IL TRIBUNALE
   Letti  gli atti del procedimento n. 2353.01, ha emesso la seguente
ordinanza.
   Con  atto  di  citazione  del  25  agosto  2001 L. F. conveniva in
giudizio  A.  G.,  la CONEROBUS e la FONDIARIA S.p.A., con domanda di
risarcimento  dei  danni  pari  a  £  1.000.000.000  (un miliardo) a
seguito di un investimento da lui subito quale pedone, con in braccio
un bambino di due anni.
   Esponeva  l'attore  che  si  trovava  in  un tratto ove mancava la
transenna tra marciapiede e strada; che nello stesso momento giungeva
l'autobus  della  societa'  convenuta  «a velocita' sconsideratamente
elevata»;  che egli, «spaventato dalla spropositata velocita' e dalla
scellerata,  imprudente  e  negligente  condotta  di guida tenuta dal
citato  autoveicolo,  nel  tentativo  di  levarsi dalla situazione di
pericolo  venutasi a creare, confuso, poneva un piede al di sotto del
marciapiede,  allorquando l'autobus lo andava ad urtare violentemente
con  il  suo  lato  anteriore destro, scaraventandolo rovinosamente a
terra...».
   Si  costituivano  tutti  i  convenuti,  contestando recisamente la
ricostruzione  e  la  domanda dell'attore, rilevando come la versione
del  fatto  da  parte  del  L. fosse smaccatamente contraddittoria ed
illogica,  osservando  che l'incidente era dovuto esclusivamente alla
grave  imprudenza  dell'attore  che  aveva  deciso di attraversare la
strada  in maniera improvvisa ed imprevedibile, nonostante vi fossero
a  20  metri  le  strisce  pedonali,  che  peraltro  i  vigili urbani
intervenuti   avevano  contestato  contravvenzioni  solamente  al  L.
precisamente ex art. 190, comma 2 c.d.s.
   Nel   corso  della  trattazione  istruttoria  veniva  disposta  la
riunione  del procedimento n. 3419.01, relativo alla domanda proposta
dal  legale rappresentante del piccolo B. A. il bambino in braccio al
De L. al momento dell'incidente.
   Veniva poi compiuta un'istruzione probatoria piuttosto laboriosa e
lunga, che conduceva infine all'assegnazione della causa a sentenza.
   Ritiene   questo   giudice   che   -   nonostante   l'orientamento
parzialmente  contrario  espresso,  sia  pure  in sede di delibazione
prettamente  sommaria  (e peraltro in limine), dal precedente giudice
monocratico  titolare  del  fascicolo,  relativamente alla richiesta,
accolta,  di  una  provvisionale  -  la  domanda  risulti  del  tutto
infondata,  non essendovi spazio neppure per un concorso di colpa del
conducente.
   Infatti,  non e' rimasto confutato dalle emergenze processuali che
effettivamente  c'era  un  passaggio  pedonale  a  20 metri dal punto
d'impatto,   che   effettivamente   il   pedone   inopinatamente   ed
illecitamente   aveva   cominciato  ad  attraversare,  scendendo  dal
marciapiede,  per  di  piu'  con  un bambino in braccio, che non solo
risulta  non  provata  l'alta  velocita'  del  mezzo  (non sono state
riscontrate strisce di frenata, un solo teste riferisce di un fischio
che  gli  sembra  quello  tipico  di  una  frenata)  ma  altri  testi
riferiscono  la sua moderata velocita' (20 km ora circa), la quale e'
del  tutto  compatibile con i danni riportati dall'investito, che non
fu  ne'  sbalzato  ne' trascinato, ed e' pure compatibile con i danni
per  fortuna  ancora minori riportati dal bimbo, che l'autista tento'
anche di sterzare ma non evito' l'impatto.
   Ma  soprattutto  non  e' emersa alcuna spiegazione plausibile alla
dinamica  cosi'  come  descritta  dall'attore,  rimanendo  del  tutto
illogica   la   versione   fornita,  essendo  assurdo  che  chi  vede
sopraggiungere   ad   alta  velocita'  un  autobus  e  si  trova  sul
marciapiede  abbandoni  questo  punto  che  lo  mette  al  sicuro  da
improvvide  manovre  del  conducente, piuttosto vi resta. Cio' non si
puo'  che  spiegare con una condotta sconsiderata non del conducente,
ma dell'investito.
   La  domanda, quindi, andrebbe rigettata, con il favore delle spese
per  le  parti  convenute.  Occorre  a questo punto osservare, che, a
giudizio  di  questo giudice emergono anche tutti gli elementi per la
c.d.  responsabilita'  aggravata di cui all'art. 96 c.p.c., senonche'
nessuna  delle  parti convenute ha avanzato la relativa domanda, e la
questione,   alla   luce  dell'attuale  diritto  positivo  -  nonche'
dell'interpretazione assolutamente dominante che viene data dall'art.
96  sul  punto dell'impossibilita' di una condanna d'ufficio ai sensi
di  questa norma, confortata peraltro dal dato letterale - neppure si
porrebbe.
   Questo  giudice,  tuttavia, ritiene che questo non sia compatibile
con   l'adeguata   osservanza  ed  applicazione  di  alcuni  principi
costituzionali.  Ritiene  infatti  che  l'attuale disciplina positiva
della  cosiddetta  lite  temeraria, prevista dall'articolo 96 c.p.c.,
sia  in  contrasto  con  i  valori  costituzionali di ragionevolezza,
parita'  di  trattamento,  diritto  di  difesa  e  con i principi sul
cosiddetto   giusto   processo,   costituzionalizzati   nella   nuova
disposizione  dell'articolo  111,  commi primo e secondo, proprio nel
punto  in  cui non consente una pronuncia d'ufficio sulla sussistenza
della c.d. lite temeraria.
   Tradizionalmente,  la  responsabilita'  di cui parla l'articolo 96
c.p.c.  e'  stata  sempre vista come responsabilita' verso un singolo
soggetto,  vale a dire la controparte processuale, il singolo privato
con il quale si contende.
