Sentenza
nei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale  dell'articolo 314 del
codice  di procedura penale promossi con ordinanze del 19 luglio 2006
dalla  Corte  di  cassazione,  a  Sezioni  unite  penali, sul ricorso
proposto  da  P.  A.  e  del  30  marzo 2007 dalla Corte d'appello di
Trieste  sull'istanza  proposta  da  B.  A. V. iscritte al n. 558 del
registro  ordinanze  2006  e  al n. 753 del registro ordinanze 2007 e
pubblicate  nella  Gazzetta  Ufficiale  della Repubblica n. 49, prima
serie  speciale,  dell'anno  2006  e  n. 45,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2007.
   Udito  nella  Camera  di  consiglio  del  2 aprile 2008 il giudice
relatore Ugo De Siervo.
                          Ritenuto in fatto
   1. - Con ordinanza in data 19 luglio 2006, la Corte di cassazione,
a  Sezioni  unite  penali,  ha  sollevato  questione  di legittimita'
costituzionale  dell'art.  314  del  codice  di  procedura  penale in
relazione agli artt. 2, 3, 13 (quest'ultimo invocato solo nella parte
motiva dell'ordinanza di rimessione), 24, 76 e 77 della Costituzione,
«nella  parte  in cui non e' previsto il diritto alla riparazione per
la  custodia  cautelare  che risulti superiore alla misura della pena
inflitta».
   Premette la Corte di procedere in relazione ad un ricorso proposto
avverso  l'ordinanza  con  cui  la Corte d'appello di Reggio Calabria
aveva  accolto  solo in parte la richiesta presentata dall'istante ai
sensi  dell'art.  314 cod. proc. pen. per ottenere la liquidazione di
una  somma  a  titolo  di  riparazione  per  l'ingiusta detenzione in
carcere  complessivamente  subita  dal  23  gennaio 1986 al 22 giugno
1989.  La  Corte territoriale, infatti, aveva condannato il Ministero
dell'economia al pagamento dell'indennita' soltanto in relazione alla
privazione  della  liberta'  subita  dal 26 gennaio 1988 al 22 giugno
1989.
   Cosi'  la  Cassazione  riassume  i  fatti  a  base della decisione
impugnata.
   Il  23  gennaio  1986  l'imputato era stato sottoposto alla misura
cautelare   della   custodia   in   carcere  per  le  imputazioni  di
associazione  per delinquere di stampo mafioso, di detenzione e porto
d'armi e, successivamente, di tentato omicidio.
   Il  22  gennaio  1988  erano scaduti i termini massimi di custodia
cautelare  per  i reati concernenti l'associazione mafiosa e le armi;
la  custodia  era, tuttavia, mantenuta in quanto l'imputato era stato
condannato alla pena di quattordici anni di reclusione per i reati di
tentato  omicidio, nonche' di detenzione e porto d'armi. Con sentenza
del  23  giugno  1989,  la  Corte  d'assise  d'appello  aveva assolto
l'imputato  dal reato di tentato omicidio per insufficienza di prove,
mentre  il processo proseguiva in relazione agli altri reati. In data
17  giugno  1999  l'imputato  veniva  assolto dal reato associativo e
condannato  a  dieci  mesi  di  reclusione per i reati concernenti le
armi.   Infine,   in  data  7  maggio  2001,  la  Corte  territoriale
pronunciava   sentenza  di  non  doversi  procedere  per  intervenuta
prescrizione in ordine al reato di porto e detenzione di armi.
   La  Corte  d'appello, pronunciando sull'istanza di riparazione per
ingiusta   detenzione,   riteneva  che  l'indennizzo  dovesse  essere
riconosciuto  solo  per il periodo, compreso tra il 26 gennaio 1988 e
il  22  giugno  1989,  riguardante  la custodia cautelare relativa al
reato  di tentato omicidio, mentre per il periodo dal 23 gennaio 1986
al  22  gennaio 1988, l'istanza doveva essere respinta, sia in quanto
la   custodia   cautelare   era   legittimata   dalla  pluralita'  di
imputazioni,  sia  in quanto la declaratoria di non doversi procedere
per intervenuta prescrizione dei reati concernenti le armi precludeva
il  riconoscimento  del diritto alla riparazione. Cio' in quanto tale
diritto  e' configurato dall'art. 314 cod. proc. pen. solo in caso di
proscioglimento nel merito.
   Avverso tale ordinanza P.A. ha proposto ricorso per Cassazione.
   Le  sezioni  unite,  cui  il ricorso e' stato rimesso dalla quarta
sezione  (con  ordinanza  n. 1920  del 14 novembre 2005), chiariscono
innanzitutto  di  esaminare  la richiesta di riparazione per ingiusta
detenzione limitatamente al periodo di custodia subita dal 23 gennaio
1986  al  22  gennaio  1988,  data quest'ultima in cui sono scaduti i
termini  massimi  della  misura cautelare relativamente ai delitti di
associazione  mafiosa,  di  detenzione e porto illegale d'armi, reati
per  i  quali  i  limiti  massimi di durata della custodia in carcere
coincidono.
   Cio'  precisato, la Cassazione afferma che il tema di indagine sul
quale essa e' chiamata a pronunciarsi consiste nello stabilire se sia
o  meno  «configurabile  il  diritto alla riparazione nel caso in cui
l'imputato, sottoposto a detenzione per piu' titoli cautelari di pari
durata  massima,  venga  assolto  da  un  reato con una delle formule
indicate  nel  primo  comma  dell'art.  314  cod. proc. pen. e venga,
invece,    prosciolto    dall'altro   reato   perche'   estinto   per
prescrizione».
   La giurisprudenza di legittimita', nel caso di processo cumulativo
con piu' imputazioni, e' orientata a ritenere che, poiche' il diritto
all'equa  riparazione  spetta  solo in quanto l'interessato sia stato
prosciolto   con   formula   liberatoria   di  merito,  ai  fini  del
riconoscimento  di  tale  diritto  e' necessario che tale presupposto
ricorra con riguardo a tutti gli addebiti formulati. Cio' deriverebbe
dal  fatto  che  il  periodo  di  detenzione  cautelare  e'  unico  e
inscindibile per tutti i titoli custodiali di modo che, se essi hanno
un  identico limite massimo di durata, la mancanza di proscioglimento
nel  merito  anche  per  uno  solo dei reati farebbe si' che l'intera
detenzione   cautelare   debba  essere  riferita  a  quest'ultimo,  a
prescindere  dalla  misura  della  pena che sarebbe stata inflitta in
caso di condanna.
   Di  conseguenza,  nel  caso di provvedimento coercitivo fondato su
piu'  contestazioni,  il  proscioglimento  con  formula non di merito
anche  da  una  sola di esse, impedirebbe il sorgere del diritto alla
riparazione.
   In  senso diverso si e', tuttavia, pronunciata la suprema Corte in
due decisioni della quarta sezione, le quali si caratterizzano per il
fatto  di  aver  riconosciuto  la  riparazione a favore di coimputati
nello   stesso   processo   dell'imputato   che  ora  agisce  per  la
riparazione,  i  quali,  come  quest'ultimo,  erano stati assolti dal
reato  associativo  e,  dopo  essere  stati  condannati  per  i reati
relativi alle armi, erano stati prosciolti per prescrizione.
