poteri del g.d. nell'esercizio della vigilanza e del controllo sulla regolarita' della procedura, di cui deve assicurare il «corretto e sollecito svolgimento» (comma 1, n. 3). Se appare legittimo ritenere che la funzione di vigilanza trovi quale tipico, ma non unico, momento di attuazione proprio nella facolta' di convocazione (comma 1, n. 3), la norma non dice (ne' altre ve ne sono che dicano) in quale modo si attua il potere di controllo in presenza di atti illegittimi ovvero formalmente legittimi, ma nella sostanza tali da apparire contraddittori con gli interessi della generalita' dei creditori. Un atto che si dimostri tale si pone come antitetico allo svolgimento regolare e corretto della procedura, costituisce una violazione della legge e dei principi che regolano il fallimento, finalisticamente diretto a conseguire il massimo interesse economico per la massa dei creditori, nel rispetto delle ragioni del fallito. Si pensi al caso in cui il g.d. venga informato, ex art. 35, comma 2, della prossima instaurazione di un'azione di responsabilita' promossa dal nuovo curatore ex art. 38, comma 2, autorizzato dal comitato dei creditori, e si avveda che un tale giudizio non e' supportato da valide ragioni giuridiche a sostegno ovvero che e' del tutto contraddittorio con gli interessi dei creditori, anche solo per la acclarata inesistenza di un patrimonio del curatore sostituito, aggredibile in sede esecutiva (in ipotesi estrema potrebbe in precedenza lo stesso g.d. avere negato l'autorizzazione all'azione di poi richiesta ed ottenuta dal comitato dei creditori, posto che la non felicissima formulazione della norma nemmeno sembra escludere una tale evenienza). Si pensi al caso di una transazione in una complessa causa per responsabilita' contro amministratori e sindaci che, come di norma accade in questi casi, presuppone anche un giudizio di fondatezza giuridica (possibilita' o meno di un esito positivo e limiti dello stesso), sicche' la decisione, rimessa ad organi (curatore e comitato dei creditori) non istituzionalmente dotati di preparazione giuridica (salvo il raro di curatore scelto fra gli avvocati), potrebbe oggettivamente apparire censurabile. Non diverso e' il caso in cui, come nella fattispecie, si tratti di vendita di beni a trattativa privata in relazione alla quale il g.d. ipotizzi una possibile violazione di norme procedimentali e/o una possibile lesione dell'interesse della generalita' dei creditori. La riforma del diritto fallimentare prevede la possibilita' di attivare controlli nei confronti dei decreti del g.d. e del tribunale (art. 26) cosi' come nei confronti di atti del curatore o del comitato dei creditori (art. 36), ma e' omissiva rispetto ai modi attraverso i quali il g.d. possa autonomamente esercitare quel potere di controllo che pure l'art. 25 gli attribuisce quale tipico contenuto della sua funzione. La completa assenza di una norma di riferimento non consente all'interprete di colmare la lacuna, se nel potere di controllo si ritiene (come pare corretto al tribunale) di ricomprendere anche quello di inibire l'atto ritenuto, in senso lato, irregolare (che' altrimenti i confini fra vigilanza e controllo diverrebbero evanescenti), cosi' come avviene allorche' la funzione di controllo sia attuata attraverso l'iniziativa di terzi (art. 36). Tale conclusione, tuttavia, non comporta come necessaria l'irragionevole conclusione della totale impotenza del g.d. rispetto al compimento di un atto contraddittorio col regolare e corretto svolgimento della procedura, perche' altrimenti ne risulterebbe vanificata, insieme alla funzione di controllo, altresi' quella di vigilanza (da esercitarsi su «tutte» le operazioni della procedura ex art. 31 l.f.), col che diverrebbe pleonastica la stessa presenza del giudice delegato nell'ambito della procedura fallimentare. Ora, che cosi' non sia, puo' desumersi dalla stessa norma di cui all'art. 35, comma 2 l.f., che quantomeno per gli atti di straordinaria amministrazione aventi apprezzabile rilievo economico (e sempre per le transazioni) impone la previa informazione al g.d., configurando un istituto che non puo' che essere finalizzato a consentire l'esercizio della funzione di vigilanza e, se del caso, ad attivare in termini concreti la funzione di controllo (seppure a non esercitarla direttamente). Che si tratti di una mera informativa di aggiornamento