   Il  profilo  sanzionatorio  della  norma, nonostante anch'esso sia
partecipe  delle  finalita'  della  stessa,  e  nonostante  fosse ben
presente  a tutti gli interpreti, all'uscita del codice del 1940, non
era inteso che come sanzione in senso lato.
   In  altre  parole,  tutelando il singolo soggetto «processualmente
danneggiato»,  si veniva a conseguire, o si sarebbe dovuto conseguire
anche  un  vantaggio  per  la  speditezza,  l'efficienza  e il giusto
andamento del sistema processuale nel suo complesso.
   Certo,  la  previsione  di una condanna per lite temeraria avrebbe
dovuto  anche essere una remora per coloro che avessero intenzione di
provocare ingiustamente un processo.
   Ma   sicuramente   il   legislatore  del  1940  non  era  pressato
dall'esigenza  di  evitare  il  distorto  uso del diritto di agire in
giudizio come lo e', invece, quello attuale.
   Pertanto  l'efficacia  solamente  ipotetica  e  indiretta  di tale
«sanzione» poteva apparire comunque sufficiente.
   Tuttavia,  anche  nei  tempi meno recenti, il quadro normativo nel
suo   complesso  non  risultava  omogeneo  secondo  le  stesse  prime
ricostruzioni   operate   dai   commentatori   dell'epoca   e   dalla
giurisprudenza, almeno sino ai primi anni '50.
   Se  la responsabilita' cosiddetta aggravata per lite temeraria era
strutturata  a protezione di un interesse del singolo, era logico che
dovesse  essere oggetto di specifica domanda da parte di quest'ultimo
al  giudice.  Ma, pur tenendo ferma l'impossibilita' di una pronuncia
d'ufficio  nella  fattispecie, autorevole dottrina poneva in evidenza
il   rapporto   intercorrente   fra   l'articolo   92,  primo  comma,
dell'articolo 96, primo comma del codice di procedura civile.
   Il  primo  recita  «Il giudice, nel pronunciare la condanna di cui
all'articolo  precedente,  puo'  escludere la ripetizione delle spese
sostenute   dalla   parte  vincitrice,  se  le  ritiene  eccessive  o
superflue;  e  puo',  indipendentemente dalla soccombenza, condannare
una  parte  al  rimborso  delle spese, anche non ripetibili, che, per
trasgressione al dovere di cui all'art. 88, essa ha causato all'altra
parte».  Il  secondo: «Se risulta che la parte soccombente ha agito o
resistito  in  giudizio  con  malafede  o colpa grave, il giudice, su
istanza  dell'altra  parte,  la  condanna,  oltre  che alle spese, al
risarcimento   dei  danni,  che  liquida,  anche  di  ufficio,  nella
sentenza».
   Mentre la prima norma avrebbe colpito la temerarieta' della lite a
prescindere  dalla  soccombenza,  la  seconda  avrebbe  contenuto una
«ulteriore» sanzione a carico del soccombente temerario.
   Tale  ricostruzione  trova  contrasti  in dottrina, sebbene sembri
avvallata  dalla  giurisprudenza.  Con  riguardo  in  particolare  al
rimborso  delle  spese  processuali  irripetibili  di cui all'art. 92
c.p.c.,  cfr.  Cass.  civ., sez. II, 26 marzo 1986, n. 2174 «Resta da
dire,  con  riferimento  ad  un  rilievo  svolto dal ricorrente nella
discussione   orale,   che   la  ipotesi  del  rimborso  delle  spese
irripetibili,  cioe'  di  quelle  spese  che  eccezionalmente possono
essere  rimborsate  a  titolo  di  risarcimento  del  danno,  non  si
esaurisce  nella  disciplina  dell'art.  92  c.p.c., dove la relativa
condanna,   collegata  alla  trasgressione  del  dovere  di  lealta',
prescinde  dalla  soccombenza, potendo la stessa condanna, per quanto
concerne  la  parte  soccombente,  trovare una specifica applicazione
nell'ambito  della  previsione  dell'art.  96 c.p.c.». Con il che, lo
stretto  collegamento tra le due norme, per quello che qui interessa,
appare confermato.
   Secondo   altra,  e  piu'  recente  ricostruzione  dottrinale,  il
comportamento  fonte di responsabilita' aggravata ex art. 96 c.p.c. -
una   volta   individuato   -   di  per  se'  puo'  costituire  anche
comportamento in violazione dell'art. 88 c.p.c.
   Infatti un comportamento che il sistema pone «oltre le c.d. regole
del  gioco»,  tanto da obbligare chi lo tiene non solo alla refusione
delle  spese  ma anche al risarcimento dei danni prodotti, non potra'
non  considerarsi contestualmente anche quale condotta illegittima ai
sensi  dell'art. 88 c.p.c. Ma la corrispondenza tra le fattispecie di
cui  all'art.  96  c.p.c.  e  quelle previste dall'art. 88 c.p.c. non
potra'  essere reciproca, e cio' nel senso che mentre l'instaurazione
della  lite temeraria configurera' imprescindibilmente una ipotesi di
violazione del dovere di lealta' e probita', una qualunque infrazione
al principio di cui all'art. 88 c.p.c. non sempre ne' automaticamente
potra'   costituire  atto  cui  far  discendere  una  responsabilita'
aggravata per le conseguenze di cui all'art. 96 c.p.c.
   Cosi',  se la ratio per la quale il legislatore ha riconosciuto il
diritto di azione e' quello di consentire alla parte di far valere un
proprio  diritto  soggettivo dinanzi agli organi giurisdizionali, chi
al  contrario  utilizzi  il diritto di azione non per questo scopo ma
per  altri  (si  pensi  all'azione palesemente infondata fatta valere
solo   per  creare  disturbo  psicologico  o  di  altra  natura  alla
controparte)  terrebbe  un  comportamento  processuale sviato, ovvero
finalizzato  a  scopi  diversi  per i quali la tutela giurisdizionale
sussiste.