   Con  la  prima  sentenza  (6  luglio  2005, n. 40094), la Corte ha
osservato  che  «il periodo di custodia cautelare riferibile ai reati
concernenti  le  armi non poteva in nessun caso superare il limite di
dieci  mesi  corrispondente all'entita' della reclusione inflitta con
la  condanna  pronunciata  nel  giudizio  di primo grado: di talche',
poiche'  contro tale decisione il p.m. non aveva proposto appello, al
reato  successivamente  dichiarato  prescritto  era  attribuibile  un
periodo  di  detenzione  cautelare  non  superiore  a dieci mesi e la
maggiore  durata,  della  custodia  in carcere doveva essere riferita
all'imputazione per la quale era intervenuta assoluzione nel merito».
   Nella  seconda decisione (8 luglio 2005, n. 36898) si e' affermato
che  «qualora  risulti per il particolare svolgersi del processo, che
il  periodo,  il tempo, delle limitazioni della liberta' non coincide
per  tutti  i  titoli-reati,  nel senso che possono distinguersi, con
estrema precisione, il periodo di limitazione della liberta' sofferta
per  il  titolo-reato per il quale si e' avuto il proscioglimento per
prescrizione e il periodo di limitazione della liberta - oltre e, nel
caso  di  specie, ben oltre, quella soglia - sofferta soltanto per il
titolo-reato  per  il quale v'e' stato il proscioglimento nel merito,
non  v'e'  nessuna  ragione  per negare l'equa riparazione per questo
secondo periodo di limitazione della liberta».
   Alla  base  di  tali  pronunce  vi  sarebbe la tesi secondo cui al
titolo  cautelare  venuto  meno  a  seguito  di  proscioglimento  per
prescrizione «non puo' essere riferito un periodo corrispondente alla
durata massima prevista dalla legge processuale, ma esclusivamente il
periodo  di  detenzione  cautelare  pari  all'entita'  della pena che
sarebbe stata inflitta in caso di condanna».
   Le sezioni unite affermano di non condividere tali conclusioni dal
momento  che  esse  porterebbero  a  conseguenze che esorbitano dalla
effettiva sfera precettiva dell'art. 314 cod. proc. pen.
   Tale   disposizione,   al   comma   1,  individua  nella  sentenza
assolutoria  nel  merito  il  presupposto  per il sorgere del diritto
all'equa  riparazione.  Al comma 4 stabilisce poi che il diritto alla
riparazione  e' escluso per quella parte della custodia cautelare che
sia  computata ai fini della determinazione della misura di una pena,
secondo  la  regola  della  fungibilita' ex art. 657 cod. proc. pen.,
ovvero   per   il   periodo   in   cui   le  limitazioni  conseguenti
all'applicazione  della  custodia siano state sofferte anche in forza
di altro titolo.
   Dalla   lettura   coordinata   di  tali  disposizioni  emergerebbe
«l'intenzione   del   legislatore   di   escludere  integralmente  la
riparazione   per   ingiusta   detenzione   in   tutti   i   casi  di
proscioglimento  non  di  merito  e,  a maggior ragione, di condanna,
prescindendo  totalmente dall'effettiva misura della pena applicabile
o  in  concerto  applicata,  quand'anche  questa  risulti  largamente
inferiore al periodo di custodia cautelare effettivamente subita».
   Tuttavia,   le   sezioni   unite   dubitano   della   legittimita'
costituzionale  dell'art. 314 cod. proc. pen. proprio «nella parte in
cui esclude il diritto alla riparazione per la custodia cautelare che
risulti  superiore  alla  misura  della pena inflitta, precludendo di
riflesso  -  nell'ipotesi di piu' titoli cautelari con pari limiti di
durata   massima   -   la   liquidazione  dell'indennita'  in  ordine
all'imputazione  per  la quale e' intervenuta assoluzione nel merito,
anche  se l'effettivo periodo di custodia cautelare risulti superiore
alla  misura  della  pena inflitta (o che sarebbe stata inflitta) per
l'altra   imputazione   se   il  reato  non  fosse  stato  dichiarato
prescritto».
   L'univoco    tenore   letterale   della   disposizione   censurata
precluderebbe  la  possibilita'  di interpretare la medesima in senso
conforme  a  Costituzione. Nel medesimo senso deporrebbe la scelta di
politica  legislativa  alla  base  dell'art. 314, comma 1, cod. proc.
pen.  il  quale  postula  il  proscioglimento nel merito per tutte le
imputazioni.
   Tale  disposizione, ad avviso della Suprema Corte, contrasterebbe,
innanzitutto, con gli artt. 76 e 77 della Costituzione, in quanto non
darebbe  fedele  attuazione  della  direttiva  contenuta nell'art. 2,
comma   1,  n. 100  della  legge  16  febbraio  1987,  n. 81  (Delega
legislativa  al  Governo  della Repubblica per l'emanazione del nuovo
codice  di  procedura  penale).  Infatti,  a fronte dell'ampiezza del
principio   dettato   dalla  delega,  nel  quale  non  vi  e'  alcuna
limitazione  in  relazione  al titolo della detenzione o alle ragioni
dell'ingiustizia, il legislatore delegato avrebbe indiscriminatamente
escluso  dalla  riparazione  le ipotesi in cui la pena effettivamente
inflitta  per  uno  dei  reati  risulti  inferiore  alla durata della
detenzione subita «pur apparendo quest'ultima, per una parte, ex post
oggettivamente ingiusta».
   Inoltre,  il  legislatore  delegato avrebbe disatteso la direttiva
contenuta  nell'art.  2,  comma  1,  della citata legge che impone di
adeguarsi  alle  norme  «delle  convenzioni internazionali ratificate
dall'Italia  e  relative  ai  diritti  della  persona  e  al processo
penale».  Infatti,  negando  la  riparazione del pregiudizio derivato
dalla  privazione  della  liberta' personale per un periodo superiore
alla  misura  della pena inflitta, si sarebbe discostato dall'art. 5,
paragrafo  5,  della  Convenzione europea e dall'art. 9, paragrafo 5,
del  Patto  internazionale  relativo ai diritti civili e politici che
prevedono  il diritto ad un indennizzo in caso di detenzione illegale
senza alcuna limitazione.
   Il legislatore delegato si sarebbe, altresi', discostato dall'art.
5,  paragrafo  3,  della  suddetta Convenzione, il quale riconosce il
diritto  ad  ogni persona arrestata o detenuta ad essere giudicata in
tempo congruo. La disposizione censurata, infatti, non riconoscerebbe
il  diritto alla riparazione pur quando il soggetto si trovi a subire
una  detenzione  preventiva  di lunga durata, superiore alla pena poi
stabilita in quanto giudicato a notevole distanza dal fatto commesso.
   L'art. 314 cod. proc. pen. violerebbe, altresi', gli artt. 2, 13 e
24, quarto comma, Cost.
   Alla  stregua  di  tali  disposizioni  costituzionali, dalle quali
emerge il valore primario ed essenziale del principio di solidarieta'
e della liberta' personale, la nozione di errore giudiziario - di cui
l'art.  24 Cost. prevede la riparazione - dovrebbe comprendere «tutte
le  ipotesi  di  custodia  cautelare  che,  essendo risultate ex post
obiettivamente   ingiuste,   rivelano   l'erroneita'   della   misura
restrittiva  adottata  in  quanto  lesiva  del  bene  della  liberta'
personale». L'esclusione del diritto alla riparazione nell'ipotesi in
cui  il  sacrificio della liberta' personale abbia superato la misura
della  pena  inflitta -  tanto  piu'  ove  tale  divario tra custodia
cautelare  ed  entita' della pena dipenda da tempi non ragionevoli di
durata  del  processo -  contrasterebbe  con  i valori tutelati dalla
Costituzione.
