Ordinanza
nei  giudizi  di legittimita' costituzionale dell'art. 576 del codice
di  procedura  penale,  come  modificato  dall'art.  6 della legge 20
febbraio  2006,  n. 46  (Modifiche  al codice di procedura penale, in
materia di inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento), anche
in  relazione  all'art. 593 dello stesso codice, e degli artt. 6 e 10
della  medesima  legge, promossi, nell'ambito di diversi procedimenti
penali,  con  ordinanze  del  14  marzo 2006 dalla Corte d'appello di
Catanzaro,  del  15 marzo 2005 dalla Corte d'appello di Lecce, dell'8
maggio  2006  dalla Corte d'assise d'appello di Venezia, del 27 marzo
2006  dalla  Corte d'appello di Lecce, del 23 maggio, del 20 aprile e
del  5  maggio 2006 dalla Corte d'appello di Brescia, rispettivamente
iscritte  ai  nn.  272,  346,  460,  480, 521, 528 e 674 del registro
ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
nn.  35,  39, 44, 45, 47 e 48, prima serie speciale, dell'anno 2006 e
n. 6 1ª serie speciale, dell'anno 2007;
   Visti  gli  atti  di  intervento  del Presidente del Consiglio dei
ministri;
   Udito  nella  Camera  di  consiglio  del  2 aprile 2008 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick;
   Ritenuto  che  con  tre  ordinanze, identiche nella parte motiva -
rispettivamente  del  20  aprile  2006  (r.o. n. 528 del 2006), del 5
maggio 2006 (r.o. 674 del 2006) e del 23 maggio 2006 (r.o. n. 521 del
2006)  -  la  Corte d'appello di Brescia ha sollevato, in riferimento
agli  artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimita'
costituzionale  dell'art.  576,  comma  1,  del  codice  di procedura
penale,  come  modificato  dall'art.  6 della legge 20 febbraio 2006,
n. 46  (Modifiche  al  codice  di  procedura  penale  in  materia  di
inappellabilita'  delle  sentenze di proscioglimento), nella parte in
cui limita la possibilita' dell'appello della parte civile avverso la
sentenza  di  proscioglimento,  nonche'  dell'art.  10 della medesima
legge,  nella  parte  in  cui  non  prevede un regime transitorio per
l'appello   proposto  dalla  parte  civile  contro  una  sentenza  di
proscioglimento,  analogo  a  quello  contemplato  dai  commi  2  e 3
dell'art. 10 per l'imputato e per il pubblico ministero;
     che la Corte - premesso che, in esito ad altrettante sentenze di
assoluzione  pronunciate  dal  Tribunale di Bergamo per insussistenza
del  fatto  o  perche' il fatto non costituisce reato, ciascuna delle
costituite parti civili aveva proposto appello, chiedendo, in riforma
della   sentenza   impugnata,   che   fosse   affermata   la   penale
responsabilita'  degli  imputati,  con  la loro condanna alle pene di
legge  ed  al  risarcimento  del  danno - evidenzia come, nelle more,
fosse  entrata  in  vigore  la legge n. 46 del 2006, precludendo alla
parte  civile - sempre a parere della rimettente - la possibilita' di
proporre appello avverso le sentenze di assoluzione dell'imputato;
     che il giudice a quo ritiene che la nuova formulazione dell'art.