   Ora, e' appena il caso di rilevare che, nel caso dell'articolo 92,
primo  comma  del codice di procedura civile il potere del giudice si
poteva e si puo' esercitare anche d'ufflcio, costituendo anzi oggetto
di  un  potere  discrezionale incensurabile in cassazione, secondo la
stessa  giurisprudenza  della  corte.  Ma allora, laddove si acceda a
tale  ricostruzione,  e  pertanto  si  consideri  che le norme appena
citate  esprimono  la  stessa  finalita', non si giustifica l'impulso
officioso  nell'una e la condanna solo su domanda di parte nell'altra
ipotesi normativa: si giunge all'assurdo che un trattamento deteriore
puo'  essere  dato,  d'ufficio,  ai sensi dell'art. 92 , primo comma,
alla  parte  totalmente  vittoriosa, rispetto ad un trattamento - che
sanziona  comportamenti  della  stessa  natura  - che non puo' essere
dato, d'ufficio, alla parte totalmente soccombente.
   Senza   tralasciare  il  fatto  che,  proprio  in  sede  di  prima
applicazione  dell'art. 96 c.p.c., la stessa Cassazione, sia pure con
isolata  pronuncia,  ammise  la  condanna ex art. 96 anche d'ufficio:
«...  rilevasi  che  di  fronte  alla dizione amplissima dell'art. 96
c.p.c.  -  il  quale  in  relazione al concetto che l'attivita' della
parte  nel processo e' libera entro i limiti in cui ogni azione umana
e'  libera,  cioe'  fino  a  quando  non  venga  ad invadere la sfera
giuridica  altrui  -  pone  il  principio  che  non e' lecito agire o
resistere  in  giudizio con malafede o colpa grave, nulla impedirebbe
in  astratto  che  la  parte,  consapevole dell'ingiustizia della sua
pretesa  o  della  sua  contestazione,  o che con una tenue diligenza
avrebbe  potuto rendersi conto di tale ingiustizia, fosse condannata,
oltre che alle spese, anche al risarcimento di danno pur nel giudizio
di  cassazione,  ma nel caso non esiste alcuna prova della malafede o
della  colpa  grave  della  ditta  ricorrente, atte a giustificare il
grave   provvedimento   invocato  dalla  ricorrente  Siemens  e  che,
nell'ambito  del  suo  potere-dovere  la Corte di cassazione potrebbe
adottare  anche d'ufficio» (Cass., I sez. civ., 22 aprile - 21 giugno
1952, n. 1671, inedita per esteso, a quanto consta).
   Qui,  con  il  richiamo  a  tale vecchia statuizione, che peraltro
appare  andare oltre il mero obiter, non si vuole certamente porre in
discussione  la  sussistenza di un ormai granitico orientamento sulla
necessita'  di  istanza  di  parte, peraltro chiaramente prevista dal
dato  letterale  della  norma,  quanto  piuttosto sottolineare che la
condanna   ex   officio  puo'  appartenere  alla  natura  della  lite
temeraria, e' compatibile e quasi imposta dai suoi fini, ed in genere
appare  del  tutto  omogenea  alla  struttura dell'istituto, prova ne
siano  le  discussioni  dottrinarie  meno  recenti  e  queste  stesse
significative   eccezioni  in  sede  di  prima  interpretazione  dopo
l'entrata in vigore del c.p.c.
   A  proposito  di  tale  compatibilita'  «strutturale», l'Assemblea
plenaria  della  Corte  suprema di cassazione, riunitasi il 21 luglio
2005  ai  sensi  dell'art.  93  o.g.,  in  riferimento  alla  novella
dell'art. 385 c.p.c., ha osservato, diversamente: «Sanzionare in modo
piu' efficace ogni forma di abuso del processo rappresenta una misura
di  razionalizzazione  indispensabile se si vuole mantenere l'attuale
regime  di  sostanziale  gratuita'  della giustizia senza determinare
sprechi ingiustificati e insostenibili di una risorsa inevitabilmente
scarsa,  quale  e' quella del processo. Da piu' parti e' avvertita la
necessita'  di  superare  l'attuale  disciplina della responsabilita'
aggravata,  resa sostanzialmente inoperante dalla difficolta' di dare
la  prova  del danno patrimoniale conseguente all'abuso del processo.
La  previsione  normativa adottata dallo schema desta peraltro alcune
perplessita'.  In  primo luogo appare contrario ai principi prevedere
una  condanna  in  favore di una parte senza domanda di quest'ultima,
anche   se  e'  vero  che  non  e'  congruo  affidare  esclusivamente
all'iniziativa  di  parte l'operativita' dell'istituto. La previsione
lascia  poi  scoperta  l'ipotesi  di  non  costituzione  in  giudizio
dell'altra  parte.  Anche  la mancanza di qualificazione giuridica di
questa  sorta  di  pena pecuniaria che viene irrogata in favore della
parte determina un certo disagio.
   Appare  quindi  preferibile  prevedere, per queste ipotesi di lite
temeraria,  un  risarcimento  del  danno  anche  non patrimoniale con
minimo  predeterminato  ed  aggiungere  la  previsione  di  una  pena
pecuniaria   in   favore  della  cassa  delle  ammende  a  titolo  di
riparazione  per  il  danno  che il sistema di giustizia riceve dallo
spreco   delle  sue  risorse  che  il  ricorso  temerario  determina,
contribuendo  ad ingolfare il carico giudiziario e quindi a ritardare
la definizione di tutti gli altri processi.
   La norma potrebbe essere quindi cosi' formulata:
     "Quando  pronuncia  sulle  spese,  anche  nelle  ipotesi  di cui
all'articolo  375,  la  Corte, se ritiene che la parte soccombente ha
proposto  il ricorso o vi ha resistito con malafede o colpa grave, la
condanna,  su  istanza  dell'altra  parte, al risarcimento del danno,
anche   non   patrimoniale,   in  misura  non  inferiore  alla  somma
liquidabile per le spese di lite".