   Infine,  sarebbe  violato  l'art.  3  della  Costituzione sotto il
profilo  della  ragionevolezza,  in  quanto le limitazioni al diritto
alla  riparazione,  alla  quale  la  giurisprudenza costituzionale ha
riconosciuto  fondamento solidaristico, sarebbero inadeguate rispetto
all'obiettivo  di  assicurare un'equa riparazione a restrizioni della
liberta' personale obiettivamente ingiuste.
   2.  -   Anche  la Corte d'appello di Trieste, con ordinanza del 30
marzo  2007,  ha  sollevato,  in riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 77
della   Costituzione,   questione   di   legittimita'  costituzionale
dell'art.  314  cod.  proc.  pen.  nella  parte in cui non prevede il
diritto  alla riparazione per ingiusta detenzione per la durata della
custodia  cautelare  che  risulti  superiore  alla  misura della pena
inflitta.
   Il  rimettente  riferisce che l'imputato era stato sottoposto alla
misura cautelare della custodia in carcere, dall'8 gennaio 1999 all'8
settembre  2000,  per i reati di detenzione e porto in luogo pubblico
di  arma  comune  da  sparo, ricettazione, detenzione e porto di arma
comune clandestina, nonche' tentato omicidio premeditato. La sentenza
di  primo grado, dopo aver derubricato tale ultimo reato in quello di
lesioni  personali  volontarie  pluriaggravate, condannava l'imputato
alla  pena  di  anni uno, mesi otto di reclusione e lire 3.000.000 di
multa.  La  Corte  d'appello,  con  sentenza  n. 503 del 2004, del 17
giugno  2004, in parziale riforma della predetta decisione, dopo aver
ulteriormente derubricato il reato di lesioni volontarie in quello di
lesioni  personali  colpose  (art.  590  cod.  pen.),  dichiarava non
doversi  procedere  in  ordine  a tale reato per difetto di querela e
rideterminava  la  pena,  per gli altri reati, in anni uno, mesi due,
giorni  venti  di  reclusione  e  euro  1.600,00 di multa, concedendo
altresi' il beneficio della sospensione condizionale della pena.
   Il  rimettente,  ritenuto  di  non  poter  accogliere l'istanza di
riparazione  per l'intero periodo di custodia cautelare, essendo essa
riferita  a  tutti i reati contestati (e non solo a quella di tentato
omicidio),  rileva  che  nella fattispecie al suo esame la detenzione
cautelare  si  e'  protratta  per anni uno e mesi otto e cioe' per un
lasso  di  tempo  superiore  alla  pena  irrogata  in secondo grado a
seguito  della  dichiarazione  di  improcedibilita'  per  difetto  di
querela in relazione al reato di cui all'art. 590 cod. pen.
   L'art. 314 cod. proc. pen., «come costantemente interpretato dalla
Corte  di  cassazione»,  non  consentirebbe,  tuttavia,  di  ritenere
ingiusta la detenzione subita e dunque di riconoscere il diritto alla
riparazione.
   Cio'  posto, il giudice a quo da' atto che la Corte di cassazione,
a  Sezioni  unite  penali,  ha  sollevato  questione  di legittimita'
costituzionale  della citata disposizione, in relazione agli artt. 76
e  77  Cost. nonche' in relazione agli artt. 2, 3 e 24, quarto comma,
Cost.  Tale questione si attaglierebbe anche al caso al suo esame nel
quale  l'interessato  ha  sofferto un periodo di detenzione cautelare
superiore alla pena detentiva inflittagli.
   Il  rimettente  ritiene  che la suddetta questione di legittimita'
costituzionale  sia  rilevante  anche nel procedimento al suo esame e
sia  non  manifestamente  infondata  «per  le  ragioni  e nei termini
prospettati   dall'ordinanza  delle  Sezioni  unite  della  Corte  di
cassazione sopra citata, cui deve farsi integrale richiamo».
                       Considerato in diritto
   1.  -   Le Sezioni unite penali della Corte di cassazione dubitano
della   legittimita'  costituzionale  dell'art.  314  del  codice  di
procedura penale, «nella parte in cui non [vi] e' previsto il diritto
alla riparazione per la custodia cautelare che risulti superiore alla
misura  della  pena  inflitta»,  in  riferimento  agli artt. 2, 3, 13
(quest'ultimo  evocato  solo  nella  parte  motiva  dell'ordinanza di
rimessione), 24, 76 e 77 della Costituzione.
   Analogamente,   la  Corte  di  appello  di  Trieste  censura  tale
disposizione,  nel medesimo senso, in riferimento agli artt. 2, 3, 24
e 77 della Costituzione.
   2.  -    I   giudizi   meritano  di  essere  riuniti,  in  ragione
dell'identita'   dell'oggetto   delle   questioni   di   legittimita'
costituzionale sollevate.
   3.  -   L'ordinanza  della  Corte  di appello di Trieste omette di
motivare  in  ordine  al  requisito  della non manifesta infondatezza
della  questione, limitandosi a dare conto della precedente ordinanza
di rinvio delle Sezioni unite, e ad indicare taluni dei parametri che
queste  ultime hanno posto a fondamento della censura di legittimita'
costituzionale.
   A  cio' non si accompagna alcuna autonoma argomentazione in ordine
alle  ragioni per le quali dall'esame di tali parametri discenderebbe
il   dubbio   di  costituzionalita':  in  conformita'  alla  costante
giurisprudenza  di  questa  Corte,  la  questione  cosi' sollevata va
dichiarata  manifestamente  inammissibile (si vedano, ex plurimis, le
ordinanze n. 81 e n. 14 del 2008).
   4.  -   La  fattispecie  sulla quale le Sezioni unite si trovano a
decidere  nasce  dall'istanza proposta, ai fini della riparazione per
l'ingiusta  detenzione,  da  un  soggetto  che  e' stato sottoposto a
custodia  cautelare  in  carcere,  in forza di piu' titoli relativi a
reati per cui la legge prevede una uguale durata massima della misura
restrittiva.
   Il  rimettente  riferisce  che  l'imputato e' stato prosciolto con
sentenza  irrevocabile,  ai  sensi dell'art. 530 cod. proc. pen., dal
piu' grave reato contestatogli, e condannato in primo grado alla pena
di  dieci  mesi  di  reclusione, quanto all'ulteriore imputazione: in
seguito,  per  quest'ultima,  la  corte di appello, sull'impugnazione
proposta  dal  solo  imputato, ha pronunciato sentenza di non doversi
procedere,   stante   l'estinzione   del   reato   per   sopraggiunta
prescrizione.
   L'istante  muove dalla premessa, secondo cui il mancato appello da
parte del pubblico ministero in relazione alla pena inflitta in primo
grado  rende  certo  che  essa, quand'anche il giudizio di appello si
fosse  concluso  con  una  pronuncia sul merito dell'imputazione, non
avrebbe potuto superare i dieci mesi di reclusione. Ne seguirebbe che
al  titolo  di  custodia cautelare, concernente il reato per il quale
non  e'  intervenuta  sentenza  di  assoluzione  nel merito, potrebbe
venire  riferito  un  periodo  detentivo pari a dieci mesi, mentre la
residua   e   piu'   lunga   fase   detentiva  sarebbe  riconducibile
esclusivamente  all'imputazione  per  la  quale,  invece, vi e' stato
proscioglimento   nel   merito:   essa,   pertanto,  dovrebbe  venire
indennizzata, in forza del primo comma dell'art. 314 cod. proc. pen.
