Sentenza nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 707 del codice penale, promosso con ordinanza del 7 gennaio 2004 dalla Corte d'appello di Genova, nel procedimento penale a carico di A. M., iscritta al n. 277 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell'anno 2007; Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nella Camera di consiglio del 21 maggio 2008 il giudice relatore Giovanni Maria Flick. Ritenuto in fatto 1. - Con l'ordinanza indicata in epigrafe, pervenuta alla Corte il 28 marzo 2007, la Corte d'appello di Genova ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 25 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 707 del codice penale, che contempla la contravvenzione di possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli. La Corte rimettente premette di essere investita del processo penale nei confronti di una persona imputata del reato previsto dalla norma denunciata, in quanto - essendo stata condannata per delitti determinati da motivi di lucro - veniva colta in possesso di un cacciavite con punta piatta della lunghezza di 14 centimetri, costituente strumento atto ad aprire e a sforzare serrature, senza giustificarne l'attuale destinazione. Facendo propri gli argomenti svolti dalla difesa a sostegno dell'eccezione di illegittimita' costituzionale della norma incriminatrice, il giudice a quo muove dalla premessa che il reato in esame - definito come «di sospetto» - incrimini «fatti in se' stessi non lesivi del bene protetto ma tali da far presumere la commissione di reati». Il rimettente ricorda, altresi', come questa Corte abbia dichiarato costituzionalmente illegittimi gli artt. 707 e 708 cod. pen., nella parte in cui rendevano rilevanti, ai fini della configurabilita' delle contravvenzioni da essi previste, condizioni personali quali la condanna per mendicita', l'ammonizione, la sottoposizione a misura di sicurezza personale o a cauzione di buona condotta. Il giudice a quo rimarca, ancora, come la sentenza n. 370 del 1996 abbia dichiarato successivamente incostituzionale l'art. 708 cod. pen., per violazione dei principi di ragionevolezza e di tassativita', anche nel residuo riferimento ai soggetti precedentemente condannati per determinati reati; ritenendo invece conforme al principio di tassativita' l'art. 707 cod. pen.: cio', peraltro - ad avviso della Corte rimettente - senza considerare adeguatamente il principio di offensivita'. In ogni caso - soggiunge il giudice a quo - la sentenza n. 354 del 2002 avrebbe escluso, in relazione alla fattispecie contemplata dall'art. 688, secondo comma, cod. pen., che «lo status personale di condannato» possa «legittimare la sanzione penale». Tanto premesso, la Corte d'appello di Genova ritiene che l'art. 707 cod. pen. si ponga in contrasto con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), incriminando «non [...] il fatto in se', ma [...] elementi ad esso estranei attinenti alla persona», sulla base di una «presunzione di pericolosita» riguardante «il passato» e, al tempo stesso, «troppo generica». La norma censurata farebbe discendere, per giunta, da una condanna «effetti da essa non previsti», individuando nel pregiudicato un potenziale autore di nuovi reati: e cio' in contrasto con la valenza rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.), alla luce della quale il condannato andrebbe considerato, viceversa, socialmente recuperato e insuscettibile di «soffrire condizioni di iniquo sfavore». La disposizione de qua delineerebbe, quindi, una responsabilita' «per il modo di essere dell'autore», lesiva anche degli artt. 25 e 27, primo comma, Cost., che sanciscono i principi di offensivita' e della responsabilita' per fatto proprio colpevole. Un ulteriore profilo di violazione dell'art. 3 Cost. si connetterebbe alla disparita' di trattamento riscontrabile tra coloro che hanno riportato una condanna definitiva per i reati indicati dalla norma incriminatrice e coloro che - pur avendo commesso identici fatti - non siano stati invece condannati, a causa dell'estinzione del reato per «amnistia, prescrizione, remissione di querela, oblazione, risarcimento del danno»; ovvero in ragione dell'improcedibilita' dell'azione penale per mancanza di querela. Risulterebbe violato anche il principio di tassativita' (art. 25, secondo comma, Cost.), giacche' i comportamenti incriminati - diversamente che per i reati in materia di armi - non sarebbero descritti in termini che delineino «un disvalore sottostante alla fattispecie legale». La norma impugnata comprometterebbe, inoltre, il diritto di difesa (art. 24 Cost.), giacche' - invertendo l'onere della prova - imporrebbe all'imputato di giustificare la destinazione o l'origine dei beni detenuti e, dunque, di dimostrare la propria innocenza: precludendo, cosi', anche l'esercizio della facolta' di «tacere nel