576 cod. proc. pen. - soppresso il riferimento al «mezzo previsto per
il  pubblico  ministero»,  costituente,  prima della novella, il solo
elemento  testuale idoneo a legittimare l'appello della parte civile,
non contemplato autonomamente - avrebbe «ora completamente svincolato
il  potere  di  impugnativa della parte civile da quello del pubblico
ministero,  sicche'  ad  essa  non  puo'  piu' essere riconosciuta la
facolta'  di  appello, ne' contro le sentenze di condanna, ne' contro
le  sentenze di assoluzione», stante il principio di tassativita' dei
mezzi di impugnazione;
     che,  alla  luce di tale premessa, la Corte d'appello di Brescia
rileva  come  l'eliminazione  del potere di impugnazione in capo alla
parte  civile  configuri,  innanzitutto,  una  violazione dell'art. 3
Cost.,  sotto  il  duplice  profilo  della  lesione  del principio di
eguaglianza e del contrasto con quello di ragionevolezza;
     che,  sotto  il  primo  aspetto,  l'esercizio dell'azione civile
nell'ambito del processo penale si porrebbe quale «deroga rispetto ai
normali strumenti di impugnazione previsti in sede civile», impedendo
alla  parte  civile  di  chiedere  -  a  differenza di quanto avviene
nell'ambito del processo civile - «il riesame nel merito di decisioni
che potrebbero esserle irreparabilmente pregiudizievoli»;
     che,   sotto   il   profilo  dell'irragionevolezza,  la  novella
legislativa,  se  da  un  lato mantiene inalterata la possibilita' di
azionare  la pretesa civilistica nel processo penale, dall'altro lato
«scoraggia  tale  scelta,  deprivandola  degli  adeguati strumenti di
tutela  giuridica»:  tanto  piu' che la deminutio per la parte civile
non   appare   giustificata   da   alcuna   esigenza   meritevole  di
considerazione,  non  potendo  per  essa  di  certo valere le ragioni
avanzate  per  limitare  il  potere  di  appello  in capo al pubblico
ministero;
     che  la  disciplina  censurata si porrebbe altresi' in contrasto
con  l'art.  24  Cost.,  il  cui disposto tutela il diritto di difesa
anche  della  parte  offesa  dal  reato,  che risulta frustrato dalla
radicale inappellabilita' conseguente alla novella legislativa;
     che,  infine,  la  normativa in questione violerebbe l'art. 111,
secondo  comma,  Cost.,  per  il quale il processo deve svolgersi nel
contraddittorio  fra  le  parti  ed  in  condizioni di parita' fra le
stesse:  entrambi  questi principi risulterebbero radicalmente negati
alla  parte  civile  nella  fase dell'appello, posto che essa e' oggi
privata   del  potere  di  proporre  impugnazione,  con  un  evidente
squilibrio tra le parti ed alterazione del contraddittorio nella fase
dell'appello;
     che  la  Corte  rimettente assume poi come anche la disposizione
transitoria  dell'art.  10  della  legge  n. 46  del 2006 si ponga in
contrasto  con  i  medesimi  parametri  costituzionali evocati, nella
parte  in  cui  non  prevede,  per  la  parte  civile,  alcun  regime
transitorio,  contemplato invece nei commi 2 e 3 dell'art. 10, per il
pubblico  ministero  e  l'imputato: con la conseguenza che alla parte
civile   non   competerebbe   ne'   la   notifica  dell'ordinanza  di
inammissibilita',   ne'  la  possibilita'  di  proporre  ricorso  per
cassazione;
     che   la   disciplina   censurata  determinerebbe  una  evidente
disparita'  di  trattamento fra pubblico ministero ed imputato, da un
lato, e parte civile, dall'altro; una disparita' manifestamente priva
di  qualsiasi  ragionevole  giustificazione, con violazione anche del
principio  di  parita'  fra le parti di cui all'art. 111 Cost., oltre
che del gia' richiamato diritto di difesa in capo alla parte civile;
     che analoga questione e' sollevata, in riferimento agli artt. 97
e  111  Cost.,  dalla  Corte  d'appello di Lecce con ordinanza del 15
marzo 2006 (r.o. n. 346 del 2006), con la quale sono censurati l'art.
