Letti  gli atti del procedimento penale a carico di Taormina Carlo
nato  a  Roma  il  16  dicembre  1940 ivi residente, viale Trastevere
n. 209,  difeso  di  fiducia dall'avv. Pierpaolo Dell'Anno, Foro Roma
indagato  per  il delitto di cui agli artt. 81 cpv., 595, commi 1 e 3
c.p.,  61 n. 10 c.p. e 13, legge 8 febbraio 1948, n. 47, perche', nel
corso di due interviste pubblicate, una sul quotidiano «La Stampa» in
data  20 luglio 2004 e l'altra sul periodico «Oggi» in data 11 agosto
2004 a commento della sentenza di condanna pronunciata dal G.u.p. del
Tribunale  di  Aosta  nei  confronti  di  Anna  Maria  Franzoni,  sua
assistita,  per  l'omicidio  del figlio Samuele Lorenzi, offendeva la
reputazione  della  dott.ssa Del Savio Bonaudo Maria e della dott.ssa
Cugge    Stefania   rispettivamente   Procuratore   capo,   Sostituto
Procuratore presso la Procura di Cogne e precisamente:
      rispondendo  al  giornalista-intervistatore  Marco Neirotti che
constatava:  «Avvocato,  l'accusa ha portato degli elementi precisi»,
testualmente dichiarava «L'accusa, la procura e' fatta da marescialli
di  paese  che  hanno  anche  falsificato  le prove»; ed ancora: allo
stesso intervistatore che proseguiva rivolgendogli la domanda: «E' un
attacco  pesante.  E'  cosi'  convinto?  E'  possibile  conoscere  un
assassino  e tacere come state facendo?» rispondeva «abbiamo lasciato
molto  ad intendere ma non si e' voluto capire. Chi non ha voluto non
ha  capito»....  «Il  problema  sta  nelle  indagini, non in cio' che
abbiamo detto noi»;
     rispondendo   poi  alla  giornalista,  inviata  del  settimanale
«Oggi»,   Anna  Cecchi  che  gli  indirizzava  la  seguente  domanda:
«Avvocato  perche'  quel  nome  non l'avete fatto prima?» rispondeva:
«Innanzitutto  perche'  ero certissimo della assoluzione di Annamaria
Franzoni   e   questa  avrebbe  supportato  ulteriormente  la  nostra
denunzia.  Poi  perche'  non ci fidiamo della Procura di Aosta che ha
sempre  indagato  in una sola direzione»; al successivo rilievo della
predetta  intervistatrice  che  testualmente  si  riporta:  «  ... Ha
accusato  gente di Cogne, ha scatenato una vera caccia all'assassino»
rispondeva:  «certo che c'e' stata caccia all'assassino. Visto che la
Procura  non  cercava il colpevole dovevamo pur farlo noi, senno' chi
altro?»;  ed  ancora,  quasi  alla  fine  dell'intervista,  di fronte
all'affermazione:  «Lo chiamano lo stile Taormina: accusare, spargere
dubbi  sulla  capacita'  ed  imparzialita'  dei  giudici»  riprendeva
formulando  il  seguente  giudizio:  «Io  sono  un  estimatore  della
magistratura   seria...  So  che  ci  sono  magistrati  bravi,  altri
influenzati  dalla  politica,  altri  ancora,  ed  e'  la  cosa  piu'
preoccupante,  incapaci.  Ed  e'  il  caso  dei  magistrati che hanno
indagato  sul  caso  Cogne»,  utilizzava frasi idonee ad offendere il
decoro  e  l'onore  delle  suddette  persone  offese  e a colpirne la
dignita' professionale.
   In Torino e Milano il 20 luglio e l'11 agosto 2004.
   Parti  offese:  Del  Savio  Maria  nata l'11 novembre 1946 Condove
(TO),  elettivamente  domiciliata  presso  il  difensore avv. Stefano
Bonaudo,  Torino,  via  A.  Lamarmora  n. 9; Cugge Stefania nata l'11
marzo   1967  San  Remo  (IM)  elettivamente  domiciliata  presso  il
difensore avv. Luca Fiore, Ivrea, c.so Cavour n. 6.