   Il  giudizio  a quo muove, pertanto, da una particolare ipotesi di
convergenza   di  titoli  di  custodia  cautelare  in  carcere:  cio'
nonostante,  l'intervento  sollecitato a questa Corte ha per oggetto,
in  termini  piu'  generali,  la  legittimita'  costituzionale  della
disciplina relativa alla riparazione per l'ingiusta detenzione, nella
parte  in  cui  essa  si applica alle sole ipotesi di assoluzione nel
merito,  e  non  anche al caso in cui il reo, non assolto nel merito,
abbia scontato un periodo di custodia cautelare.
   E'   evidente   che,  in  tal  modo,  il  perimetro  del  giudizio
costituzionale  si  colloca  entro un'area che si rivela di carattere
indennitario:  la  riparazione  spetta  infatti  a chi sia prosciolto
irrevocabilmente  nel merito, quand'anche sussistessero in origine le
condizioni richieste ai fini della misura cautelare.
   Altro  profilo,  che  esula  dall'oggetto  del  presente giudizio,
presentano   viceversa   i   casi   in   cui   alcune  condizioni  di
applicabilita'  non fossero presenti, quando la custodia cautelare e'
stata disposta, ovvero e' stata mantenuta in essere.
   Il  rimettente ritiene che l'accoglimento dell'istanza su cui deve
decidere  sia  irrimediabilmente  precluso dal divieto, ricavabile in
forza  della sola lettura dell'art. 314, comma 1, cod. proc. pen., di
concedere  riparazione  indennitaria  quando  il  proscioglimento non
abbia  il  carattere  assolutorio  nel  merito. Difatti, tale divieto
osterebbe  all'operazione interpretativa, pure sperimentata da talune
precedenti  decisioni  della Corte di cassazione, a sezione semplice,
di ascrivere al titolo detentivo per il quale e' intervenuta condanna
il  solo  periodo  pari  alla  misura  della pena inflitta, ritenendo
invece  indennizzabile  il  periodo  ulteriore,  in  quanto  non piu'
giustificato  dal titolo a cui e' seguito, invece, il proscioglimento
nel  merito.  Secondo  le  Sezioni unite, solo muovendo dal postulato
della  riparabilita'  della  custodia cautelare che abbia ecceduto la
pena  inflitta  (allo stato preclusa dalla lettera dell'art. 314 cod.
proc.  pen.)  si  potrebbe  contenere  entro l'invalicabile limite di
siffatta  pena  la  fase  custodiale  non  indennizzabile, concedendo
viceversa la riparazione per il periodo eccedente.
   In  caso  contrario,  l'intero  termine,  pari alla durata massima
della  custodia cautelare, verrebbe giustificato alla luce del titolo
in  relazione  al  quale  non  vi  e'  stata  assoluzione nel merito,
impedendo   la   riparabilita'   del   periodo  che  eccede  la  pena
concretamente    commisurata    dal   giudice,   e   conseguentemente
precluderebbe  l'apprezzamento di tale ultimo periodo in relazione al
titolo su cui si e' formato il giudicato di assoluzione.
   Il passaggio da una fattispecie peculiare di convergenza di titoli
di   custodia   alla   richiesta   di   dichiarare   l'illegittimita'
costituzionale  dell'art. 314 cod. proc. pen. nella piu' ampia misura
sopra  esposta non comporta l'irrilevanza della questione. Non spetta
infatti   a   questa   Corte   sindacare  analiticamente  i  passaggi
logico-giuridici  che il giudice a quo ha compiuto per approdare alla
conclusione  appena  riassunta:  e'  sufficiente  porre  in  rilievo,
invero, che essi sono adeguatamente motivati (sentenze n. 39 del 2008
e  n. 50 del 2007). Attraverso siffatta motivazione, il rimettente e'
giunto   a   ritenere,   tramite   un   apprezzamento  non  privo  di
plausibilita',  che  l'istanza  oggetto del giudizio principale possa
essere  accolta, solo a seguito dell'introduzione nel testo dell'art.
314 cod. proc. pen. di una nuova ipotesi di riparazione dell'ingiusta
detenzione,  per i casi in cui la custodia cautelare subita ecceda la
pena  inflitta  tramite  la  condanna,  e  che  tale introduzione sia
costituzionalmente imposta, alla luce dei parametri evocati.
   Entro  questi  termini,  e' palese che la lettera stessa dell'art.
314  cod.  proc.  pen.  si  oppone ad un'esegesi di tale disposizione
condotta  secondo  i  canoni  dell'interpretazione costituzionalmente
conforme: tale circostanza segna il confine, in presenza del quale il
tentativo  interpretativo  deve  cedere  il  passo  al  sindacato  di
legittimita' costituzionale.
   L'ammissibilita'  di  quest'ultimo,  per  non  avere il rimettente
esplorato  la  via  dell'interpretazione  conforme,  non  e'  infatti
pregiudicata  dalla  presenza  di pronunce giudiziali che abbiano si'
conseguito  l'adeguamento  della  norma  alla Costituzione, ma per il
tramite  di  interpretazioni  eccentriche  e palesemente contrarie al
dettato letterale della legge.
   Le  ragioni  che  hanno  consentito  di  definire  in tali termini
l'oggetto  del presente processo incidentale sono le medesime che, in
direzione  contraria, si oppongono ad un allargamento dei confini del
giudizio  costituzionale  oltre  il  limite segnato dall'ordinanza di
rimessione:  questa  Corte e' oggi chiamata a decidere esclusivamente
se  sia  costituzionalmente  ammissibile  che,  in caso di detenzione
cautelare  sofferta,  quest'ultima non fosse causa di riparazione ove
l'interessato non sia stato prosciolto nel merito.
   A  tale  ipotesi  il  giudice a quo riconduce il caso, oggetto del
processo  principale,  in  cui,  nonostante non vi sia stata condanna
definitiva  in  ragione  della  sopraggiunta  prescrizione del reato,
tuttavia  si sia formata una preclusione processuale a riesaminare la
pena  inflitta  in  primo  grado,  poiche' non appellata dal pubblico
ministero.  Si  tratta, anche per tale verso, di una valutazione che,
in  quanto  non  implausibile,  compete al solo rimettente, e che non
incide sui requisiti di ammissibilita' del presente giudizio.
   5.  -  In primo luogo, il giudice a quo dubita che l'art. 314 cod.
proc.  pen. sia conforme agli artt. 76 e 77 della Costituzione, posto
che,  restringendo la riparazione di carattere indennitario alle sole
ipotesi  di  assoluzione  nel  merito, esso avrebbe violato l'art. 2,
comma  1,  numero  100,  della  legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega
legislativa  al  Governo  della Repubblica per l'emanazione del nuovo
codice  di  procedura  penale),  il  quale prevede che il legislatore
delegato   disciplini  la  «riparazione  dell'ingiusta  detenzione  e
dell'errore giudiziario».
   A  sostegno di tale dubbio, il rimettente rileva che questa stessa
Corte,  pronunciandosi  sull'art.  314 cod. proc. pen. ha evidenziato
che   la   legge  delega  «enuncia  la  direttiva  della  riparazione
dell'ingiusta  detenzione,  senza  porre  alcuna limitazione circa il
titolo  della  detenzione  stessa  o  le  'ragioni' dell'ingiustizia»
(sentenze n. 231 e n. 413 del 2004).