576  cod.  proc.  pen., come modificato dall'art. 6 della legge n. 46
del 2006, «in relazione all'art. 593 dello stesso codice, nella parte
in  cui non consente alla parte civile di proporre appello avverso le
sentenze  di  proscioglimento»,  e  l'art.  10  della medesima legge,
quest'ultimo  nella  parte  in  cui «anche con riferimento alla parte
civile,  dichiara  applicabile  la  disciplina  da essa introdotta ai
processi in corso»;
     che  la  Corte  rimettente  - premesso che la difesa della parte
civile  aveva proposto rituale impugnazione ai fini civili avverso la
sentenza  di  assoluzione  emessa  dal  Tribunale di Brindisi, e che,
tuttavia,  dopo  la  proposizione  di  essa, era entrata in vigore la
legge  n. 46  del  2006 - in esito alla ricognizione del nuovo quadro
normativo,  perviene alla conclusione che la novella in oggetto abbia
escluso  la  possibilita',  per  la parte civile, di proporre appello
avverso le sentenze di assoluzione dell'imputato;
     che,  in  particolare, il giudice a quo - muovendo dal principio
di  tassativita'  delle impugnazioni evocato dall'art. 568 cod. proc.
pen.  -  constata  l'assenza,  nel testo novellato dell'art. 576 cod.
proc.   pen.,   di   ogni  riferimento  ad  uno  specifico  mezzo  di
impugnazione  per  la parte civile: con la conseguenza che tale mezzo
dovrebbe essere individuato sulla base delle specifiche norme in tema
di appello e del ricorso per cassazione;
     che,  al riguardo, la Corte rimettente osserva tuttavia come sia
inconferente,  al fine di tale individuazione, il richiamo alle varie
norme  del  codice  di  rito;  e,  tanto meno, quello alla perdurante
vigenza  dell'art. 600 cod. proc. pen., nella parte in cui tale norma
prevede  il  diritto  della parte civile di appellare contro il punto
della sentenza di primo grado che attiene alla provvisoria esecuzione
delle condanne in materia risarcitoria;
     che,  d'altra parte, la Corte rimettente rileva come - eliminato
il  suddetto  potere  per  la parte civile - il legislatore non abbia
previsto,  per  questa  parte  processuale, alcun regime transitorio,
contemplato,  invece,  nei  commi 2 e 3 dell'art. 10, per il pubblico
ministero  e l'imputato: con la conseguenza che alla parte civile, la
quale  abbia  gia'  proposto  impugnazione al momento dell'entrata in
vigore della legge n. 46 del 2006, non e' consentito proporre ricorso
per  cassazione,  entro  i  quarantacinque  giorni dalla notifica del
provvedimento  dichiarativo  della  inammissibilita', «non risultando
possibile,  sempre  in  ragione  del  principio di tassativita' delle
impugnazioni,  un'interpretazione  estensiva»  di  questa  disciplina
transitoria anche alla parte civile;
     che  - alla luce di tali premesse di ricostruzione del sistema -
la  Corte  d'appello di Lecce ritiene fondati i dubbi di legittimita'
costituzionale,  in  riferimento, innanzitutto, all'art. 111 Cost. ed
ai  principi  della  parita'  tra  le parti e del contraddittorio; da
intendersi,  questi ultimi, riferiti non alla sola fase del giudizio,
ma  anche  al «successivo momento, di reazione avverso la statuizione
con cui e' stato definito il giudizio medesimo»;
     che la parte civile - oltre ad essere discriminata rispetto alle
altre     parti     processuali     (segnatamente,     rispetto    al
danneggiante-imputato)  -  verrebbe  irragionevolmente privata di uno
strumento  di doglianza nel merito, nei confronti della decisione del
primo  giudice;  strumento riconosciuto, invece, allorquando l'azione
civile venga esercitata dinnanzi al giudice civile;
     che  tale  ultima  constatazione  -  argomenta  ancora  la Corte
rimettente  -  «involge,  quale inevitabile ricaduta anche la lesione
del  principio  di  eguaglianza  e del diritto di agire in giudizio a
salvaguardia  dei  propri  diritti,  sanciti,  rispettivamente, dagli
artt.  3  e 24 della Carta costituzionale» (parametri che, nondimeno,
non vengono espressamente indicati nel dispositivo);
     che,  infine, la disciplina censurata violerebbe anche l'art. 97
Cost.,  sotto un duplice profilo: per il «sensibile carico di lavoro»
di  cui  viene  gravata, in esito alla novella censurata, la Corte di
cassazione;  e  per  la  circostanza  che essa diviene «giudice della
legalita'  non  piu'  della sentenza, ma dell'intero processo», cosi'
mutando la sua stessa natura di giudice del diritto;
     che,  con altra ordinanza del 27 marzo 2006 (r.o. 480 del 2006),
la  Corte  d'appello di Lecce ha sollevato, in riferimento agli artt.