   Nel  caso previsto dal comma precedente la Corte condanna la parte
soccombente,  d'ufficio,  al  pagamento  in  favore della cassa delle
ammende di una pena pecuniaria determinata in misura non superiore al
doppio della somma liquidabile per le spese di lite».
   Ora,  le  osservazioni  dell'Adunanza  plenaria, appena richiamate
sono  del  tutto  congrue, ad eccezione di una. Si ritiene infatti di
aver  spiegato  sopra  come  non  sia insormontabile, nel sistema, la
pronuncia   d'ufficio   sul   punto,   e   d'altro  canto  non  viene
specificamente  espresso  il  motivo per cui «... appare contrario ai
principi  prevedere una condanna in favore di una parte senza domanda
di  quest'ultima  ...»,  tanto  piu'  che subito dopo si osserva «...
anche   se  e'  vero  che  non  e'  congruo  affidare  esclusivamente
all'iniziativa  di parte l'operativita' dell'istituto ...». E allora,
una  volta  sottolineata  la  necessita'  della  sanzione  e  la  sua
pronuncia  d'ufficio,  non  si  vede in quale altro modo uscire dalla
difficolta'.  Quanto previsto da tale parere, vale a dire limitare la
pronuncia  d'ufficio  alla  sanzione  pecuniaria destinata alla cassa
della  ammende,  se e' in linea con la tradizione, non tiene conto di
un  dato  il  quale,  pur  nella  sua  prosaicita',  non  puo' essere
trascurato in caso di analisi dell'efficacia delle norme quale quella
che si sta conducendo: il nostro sistema di riscossione delle entrate
pubbliche  non  brilla  per  efficienza,  e  non  e'  escluso  che il
legislatore  abbia  considerato  che  il  creditore privato di questo
«danno punitivo» (ammesso e non concesso che tale possa qualificarsi)
sia molto piu' efficiente, in executivis, dell'erario.
   L'opzione  di  cui  si discute, dunque possibile e non estranea al
sistema,  si affaccia con impellenza nelle condizioni attuali. Sempre
con  maggiore  gravita' ed urgenza si e' posto il problema del numero
eccessivo  dei  processi  civili pendenti, i quali sono da un lato il
portato  di  un  esponenziale  crescita  delle cause civili iniziate,
dall'altro  la  conseguenza  di  una  sempre maggiore incapacita' del
sistema  giudiziario  italiano  a  gestire  il numero complessivo dei
processi giacenti e di quelli sopravvenuti in maniera soddisfacente.
   Tale  incapacita',  tuttavia,  e' in gran parte dipendente proprio
dalla  maggiore  frequenza  e facilita' con cui, oggi in misura senza
dubbio  maggiore  rispetto  al  passato,  si  puo'  adire il giudice,
frequenza   e   facilita'   che  a  loro  volta  nascono  sicuramente
dall'esigenza,  sacrosanta,  che  il cittadino possa difendere le sue
posizioni  soggettive in maniera piu' completa ed articolata. Ma tale
esigenza   rimarrebbe  -  come  in  effetti,  allo  stato,  rimane  -
generalmente  insoddisfatta  proprio  perche' le risorse materiali ed
umane  del  «sistema  giustizia», come in concreto si e' strutturato,
sono date in misura fissa, ovvero difficilmente ampliabile, cosicche'
risulta  vano  riconoscere sulla carta diritti processuali, posizioni
sostanziali  e  facilita'  di  adire  il  giudice,  venendo  cosi' ad
espandere,  per  usare  termini economici, la «domanda» di giustizia,
quando l'«offerta» rimane rigida.
   A  tali  problemi si ricollega la famosa polemica sulle «riforme a
costo zero».
   Ma, anche senza ampliare l'offerta di risorse materiali o umane da
cui oggi il processo civile puo' attingere, appare possibile - e, per
cio'  solo,  doveroso  - quanto meno razionalizzare l'impiego di tali
risorse  attraverso  opportuni  accorgimenti  normativi,  proprio nel
momento  in  cui  maggiori  sono  le  possibilita'  per  l'utente  di
ricorrere al giudice.
   Di  questa  necessita'  di  contromisure  (o  contrappesi)  sembra
essersi  reso  conto  di  recente  il  legislatore nel momento in cui
attraverso il d.lgs. n. 40/2006 e' giunto a modificare l'articolo 385
c.p.c.   La   relazione  al  testo  normativo,  sul  punto,  osserva:
«l'articolo  13  interviene  sull'articolo 385 c.p.c., aggiungendo un
quarto  [rectius,  terzo]  comma che rappresenta una applicazione del
principio  della responsabilita' aggravata contenuto nell'articolo 96
c.p.c.,  in  modo da prevederne una specifica attuazione, in finzione
di  bilanciamento  con  l'ampliata  possibilita'  di  ricorrere  alla
suprema Corte».
   Per  la  relazione alla legge, cosi' come per la maggior parte dei
primi  commentatori,  quindi,  la  norma  si porrebbe nel solco della
responsabilita'    aggravata   di   cui   all'articolo   96   c.p.c.,
costituendone un'ipotesi specifica.
   Tuttavia le novita' rispetto al paradigma dettato dall'articolo 96
sono piu' di una e tutte piuttosto significative.
   In  primo  luogo  -  e questo e' particolarmente importante per la
materia  che  si sta analizzando - appare l'espressa previsione della
pronuncia  di  condanna  anche d'ufficio. Questo e' un dato che senza
dubbio accentua il profilo sanzionatorio della norma.