   Rilevato  che  Maria  Del  Savio  e  Stefania Cugge hanno proposto
querela  nei  confronti  di  Carlo Taormina ritenendo diffamatorie le
affermazioni  sopra  meglio  riportate  poiche'  in  esse  si farebbe
esplicito  riferimento  ad illecite condotte perpetrate dalla Procura
della  Repubblica di cui i querelanti risultano essere componenti; in
particolare,  le  parti  offese  lamentano  l'impiego  di espressioni
lesive della loro reputazione quali l'affermazione secondo cui presso
la Procura della Repubblica di Aosta sarebbero arrivati a falsificare
elementi  in  loro  possesso  e  ad  omettere  atti di indagine cosi'
ponendo  in  essere,  in buona sostanza, una vera e propria attivita'
persecutoria nei confronti dell'imputata Franzoni; inoltre, lamentano
le  parti offese la formulazione nei loro confronti di un giudizio di
incapacita' quali magistrati che hanno indagato sul caso Cogne;
   Rilevato  che  questo  giudice,  con  ordinanza in data 12 gennaio
2007,   ha   sottoposto   alla   Camera  dei  deputati  la  questione
dell'applicabilita' dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, in
relazione al procedimento penale di cui in epigrafe;
     che  la Camera dei deputati, nel corso della seduta del 2 agosto
2007,  in  accoglimento  di  conforme  proposta  della  Giunta per le
autorizzazioni,  ha  riconosciuto  ai sensi dell'art. 68, primo comma
della   Costituzione,   l'insindacabilita'  delle  opinioni  espresse
dall'on.  Taormina  raccolte  negli  articoli  di  stampa oggetto del
presente   procedimento   in  quanto  espresse  nell'esercizio  della
funzione parlamentare;
   Considerato   che   la  vicenda  in  esame  attiene  a  molteplici
dichiarazioni  svolte con riferimento a un procedimento penale in cui
l'on.  Taormina  rivestiva la funzione di avvocato difensore e in cui
lo  stesso  attribuiva  alla  Procura  della Repubblica di Aosta e ai
relativi  componenti  la  volonta' di non ricercare il vero colpevole
della   morte  del  piccolo  Samuele  Lorenzi  bensi'  di  condannare
l'imputata  Annamaria Franzoni, giungendo a falsificare le prove e ad
omettere  atti  di  indagine,  suggellando  la predette accuse con un
giudizio di incapacita' diretto ai magistrati inquirenti;
     che,  allo  stato  degli  atti,  non  risulta provata la verita'
oggettiva  delle  dichiarazioni  oggetto  di  censura;  cio' posto, a
fronte  del  dato letterale delle espressioni formulate dal querelato
nelle  due  interviste pubblicate, e' necessario il vaglio giudiziale
al  fine  di  verificare  la  sussistenza  della fattispecie di reato
contestata;
     che   la   Camera  dei  deputati  ha,  di  fatto,  aderito  alle
osservazioni  espresse  in sede di relazione di Giunta che di seguito
si  riportano: «Il dibattito complesso e articolato, ai cui resoconti
qui  allegati  si  rimanda  e  al quale si e' accennato nel paragrafo
precedente, e' venuto a conclusione nella seduta dell'11 luglio 2007,
nella  quale,  con  un  orientamento maggioritario non contrastato da
voti  contrari, si e' riconosciuta l'applicabilita' dell'articolo 68,
primo  comma,  della  Costituzione  ai  casi  in  esame, e' risultato
prevalente,   infatti,   l'avviso  per  cui  l'interrogazione  citata
(allegata   alla  presente  relazione)  di  fatto  contenga  concetti
sostanzialmente  analoghi a quelli contestati nei capi d'imputazione.
Quando   nell'interrogazione  stessa  si  sostiene  infatti  che  non
risultano conformi all'etica professionale e alle doti di equilibrio,
che   dovrebbero   caratterizzare   il   magistrato   inquirente,  le
dichiarazioni  rese  dai pubblici ministeri a carico della Franzoni e
quelle rese a critica di un provvedimento del giudice per le indagini
preliminari;  che occorre verificare se corrisponda a verita' che gli
investigatori  non avrebbero, quanto meno per negligenza, adottato le
doverose  e  necessarie cautele per preservare il luogo del delitto e
che  vi  era  stata  la  possibilita' concreta che l'arma del delitto
possa  essere  stata  sottratta,  in  fondo si dice che vi sono state
delle insufficienze professionali degli investigatori, tra i quali in
primis  rientrano  i  titolari  dell'azione penale e cioe' i pubblici
ministeri.