3,   24   e   111   della  Costituzione,  questione  di  legittimita'
costituzionale identica, quanto ad oggetto dell'impugnativa, rispetto
a quella appena sopra esaminata;
     che,  anche  nell'ordinanza  di  rimessione  in  esame, la Corte
d'appello  di  Lecce  -  chiamata  a  delibare l'ammissibilita' di un
appello proposto, agli effetti civili, dalla parte civile avverso una
sentenza  assolutoria  - muove dal presupposto della inammissibilita'
della  proposta impugnazione, sulla scorta di argomentazioni analoghe
a  quelle  svolte  nell'ordinanza  iscritta  al  n. 346  del registro
ordinanze del 2006;
     che  la  soppressione  del  potere  di impugnazione in capo alla
parte  privata  compromette,  a  giudizio  della Corte rimettente, il
principio  di  parita'  delle  parti  nel  processo penale, garantito
dall'art. 111 Cost.: cio' in ragione della circostanza che, mentre ad
una   delle   parti,   l'imputato,   «e'   giustamente  garantita  la
possibilita'   di   un   nuovo   giudizio  di  merito»,  nell'ipotesi
«speculare» di assoluzione dell'imputato «analoga possibilita' non e'
data  -  con  violazione anche del principio di uguaglianza stabilito
dall'art.  3  Cost.  -  alla  persona  offesa  dal  reato  che  si e'
costituita  parte  civile,  e con ingiustificato sacrificio anche del
diritto  della  parte  civile  di  far  valere in giudizio le proprie
ragioni, garantito dall'art. 24 della Costituzione»;
     che analoghe considerazioni varrebbero poi in relazione all'art.
10  della  legge  n  46 del 2006, atteso che il regime transitorio in
esso  disciplinato  (e,  in particolare, la prevista possibilita' del
ricorso  per  cassazione)  si  applicherebbe solo - dato l'inequivoco
tenore  letterale  del  comma  2  -  agli  appelli  gia' proposti dal
pubblico  ministero  e  dall'imputato, ma non a quelli avanzati dalla
parte civile;
     che,  pertanto,  per  gli  appelli  della  parte civile dovrebbe
trovare applicazione il disposto dell'ultimo comma dell'art. 568 cod.
proc.  pen.,  vale a dire la conversione automatica dell'impugnazione
in  ricorso  per  cassazione:  interpretazione,  questa, che, sebbene
ritenuta  dal  giudice  rimettente l'unica consentita dal testo della
legge,   comporterebbe   quale   inevitabile  -  ma  inaccettabile  -
conseguenza   che   un   appello,   del   tutto   legittimo,  divenga
inammissibile  in  forza dell'applicazione retroattiva della novella;
con  conseguente  contrasto con i parametri costituzionali gia' sopra
specificati;
     che,  con ordinanza del 14 marzo 2006 (r.o. n. 272 del 2006), la
Corte  d'appello  di Catanzaro censura, in riferimento agli artt. 3 e
111,  settimo  comma,  Cost.,  gli artt. 6 e 10 della legge n. 46 del
2006,  nella  parte  in cui «non esplicitano il mezzo di impugnazione
esperibile  dalla  parte  civile  avverso pregiudizievoli pronunce di
primo  grado  e  nulla  dispongono circa il regime applicabile in via
transitoria,  agli  appelli  proposti  dalla  parte civile avverso le
sentenze di assoluzione»;
     che la Corte rimettente - premesso di dover delibare un appello,
ritualmente  proposto  dalla  parte  civile  avverso una sentenza del
Tribunale di Lamezia Terme in composizione monocratica; e ritenuta la
rilevanza  della  questione  medesima,  «in  quanto  le  disposizioni
impugnate  dovrebbero  trovare  immediata applicazione al giudizio» -
osserva  che  le  disposizioni transitorie della legge n. 46 del 2006
«nulla  dicono sulla ammissibilita' dell'appello proposto dalla parte
civile»;   e  che  -  seppure  si  dovesse  ritenere  «immediatamente