   Tuttavia, il giudice a quo omette di considerare che tali pronunce
sono  state  rese dalla Corte al fine di avallare l'estensione in via
interpretativa  del  campo di applicabilita' dell'art. 314 cod. proc.
pen.   ad   ipotesi   (rispettivamente,   l'arresto   provvisorio   e
l'applicazione  provvisoria  di misura custodiale su domanda di Stato
estero  che  si accerti carente di giurisdizione; l'archiviazione per
morte  del  reo, quando i coimputati risultano prosciolti nel merito,
perche'  il  fatto non sussiste) che, secondo i giudici a quibus, non
vi  erano  ricomprese.  Ipotesi,  e'  necessario aggiungere, che sono
parse  corrispondenti  alla  ratio  cui si ispira la disciplina della
riparazione  per  ingiusta  detenzione,  ed ai casi ivi espressamente
previsti,  sicche', proprio nel raffronto con tali ultimi casi, si e'
appalesata  priva  di  rilievo  la circostanza che il titolo formale,
ovvero la «ragione» che avevano condotto alla detenzione, non fossero
immediatamente  corrispondenti  alla fattispecie astratta della norma
censurata.
   Proprio l'irrilevanza del tratto formale, a fronte della identita'
di  ragione  giustificatrice,  hanno in tali casi consentito, ed anzi
reso  necessario, il ricorso ad un'interpretazione costituzionalmente
orientata, alla luce della previsione recata dalla legge delega.
   Tutt'altra questione sarebbe, invece, ritenere che l'«ingiustizia»
della  detenzione  debba,  per  vincolo cosi' imposto dal legislatore
delegante,  venire  affidata  al  mero apprezzamento dell'interprete,
senza  che  il  legislatore  delegato possa realizzare quel «naturale
rapporto   di  riempimento  che  lega  la  norma  delegata  a  quella
delegante», in assenza del quale si avrebbe uno «snaturamento del ben
diverso  regime  che la Costituzione ha inteso prefigurare», quanto a
simile rapporto (sentenze n. 308 del 2002 e n. 4 del 1992).
   In  quest'ottica,  non  vi  sono ragioni per ritenere che la legge
delega  abbia voluto introdurre direttamente una clausola generale di
riparabilita' della detenzione «ingiusta», che sia affidata al filtro
dell'interprete, anziche' a quello «fisiologico» (sentenza n. 198 del
1988)  della norma delegata. Anzi, poiche' all'epoca della emanazione
della delega era ancora dibattuta la questione degli ambiti entro cui
dovesse   qualificarsi   come   ingiusta   la   detenzione  e  dunque
riconoscersi  il diritto alla riparazione ai sensi dell'art. 24 della
Costituzione,  deve  ritenersi  che  con  l'ampiezza dell'espressione
utilizzata   il  legislatore  delegante  abbia  voluto  rimettere  al
legislatore  delegato  l'individuazione  e  la specificazione di tali
ipotesi,  sia  pure nel rispetto dei principi e dei criteri direttivi
enucleabili dalla delega.
   Piuttosto,  e' vero quanto sottolineato dal giudice a quo circa la
necessita',  piu'  volte  ribadita da questa Corte (sentenze n. 251 e
n. 109 del 1999; n. 310 del 1996; n. 373 del 1992 e n. 344 del 1991),
che  le  norme  del codice di procedura penale si adeguino alle norme
interposte  ai  fini  del  giudizio  di costituzionalita', costituite
dalle  «convenzioni  internazionali ratificate dall'Italia e relative
ai  diritti  della  persona  e  al processo penale» (art. 2, comma 1,
della  legge  n. 81 del 1987); da queste, infatti, ben possono essere
tratti  principi  e criteri direttivi idonei ad indirizzare, di volta
in  volta,  la  pur  presente, ma limitata discrezionalita' (sentenze
n. 224  del  1990; n. 156 del 1987; n. 56 del 1971 e ordinanza n. 228
del 2005) del legislatore delegato.
   In   ordine   alla   disciplina  della  riparazione  per  ingiusta
detenzione,   il  rimettente  richiama,  in  particolare,  l'art.  5,
paragrafo  5,  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei diritti
dell'uomo  e  delle  liberta' fondamentali, ratificata con la legge 4
agosto   1955,   n. 848,   e   l'art.   9,  paragrafo  5,  del  Patto
internazionale  relativo ai diritti civili e politici, adottato a New
York  il  19  dicembre 1966, e reso esecutivo con la legge 25 ottobre
1977, n. 881.
   Tuttavia,   tali   disposizioni   non   valgono  a  sorreggere  le
conclusioni cui giungono le Sezioni unite.
   Ai  sensi dell'art. 9, paragrafo 5, del Patto, «chiunque sia stato
vittima di arresto o detenzione illegali ha diritto a un indennizzo».
In forza di tale dizione letterale, nonche' dell'ulteriore previsione
recata  dall'art.  3  della  legge  n. 881  del  1977, secondo cui e'
illegale  l'arresto  o la detenzione «arbitrariamente» disposte (art.
9,  paragrafo  1),  in  difetto  dei  «motivi»  e in contrasto con la
«procedura»  previsti  dalla  legge,  appare  chiaro  che  tale fonte
internazionale pattizia ha per oggetto le sole ipotesi, riconducibili
al  comma 2 dell'art. 314 cod. proc. pen., nelle quali, a prescindere
dal  successivo esito del giudizio di merito, difettassero in origine
le  condizioni  legali per applicare o mantenere in vigore una misura
custodiale.
   Per  il medesimo motivo, privo di conferenza e' il rinvio all'art.
5, paragrafo 5, della CEDU, secondo il quale «ogni persona vittima di
arresto  o  di detenzione eseguiti in violazione alle disposizioni di
questo   articolo   ha   diritto   ad   un  indennizzo».  Il  diritto
all'indennizzo  consegue  ogni  qual  volta  taluno sia stato privato
della  liberta'  personale  al di fuori dei casi indicati dalla legge
nazionale   e  previsti  dal  paragrafo  1  dell'art.  5,  ovvero  in
violazione  delle  modalita'  e dei tempi disciplinati dai successivi
paragrafi 2, 3 e 4.
   In  particolare, il paragrafo 1, lettera c) dell'art 5 consente la
detenzione,  in base alla legge nazionale, di chi sia stato arrestato
o  detenuto  per  essere  tradotto  dinanzi all'autorita' giudiziaria
competente; all'interpretazione di questa disposizione da parte della
Corte  EDU  occorre riferirsi secondo quanto chiarito da questa Corte
nelle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007.
   Quest'ultima  ha  piu'  volte  affermato che l'art. 5 esige che la
privazione  della  liberta'  sia  conforme  al  fine di proteggere la
persona  da arbitri (sentenza relativa all'affaire n. 26629/95 Witold
Litwa  c. Polonia e sentenza relativa all'affaire n. 24952/94 N.C. c.
Italia),  ovvero  di  impedire,  in armonia con il nucleo costitutivo
dell'habeas  corpus, che la liberta' personale possa venire offesa in
difetto  di un provvedimento adottato da un tribunale indipendente, e
al  di  fuori  dei  casi  previsti  dalla legge. Quando, pertanto, la
detenzione  e'  in  esecuzione  di una decisione giudiziaria, essa e'
regolare,  in  via  di  principio  (Grande Camera, sentenza Benham c.
Regno Unito, relativa all'affaire 7/1995/513/597).