e' da escludere, sia perche' se cosi' fosse ben potrebbe essere successiva al compimento dell'atto (e allora essere data, come per i restanti atti di straordinaria amministrazione di minore rilievo, attraverso i rapporti riepilogativi di cui all'art. 33), sia perche' l'informazione non e' prevista in caso in cui l'atto sia contenuto nel programma di liquidazione e, dunque, gia' autorizzato dal g.d. tramite l'approvazione del programma stesso ovvero autorizzato tout court in base all'art. 104-ter nel testo riformato dal decreto correttivo n. 169/2007. In definitiva, il discrimine fra necessita' o meno della informazione sta, sia nel sistema antecedente che in quello successivo al 1° gennaio 2008, nella intervenuta o meno autorizzazione da parte del g.d. dell'atto di straordinaria amministrazione. L'interpretazione sistematica induce allora a ritenere che, pur nell'ottica del legislatore delegato, l'atto di straordinaria amministrazione non possa comunque prescindere da un vaglio di legittimita', merito e opportunita' (id est: convenienza) da parte del g.d. ovvero da un vaglio da effettuarsi alla luce di tutti i criteri selettivi che devono ragionevolmente essere presenti in sede di approvazione del programma. E' da notare che l'imminente modifica della norma impone al curatore proprio di motivare la convenienza della sua proposta, sicche' anche la convenienza e' destinata a diventare ex lege uno degli aspetti da sottoporre a vigilanza e controllo. Del resto, sarebbe poco ragionevole se il medesimo atto dovesse essere oggetto di un vaglio ontologicamente diverso a seconda che sia o meno inserito nel programma di liquidazione (o in un suo eventuale supplemento). E' poi il caso di osservare che, se la norma impone che l'informazione sia «previa», tuttavia non chiarisce rispetto a quale momento debba esserlo: prima del perfezionamento dell'atto o prima della richiesta di autorizzazione al comitato dei creditori. Tale ultima soluzione sembra al Collegio preferibile proprio stante l'assenza di un preciso ancoraggio della comunicazione ad un momento temporalmente individuato, sicche' pare legittimo affermare che la stessa procedura autorizzatoria debba essere successiva alla «previa» informazione al g.d. da parte del curatore, anche per evitare che nelle more della valutazione da parte del giudice si verifichi il perfezionamento dell'atto, col che risulterebbe vanificato lo scopo stesso della informativa. Se cosi' e', ne esce vieppiu' rafforzata la conclusione che il procedimento necessario al perfezionamento dell'atto di straordinaria amministrazione abbia quale momento imprescindibile lo scrutinio con esito positivo da parte del g.d., in quanto, in caso di esito negativo dello scrutinio stesso, non si tratterebbe nemmeno di vanificare una gia' concessa autorizzazione del comitato dei creditori, ma piu' semplicemente di evitare che la proposta (cosi' qualificata dal decreto correttivo) del curatore venga portata alla autorizzazione del comitato stesso. Come che sia, resta che nel sistema fallimentare riformato in casi siffatti il g.d., ove all'esito dell'esercizio del potere di vigilanza ritenga doveroso, per il rispetto di norme procedimentali e/o per la tutela degli interessi della generalita' dei creditori, che un determinato atto non venga perfezionato non dispone di uno strumento analogo a quello del diniego di approvazione/autorizzazione previsto per il caso in cui quello stesso atto sia contenuto nel programma di liquidazione ovvero in un suo supplemento (e in cio' sta, a parere del tribunale, una palese antinomia del sistema). Tuttavia, se nel sistema attuale la funzione di controllo, pur attribuita al g.d. dall'art. 25 l.f., non puo' per assenza di norma di riferimento trovare autonoma e diretta attuazione, puo' indirettamente trovarla attraverso la procedura prevista dall'art. 25, comma 1, n. 1, ovvero chiamando in causa un organo diverso (il che e' proprio quanto avvenuto nella fattispecie). A tale norma appare funzionalmente collegata quella dell'art. 35, comma 2, e attraverso tale collegamento, ad opinione di questo Collegio, si rende ragione dell'istituto della previa informazione al g.d.. Il combinato disposto di tali norme induce a ritenere che il Collegio, in tal modo investito, abbia il potere di accertare con ampi poteri la legittimita' formale e sostanziale (ovvero la rispondenza agli interessi