applicabile»  il  disposto dell'art. 6 della novella del 2006, che ha
modificato  l'art.  576  cod.  proc.  pen.  - non verrebbe risolto il
problema,  alla  luce  del  principio  di  tassativita'  dei mezzi di
impugnazione, di quale debba essere il mezzo di impugnazione nel caso
di specie: se, cioe', l'appello o il ricorso per cassazione;
     che  -  a  parere  del  giudice  a  quo  -  la  prima  soluzione
«determinerebbe una palese ed irragionevole disparita' di trattamento
tra  la  pretesa  privata  e  la pretesa pubblica, in quanto la parte
civile  sarebbe  abilitata  a proporre appello, per fini civilistici,
avverso  sentenze  che  il  p.m. per fini penali non puo' appellare»;
mentre,  optando per la seconda soluzione, si porrebbe il problema di
una  conversione  dell'impugnazione  in  ricorso  per  cassazione non
disciplinata  in  via  transitoria,  cio' che «non consentirebbe alla
parte  di  modulare i parametri in funzione dei poteri del giudice di
legittimita»;
     che cio' si tradurrebbe sia in una violazione dell'art. 3 Cost.,
per  intrinseca  irragionevolezza e disparita' di trattamento, quanto
in  un contrasto con il disposto dell'art. 111, settimo comma, Cost.,
«perche'  sarebbe  precluso  il potere di ricorrere in Cassazione per
violazione di legge, nelle corrette forme previste»;
     che, con ordinanza dell'8 maggio 2006 (r.o. n. 460 del 2006), la
Corte  d'assise  d'appello  di  Venezia  ha  sollevato  questione  di
legittimita'  costituzionale,  in via principale, dell'art. 10, comma
1,  della legge n. 46 del 2006, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111
Cost.,  «nella  parte  in  cui  prevede  l'applicazione  della  nuova
disciplina  anche  all'appello proposto dalla parte civile avverso la
sentenza  di  proscioglimento pronunciato nel giudizio, gia' pendente
all'atto  della  sua  entrata in vigore»; ed, in via subordinata, del
medesimo  art.  10,  commi  2  e 3, in riferimento agli artt. 3 e 111
Cost.,  «nella  parte in cui non prevedono la loro applicazione anche
all'appello  proposto  dalla  parte  civile  contro  una  sentenza di
proscioglimento»;
     che la Corte rimettente - chiamata a delibare l'appello proposto
dalla  parte  civile avverso una sentenza di assoluzione dai reati di
omicidio  volontario  e  detenzione  e porto di arma da fuoco, emessa
dalla  Corte  d'assise di Treviso - muove dalla constatazione che, in
esito   all'entrata   in   vigore   della  novella  n. 46  del  2006,
risulterebbe non piu' ammesso, nel rito penale, l'appello della parte
civile  avverso le sentenze dibattimentali di proscioglimento: e cio'
sulla  base  di argomentazioni del tutto analoghe a quelle sviluppate
dalle altre Corti rimettenti nelle ordinanze sopra richiamate;
     che,  allo  stesso  modo, la Corte d'assise d'appello di Venezia
ritiene che l'art. 10, commi 2 e 3, della legge n. 46 del 2006 non si
applichi  alla  parte  civile,  la  quale,  pertanto, potrebbe essere
ammessa  a proporre ricorso per cassazione solo in forza del disposto
dell'ultimo comma dell'art. 568 cod. proc. pen.;
     che  - a giudizio della Corte rimettente - mentre l'eliminazione
«a  regime»  del potere di impugnazione in capo alla parte civile non
porrebbe alcun problema di compatibilita' costituzionale, proprio con
riferimento  alla  citata disciplina transitoria verrebbe in evidenza
un   profilo   di   disarmonia   con   alcuni  principi  della  Carta
fondamentale;
     che,    infatti,    «la   retroattivita'   dell'inammissibilita'
dell'appello,   gia'   tempestivamente   e   ritualmente   proposto»,