   E'  ben  vero  che  la  Corte  EDU  invita  i  giudici  nazionali,
riservando a se' stessa tale compito in seconda battuta, a verificare
altresi'  che  la  privazione  della liberta' sia necessaria, tenendo
conto  delle  circostanze  (sentenza relativa all'affaire n. 26629/95
N.C.  c.  Italia),  ma  tale  scrutinio resta comunque vincolato alla
ricerca   di   eventuali  elementi  di  arbitrio  (sentenza  relativa
all'affaire   n. 42644/02   Picaro   c.   Italia)  che  contagino  la
fattispecie  concreta  e  la  inquadrino  nella  luce  della indebita
restrizione  della  liberta': in nessun modo l'art. 5, secondo la sua
portata letterale e secondo l'interpretazione consolidata della Corte
di  Strasburgo,  si spinge fino a disciplinare l'ipotesi, propria del
presente  giudizio  incidentale, in cui taluno sia stato soggetto, in
conformita'  alla  legge  nazionale, a custodia cautelare e sia stato
condannato a pena che risulti inferiore al periodo restrittivo a tale
titolo imputabile. In tal caso, infatti, non vi e' questione circa la
legittimita'  della  custodia  cautelare,  ne'  si tratta di riparare
all'arbitrio  perpetrato  dai  pubblici poteri: si assume, viceversa,
che  la  detenzione fosse fondata su un titolo conforme alla legge, e
si pone all'attenzione della Corte tutt'altro genere di quesito.
   Le Sezioni unite inoltre rilevano, sempre secondo la visuale della
censura  per violazione della norma interposta richiamata nella legge
delega, che il paragrafo 3 dell'art. 5 della CEDU impone di giudicare
chi  sia  posto  in  stato  di  custodia  cautelare «entro un termine
ragionevole», ovvero di porlo in liberta', se cio' non sia possibile.
Vi  sarebbe,  pertanto,  una  «stretta  connessione» tra la questione
della   legittima  durata  della  custodia  cautelare  e  quella  dei
ragionevoli  tempi di definizione del processo, che si riverbererebbe
fino  all'incostituzionalita'  dell'art.  314  cod.  proc.  pen., nei
termini sopra indicati.
   La  Corte  osserva  a tale proposito che il diritto all'indennizzo
previsto  dall'art.  5  della  CEDU a favore di chi, nelle condizioni
sopra ricordate, non sia giudicato entro un tempo ragionevole, spetta
per  l'eccessiva  durata  della custodia cautelare, imposta dai tempi
del  procedimento penale, ma non ha alcun necessario legame normativo
con  la  distinta questione, posta nell'attuale giudizio, concernente
il rapporto tra tale durata e la pena eventualmente inflitta: esso in
astratto  potrebbe denunciare un carattere squilibrato, anche in caso
di  celere,  o  comunque  temporalmente  tollerabile, definizione del
processo penale.
   La  protrazione  di  quest'ultimo  per  lungo  arco di tempo senza
dubbio  rende meno improbabile l'ipotesi che il reo sia condannato ad
una  pena detentiva inferiore alla custodia subita a titolo cautelare
e  mantenuta  in  essere  nel  corso del processo, sia pure entro gli
invalicabili  limiti di legge. Tuttavia, tale circostanza costituisce
con  ogni  evidenza  un  inconveniente  fattuale,  che  non  discende
necessariamente  dal portato normativo della disposizione impugnata e
che   pertanto   sfugge,   entro  questi  termini,  al  controllo  di
costituzionalita' (sentenza n. 375 del 2006).
   La  censura  fondata sugli artt. 76 e 77 della Costituzione e' per
tali ragioni infondata.
   6. - Resta   da   esaminare   la  censura  di  incostituzionalita'
dell'art.  314  cod.  proc.  pen.  formulata  dalle Sezioni unite con
riferimento  agli  artt.  2, 3, 13 (quest'ultimo, indicato nella sola
parte  motiva  dell'ordinanza  di  rinvio)  e 24, quarto comma, della
Costituzione.
   Questa  Corte  ha gia' avuto modo di pronunciarsi sulla disciplina
concernente  la  riparazione  dell'errore giudiziario con la sentenza
n. 1  del  1969, che risale ad epoca ben precedente alla formulazione
dell'odierna  norma  in esame, e che ebbe infatti ad oggetto l'allora
vigente art. 571 cod. proc. pen.
   In  quell'occasione,  la  Corte,  chiamata  dal  giudice  a quo ad
estendere  l'ambito applicativo di tale disciplina in forza dell'art.
24,  ultimo  comma,  della  Costituzione, dovette arrestarsi a fronte
della  constatazione per cui il difetto di una compiuta legislazione,
tesa  a  regolare gli aspetti sostanziali e procedurali dell'istituto
della   riparazione,  non  avrebbe  potuto  essere  supplito  da  una
pronuncia  costituzionale,  giacche'  «una eventuale dichiarazione di
illegittimita'  costituzionale che si fondasse sulla sola parzialita'
della  disciplina,  rischierebbe  intanto  di condurre ad un regresso
della  situazione  normativa,  riaprendo  un  vuoto  che  non sarebbe
colmabile in sede di interpretazione».
   E'  agevolmente verificabile che tale condizione ostativa e' ormai
venuta  meno, proprio a seguito dell'introduzione nel corpo del nuovo
codice  di procedura penale dell'art. 314. Tramite tale disposizione,
il  legislatore  ha  mostrato la volonta' di attrarre nell'area della
riparazione  ipotesi  che  esulano dalla erroneita' del provvedimento
giurisdizionale  posto  a base della detenzione, per abbracciare casi
recanti  una  «oggettiva  lesione  della liberta' personale, comunque
ingiusta  alla  stregua di una valutazione ex post» (sentenze n. 413,
n. 231  e  n. 230  del 2004; n. 446 del 1997). Nel contempo, e' stato
analiticamente  configurato  un  istituto, che si presta, quanto alle
modalita' applicative, ad essere esteso ad ogni ulteriore ipotesi che
si rivelasse costituzionalmente imposta.
   La  sentenza n. 1 del 1969 appare quindi superata per questa parte
dall'evoluzione  dell'ordinamento giuridico, come gia' evidenziato da
questa   Corte   con  la  sentenza  n. 310  del  1996,  la  quale  ha
riconosciuto   che  «e'  proprio  l'art.  314  c.p.p.  a  porsi  come
disciplina concretizzatrice della disposizione di principio contenuta
nell'art. 24» della Costituzione.
   Essa  permane viceversa integra e vitale, quanto all'affermazione,
che  ne  costituiva  il  fondamento,  per  la  quale  «l'ultimo comma
dell'art.  24  della  Costituzione  enuncia un principio di altissimo
valore  etico  e  sociale,  che  va  riguardato  -  sotto  il profilo
giuridico  -  quale  coerente sviluppo del piu' generale principio di
tutela  dei  diritti  inviolabili  dell'uomo  (art.  2),  assunto  in
Costituzione   tra   quelli   che  stanno  a  fondamento  dell'intero
ordinamento repubblicano, e specificantesi a sua volta nelle garanzie
costituzionalmente  apprestate  ai  singoli  diritti  individuali  di
liberta', ed anzitutto e con piu' spiccata accentuazione a quelli tra
essi  che  sono  immediata  e  diretta espressione della personalita'
umana».
   Nell'attuale  giudizio, tale principio merita di essere apprezzato
non  solo con riguardo all'art. 24, ultimo comma, della Costituzione,
ma   anche   alla  luce  dei  parametri  costituzionali  evocati  dal
rimettente, ovvero degli artt. 2, 3 e 13 della Costituzione.
   «Il  fine  ultimo  dell'organizzazione  sociale»  e', infatti, «lo
sviluppo  di  ogni  persona umana» (sentenza n. 167 del 1999), il cui
valore  si pone al centro dell'ordinamento costituzionale: compete al
legislatore  approntare  il  piu'  efficace  dei  sistemi  di tutela,
affinche' esso non venga compromesso.