generali sottesi alla procedura fallimentare) dell'atto di straordinaria amministrazione, rispetto al quale il curatore si appresti a richiedere, oppure abbia gia' ottenuto, l'autorizzazione del comitato dei creditori. Tale conclusione, induttivamente raggiunta, trova conferma da quanto puo' desumersi dalla norma di cui all'art. 23 l.f. sulle attribuzioni del Collegio. Oggi come in passato la norma sancisce che il tribunale «e' investito della intera procedura» e se in passato questa attribuzione poteva essere letta quasi come un atto di formale omaggio al Collegio (i cui poteri erano in buona sostanza e per intero trasmessi al giudice delegato, non a caso qualificato tale) oggi, alla luce della riforma del diritto fallimentare (e delle sue lacune), e' necessario riempirla di contenuti significativi. Il tribunale appare ancora come organo apicale della procedura essendo l'unico ad esserne investito nella sua interezza, ad esso e' riconosciuto un potere generale di convocazione insieme a quello di revoca e sostituzione degli altri organi. Spetta al tribunale la decisione delle controversie relative alla procedura, espressione di assoluta genericita', che come tale sembra alludere a qualsivoglia forma di conflitto e, dunque, anche a quello che eventualmente si determini fra altri organi della procedura in relazione al compimento di un determinato atto. Appare ragionevole la conclusione che il tribunale, quale organo apicale, debba riassumere in se' tutti i poteri degli organi subordinati, possa di ufficio, o quantomeno a seguito della relazione del g.d. ex art. 25, comma 1, n. 1, emettere i provvedimenti necessari (nel caso di specie confermatori o inibitori della iniziativa del curatore) per garantire il regolare svolgimento della procedura, della quale e' per interezza «investito». Si tratta, in altri termini, di una situazione in qualche modo simmetrica a quella in cui il tribunale viene a trovarsi a seguito dei reclami ex artt. 26 e 36 l.f., solo che qui si tratta di un intervento officioso seppure determinato dalla iniziativa assunta dal g.d. ex art. 25, comma 1, n. 1. Per questa via, da un canto il sistema della vigilanza e del controllo sulla procedura assume un accettabile grado di effettivita', dall'altro si attribuisce contenuto e senso alla regola della «previa» informazione al g.d. ex art. 35, comma 2, altrimenti priva di significato. In teoria, a questo punto nulla osterebbe a che il Collegio entrasse nel merito della questione riferita dal g.d. in ordine alla informativa 6 dicembre 2007 effettuata ex art. 35 l.f. da parte del curatore del fallimento 51 s.a.s.. Tanto pero' presuppone a monte che il sistema autorizzatorio delineato dagli artt. 41 e 35 l.f. sia costituzionalmente legittimo o, in via subordinata, che sia tale l'esclusione di un autonomo potere di intervento da parte del g.d., posto che il potere di intervento, in qualche modo sostitutivo, del Collegio viene qui configurato solo in via residuale e di necessaria razionalizzazione del sistema. La questione di legittimita' costituzionale appare, dunque, rilevante e pregiudiziale ai fini del decidere. La questione deve porsi innanzitutto in riferimento all'art. 76 della Costituzione; ma poi anche in relazione all'art. 3. Sotto il primo profilo, deve il Collegio valutare, per quanto gli compete, se il predetto sistema autorizzatorio trovi conforto nella legge delega 14 maggio 2005, n. 80 e la risposta appare di segno negativo seguendo l'insegnamento piu' volte ribadito dalla Corte costituzionale. La Corte (anche di recente: sentenza 340 del 2007) ha affermato che «il giudizio di conformita' della norma delegata alla norma delegante, condotto alla stregua dell'art. 76 Cost., si esplica attraverso il confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli: l'uno relativo alle norme che determinano l'oggetto, i principi e i criteri direttivi indicati dalla delega, tenendo conto del complessivo contesto di norme in cui si collocano e individuando le ragioni e le finalita' poste a fondamento della legge di delegazione; l'altro relativo alle norme poste dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i principi e criteri direttivi della delega» (ex plurimis sentenze n. 7 e n. 15 del 1999, n. 276, n. 163, n. 126, n. 425, n. 503 del 2000, n. 54 e n. 170 del 2007». Orbene, nel testo riformato, gli artt. 41, comma 1 e 4, e 35 (nulla