configurerebbe  una  violazione  del  diritto  di  difesa della parte
danneggiata   garantito   dall'art.   24   Cost.;  infatti  -  mentre
l'abolizione  dell'appello per i nuovi processi lascerebbe alla parte
danneggiata  la  piena  valutazione circa il rapporto tra vantaggi ed
inconvenienti   derivanti   dall'esercizio   dell'azione  civile  nel
processo  penale  -  la disciplina contenuta nel comma 1 dell'art. 10
«confisca   di   fatto   il   diritto   di  azione  gia'  esercitato,
vanificandolo  senza  rimedi  e  senza  alcuna ragionevolezza»: cosi'
violando  anche  il  disposto  dell'art.  3  Cost., in relazione alla
considerazione  che  la  medesima  azione,  «se  proposta  nella sede
civile,    avrebbe    tranquillamente    potuto    essere   coltivata
ulteriormente»;
     che,  quanto  alla  questione prospettata in via subordinata, la
Corte  rimettente  evidenzia  come,  per  la parte civile, la forzata
conversione  dell'appello  in  ricorso - conseguente alla mancanza di
una  disciplina  transitoria applicabile all'impugnazione proposta da
tale  parte  processuale  -  senza  la possibilita' di «emendare», in
alcun   modo,   gli   aspetti  formali  e  sostanziali  dell'atto  di
impugnazione,  si  tradurrebbe «in una sostanziale espropriazione del
diritto di difesa dell'appellante»;
     che  la disciplina censurata determinerebbe, sotto tale profilo,
una  irragionevole disparita' di trattamento tra pubblico ministero e
imputato,  da  un  lato,  e parte civile, dall'altro; con conseguente
violazione  tanto  del  principio  di  eguaglianza di cui all'art. 3,
quanto  di  quello  della  parita'  delle parti sancito dall'art. 111
Cost.;
     che  in  tutti  i  giudizi  e'  intervenuto  il  Presidente  del
Consiglio   di   ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura
generale dello Stato, concludendo per l'inammissibilita' o, comunque,
per la manifesta infondatezza delle questioni;
     che  la  difesa  erariale  assume,  infatti,  che  il  dubbio di
costituzionalita'  originerebbe da un errato presupposto ermeneutico:
vale a dire, che la disciplina introdotta con la legge n. 46 del 2006
avrebbe  privato  la  parte civile della possibilita' di appellare la
sentenza di proscioglimento;
     che,  viceversa, l'art. 6 della legge citata si sarebbe limitato
ad  eliminare  l'inciso contenuto nel testo originario («con il mezzo
previsto  per il pubblico ministero»), coerentemente con la scelta di
limitare  drasticamente  la  possibilita'  del  pubblico  ministero e
dell'imputato  di appellare contro le sentenze di proscioglimento; ma
non  avrebbe tuttavia pregiudicato, in alcun modo, l'esperibilita' di
tale  rimedio,  evidentemente  ai  soli  effetti  civili, dalla parte
civile;  e  cio'  sarebbe  confermato  anche  dalla  permanenza,  nel
sistema,  di una norma come l'art. 600, comma 1, cod. proc. pen., che
il  legislatore  della  novella non avrebbe inteso abrogare ed il cui
contenuto  presupporrebbe, evidentemente, la permanenza del potere di
appello della parte civile;
     che   l'Avvocatura   deduce  altresi'  l'inammissibilita'  delle
questioni, sotto il profilo della mancata esplorazione - da parte dei
giudici  rimettenti  - di una diversa possibilita' ermeneutica, circa
il  presupposto  interpretativo  su  cui  si fonda la questione: cio'
anche in ragione di uno degli orientamenti della Corte di cassazione,
che  afferma  il perdurante potere di impugnazione in capo alla parte
civile;
     che,  in  particolare,  in  riferimento alla questione sollevata
dalla Corte d'appello di Lecce (r.o. 480 del 2006) ed inerente l'art.