   In secondo luogo, vediamo una limitazione del quantum risarcibile,
«non  superiore  al doppio dei massimi tariffari». Qui, appare ancora
piu'  evidente  che la condanna del litigante temerario e' vista come
una  vera e propria sanzione nell'accezione piu' stretta del termine,
altrimenti non si spiegherebbe l'evocazione, di tipo edittale, di una
pena.  Al  contrario, se si trattasse di un risarcimento, non avrebbe
senso,  dal  punto  di  vista  logico-giuridico, mettere un limite ad
esso.  Il  legislatore,  evidentemente,  piu'  interessato allo scopo
pratico  e  all'efficacia  della norma (come appena sopra accennato),
non   e'  stato  molto  controllato  nella  scelta  dei  termini.  Le
conseguenze  pratiche  di questo assetto normativo non sono tuttavia,
altrettanto infelici di quelle teoriche.
   Infatti,  si  potrebbe  osservare  che,  paradossalmente,  proprio
osservando  la norma sotto l'aspetto risarcitorio-privatistico invece
che    su    quello    sanzionatorio-pubblicistico,    essa    appare
ingiustificatamente  restrittiva  rispetto  al  passato.  Per i primi
commentatori,  nel  giudizio di cassazione, proprio per la previsione
di  questa  norma speciale, non puo' piu' essere applicato l'articolo
96 c.p.c., che non pone limitazioni al risarcimento.
   Ma   occorre   osservare   come  da  tempo  si  fosse  consolidato
l'indirizzo  che  la  Corte  di  cassazione  potesse  pronunciare  la
condanna  al  risarcimento  dei  danni  derivanti  da responsabilita'
aggravata  e  ai  sensi  del  primo  comma  dell'articolo  96 c.p.c.,
tuttavia la domanda poteva essere proposta per la prima volta in sede
di  legittimita'  solo  se relativa a danni causati dal comportamento
tenuto  dalla  parte  soccombente  nel  giudizio  di cassazione, come
nell'ipotesi tipica di proposizione di regolamento di giurisdizione a
scopo puramente dilatorio.
   Di  conseguenza, appare ovvio che la limitazione al «risarcimento»
prevista  dalla  nuova formulazione dell'articolo 385 c.p.c. riguarda
solamente  quest'ultima  ipotesi,  nella  quale  ben si comprende una
sorta  di  forfettizzazione  del «danno» cagionato per lite temeraria
limitatamente  alla  condotta  tenuta nel giudizio di cassazione, ove
fra  l'altro  sarebbe  preclusa  un'istruzione  probatoria  in  senso
stretto  sul  punto.  Viceversa,  laddove  la  questione  della  lite
temeraria  formi oggetto di impugnazione e pertanto riguardi condotte
verificatesi  nei  gradi  precedenti di giudizio, nessuna limitazione
sussiste.
   Quindi,  deve venire in rilievo solo l'intento di semplificazione,
bene  espresso  anche  dal  terzo  elemento  di  novita'  rispetto al
paradigma  dell'articolo 96 c.p.c., vale a dire l'espressa previsione
di una liquidazione equitativa.
   La  dizione dell'articolo 96 c.p.c. e' significativamente diversa,
facendo  riferimento  alla  liquidazione, anche d'ufficio, dei danni.
Cio' comportava - e, nell'attuale sistema di diritto positivo, ancora
comporta,   nonostante   i  tentativi  sempre  piu'  frequenti  della
giurisprudenza  di  merito di facilitare il relativo cammino - che il
ricorso  a  parametri  equitativi  di  liquidazione  del  danno fosse
possibile solo a ben precisi limiti e condizioni.
   In  ultima analisi, la nuova formulazione dell'articolo 385 c.p.c.
deve  essere  sottolineata  nella  sua  effettiva,  e  significativa,
portata.  Essa  va inserita nell'ambito e dei tentativi legislativi e
giurisprudenziali,  sempre  piu'  forti  nell'ultimo  periodo, di una
«rivitalizzazione»  complessiva  dell'istituto  della cosiddetta lite
temeraria.  In  questo  stesso  solco, va ricordato che il disegno di
legge  governativo n. 2229 contenente «modifiche urgenti al codice di
procedura civile» (che era stato approvato dal Consiglio dei ministri
nella  seduta  del  21 dicembre 2001, poi presentato in Parlamento ed
approvato  dalla Camera dei deputati in data 16 luglio 2003), nel suo
testo  unificato, tra l'altro, prevedeva di innovare incisivamente ed
in   piu'   punti  la  disciplina  sulla  responsabilita'  aggravata,
contenuta  nell'art.  96  del  codice, disponendo all'art. 7 che: «se
risulta  che la parte soccombente ha agito, anche in via cautelare, o
resistito  in giudizio con malafede o colpa grave, ovvero ha proposto
un'impugnazione manifestamente inammissibile o infondata, il giudice,
anche   d'ufficio,   la   condanna  al  pagamento  di  una  somma  da
determinarsi  sino  ad  un  massimo  di  tre  volte  le spese di lite
liquidate ...» su istanza della parte danneggiata, provvede altresi',
alla liquidazione dei danni».
   L'innovazione  non  e'  stata  pero' approvata, cosicche' il testo
dell'art. 96 e' rimasto immutato.
   Tale  rivitalizzazione,  a  sua volta, fa perno principalmente, se
non  esclusivamente,  nella valorizzazione dell'aspetto sanzionatorio
della norma.
   Dopo   l'entrata   in   vigore   della  costituzione  repubblicana
l'articolo    24   Cost.   e'   stato   letto   anche   in   funzione
dell'effettivita'  della  tutela giudiziaria da esso riconosciuta. E'
stato,  in altre parole, osservato che va soprattutto riconosciuta la
possibilita',  seria  e  reale, di ottenere una adeguata risposta del
giudice alle istanze del cittadino.
   Ed   e'   evidente  che  tanto  piu',  nel  concreto,  il  sistema
processuale   presenta   meccanismi   lenti  ed  inceppati  anche,  e
soprattutto,   da   richieste   infondate,  tanto  piu'  la  garanzia
costituzionale prevista dall'articolo 24 viene lesa.
   Cio'  e'  aggravato  dalla  circostanza  che  il nostro sistema di
giustizia  civile  non  prevede  affatto  dei  filtri,  di fatto o di
diritto, che sono presenti in altri ordinamenti giuridici.