cambia per quanto qui rileva in relazione al decreto correttivo in vigore dal 1° gennaio 2008) pongono il generale potere autorizzatorio in capo al comitato dei creditori (salvo il residuo potere ancora concesso al g.d. da singole norme) con cio' stravolgendo per riflesso la funzione del g.d., trattandosi di potere di cui per il passato era titolare quale organo di garanzia della tutela degli interessi sottesi al fallimento. Premesso che nessuna indicazione e' contenuta nella legge delega per quanto attiene ad una eventuale (e drastica) ridefinizione della figura del g.d., occorre accertare se un tale effetto (nei termini in concreto realizzati) poteva essere legittimamente conseguito attraverso il processo di coordinamento dei poteri interorganici. Recita, infatti, il comma 6, lett. a), n. 2 dell'art. 1 della legge delega: «ampliare le competenze del comitato dei creditori, consentendo una maggiore partecipazione dell'organo alla gestione della crisi dell'impresa; coordinare i poteri degli altri organi della procedura». Dovendosi innanzitutto interpretare le norme che determinano l'oggetto, i principi e i criteri direttivi indicati dalla delega, sembra al Collegio che la norma di riferimento, anche finalisticamente esaminata, non preveda alcuna immutazione dei «poteri» degli organi della procedura, ma solo un coordinamento degli stessi quale conseguenza alle piu' ampie «competenze» da assegnarsi al comitato dei creditori. Premesso che, in linea di principio, gli organi titolari di «poteri» sono il g.d. (art. 25) e il curatore (art. 35 sulla «integrazione dei poteri» del curatore, ancorche' l'art. 32 parli di «attribuzioni»), mentre rispetto al comitato dei creditori la legge fallimentare si esprimeva e si esprime tutt'ora in termini di «funzioni», sembra assai difficile ritenere che il voluto ampliamento delle «competenze» possa tradursi in un generale spostamento di «poteri» nella titolarita' di tale ultimo organo (come sembra confermato dalla circostanza che invece, ma per specifica ipotesi, il comma 6, lett. a), n. 8 dell'art. 1 della legge delega parli questa volta non di «competenze» ma di «poteri»). Non pare, dunque, senza significato che il comma 6, lett. a), n. 2 dell'art. 1 della legge delega parli di «competenze» per un verso (rispetto al comitato dei creditori) e di poteri per un altro (rispetto agli altri organi). Gia' sotto questo primo profilo parrebbe fuori delega una generale attribuzione al comitato dei creditori di quel potere autorizzatorio di cui per il passato era titolare il g.d.. Ma, a parte tale considerazione, piu' specificamente non sembra al Collegio che la norma (comma 6, lett. a), n. 2 dell'art. 1) preveda un ampliamento tout court delle competenze del comitato dei creditori, ma al contrario un ampliamento finalizzato ad una maggiore partecipazione di detto organo alla gestione della crisi di impresa. Se cosi' e', sembra da escludere che l'esercizio del potere autorizzatorio possa in qualche modo ricondursi al profilo gestorio, come risulta dall'art. 31 l.f., che si intitola appunto «gestione della procedura» e che chiarisce che essa consiste nella amministrazione del patrimonio fallimentare e nel compimento di tutte le operazioni finalizzate alla liquidazione da parte del curatore, sotto vigilanza del g.d. e del Comitato dei creditori. Che il potere autorizzatorio resti estraneo alla gestione della procedura di cui all'art. 31 e a quella maggiore partecipazione ad essa da parte del Comitato dei creditori, voluta dalla legge delega, si desume anche dal fatto che l'organo gestorio per definizione nella prospettiva della riforma, ovvero il curatore, non autorizza alcunche' ma anzi viene autorizzato in tutto o quasi. E' all'interno del funzione direttiva che sembra doversi collocare il potere autorizzatorio, come dimostrato dal fatto che, coerentemente, a seguito della riforma tale funzione non e' piu' contemplata nell'ambito dei poteri costanti esercitabili dal g.d. nel corso dell'intera procedura (art. 25), perche' il potere autorizzatorio, nel quale la funzione direttiva si sostanzia, e' divenuto un potere frazionato, condiviso e perche', per quanto attiene al g.d., si esaurisce in buona misura con l'approvazione del programma di liquidazione, cioe' nella fase introduttiva della procedura stessa. Sembra al Collegio che nella trasformazione del comitato dei creditori da organo