10  della  legge  n. 46  del 2006, l'Avvocatura ritiene che essa, per
come  prospettata,  sia  inammissibile  «essendosi  il  giudice a quo
limitato a denunciare il contrasto con gli articoli 3, 24 e 111 della
Costituzione,   senza   minimamente   argomentare   nel  senso  della
prospettata incostituzionalita»;
     che, infine, in relazione alla questione prospettata dalla Corte
d'appello  di  Catanzaro  (r.o.  n. 272 del 2006), la difesa erariale
deduce,   da   un  lato,  l'assoluto  difetto  di  motivazione  sulla
rilevanza,  essendosi  la  Corte  rimettente  limitata  ad affermare,
apoditticamente,  che  le  disposizioni impugnate «dovrebbero trovare
applicazione  nel  presente giudizio»; eccepisce, dall'altro lato, il
carattere   del   tutto  ipotetico  della  questione,  posto  che  il
rimettente  avrebbe  omesso  di  indicare  quale, tra le disposizioni
enucleabili   dalla   norma  impugnata,  intendesse  sottoporre  allo
scrutinio di costituzionalita'.
   Considerato  che  le  ordinanze  di rimessione sollevano questioni
identiche  e,  pertanto,  i relativi giudizi vanno riuniti per essere
definiti con un'unica decisione;
     che i giudici a quibus
dubitano,   in   riferimento  agli  artt.  3,  24,  97  e  111  della
Costituzione,  della  legittimita'  costituzionale  dell'art. 576 del
codice  di  procedura penale, come modificato dall'art. 6 della legge
20  febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in
materia  di  inappellabilita'  delle  sentenze  di  proscioglimento),
quest'ultimo   direttamente   censurato   dalla  Corte  d'appello  di
Catanzaro,  nella  parte  in  cui  escluderebbe,  in  capo alla parte
civile,  il  potere  di  proporre  appello  avverso  la  sentenza  di
proscioglimento dell'imputato, e dell'art. 10 della medesima legge;
     che  comune  a  tutte  le ordinanze di rimessione e' la premessa
interpretativa  secondo  cui  la  riforma delle impugnazioni del 2006
avrebbe  soppresso,  per  la  parte  civile,  il  potere  di appello;
deduzione,  questa,  cui  i  rimettenti  -  alla  luce  del  generale
principio   di   tassativita'  dei  mezzi  di  impugnazione  espresso
nell'art.  568, comma 1, cod. proc. pen. - pervengono in forza di una
duplice  considerazione: sia la constatazione che la parte civile non
e'  inclusa  tra  i soggetti legittimati a proporre appello dall'art.
593  cod. proc. pen.; sia il rilievo che il testo novellato dell'art.