   Quanto   ai  primi,  occorre  osservare  che  il  costo  economico
complessivo  del  cittadino  italiano per munirsi di un legale e, nel
complesso,  per  mettere in moto la macchina giudiziaria del processo
civile,  si  pone  a  meta'  classifica,  in  un vasto lotto di paesi
europei,  superato peraltro da molte nazioni il cui reddito medio pro
capite  e'  inferiore,  e  a  volte  notevolmente inferiore, a quello
italiano.
   Dati alla mano, infatti, le statistiche redatte recentemente dalla
stampa  specializzata  vengono  a sfatare il mito secondo il quale il
costo  della  giustizia  in  Italia  sarebbe assai elevato rispetto a
tutti gli altri «paesi civili». Giova invece osservare come nel Regno
Unito,  il  cui sistema giudiziario e' tradizionalmente indicato come
modello  di efficienza, il costo per il privato di un processo civile
sia, in termini monetari, estremamente elevato e si collochi al primo
posto in tale classifica.
   Quanto  al  secondo profilo, cioe' quello dei filtri giuridici, e'
agevole  affermare  che  nel  nostro  ordinamento non sussiste alcuna
valutazione  preventiva,  effettuata  da  appositi organi, che sia in
grado  di  impedire l'instaurazione di processi sulla base di domande
che  si  presentano  infondate  ovvero palesemente infondate. Esempio
specifico,  pressoche'  unico,  di  tale tipo di filtro giuridico, e'
dato  dall'articolo  126 del d.P.R. 30 maggio 2002 numero 115 - Testo
unico  delle  disposizioni  legislative e regolamentari in materia di
spese   di   giustizia  -  laddove  esso  prevede  che  il  consiglio
dell'ordine  degli  avvocati  ammette  e  l'interessato alla gratuito
patrocinio,  in presenza delle altre condizioni reddituali richieste,
«...  se  le  pretese che interessato intende far valere non appaiono
manifestamente  infondate».  Si  tratta peraltro, come si vede, di un
filtro  giuridico dalla portata assai modesta, poiche' la preclusione
fa  leva  sulla  manifesta  infondatezza  della pretesa e soprattutto
perche'  comunque  non preclude a chi e' escluso da tale beneficio di
adire  comunque  il  giudice.  Per  altro  verso, tale esclusione dal
beneficio  marca  ancora  di  piu'  i  profili  di irragionevolezza e
disparita'   di   trattamento   dell'attuale  sistema,  poiche'  esso
indirettamente ma chiaramente discrimina il «non abbiente» rispetto a
chi,  avendo  la  possibilita'  di pagarsi un legale, non soggiace ad
alcun   filtro  preventivo  neppure  nell'ipotesi  di  una  manifesta
infondatezza della sua pretesa.
   Si  e' a tal proposito osservato, da parte della dottrina che piu'
recentemente  si  e' occupata del problema, che, per difendersi dalle
cause  connotate  da un'iniziativa o da un resistenza dettate da mala
fede   o   colpa   grave,  occorre  (anche)  valorizzare  il  rilievo
dell'articolo  96  c.p.c.,  perche' - nel complesso - chi in tal modo
ingolfa  i tribunali nuoce a tutti coloro i quali reclamano giustizia
e  non  riescono  ad  ottenerla  in tempi ragionevoli; i promotori di
difese  «bugiarde»,  percio',  meritano  di essere colpiti cosi' come
chiunque   colpirebbe   il   falso   malato   che,   procurandosi  un
ingiustificato  ricovero  in  ospedale,  togliesse il posto al malato
vero.
   Ancora,  si e' sottolineata una recente forte tendenza dei giudici
di  merito,  volta  ad  una  «lettura  costituzionalmente  orientata»
dell'art.  96  c.p.c.,  il  quale  viene  posto in correlazione con i
principi  del «giusto processo», di recente costituzionalizzati (art.
111 Cost).
   La  norma  processuale  non e' intesa quale tradizionale strumento
risarcitorio  posto  a  tutela di interessi privatistici del soggetto
leso,   che   per   effetto  del  risarcimento  puo'  cosi'  ricevere
reintegrazione del pregiudizio risentito. L'art. 96 c.p.c. fungerebbe
«quale  presidio  di  tutela  del principio di ragionevole durata del
processo  sancito  dall'art. 111 Cost.» e avrebbe anche «una funzione
sanzionatoria  di  una condotta riprovevole e dannosa per l'interesse
della collettivita». E' interessante osservare come la nuova tendenza
giurisprudenziale  tenda  anche  ad  appoggiarsi  alle  piu'  recenti
modifiche  legislative  segno  di  un orientamento che puo' definirsi
omogeneo  e  «circolare»:  a  conforto di queste tesi, infatti, viene
richiamato  proprio  il  tenore  del  nuovo  testo  del  terzo  comma
dell'art. 385 c.p.c.
   I  principi  del giusto processo sono racchiusi nella formulazione
innovata  dell'art. 111 Cost., introdotto con legge cost. 23 novembre
1999,  n. 2,  a tenore del quale: «la giurisdizione si attua mediante
il  giusto  processo regolato dalla legge». Prosegue il secondo comma
affermando  che:  «ogni  processo si svolge nel contraddittorio delle
parti,  in  condizioni  di  parita',  davanti  ad un giudice terzo ed
imparziale.  La  legge  ne  assicura  la  ragionevole  durata». Viene
osservato  che  tale prescrizione non si stabilisce che ogni processo
deve svolgersi in tempi ragionevoli ne', tantomeno, che ogni soggetto
ha  diritto  ad  un processo di durata ragionevole, ma la garanzia in
parola  comporta  il  dovere  del  legislatore  ordinario  di dare al
processo  un  assetto  strutturale  idoneo ad assicuragli la maggiore
«rapidita' di movimento» possibile, nonche' di fornire alla giustizia
le  risorse  ed  i  mezzi  appropriati  per garantire una ragionevole
intensita' di lavoro di tutti gli addetti del settore.