consultivo ad organo titolare di un potere di covigilanza sulla gestione del curatore, posizione rafforzata dalla norma di cui all'art. 33, comma 5 sul diritto alla ricezione di copia del rapporto semestrale, ma soprattutto dal ruolo attivo e condizionante del comitato dei creditori nell'ambito del programma di liquidazione (nonche' in relazione all'art. 104 e all'art. 104-bis), si potrebbe correttamente cogliere quella maggiore partecipazione alla gestione richiesta dalla legge delega. L'art. 31 novellato, insieme alle norme strumentali sopra richiamate, avrebbe soddisfatto gia' da solo l'indicazione del legislatore delegante. E' poi sintomatico di quella che pare al Collegio una vera e propria contraddizione del legislatore delegato il fatto che, pur ove la legge delega (per specifica materia, occorre sottolineare) avrebbe consentito un effettivo ampliamento dei poteri del comitato, formula assai piu' ampio di quella in generale prevista dal comma 6, lett. a), n. 2 dell'art. 1, il legislatore della riforma non si sia spinto a tanto. In tema di continuazione dell'esercizio temporaneo dell'impresa, pur consentendo la legge delega un ampliamento dei poteri tout court (non cioe' finalizzato alla mera partecipazione gestionale), l'art. 104 l.f. mantiene la necessita' della autorizzazione del g.d., sia pure in presenza di parere favorevole del comitato dei creditori (mentre per la cessazione coesistono poteri analoghi in capo al comitato e al tribunale). Sembra davvero difficile ipotizzare che una trasformazione epocale (per i riflessi in tema di privatizzazione del fallimento che ne derivano), quale quella di trasferire dal g.d. al comitato dei creditori il potere di autorizzare in via generale gli atti del curatore, non sarebbe stata oggetto di una espressa direttiva da parte del legislatore delegante ove da questi voluta e prevista. Il sostanziale trasferimento della titolarita' delle funzioni di garanzia e tutela in favore di un organo non neutrale (in quanto esponenziale di interessi particolari) e non rappresentativo di tutti gli interessi rilevanti (certamente non di quelli del fallito, che pure devono trovare considerazione nello svolgimento della procedura, come confermato dalla legittimazione del fallito stesso a proporre reclami ex art. 26 e 36 l.f.) costituisce in se' operazione irragionevole, ma soprattutto non coerente con le norme della legge delega e, a parere del tribunale, nemmeno con i suoi principi ispiratori. Ne' la conformita' alla legge delega della rivoluzione copernicana attuata dagli artt. 41 e 35 l.f. potrebbe, ad avviso del tribunale, desumersi in riferimento al c.d. potere di riempimento spettante al legislatore delegato, posto che nel definire l'ampiezza da riconoscersi ad un tale potere vale comunque il limite secondo cui «il libero apprezzamento del legislatore delegato non puo' mai assurgere a principio od a criterio direttivo, in quanto agli antipodi di una legislazione vincolata, quale e', per definizione, la legislazione su delega» (sentenza Corte costituzionale n. 68 del 1991). Ora, che la deambulazione del potere autorizzatorio integri un autonomo principio o criterio direttivo, come tale non riconducibile al mero potere di riempimento, pare al tribunale che risulti non solo dalla esegesi del principio contenuto nel comma 6, lett. a), n. 2 dell'art. 1, legge 14 maggio 2005, n. 80, ma anche da altra norma della legge delega, quella relativa al programma di liquidazione di cui al comma 6, lett. a), n. 10 dell'art. 1. Non pare che si possa dubitare che il programma di liquidazione sia il momento fondamentale della gestione della crisi dell'impresa in fallimento, quello in cui si pongono le linee guida del futuro andamento della procedura, in cui si effettuano le scelte operative da valere fino alla chiusura del fallimento e condizionanti le successive attivita' di tutti gli organi della procedura. E cio' ancor prima del chiarimento contenuto nella modifica dell'art. 104-ter ad opera del decreto correttivo n. 169/2007, che qualifica espressamente il programma di liquidazione come «l'atto di pianificazione e di indirizzo» in ordine alle modalita' e ai termini previsti per la realizzazione dell'attivo. Ragionevole allora e' ritenere che proprio in questa sede abbia trovato la massima espansione il generale principio di direttivo di cui al comma 6, lett. a), n. 2 dell'art. 1, che