processo». Rimarrebbe lesa, di conseguenza, la «presunzione di innocenza» (recte, di non colpevolezza: art. 27, secondo comma, Cost.), in quanto la prova della destinazione criminosa degli oggetti verrebbe desunta, in via meramente presuntiva, da altri elementi (la condizione soggettiva e il possesso delle cose): ottica nella quale il fatto punito «non verrebbe piu' accertato in un regolare processo», con correlato vulnus anche del «principio di legalita». Alla luce di tale complesso di rilievi - addotti dalla difesa e che la Corte rimettente condivide - sarebbe dunque necessario, ad avviso della Corte stessa, che il confine tra le ipotesi di reato e le misure volte ad affrontare la pericolosita' sociale venga «meglio definito». In particolare, mentre misure di polizia e di sicurezza potrebbero risultare «compatibili con il sistema»; di dubbia costituzionalita' apparirebbe la previsione - rispetto a chi si trovi in determinate condizioni soggettive, sia pure derivanti da un precedente accertamento giudiziale - di un reato di pericolo come quello in esame, che punisce atti leciti per la generalita' dei cittadini, senza neppure richiedere una esclusiva o almeno «strutturale» attitudine degli oggetti posseduti ad aprire o a sforzare serrature. 2. - Nel giudizio di costituzionalita' e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata. La difesa erariale rileva come i dubbi di costituzionalita' prospettati dal giudice a quo siano gia' stati dichiarati infondati, o manifestamente infondati, tanto da questa Corte che dalla Corte di cassazione. Alla luce delle affermazioni di questa Corte, andrebbe esclusa, in particolare, ogni violazione dell'art. 3 Cost., essendo ben diversa la situazione di chi - definitivamente condannato per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione dei delitti contro il patrimonio - abbia il possesso ingiustificato di arnesi atti ad aprire o a sforzare serrature, rispetto a quella di chi abbia quel possesso, ma non sia stato mai condannato per gli anzidetti reati. Ne' potrebbe ipotizzarsi una violazione del principio di colpevolezza. Quest'ultimo esclude che un soggetto possa essere chiamato a rispondere di fatti che non puo' impedire, o in relazione ai quali non e' in grado, senza la minima colpa, di ravvisare il dovere di evitarli; mentre, nella specie, il soggetto - che versa in una situazione di peculiare rilievo - potrebbe bene evitare la commissione del fatto incriminato (il possesso ingiustificato di grimaldelli od oggetti similari). Ancor piu' evidente risulterebbe, poi, l'insussistenza della violazione del principio di tassativita', in quanto l'art. 707 cod. pen. punisce una condotta chiaramente delineata. Non sarebbe violato nemmeno il principio di offensivita', giacche' il possesso ingiustificato degli arnesi di cui all'art. 707 cod. pen., da parte di chi versi nelle condizioni indicate nella norma incriminatrice, e' comunemente avvertito come una situazione pericolosa per la societa', meritevole di pena criminale: tanto che analogo reato non solo e' stato sempre previsto dalle legislazioni unitarie e preunitarie, ma e' stato ed e' tuttora previsto anche dalle legislazioni penali degli altri Paesi europei. Come puntualizzato dalla sentenza n. 265 del 2005 di questa Corte, la norma deve ritenersi volta a tutelare, di fronte a forme di esposizione a pericolo, un interesse penalmente rilevante, nel rispetto del principio dell'offensivita' in astratto: salva l'esigenza di una verifica particolarmente attenta dell'attualita' e della concretezza di detto pericolo da parte del giudice chiamato a fare applicazione della norma, avuto riguardo, in specie, all'attitudine funzionale degli strumenti ad aprire o a sforzare serrature e alle modalita' di tempo e di luogo della condotta. Egualmente insussistente risulterebbe - secondo l'Avvocatura generale dello Stato - la denunciata violazione del principio della finalita' rieducativa della pena. A prescindere dal rilievo che tale finalita' non potrebbe essere invocata per escludere la legittimita' costituzionale di fattispecie contravvenzionali, l'art. 707 cod. pen. non punisce comunque i fatti per i quali vi e' gia' stata condanna, ma uno specifico fatto nuovo, commesso da soggetto che - in base a particolari precedenti - apparirebbe potenzialmente pericoloso e che non potrebbe essere ritenuto recuperato solo per effetto della condanna o dell'espiazione della pena. L'art. 707 cod. pen., d'altro canto, non richiederebbe affatto che l'imputato provi la liceita' della destinazione della cosa posseduta, invertendo l'onere della prova: ma si limiterebbe a pretendere un'attendibile e circostanziata giustificazione, da valutare in concreto, secondo i principi della liberta' delle prove e del libero convincimento. Non sarebbe ravvisabile, dunque, alcuna violazione ne' della presunzione