   L'inviolabilita'  di  un diritto, ed in questo caso della liberta'
personale,  non  e'  infatti  vuota  proclamazione  della  Carta,  ma
esprime,   al   contrario,   una   «preminente   forza  dei  principi
costituzionali»,  tale  da  opporsi «ad una ricostruzione del sistema
che  si  tradurrebbe  in  una  lesione  di essi» (sentenza n. 232 del
1998).  E',  in altri termini, necessario che sia il legislatore, sia
l'interprete  si  orientino,  ciascuno  nell'ambito  delle rispettive
competenze, verso il riconoscimento del piu' efficace degli strumenti
di  tutela a disposizione per prevenire e, se cio' non sia possibile,
per  fornire  ristoro  alla  lesione  di tale diritto inviolabile. La
Carta costituzionale, infatti, «impone di impedire la costituzione di
situazioni prive di tutela che possano pregiudicare l'attuazione» del
«nucleo  irriducibile»  dei  diritti inviolabili (sentenze n. 252 del
2001, n. 509 del 2000, n. 309 del 1999 e n. 267 del 1998).
   Questa  Corte  e' ben consapevole che una riparazione di carattere
patrimoniale,  venendo  a  monetizzare  il sacrificio di una liberta'
inviolabile,  ne  costituisce  un pallido rimedio, cui debbono sempre
venir  preferiti  strumenti  capaci  di  evitare o limitare il danno,
ovvero di reintegrarlo in forma specifica.
   E  tuttavia tale argomento non puo' valere certamente ad escludere
la  via  della  tutela  risarcitoria o indennitaria quando, di fatto,
essa sia l'unica praticabile nell'ordinamento: si e' gia' ritenuto, a
tale  proposito,  che  l'azione  risarcitoria  costituisce tecnica di
tutela  della  situazione  giuridica lesa, alla natura della quale si
conforma (sentenza n. 204 del 2004).
   Ugualmente,   questa   Corte  ha  anche  di  recente  sottolineato
l'esigenza  di garantire l'integrale riparazione del danno subito nei
valori  propri  della  persona, anche in riferimento all'art. 2 della
Costituzione  (sentenza  n. 233  del  2003). Ed anzi, si e' a maggior
ragione   affermata   l'incostituzionalita'  del  difetto  di  tutela
risarcitoria,  in  seno a discipline costruite per tutelare i diritti
inviolabili  della  persona umana, ove esse siano «estrinsecazione di
un principio solidaristico» (sentenza n. 561 del 1987).
   Non  si  puo',  peraltro,  ignorare  che  una  compressione  della
liberta'  personale  puo'  derivare  dalla  necessita' di perseguire,
tramite  tale  strumento  e  nel rispetto della riserva di legge e di
giurisdizione,  finalita'  dotate di pari dignita' costituzionale. In
tali casi, ove sia corretto il punto di bilanciamento raggiunto dalla
legge  tra gli interessi confliggenti, la liceita' degli atti e delle
condotte  tramite  i  quali  la  liberta' inviolabile e' parzialmente
sacrificata,   pur   opponendosi  alla  configurazione  di  strumenti
risarcitori  di tutela, non costituisce valida ragione per escludere,
in   forza  dell'inderogabile  dovere  di  solidarieta',  il  ristoro
indennitario  «dovuto  per  il semplice fatto obiettivo e incolpevole
dell'aver  subito un pregiudizio non evitabile, in un'occasione dalla
quale la collettivita' nel suo complesso trae un beneficio» (sentenza
n. 118 del 1996).
   Anzi,    tale    ristoro    diviene,    a    queste    condizioni,
costituzionalmente   necessario:   questa   Corte   ha  ripetutamente
affermato  simile principio, con riguardo al danno incolpevole patito
da  chi,  per  esigenze  di  tutela  della  collettivita',  sia stato
assoggettato  a  vaccinazione  obbligatoria  e, imprevedibilmente, ne
abbia  riportato  un  danno  alla  salute  (sentenze n. 118 del 1996,
n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990).
   L'istituto  della  riparazione  per l'ingiusta detenzione previsto
dall'art.  314,  comma  1,  cod.  proc. pen. condivide tale finalita'
solidaristica  (sentenza n. 109 del 1999 e n. 446 del 1997), giacche'
disciplina  un'ipotesi in cui il provvedimento cautelare, restrittivo
della  liberta'  personale,  e' sorto ed e' stato mantenuto in vigore
legittimamente, ma si e' rivelato solo ex post «ingiusto», in ragione
dell'assoluzione  nel  merito  dell'imputato.  Le  esigenze di tutela
della  collettivita' hanno imposto, e legittimato, una misura, il cui
pregiudizio  in  capo  all'imputato  si  e'  potuto  apprezzare  solo
all'esito  del  processo  penale, permanendo peraltro lecito, proprio
alla  luce  di  dette  esigenze,  e  dell'osservanza delle condizioni
richieste dalla legge per soddisfarle.
   Per  tale evenienza, nonostante il difetto delle condizioni per il
riconoscimento di una tutela risarcitoria, il legislatore ha ritenuto
di  rimediare  alla oggettiva lesione del diritto inviolabile tramite
una  misura indennitaria, affidata, quanto alla fase di liquidazione,
alla  valutazione  equitativa  del  giudice,  che  potra' in tal modo
trovare,   caso   per  caso,  il  ristoro  adeguato  alla  sofferenza
incolpevolmente patita dall'individuo.
   Tuttavia, l'art. 314 cod. proc. pen. condiziona espressamente tale
rimedio  alla circostanza per cui, all'esito del giudizio, l'imputato
sia stato prosciolto nel merito.
   Tale  limitazione  viene  contestata, sul piano della legittimita'
costituzionale,  dalle  Sezioni  unite,  le  quali  assumono  a causa
dell'impedimento  nel configurare il diritto alla riparazione «per la
parte  (di  custodia  cautelare)  eccedente  l'entita'  della pena in
concreto   inflitta»   proprio   l'univoca  norma  che  subordina  la
possibilita'  di  riparazione  per l'ingiusta detenzione al fatto che
l'imputato sia stato prosciolto con sentenza irrevocabile di merito.
   Tramite  la  disposizione  censurata,  il  legislatore ha pertanto
inteso  normare  gli  effetti  della  custodia  cautelare, a processo
concluso,  in  relazione all'esito del giudizio sulla responsabilita'
penale dell'imputato.
   Tale  scelta  legislativa  appare  manifestamente irragionevole, e
pertanto lesiva dell'art. 3 della Costituzione.
   Non e' infatti costituzionalmente ammissibile, sotto tale profilo,
che  l'incidenza  che  la  custodia  cautelare ha esercitato sul bene
inviolabile  della  liberta'  personale  dell'individuo,  nella  fase
anteriore  alla  sentenza  definitiva,  possa  venire  apprezzata con
esclusivo  riferimento  all'esito  del processo penale, e per il solo
caso  di  assoluzione  nel  merito dalle imputazioni. Se, infatti, un
sacrificio della liberta' personale vi e' stato durante la fase della
custodia cautelare, il meccanismo solidaristico della riparazione non
puo'  che  attivarsi anche per tale caso, quale che sia stato l'esito
del giudizio, e pertanto anche ove sia mancato il proscioglimento nel
merito. E', per tale ragione, palesemente privo di ragionevolezza che
il  legislatore pretenda di apprezzare la ricorrenza delle condizioni
necessarie  ai  fini  della  riparazione  alla  luce dell'esito della
vicenda  processuale  concernente  il  merito dell'imputazione, e non
gia'  della  sola  lesione  verificatasi durante l'applicazione della
misura custodiale.