prevede appunto l'ampliamento delle competenze del comitato dei creditori al fine di consentirgli una maggiore partecipazione gestionale. Ma su tale punto la legge delega e' del tutto esplicita (comma 6, lett. a), n. 10 dell'art. 1) e prevede l'autorizzazione del g.d. seppure a seguito di approvazione del programma da parte del comitato dei creditori. Se, dunque, nella fase piu' sensibile per l'applicazione del principio generale di incremento delle competenze gestionali del comitato, il legislatore delegante non si spinge oltre la necessita' di un parere positivo (approvazione) fermo restando il principio che il finale potere autorizzatorio resta nella titolarita' del g.d., quale garante ultimo di tutti gli interessi meritevoli di tutela all'interno della procedura (e non riassumibili in quelli riconducibili al solo comitato dei creditori), non si vede come in altra materia (quella relativa agli atti di straordinaria amministrazione in genere, che spesso presuppongono, anche o esclusivamente, una valutazione squisitamente giuridica) il legislatore delegato abbia potuto infrangere il preciso limite imposto dalla legge delega. Piu' ancora, non si vede come abbia potuto trasformare in regola generale (art. 41) il superamento di detto limite, senza con cio' creare esso stesso un arbitrario principio o criterio direttivo, travalicante i confini di una legislazione vincolata. Di potere di riempimento si potrebbe forse legittimamente parlare, ad avviso di questo tribunale, solo in relazione a singole e particolari ipotesi, tipicamente l'autorizzazione di cui all'ultimo comma dell'art. 104-ter, sia perche' accompagnata da cautele a salvaguardia della generalita' dei creditori (deroga alla previsione di cui all'art. 51 l.f.), sia perche' inerente ad atti aventi per definizione minimo valore economico (liquidazione manifestamente non conveniente), sia perche' riconducibili piu' ad una prospettiva di eliminazione di un possibile decremento dell'attivo che di un incremento dello stesso, stante il presupposto della palese non convenienza della liquidazione. In questo caso (piu' difficoltoso, ma forse non impossibile ricondurre alla stessa logica anche altre fattispecie autorizzatorie quali quelle di cui agli artt. 72, 73, 81 l.f.), sarebbe forse possibile legittimare il potere di riempimento del legislatore delegato con l'analogia rispetto all'ipotesi della continuazione temporanea dell'esercizio di impresa e sulla genericita' per essa della relativa previsione (ampliamento dei poteri) di cui alla legge delega (comma 6, lett. a), n. 8 dell'art. 1). Al di fuori di casi specifici, ritiene conclusivamente il Collegio che la generale configurazione del potere autorizzatorio in capo al comitato dei creditori come previsto dagli artt. 41, primo e quarto comma, e 35 l.f. appaia sospetta di illegittimita' costituzionale in riferimento all'art. 76 Cost. Sotto altro profilo, la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 41, primo e quarto comma, e 35 l.f. sembra non infondata anche in relazione all'art. 3 Cost., in quanto il sistema autorizzatorio da tali norme configurato appare contrario al canone della ragionevolezza. Si tratta, infatti, di un sistema per sua natura non idoneo a trovare costante applicazione nelle procedure fallimentari, avendo quale presupposto la possibilita' di nomina e funzionamento del comitato dei creditori. Ove cio' non avvenga, e solo in questo caso (salva l'urgenza), il potere di autorizzare gli atti del curatore torna al g.d.. Con cio' si determina una irragionevole disparita' di trattamento del ceto creditorio (e del fallito) che solo in quest'ultimo caso potra' avvalersi della garanzia costituita dall'esercizio di un pieno potere di controllo da parte di un organo giurisdizionale. Nell'altro caso, quello considerato dal legislatore delegato come archetipico (per altro non cosi' frequente nella prassi, ma ricorrente nelle procedure di elevato rilievo economico), la garanzia del controllo costituita dal rilascio/diniego di autorizzazione al compimento dell'atto proviene da un organo di matrice privatistica (secondo il canone della privatizzazione delle procedure fallimentari) non effettivamente rappresentativo (oltre che ovviamente del fallito) nemmeno dell'intero ceto creditorio. Tale sarebbe soltanto ove il comitato dei creditori venisse nominato dall'assemblea dei creditori, se ad essa