576  del  codice  di  rito  -  nel corpo del quale e' stata soppressa
l'originaria   statuizione,  che  consentiva  alla  parte  civile  di
proporre  impugnazione  con  lo stesso mezzo previsto per il pubblico
ministero  - non specifica di quali mezzi di impugnazione detta parte
sia ammessa a fruire;
     che,   peraltro,   questa  Corte  -  dichiarando  manifestamente
inammissibile una questione di legittimita' costituzionale fondata su
un  identico  presupposto  ermeneutico  (cfr. ordinanza n. 32 del del
2007)  - ha evidenziato che «deve registrasi l'assenza allo stato, di
un  "diritto  vivente"  conforme alla premessa interpretativa posta a
base  dei dubbi di legittimita' costituzionale»: potendosi ravvisare,
gia'  all'epoca  di tale decisione, una diversa soluzione ermeneutica
idonea a soddisfare il petitum degli odierni rimettenti;
     che,  in  particolare, nella citata pronuncia, veniva richiamata
l'opposta  tesi  affermata dalla Corte di cassazione, in virtu' della
quale  la  novella  del 2006 non avrebbe affatto determinato il venir
meno,  in  capo  alla  parte  civile, del potere di appello contro le
sentenze  di  proscioglimento,  ai soli effetti della responsabilita'
civile;
     che  tale  tesi - nel frattempo divenuta maggioritaria presso la
giurisprudenza  di legittimita' - ha trovato ulteriore conferma nella
pronuncia  delle  Sezioni  unite  della  Corte di cassazione (si veda
Cassazione,  sezioni  unite,  29  marzo  2007, n. 27614), la quale ha
ribadito  come la parte civile, anche dopo l'intervento sull'art. 576
cod.  proc.  pen.  ad  opera  dell'art. 6 della legge n. 46 del 2006,
possa  proporre  appello,  agli effetti della responsabilita' civile,
contro  la  sentenza  di  proscioglimento pronunciata nel giudizio di
primo grado;
     che,  nell'affermare  tale opzione ermeneutica, il giudice della
legittimita'  ha,  in  particolare,  fatto  leva sull'interpretazione
logico-sistematica  dell'art.  576  cod.  proc. pen. - attribuendo «a
mero  difetto di tecnica legislativa la formulazione letterale» della
norma  in  questione  -  e,  soprattutto, sulla volonta' legislativa,
quale desumibile dai lavori parlamentari;
     che, in proposito, la Corte di cassazione ha evidenziato come le
modifiche  apportate al testo normativo originariamente approvato dal
Parlamento,  dopo il rinvio alle Camere da parte del Presidente della
Repubblica  ai  sensi  dell'art.  74  Cost.  -  ed  in particolare la
soppressione,  nell'art.  576  cod.  proc.  pen., dell'inciso «con il
mezzo  previsto  dal  pubblico  ministero»  - risultassero in realta'
finalizzate  a  «rimodulare,  accrescendoli, i poteri di impugnazione
della  parte civile, sganciandone la posizione da quella del pubblico
ministero»  ed  a  ripristinare,  dunque,  il potere di appello della
parte privata: con il chiaro intento di recepire il rilievo formulato
nel  messaggio  presidenziale,  circa  l'eccessiva compressione della
tutela  delle  vittime  del reato, quale si delineava nelle soluzioni
legislative inizialmente adottate;
     che  a  cio'  va aggiunto come neppure in ordine alla disciplina
transitoria  si riscontri uniformita' di vedute: essendosi affermato,
da  una  parte  della giurisprudenza di legittimita', che ove pure la
nuova  legge avesse effettivamente rimosso il potere di appello della
parte civile, non ne conseguirebbe comunque - contrariamente a quanto
assumono i rimettenti - l'inammissibilita' dell'appello anteriormente
proposto da detta parte; e cio' in quanto la disposizione transitoria
di cui all'art. 10, comma 1 - evocata dai giudici a quibus
a  sostegno del loro assunto - nello stabilire che «la presente legge
si  applica  ai  procedimenti in corso alla data di entrata in vigore
della  medesima»,  si  sarebbe  limitata  soltanto  a  riaffermare il
generale   principio   tempus   regit  actum,  tipico  della  materia
processuale;
     che,   pertanto,   avendo   omesso   i   giudici  rimettenti  di
sperimentare  adeguate  soluzioni  ermeneutiche  -  diverse da quelle
praticate  -  idonee  a  rendere le disposizioni impugnate esenti dai
prospettati  dubbi  di  legittimita',  le  questioni  proposte devono
essere  dichiarate  manifestamente  inammissibili,  alla  luce  della
costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, ordinanze n. 35
del  2006,  n. 381  del 2005 e n. 279 del 2003; nonche', su questione
analoga, oltre alla gia' richiamata ordinanza n. 32 del 2007, si veda
l'ordinanza n. 3 del 2008).
   Visti  gli  artt.  26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.