   Del  resto,  le espressioni «marescialli di paese», «la procura di
Aosta  ha  indagato  in  una  sola direzione», i magistrati che hanno
indagato  su  Cogne  sono  degli  «incapaci», il processo di Cogne e'
quello  «peggio  istruito  nella  storia della Repubblica» sono tutte
critiche  non delle persone ma dell'operato istituzionale di queste e
dunque  non sono affatto il mero argumentum ad hominem che si ritiene
non   consentito  dall'ordinamento  (Cassazione,  26  febbraio  2003,
Padovani in Dir. e Giust. 2003, n. 20, pag. 95). Ci si trova innanzi,
invece,   alla  legittima  critica  dell'esercizio  di  una  pubblica
funzione, come la giurisprudenza ha affermato in varie occasioni.
   Quanto  all'integrita'  del  quadro probatorio e ai relativi dubbi
espressi  dal  Taormina,  quest'ultimo ha depositato in data 4 luglio
2007  copia  di  un  decreto  di  archiviazione  del  G.i.p. di Aosta
relativo  al  procedimento  penale n. 637/2003 RGNR - Aosta, a carico
degli  ufficiali del RIS di Parma. Costoro erano stati denunciati per
falso ideologico e calunnia reale dalla famiglia Lorenzi-Franzoni per
aver  pretesamente  alterato  i  luoghi  e gli elementi di prova. Pur
archiviata  tale  accusa, il G.i.p. afferma in effetti che se in data
17  settembre 2002 era stata osservata e fotografata, all'interno del
calco  di  materiale  ematico-cerebrale,  la presenza di un frammento
talvolta  definito  come  osseo, nella documentazione fotografica del
successivo  24 ottobre, invece, tale frammento non era piu' visibile.
Tale  elemento  viene  definito  nel  decreto  di  archiviazione come
«circostanza  pacifica».  A  questo,  probabilmente,  si  riferiva il
Taormina nelle sue esternazioni circa la falsificazione delle prove.
   Le  riserve  che  hanno  portato  all'astensione  (ma  non al voto
contrario) di taluni componenti, motivate dal fatto che a loro avviso
Carlo Taormina abbia esercitato con le dichiarazioni contestategli la
professione  forense e non il mandato parlamentare, sono apparse alla
maggioranza  superabili  in  ragione  di  quanto gia' sostenuto dalla
Giunta  nella seduta del 19 luglio 2005, nella scorsa legislatura. In
tale   occasione  il  relatore  Gironda  Veraldi,  riferendo  su  una
questione  sostanzialmente  analoga  alla  presente  (il  citato doc.
IV-quater, n. 117), argomento' che le due funzioni, quando esercitate
congiuntamente,  sono  difficilmente distinguibili. Che tale fenomeno
ponga  problemi  di  opportunita'  e'  stato  riconosciuto da diversi
componenti, anche tra quelli che hanno votato per l'insindacabilita',
ma cio' non ne ha cambiato l'orientamento di fondo.
   Per  completezza, si puo' aggiungere che nel ricorso per conflitto
fra  poteri  del  tribunale di Milano contro la delibera attinente al
caso   trattato  nella  scorsa  legislatura,  il  tribunale  medesimo
disconobbe  il  valore  scriminante  dell'interrogazione  piu'  volte
menzionata  per  i  rilievi  critici  mossi  al  colonnello Garofano,
giacche'  essa  si  riferiva ai magistrati procedenti. Sicche', se ne
dovrebbe dedurre che per ammissione stessa dell'autorita' giudiziaria
essa  dovrebbe  valere  oggi a coprire le dichiarazioni oggetto della
presente relazione.