   Per  apprezzare  quest'ultima,  non  e'  poi  certamente possibile
limitarsi  a constatare la legalita' del procedimento di applicazione
della  misura cautelare: invero, le guarentigie attorno alle quali si
deve   costituire  il  nucleo  irriducibile  dell'inviolabilita'  del
diritto   apparirebbero   ben   misero   presidio,  se  esse  fossero
soddisfatte  dalla  mera  osservanza  della  riserva di legge e della
riserva  di  giurisdizione contenute nell'art. 13 della Costituzione,
senza  accompagnarsi  all'imposizione  di  un fine costituzionalmente
tracciato  che  le  giustifichi  sostanzialmente, per la parte in cui
esse  si  rendono  strettamente  e necessariamente strumentali al suo
perseguimento.
   Tale  elemento  e' il proprium dell'inviolabilita' del diritto nei
confronti del legislatore ordinario, la cui osservanza e' affidata al
controllo di costituzionalita' di questa Corte.
   Le  finalita'  costituzionali  proprie delle misure cautelari, che
incidono  sulla liberta' personale nel corso del procedimento penale,
sono  state  individuate,  con  consolidata  giurisprudenza di questa
Corte,  «unicamente  in  vista  della  soddisfazione  di  esigenze di
carattere  cautelare  o  strettamente inerenti al processo» (sentenze
n. 64 del 1970 e n. 1 del 1980)
   Pertanto,  i  «limiti che deve incontrare la durata della custodia
cautelare,  discendono  direttamente  dalla  natura  servente  che la
Costituzione   assegna   alla  carcerazione  preventiva  rispetto  al
perseguimento  delle  finalita'  del  processo,  da  un  lato, e alle
esigenze   di   tutela   della  collettivita',  dall'altro,  tali  da
giustificare,  nel  bilanciamento tra interessi meritevoli di tutela,
il  temporaneo  sacrificio  della  liberta'  personale  di chi non e'
ancora  stato giudicato colpevole in via definitiva» (sentenza n. 229
del  2005;  si vedano, inoltre, le sentenze n. 223 del 2006; n. 292 e
n. 232  del  1998;  n. 15  del  1982;  le ordinanze n. 397 del 2000 e
n. 269 del 1999).
   Ove,  tuttavia,  la durata della custodia cautelare abbia ecceduto
la  pena  successivamente  irrogata in via definitiva e' di immediata
percezione  che  l'ordinamento,  al  fine  di  perseguire le predette
finalita',  ha  imposto  al  reo un sacrificio direttamente incidente
sulla liberta' che, per quanto giustificato alla luce delle prime, ne
travalica il grado di responsabilita' personale.
   Tale sacrificio non cessa per tale ragione di essere apprezzato in
termini  di  piena  legittimita':  una  circostanza  sopravvenuta non
incide  sul  giudizio di conformita' della restrizione della liberta'
personale in fase cautelare alla fattispecie legale. Ma non e' questo
il  punto  in  discussione:  si  tratta  invece  di  decidere  se  il
perseguimento  di  obiettive  esigenze  connesse  alla  tutela  della
collettivita'  non  solo  consente  la  compressione  di  un  diritto
inviolabile,  alle  condizioni  e  nei  casi previsti dalla legge, ma
permette   altresi'   al   legislatore  di  negare  l'attivazione  di
meccanismi  solidaristici  di  riparazione  del  sacrificio,  seppure
introdotti e disciplinati compiutamente per altri analoghi casi.
   La  risposta  a tale quesito non puo' che essere negativa: e' anzi
proprio  la  predisposizione  di  misure  cautelari  incidenti  sulla
liberta' personale dell'individuo, e forgiate in rapporto ad esigenze
generali  ed  obiettive  alle  quali  l'imputato si trova soggetto, a
nutrire  il  fondamento squisitamente solidaristico della riparazione
per  ingiusta detenzione e ad imporne costituzionalmente l'estensione
alle  ipotesi  di  detenzione  cautelare sofferta in misura superiore
alla  pena  irrogata o comunque a causa della mancata assoluzione nel
merito.
   In  tal  modo  inquadrati  i  termini della questione sottoposta a
questa  Corte,  risulta  chiaro che solo in apparenza la posizione di
chi  sia  stato  prosciolto  nel  merito  dall'imputazione  penale si
distingue  da  quella  di  chi  sia  stato invece condannato (quanto,
ovviamente,  al  solo  giudizio  circa  l'ingiustizia  della custodia
cautelare che soverchi la pena inflitta).
   In  entrambi  i  casi,  l'imputato  ha  subito una restrizione del
proprio  diritto  inviolabile.  In entrambi i casi, pertanto, ricorre
l'obbligo costituzionale di indennizzare il pregiudizio.
   Assumendo   in   considerazione  la  prima  ipotesi  soltanto,  ed
omettendo  di  disciplinare  la  seconda,  il  legislatore ha violato
l'art. 3 della Costituzione.
   L'art.  314  cod.  proc.  pen.  deve  essere  pertanto  dichiarato
costituzionalmente  illegittimo,  nella parte in cui, nell'ipotesi di
detenzione  cautelare  sofferta,  condiziona  in ogni caso il diritto
all'equa riparazione al proscioglimento nel merito dalle imputazioni.
Naturalmente,  una  volta  sancito  il  diritto  alla riparazione, la
quantificazione  dell'indennizzo  verra'  compiuta dal giudice, nelle
forme e secondo i criteri allo stato vigenti.
   Sotto  tale  prospettiva,  la Corte ritiene opportuno sottolineare
che  il  carattere  di  concretezza  proprio  di siffatta valutazione
implica  che  la distinzione tra prosciolto e condannato, irrilevante
ai  fini  dell'an  debeatur,  alle condizioni appena esposte, torni a
manifestarsi in sede di determinazione del quantum debeatur.
   Per  la  parte  in  cui  l'indennizzo si correla ad un ristoro del
patimento morale subito dall'imputato, pare evidente, infatti, che il
grado  di  sofferenza  cui  e'  esposto  chi,  innocente,  subisca la
detenzione  sia  in  linea  di  principio  amplificato  rispetto alla
condizione  di chi, colpevole, sia ristretto per un periodo eccessivo
rispetto alla pena.
   Spettera', peraltro, ai giudici comuni valutare le peculiarita' di
ciascuna   fattispecie   loro   sottoposta,   al  fine  di  adeguarvi
l'indennizzo previsto dalla legge, alla luce della compromissione del
fondamentale valore della persona umana.
   Naturalmente, la presente decisione non osta a che il legislatore,
nell'esercizio   della  propria  discrezionalita',  possa  in  futuro
revisionare   l'istituto   della   riparazione   nel  rispetto  delle
fondamentali  esigenze  di  tutela del valore primario della liberta'
personale dell'individuo.
   Questa  sentenza,  infatti,  ha  per oggetto - secondo quanto gia'
osservato  al  punto  4 -  la  sola  ipotesi,  rilevante  ai fini del
giudizio a quo, in cui la pena definitivamente inflitta all'imputato,
ovvero  oggetto  di  una  preclusione  processuale che la sottragga a
riforma  nei  successivi  gradi  di  giudizio,  risulti  inferiore al
periodo di custodia cautelare sofferto.
   Resta   pertanto  escluso  il  riconoscimento  dell'indennizzo  in
fattispecie  nelle  quali  la  mancata  corrispondenza tra detenzione
cautelare  e  pena  eseguita  o  eseguibile -  se  diversa  da quella
inflitta -  consegua  a  vicende posteriori, connesse al reato o alla
pena.  In  tali  casi,  infatti,  si  produce  una situazione affatto
diversa  rispetto  a  quella  che  induce  questa  Corte a dichiarare
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 314 cod. proc. pen.
   Sono  assorbite  le  ulteriori  censure svolte dal rimettente, con
riguardo agli artt. 2, 13 e 24 della Costituzione.