dovesse rendere conto del proprio operato e se da essa potesse essere in qualsiasi momento sostituito. Anche la modesta garanzia della composizione prevista dall'art. 40, comma 2 e' spesso, come la prassi insegna, destinata alla mera teoria, stanti le notorie difficolta' di reperimento di creditori disponibili, sicche' il comitato dei creditori e' di frequente espressione piu' del criterio della (comprensibilmente) limitata disponibilita' dei creditori a parteciparvi, che delle regole di rappresentativita' della qualita' e quantita' dei crediti. Ma l'identica possibile violazione del canone di ragionevolezza si rileva, e cio' e' singolare, anche all'interno della stessa procedura considerata emblematica dal legislatore delegato, quella in cui il comitato dei creditori esiste e funziona. Nel corso della procedura si determinano, infatti, due diversi modelli autorizzatori: se un atto e' previsto all'interno del programma di liquidazione (salvo le diversita' fra art. 104-ter prima e dopo il decreto correttivo, diversita' che qui pero' non rilevano) ovvero in un supplemento del programma, quell'atto sara' autorizzato dal g.d., se ne resta fuori sara' autorizzato dal comitato dei creditori. In definitiva, anche la conseguente diversa natura della tutela offerta ai creditori (e al fallito) muta nel corso della stessa procedura e in relazione ad un fatto casuale (o, se si vuole, alla iniziativa del curatore di inserire o meno un determinato atto nel programma di liquidazione o in un suo supplemento). La contraddizione e' palese e con essa il sospetto di una irragionevolezza del sistema delineato dal legislatore delegato. La questione di legittimita' costituzionale sembra, pertanto, non infondata anche rispetto all'art. 3 Cost. In via subordinata, per il caso in cui la questione di legittimita' costituzionale come sopra proposta non fosse ritenuta fondata, il tribunale ritiene di dovere proporre analoga questione relativamente al solo art. 35 l.f. sempre in riferimento agli art. 76 e 3 Cost. Richiamando le argomentazioni sopra svolte, ove l'attribuzione di un generale potere autorizzatorio in capo al comitato dei creditori venisse considerata conforme alla legge delega e all'art. 3 Cost., resta pur sempre dubbia la legittimita', sia in riferimento ai principi della legge delega che al canone di ragionevolezza, di una norma che non preveda che il g.d. sia titolare quantomeno del potere di impedire (con provvedimento evidentemente reclamabile ex art. 26 l.f.) il perfezionamento dell'atto ritenuto illegittimo o contrario agli interessi della generalita' dei creditori (o del fallito). E' cio' nonostante che quella stessa norma preveda l'istituto della previa informativa. La questione e' rilevante perche' incide sulla stessa configurabilita' del potere decisionale del Collegio nella presente sede, che presuppone, appunto, l'assenza di un autonomo potere del g.d. avente pari contenuto. Orbene, nella legge delega non si rinviene il principio che autorizzi il legislatore delegato a trasformare il g.d. (almeno nella fase dinamica della procedura ovvero dopo l'approvazione del programma di liquidazione) in un mero organo passivo, tale da esercitare le sue attribuzioni solo a seguito dell'iniziativa di terzi (reclamo ex art. 36). Non si rinviene un principio che legittimi la trasformazione dell'organo direttivo in organo di mera vigilanza. Cio' appare tanto vero che lo stesso legislatore delegato, pur nell'ambito di un'ottica diversa, riconosce al g.d., quale autonomo potere, quello dell'esercizio altresi' della funzione di controllo sulla procedura (art. 25), col che si dovrebbe presumere che allorche' la vigilanza evidenzi il pericolo del compimento di atti irregolari venga in considerazione proprio il potere di controllo ed una sua concreta possibilita' di esercizio. Conclusione che parrebbe confermata dall'istituto della previa informazione ex art. 35, comma 2, l.f.. Ma, allo stato, si tratta invece di riconoscimento solo formale posto che non esiste alcun istituto che consenta al g.d. di rendere effettivo quel controllo, inteso come potere autonomo. Ove si ritenga legittimo trasferire su altro organo quel tipico strumento preventivo di attuazione del controllo ovvero il potere di rilascio/diniego dell'autorizzazione al compimento di atti, sembra necessario quantomeno configurare, in sostituzione, un successivo potere