   Per  questi  motivi,  a  maggioranza  e  con distinte votazioni la
Giunta  propone  all'Assemblea  di deliberare che i fatti oggetto dei
procedimenti concernono opinioni espresse da un membro del Parlamento
nell'esercizio delle sue funzioni;
     che,  sulla  scorta  di  quanto sopra richiamato, non e' agevole
comprendere il nesso fra attivita' politica e dichiarazioni afferenti
la  consumazione  di  illeciti  a carico di magistrati, che avrebbero
dovuto  essere  denunciati e provati nelle sedi competenti e non gia'
oggetto  di  interrogazione  e dibattito di fronte al Parlamento come
una tematica di carattere generale;
     che, inoltre, la conclusione adottata appare in contrasto con la
costante  giurisprudenza  costituzionale; a titolo esemplificativo si
richiama  quanto  affermato  nelle  sentenze  numeri  10 e 11 dell'11
gennaio  2000  (alle  quali  si  sono  richiamate,  tra  le altre, le
successive  sentenze n. 52 del 27 febbraio 2002; n. 207 del 20 maggio
2002; n. 294 del 19 giugno 2002).
   «... E'    pacifico    che    costituiscono    opinioni   espresse
nell'esercizio della funzione quelle manifestate nel corso dei lavori
della  Camera  e dei suoi vari organi, in occasione dello svolgimento
di una qualsiasi fra le funzioni svolte dalla Camera medesima, ovvero
manifestate  in  atti, anche individuali, costituenti estrinsecazione
delle   facolta'   proprie   del   parlamentare   in   quanto  membro
dell'assemblea»;
     che  l'attivita' politica svolta dal parlamentare al di fuori di
questo  ambito  non puo' dirsi di per se' esplicazione della funzione
parlamentare  nel  senso  preciso  cui  si riferisce l'art. 68, primo
comma, della Costituzione;
     che  nel  normale  svolgimento  della  vita  democratica  e  del
dibattito politico, le opinioni che il parlamentare esprima fuori dai
compiti  e  dalle  attivita'  propri  delle  assemblee  rappresentano
piuttosto  esercizio  della  liberta' di espressione comune a tutti i
consociati: ad esse dunque non puo' estendersi, senza snaturarla, una
immunita'  che  la  Costituzione  ha  voluto,  in  deroga al generale
principio  di  legalita' e di giustiziabilita' dei diritti, riservare
alle opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni;
     che  la  linea  di  confine fra la tutela dell'autonomia e della
liberta'  delle  Camere  e, a tal fine, della liberta' di espressione
dei  loro  membri,  da  un  lato,  e  la  tutela  dei diritti e degli
interessi,  costituzionalmente  protetti, suscettibili di essere lesi
dall'espressione  di  opinioni,  dall'altro  lato,  e'  fissata dalla
Costituzione attraverso la delimitazione funzionale dell'ambito della
prerogativa.   Senza   questa   delimitazione,  l'applicazione  della
prerogativa  la  trasformerebbe  in  un  privilegio  personale  (cfr.
sentenza  n. 375 del 1997), finendo per conferire ai parlamentari una
sorta  di  statuto  personale di favore quanto all'ambito e ai limiti
della  loro  liberta'  di  manifestazione del pensiero: con possibili
distorsioni  anche  del  principio  di  eguaglianza  e  di parita' di
opportunita' fra cittadini nella dialettica politica;
     che  la semplice comunanza di argomento fra la dichiarazione che
si pretende lesiva e le opinioni espresse dal deputato o dal senatore
in  sede  parlamentare  non  puo' bastare a fondare l'estensione alla
prima dell'immunita' che copre le seconde;
     che  tanto  meno  puo'  bastare  a  tal fine la ricorrenza di un
contesto genericamente politico in cui la dichiarazione si inserisca.