   Ma,  se  e'  vero  che il legislatore ordinario e' il destinatario
diretto   della   disposizione   costituzionale   novellata,   appare
innegabile   che   la   stessa   e'   indirizzata   pure  alla  Corte
costituzionale,   la   quale   dovra'  -  anzitutto  -  applicarla  e
concretizzarla  ogniqualvolta verra' invocata come norma-parametro in
sede  di  sindacato di costituzionalita' delle leggi ex artt. 23 ss.,
legge 11 marzo 1953, n. 87. Cosicche', secondo questa prospettiva, la
Corte  costituzionale  puo'  analizzare  la  legittimita'  di  quelle
disposizioni  normative,  che  in  astratto  prevedono  nel  processo
modalita'  irragionevoli e scansioni temporali eccessive o formalita'
irrazionali  ed  inutili,  come  tali non giustificate da esigenze di
effettivita'  dei  diritti  di  azione  o  difesa,  ne'  tantomeno da
interessi razionalmente strutturali e prevalenti.
   Continuando  a considerare la norma nella sua portata strettamente
risarcitoria  (e  non  sanzionatoria),  appare  chiaro  che si riduce
grandemente   le  potenzialita'  di  applicazione  di  essa,  per  la
difficolta'  di dare la prova, incombente sulla parte che richiede la
condanna, circa l'esistenza di tale danno.
   Pur  essendo  concessa  dalla  stessa norma la possibilita' di una
liquidazione  d'ufficio  dei  danni,  cio' non elimina la necessita',
ripetutamente affermata dalla giurisprudenza, che la parte provi l'an
della pretesa.
   Secondo  la  giurisprudenza  maggioritaria  occorre infatti che la
parte  deduca  e  dimostri  la  concreta ed effettiva esistenza di un
danno   che   sia   conseguenza  del  comportamento  processuale  del
soccombente,  sicche' il giudice non puo' liquidare il danno, neppure
equitativamente,  se  dagli atti non risultino elementi concreti atti
ad  indentificarne  concretamente l'esistenza (Cass. 1992/6637, Cass.
1995/15422, etc.).
   Orientamento  diverso e' quello che ha ritenuto che la condanna ai
sensi  dell'art.  96,  primo comma non postula necessariamente che la
controparte  deduca  e  dimostri  uno  specifico danno per il ritardo
provocato dal ricorso, tenendo conto che il giudice ha la facolta' di
desumere  detto  danno  da  nozioni  di comune esperienza e puo' fare
riferimento  anche  al pregiudizio che detta controparte abbia subito
di   per   se'   per   essere   stata  costretta  a  contrastare  una
ingiustificata  iniziativa  dell'avversario  (Cass., ss.uu. 13 giugno
1995, n. 448).
   E'  stato osservato che «... Per questo, si trova sovente ripetuto
che   l'art.  96  c.p.c.,  nel  disciplinare  come  figura  di  torto
extracontrattuale  la  responsabilita  processuale aggravata per mala
fede  o  colpa grave della parte soccombente, non deroga al principio
secondo il quale colui che intende ottenere il risarcimento dei danni
deve  dare  la  prova  sia dell'an che del quantum: ed il giudice non
puo'  liquidare  il danno, neppure equitativamente, se dagli atti non
risultino elementi atti ad identificarne concretamente l'esistenza.
   Orbene, questa impostazione ha condotto nei fatti ad un pressoche'
totale  oblio  della  norma,  la cui applicazione, pur dinanzi ad una
palese  sussistenza  dell'elemento soggettivo da essa contemplato, ha
costantemente   finito   per   infrangersi   contro  la  difficolta',
intuitivamente  elevata, di fornire una dettagliata deduzione e prova
del pregiudizio subito.
   L'atteggiamento  interpretativo  cosi'  riassunto  non  puo'  piu'
essere  condiviso  e,  anzi,  una  lettura  in  chiave costituzionale
dell'art.  96  c.p.c. impone di facilitarne l'impiego, sicche' essa -
scoraggiando  le  iniziative o le resistenze giudiziali che non hanno
ragione  di  essere  -  possa  fungere  quale  presidio di tutela del
principio  di  ragionevole  durata del processo sancito dall'art. 111
Costituzione   ...omissis...  In  detta  prospettiva  occorre  allora
sottolineare che, se l'art. 96 c.p.c., inserendosi nel contesto della
disciplina   aquiliana,   risponde   essenzialmente   ad  una  logica
risarcitoria,  cio'  non esclude che la stessa disposizione manifesti
anche  una  -  assolutamente evidente - funzione sanzionatoria di una
condotta  riprovevole  e  dannosa  per  l'intera collettivita': detta
funzione, di qui, non puo' non tradursi in una agevolazione, sotto il
profilo   dell'allegazione   e   prova,   degli  oneri  gravanti  sul
danneggiato.
   Quest'ultima  conclusione,  la  quale  possiede  valenza generale,
trova  riscontro  in  due  significativi  elementi  recenti di ordine
normativo e giurisprudenziale.
   Per  un  verso,  infatti,  merita  rilevare che l'art. 385 c.p.c.,
nella sua versione attuale, consente di colpire colui che in sede del
ricorso  per  cassazione agisca o resista con mala fede o colpa grave
con una condanna che, anche d'ufficio, senza ulteriori sostegni, puo'
dilatarsi  fino  al doppio delle spese legali previste nel massimo: e
non  puo'  dubitarsi  che  detta  norma segni una strada che non puo'
rimanere insignificante per l'interprete che si trovi ad amministrare
l'applicazione dell'art. 96 c.p.c.