di intervento sugli atti da altri autorizzati (o autorizzandi). L'avere questo tribunale individuato in via interpretativa un procedimento (ex artt. 23 e 25, n. 1 l.f.) per consentire che dall'esercizio del potere di vigilanza da parte del g.d. si passi comunque all'esercizio effettivo di un potere di controllo, non risolve il problema. Non solo perche' in questa materia spesso l'urgenza e' sovrana, sicche' l'attesa di un provvedimento collegiale potrebbe spesso vanificare l'efficacia della inibizione al compimento dell'atto, ma soprattutto perche' il problema giuridico di fondo resta pur sempre: non si tratta infatti di sapere se nelle pieghe della legge fallimentare riformata sia ancora possibile individuare un potere di controllo concretamente esercitabile da parte di un organo giurisdizionale, si tratta di sapere se quel controllo spetta o meno ancora al g.d. ovvero proprio a quell'organo cui anche il legislatore delegato formalmente lo ha attribuito (art. 25). La omessa previsione dello strumento attuativo del potere di controllo, pur in astratto riconosciuto in capo al g.d., appare rilevante in riferimento all'art. 67 Cost. perche' attuata in carenza di una norma della legge delega che lo consenta e contraria agli stessi principi informatori della stessa. La necessita' della ablazione di ogni potere di intervento diretto da parte del g.d. non solo appare estranea a quel coordinamento con i poteri degli altri organi della procedura previsto dal comma 6, lett. a), n. 2 dell'art. 1, ma addirittura con esso antitetico se «coordinare» non vuol dire «sopprimere». Quand'anche si ritenesse costituzionalmente legittimo il trasferimento del generale potere autorizzatorio dal g.d. al comitato dei creditori (del che comunque il tribunale dubita), non solo non sarebbe antitetica alla nozione di coordinamento, ma con essa coerente la previsione, all'interno della norma di cui all'art. 35 l.f., di un residuale potere di intervento del g.d., a tutela degli interessi della generalita' dei creditori, del fallito e della stessa regolarita', anche procedimentale, del fallimento. Per questa via, si realizzerebbe quel coordinamento voluto dal comma 6, lett. a), n. 2 dell'art. 1 della legge delega e se ne rispetterebbero i principi informatori. Ma l'assenza di una siffatta previsione e, dunque, la norma dell'art. 35 l.f. nella sua attuale formulazione (come in quella non immutata, per quanto qui rileva, successiva al 1° gennaio 2008 ex decreto correttivo n. 169/2007) viola, a parere del tribunale, anche il principio di ragionevolezza e con esso l'art. 3 Cost. Cio' tanto per l'insanabile contraddittorieta' del fatto in se' (anche rispetto all'istituto della previa informazione ex art. 35, comma 2), quanto per le stesse ragioni prima evidenziate in riferimento alla possibile illegittimita' costituzionale (in riferimento all'art. 3 Cost.) del trasferimento in via generale del potere autorizzatorio al comitato dei creditori ovvero la diversa natura della tutela dei creditori e del fallito, con conseguente irragionevole disparita' di trattamento. Come gia' evidenziato, in relazione ad eventi casuali (possibilita' o meno di costituzione o funzionamento del comitato dei creditori; inserimento o meno da parte del curatore di quel determinato atto all'interno del programma di liquidazione o di un suo supplemento), in un caso la generalita' dei creditori ed il fallito si avvalgono della preventiva tutela offerta dal sistema di diniego/rilascio della autorizzazione da parte del g.d., dall'altro si vedono espropriati anche della possibilita' del controllo ex post (ma prima del perfezionamento dell'atto) da parte del giudice stesso. Disparita' di trattamento che, se non annullata del tutto, ne risulterebbe pero' attenuata ove si ritenesse costituzionalmente necessaria quantomeno la presenza di uno strumento inibitorio successivo utilizzabile da parte del g.d., una volta informato ex art. 35 l.f. Conclusivamente, e in via subordinata rispetto alla prima questione di legittimita' costituzionale prospettata, ritiene il tribunale non infondata anche la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 35 l.f. nella parte in cui non prevede uno strumento siffatto. Nelle more del giudizio di legittimita' costituzionale il presente procedimento resta sospeso, fermo il provvedimento inibitorio in via d'urgenza emesso in data 6 dicembre 2007.