Siffatto  tipo di collegamenti non puo' valere di per se' a conferire
carattere  di attivita' parlamentare a manifestazioni di opinioni che
siano   oggettivamente   ad  essa  estranee.  Sarebbe,  oltre  tutto,
contraddittorio  da  un  lato negare -- come e' inevitabile negare --
che  di  per  se'  l'espressione  di opinioni nelle piu' diverse sedi
pubbliche   costituisca   esercizio   di   funzione  parlamentare,  e
dall'altro  lato  ammettere che essa invece acquisti tale carattere e
valore in forza di generici collegamenti contenutistici con attivita'
parlamentari svolte dallo stesso membro delle Camere;
     che  in  questo  senso  va  precisato  il significato del «nesso
funzionale»    che    deve    riscontrarsi,    per   poter   ritenere
l'insindacabilita',  tra la dichiarazione e l'attivita' parlamentare;
non  come  semplice  collegamento  di  argomento  o  di  contesto fra
attivita'  parlamentare  e  dichiarazione,  ma come identificabilita'
della   dichiarazione   stessa   quale   espressione   di   attivita'
parlamentare;
     che   nel   caso   di   riproduzione   all'esterno   della  sede
parlamentare,    e'    necessario,    per   ritenere   che   sussista
l'insindacabilita',  che  si  riscontri  l'identita'  sostanziale  di
contenuto  fra  l'opinione  espressa  in  sede  parlamentare e quella
manifestata nella sede esterna;
     che  cio'  che  si  richiede,  ovviamente,  non  e' una puntuale
coincidenza testuale, ma una sostanziale corrispondenza di contenuti;
     che  nei  casi in cui non e' riscontrabile esercizio di funzioni
parlamentari,  il  valore  della  legalita-giurisdizione  non collide
certo con quello dell'autonomia delle Camere e cosi' si spiega che la
giurisprudenza costituzionale abbia appunto stabilito che l'immunita'
non vale per tutte quelle opinioni che «il parlamentare manifesta nel
piu' esteso ambito della politica»;
     che  alla  luce  di  tale  interpretazione  si  debbono pertanto
ritenere,   in   linea   di   principio,   sindacabili  tutte  quelle
dichiarazioni  che  fuoriescono  dal  campo  applicativo del «diritto
parlamentare»   e   che  non  siano  immediatamente  collegabili  con
specifiche  forme  di  esercizio  di  funzioni parlamentari, anche se
siano  caratterizzate  da un asserito «contesto politico» o ritenute,
per il contenuto delle espressioni o per il destinatario o la sede in
cui sono state rese, manifestazione di sindacato ispettivo;
     che  questa  forma  di  controllo  politico  rimessa  al singolo
parlamentare  puo'  infatti  aver  rilievo,  nei  giudizi in oggetto,
soltanto  se si esplica come funzione parlamentare, attraverso atti e
procedure  specificamente  previsti  dai regolamenti parlamentari; se
dunque  l'immunita'  copre  il membro del Parlamento per il contenuto
delle   proprie   dichiarazioni  soltanto  se  concorre  il  contesto
funzionale,  il  problema  specifico,  che  non appare irrilevante in
questo   conflitto,   della  riproduzione  all'esterno  degli  organi
parlamentari  di  dichiarazioni  gia' rese nell'esercizio di funzioni
parlamentari,  si puo' risolvere nel senso dell'insindacabilita' solo
ove  sia  riscontrabile  corrispondenza  sostanziale di contenuti con
l'atto  parlamentare,  non  essendo sufficiente a questo riguardo una
mera comunanza di tematiche»;
     che il conforme orientamento della Corte costituzionale e' stato
recentemente  ribadito con la sentenza n. 120 del 16 aprile 2004; nel
dichiarare  infondate  le  questioni  di  legittimita' costituzionale
sollevate  con riferimento all'art. 3, comma 1, della legge 20 giugno
2003, n. 140, si e' affermato che:
      «...   Nonostante   le   evoluzioni  subite  nel  tempo,  nella
giurisprudenza  di  questa  Corte  e' enucleabile un principio che e'
possibile  oggi  individuare  come  limite  estremo della prerogativa
dell'insindacabilita',   e   con   cio'   stesso   delle  virtualita'
interpretative astrattamente ascrivibili all'art. 68: questa non puo'