   Per   altro   verso,   va   posto   l'accento  su  quell'indirizzo
giurisprudenziale,  derivato dalla giurisprudenza della CEDU, secondo
cui,  in  caso  di  danno  da  eccessiva durata del processo, pur non
essendo  in re ipsa il pregiudizio, lo e' pero' la prova di esso, nel
senso  che  la  sussistenza  di  un  danno  morale,  sotto  forma  di
sofferenza interiore, e' ordinariamente correlata alla protrazione di
qualunque  processo  oltre  i limiti della sua ragionevole durata (il
riferimento  e'  alle note Cassazione, ss.uu. 339/2004; 1340/2004; la
successiva  giurisprudenza  vi  si e' adeguata, a quanto consta senza
eccezioni).
   Con  riguardo  a  quest'ultimo  aspetto,  dopo  aver ricordato che
nell'attuale assetto della giurisprudenza di legittimita' e di quella
costituzionale  il  risarcimento del danno non patrimoniale e' sempre
ammesso,  ogni  qual  volta  venga  in  questione  la  lesione  di un
interesse  dotato  di copertura costituzionale (Cassazione 8828/2003;
8827/2003; Corte costituzionale n. 233/2003), occorre dire che, - sul
piano  del danno esistenziale (su cui v. per tutte Cassazione, ss.uu.
6572/2006),  l'azione  in giudizio o la resistenza infondata comporta
perdita  di  tempo  (esame dell'atto, colloqui con il legale, ricerca
della  eventuale  documentazione  utile ed altri supporti istruttori,
presenza  in  udienza  ecc.),  che, se non e' sottratto all'attivita'
lavorativa  remunerativa,  e'  sottratto alle attivita' di svago; sul
piano   del   danno   morale,  se  produce  sofferenza  interiore  il
prolungarsi  del  giudizio  oltre  i  limiti di durata ragionevole, a
maggior   ragione   ne  produce,  nei  confronti  della  controparte,
l'atteggiamento  di  azione  o  resistenza  in  giudizio  ab  origine
connotati da mala fede o colpa grave.
   Ecco,  allora,  che, mentre la domanda di danni per lite temeraria
deve  per cio' stesso essere riferita, anche in mancanza di ulteriori
specificazioni  dell'interessato,  al  danno esistenziale/morale che,
normalmente,  scaturisce dalla domanda o resistenza caratterizzata da
mala  fede  o  colpa grave, la liquidazione del danno ben puo' essere
effettuata   in   applicazione   dei   medesimi   parametri   che  la
giurisprudenza  applica  in  caso  di  applicazione della c.d. «legge
Pinto».   (Tribunale   di  Roma,  sentenza  18  ottobre  2006,  Wamax
S.r.l./Vasciminni in www.personaedanno.it).
   Ebbene,  si  puo' concludere osservando che l'art. 96, primo comma
c.p.c.  ,  il  quale  ha  il seguente tenore «se risulta che la parte
soccombente  ha  agito  o resistito in giudizio con mala fede o colpa
grave,  il  giudice,  su istanza dell'altra parte, la condanna, oltre
che  alle  spese,  al  risarcimento  dei danni, che liquida, anche di
ufficio,   nella   sentenza»   esterna   profili   di  non  manifesta
infondatezza    per   illegittimita'   costituzionale   relativamente
all'inciso «su istanza dell'altra parte».
   La  questione  e'  rilevante  ai fini della decisione del presente
procedimento, riguardando una statuizione della sentenza.
   Nessuno   puo'   nascondersi,  tantomeno  questo  rimettente,  che
l'intervento  caducatorio  che qui si sollecita e' assai meno congruo
di  una riforma complessiva degli istituti che spetta al legislatore,
non  si  ritiene  pero' che sia esclusivamente materia di valutazione
del  legislatore il lasciare o meno in vita l'attuale sistema, in tal
modo sottraendolo in toto a censure d'incostituzionalita'.
   Sussiste contrasto:
     con  l'art.  3  Cost.  essendo  lesi  il principio di parita' di
trattamento  e  di  ragionevolezza:  si e' sopra osservato come altre
pronunce  d'ufficio  sono conseguenti a violazioni di principi almeno
in  parte  coincidenti  (cfr.  la disamina degli artt. 88 e 92 c.p.c.
sopra   fatta   in   relazione  all'art.  96  )  e  come  il  sistema
complessivamente  risulti  irrazionale  nel  momento  in cui permette
un'indiscriminato  accesso  agli utenti, anche a quelli che intendano
promuovere liti temerarie (non essendovi filtri preventivi di fatto o
di  diritto,  i  rari  esempi che prevedono qualcosa del genere, come
quelli  di  cui alla normativa del gratuito patrocinio, finiscono per
colpire i soli «non abbienti»);
     con  l'art.  24  Cost.,  poiche'  il  diritto  di difesa di ogni
cittadino  subisce  una  grave lesione dalla possibilita' che vengano
affollati  i  moli  dei  giudici  da  cause  temerarie, il correttivo
previsto dalla legge non e' congruo rispetto alla finalita' di difesa
costituzionalmente garantita, poiche' rimette alla scelta del singolo
danneggiato  se  chiedere  la  responsabilita'  aggravata, laddove la
responsabilita' aggravata, nel quadro sopra tracciato, risponde anche
e  sopratutto  ad  esigenze di garantire la possibilita' di effettiva
difesa  di  tutti  i  singoli  consociati,  le  quali trascendono gli
interessi del singolo;
     con  l'art.  111  Cost., primo  comma, in quanto il processo non
puo'  considerarsi  aderente a superiori principi di giustizia quando
puo'  essere  usato  in  maniera distorta, senza che il giudice possa
reagire  anche  ex  officio,  cio'  sminuisce  il  valore del singolo
processo  e  di  tutti  gli  altri processi come momento di garanzia,
nonche'    con   l'art.   111   Cost., secondo   comma,   in   quanto
statisticamente  assai  alto e' il rischio che il processo di cui «si
abusa»   vada,  nel  contempo,  anche  oltre  la  durata  ragionevole
stabilita  dalla  Costituzione,  laddove  e' invece certo l'intralcio
grave  alla ragionevole durata di tutti gli altri processi, visti nel
loro complesso.