mai  trasformarsi  in  un  privilegio  personale,  quale  sarebbe una
immunita'  dalla  giurisdizione  conseguente alla mera "qualita''' di
parlamentare».  Per  tale  ragione  l'itinerario della giurisprudenza
della  Corte  si  e'  sviluppato  attorno alla nozione del cd. «nesso
funzionale»,   che  solo  consente  di  discernere  le  opinioni  del
parlamentare  riconducibili  alla libera manifestazione del pensiero,
garantita  ad  ogni  cittadino  nei limiti generali della liberta' di
espressione,  da  quelle  che  riguardano  l'esercizio della funzione
parlamentare.  Certamente rientrano nello sfera dell'insindacabilita'
tutte  le opinioni manifestate con atti tipici nell'ambito dei lavori
parlamentari,  mentre per quanto attiene alle attivita' non tipizzate
esse  si debbono tuttavia considerare «coperte» dalla garanzia di cui
all'art.  68, nei casi in cui si esplicano mediante strumenti, atti e
procedure,  anche  «innominati»,  ma comunque rientranti nel campo di
applicazione  del  diritto parlamentare, che il membro del Parlamento
e'  in  grado  di  porre  in essere e di utilizzare proprio solo e in
quanto  riveste tale carica (cfr. sentenze n. 56 del 2000, n. 509 del
2002    e    n. 219   del   2003).   Cio'   che   rileva,   ai   fini
dell'insindacabilita',  e'  dunque  il collegamento necessario con le
«funzioni» del Parlamento, cioe' l'ambito funzionale entro cui l'atto
si  iscrive,  a  prescindere dal suo contenuto comunicativo, che puo'
essere  il  piu'  vario,  ma  che  in  ogni  caso deve essere tale da
rappresentare esercizio in concreto delle funzioni proprie dei membri
delle  Camere,  anche  se  attuato  in  forma  «innominata» sul piano
regolamentare.  Sotto  questo  profilo  non c'e' percio' una sorta di
automatica  equivalenza  tra  l'atto  non  previsto  dai  regolamenti
parlamentari  e l'atto estraneo alla funzione parlamentare, giacche',
come gia' detto, deve essere accertato in concreto se esista un nesso
che permetta di identificare l'atto in questione come «espressione di
attivita' parlamentare» (cfr. sentenze n. 10 e n. 11 del 2000, n. 379
e  n. 219  del  2003). E'  in questa prospettiva che va effettuato lo
scrutinio  della  disposizione denunciata. Le attivita' di «ispezione
di  divulgazione,  di  critica e di denuncia politica» che appunto il
censurato  art.  3,  comma  1,  riferisce  all'ambito di applicazione
dell'art.  68, primo comma, non rappresentano, di per se', un'ipotesi
di   indebito   allargamento   della  garanzia  dell'insindacabilita'
apprestata dalla norma costituzionale, proprio perche' esse, anche se
non  manifestate  in  atti  «tipizzati», debbono comunque, secondo la
previsione    legislativa   e   in   conformita'   con   il   dettato
costituzionale,  risultare in connessione con l'esercizio di funzioni
parlamentari.  E appunto questo «nesso» il presidio delle prerogative
parlamentari  e,  insieme, del principio di eguaglianza e dei diritti
fondamentali  dei terzi lesi.». Occorre, altresi', evidenziare che la
legge  n. 140/2003 non ha natura di legge costituzionale e, pertanto,
non e'  idonea  a  stravolgere  i  limiti  delineati  dalla  Corte in
relazione   all'applicabilita'   dell'art.   68,  primo  comma  della
Costituzione.  Pertanto,  si  ritiene  che  anche il riferimento alle
attivita'  di  «ispezione divulgazione, critica e denuncia politica»,
espletate  fuori  dal  Parlamento  che  devono  essere  connesse alla
«funzione  di  parlamentare»  non possa prescindere dall'applicazione
dei criteri delineati dalla Corte costituzionale sopra richiamati. La
diversa   interpretazione,   diretta   a  ricomprendere  nella  sfera
dell'insindacabilita' qualsiasi attivita' politica posta in essere da
parlamentare al di fuori dal Parlamento, oltre che porsi in contrasto
con  lo  stesso art. 68 della Costituzione, determinerebbe, di fatto,
la   compromissione   dei  diritti  all'onore  ed  alla  reputazione,
anch'essi costituzionalmente tutelati.
     che  la  deliberazione  adottata dalla Camera dei deputati nella
seduta  del 2 agosto 2007 appare in contrasto con i richiamati canoni
interpretativi atteso che non contiene alcun elemento concreto da cui
poter desumere la sussistenza di una corrispondenza sostanziale tra i
contenuti  delle dichiarazioni giornalistiche oggetto della querela e
le   opinioni  gia'  espresse  dal  parlamentare  in  specifici  atti
parlamentari, non essendo sufficiente una mera comunanza di tematiche
e un generico riferimento alla rilevanza dei fatti pubblici;
     che,  in  altre parole, la prerogativa invocata dalla Camera dei
deputati non puo' trovare nel caso specifico applicazione poiche' non
sussiste  alcun collegamento tra le frasi per le quali il Taormina e'
imputato   per   diffamazione   e  gli  atti  tipici  della  funzione
parlamentare;
     che  nell'interrogazione  parlamentare  del  22 aprile 2002 ( v.
allegato  2 alla relazione della Giunta presentata alla Presidenza il
12  luglio  2007)  il  deputato  Taormina  chiede  al  Ministro della
giustizia  di compiere gli accertamenti necessari - se del caso anche
attivando  i  poteri  disciplinari  - in ordine ad una serie di fatti
connessi  con  l'omicidio  consumato  a  Cogne, censurando la mancata
adozione  da  parte  degli  investigatori  delle  dovute  cautele per
proteggere il luogo del delitto da possibili inquinamenti probatori;
     che,   invece,   nelle   dichiarazioni  oggetto  di  querela  si
attribuiscono  illeciti  di rilevanza penale «hanno anche falsificato
le  prove»  nonche'  giudizi  di  natura  personale  idonei a gettare
discredito  sui  soggetti  destinatari  e sulle delicate funzioni dai
medesimi espletate;
     che la mancanza del nesso funzionale e' altresi' resa palese dal
fatto   che   le   dichiarazioni   asseritamente   diffamatorie   del
parlamentare  sono  successive  di  oltre due anni rispetto al citato
atto  di  funzione  e  trovano  indubbio  fondamento  in una serie di
specifiche  conoscenze  che  lo stesso non poteva possedere se non in
quanto  avvocato difensore nell'ambito del processo per l'omicidio di
Cogne,   ossia   a   titolo  privato  e  professionale,  senza  alcun
collegamento col mandato parlamentare;
     che   l'interpretazione   prospettata  dalla  decisione  di  cui
trattasi  comporta,  pertanto,  che  l'istituto  previsto dalla norma
costituzionale  si  trasformi da «esenzione di responsabilita' legata
alla  funzione  in  privilegio  personale»  (cfr. sent. 11/2000, gia'
citata)  con  la  conseguenza  che  le  opinioni  e  le dichiarazioni
manifestate  da un parlamentare sarebbero sempre e comunque sottratte
alla verifica giurisdizionale;
     che  deve,  pertanto,  ritenersi  che  la  condotta addebitabile
all'avv.  Taormina,  astrattamente  idonea  nella sua specificita' ad
integrare   un   illecito,   esula   dall'esercizio   delle  funzioni
parlamentari,  non  presentando  oggettivamente alcun legame con atti
parlamentari  neppure  nell'accezione piu' ampia e, come tale rientra
nella   cognizione   riservata   al  sindacato  giurisdizionale,  non
risultando invocabile l'immunita', ai sensi dell'art. 68, primo comma
della Costituzione;
     che  appare  di  conseguenza  necessario  sollevare conflitto di
attribuzione  tra poteri dello Stato, conflitto ammissibile sia sotto
il  profilo  soggettivo  (questo  giudice  e'  l'organo  competente a
decidere,  nell'ambito  delle  funzioni  giurisdizionali  attribuite,
sulla  asserita  illiceita'  della  condotta  ascritta all'imputato e
quindi  «a  dichiarare  la  volonta'  del  potere  cui appartiene, in
posizione  di  piena indipendenza garantita dalla Costituzione»: cfr.
fra  le  altre,  ordinanze  Corte cost. n. 60 del 1999; nn. 469, 407,
261,  254  del  1998  e n. 378 del 2006), sia sotto quello oggettivo,
trattandosi  della  sussistenza  dei  presupposti  per l'applicazione
dell'art.  68,  primo  comma della Costituzione e della lesione della
propria  sfera  di  attribuzioni  giurisdizionali, costituzionalmente
garantita,   giacche'   illegittimamente  menomata  dalla  suindicata
deliberazione della Camera dei deputati.