di non colpevolezza, ne' del diritto di difesa, riguardato anche nel particolare aspetto della facolta' di non rispondere: giacche' - come gia' affermato da questa Corte - se e' pur vero che la giustificazione delle cose indicate nell'art. 707 cod. pen. implica che una risposta sia data, e' altrettanto vero che la giustificazione e' essa stessa un mezzo di difesa, alla quale l'interessato puo' liberamente rinunciare qualora ritenga che a fini difensivi sia preferibile il silenzio. Considerato in diritto 1. - La Corte d'appello di Genova dubita della legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 25 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, dell'art. 707 del codice penale, che delinea la contravvenzione di possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli. Ad avviso del giudice a quo, la norma denunciata risulterebbe lesiva, anzitutto, dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), in quanto sottoporrebbe a pena non il fatto in se', ma una condizione personale - quella di condannato per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio - sulla base di una presunzione di pericolosita' riguardante il passato e, al tempo stesso, «troppo generica». Individuando nel condannato un potenziale autore di nuovi reati, l'art. 707 cod. pen. si porrebbe in contrasto anche con la funzione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.), alla luce della quale il condannato andrebbe considerato socialmente recuperato e insuscettibile di «soffrire condizioni di iniquo sfavore». Verrebbe cosi' delineata una responsabilita' «per il modo di essere dell'autore», lesiva dei principi di offensivita' e della responsabilita' penale per fatto proprio colpevole, sanciti dagli artt. 25 e 27, primo comma, Cost. L'art. 3 Cost. sarebbe compromesso anche in rapporto alla disparita' di trattamento riscontrabile tra chi, per il precedente reato, ha riportato condanna definitiva e chi, a fronte della commissione di un identico fatto, non e' stato invece condannato a causa dell'estinzione del reato o dell'improcedibilita' dell'azione penale per mancanza di querela. Risulterebbe violato, ancora, il principio di tassativita' (art. 25, secondo comma, Cost.), giacche' i comportamenti incriminati non verrebbero descritti in termini che delineino «un disvalore sottostante alla fattispecie legale». La norma impugnata vulnererebbe, infine, il diritto di difesa (art. 24 Cost.) e la presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), giacche' - invertendo l'onere della prova - imporrebbe all'imputato di giustificare la destinazione dei beni detenuti, precludendogli, cosi', anche l'esercizio del diritto al silenzio. 2. - La questione non e' fondata. 3. - L'ampia discrezionalita' che - per costante giurisprudenza di questa Corte - va riconosciuta al legislatore nella configurazione delle fattispecie criminose, si estende anche alla scelta delle modalita' di protezione penale dei singoli beni o interessi. Rientra, segnatamente, in detta sfera di discrezionalita' l'opzione per forme di tutela avanzata, che colpiscano l'aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo; nonche', correlativamente, l'individuazione della soglia di pericolosita' alla quale riconnettere la risposta punitiva. Tali soluzioni debbono misurarsi, nondimeno, con l'esigenza di rispetto del principio di necessaria offensivita' del reato: principio desumibile, in specie, dall'art. 25, secondo comma, Cost., in una lettura sistematica cui fa da sfondo «l'insieme dei valori connessi alla dignita' umana» (sentenza n. 263 del 2000). La giurisprudenza di questa Corte ha da tempo chiarito in qual modo si atteggi, a tale riguardo, la ripartizione di competenze tra giudice costituzionale e giudice ordinario (sentenze n. 265 del 2005, n. 263 e n. 519 del 2000, n. 360 del 1995). Spetta, in specie, alla Corte - tramite lo strumento del sindacato di costituzionalita' - procedere alla verifica dell'offensivita' «in astratto», acclarando se la fattispecie delineata dal legislatore esprima un reale contenuto offensivo; esigenza che, nell'ipotesi del ricorso al modello del reato di pericolo, presuppone che la valutazione legislativa di pericolosita' del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all'id quod plerumque accidit (tra le altre, sentenza n. 333 del 1991). Ove tale condizione risulti soddisfatta, il compito di uniformare la figura criminosa al principio di offensivita' nella concretezza applicativa resta affidato al giudice ordinario, nell'esercizio del proprio potere ermeneutico (offensivita' «in concreto»). Esso - rimanendo impegnato ad una lettura «teleologicamente orientata» degli elementi di fattispecie, tanto piu' attenta quanto piu' le formule verbali impiegate dal legislatore appaiano, in se', anodine o polisense - dovra' segnatamente evitare che l'area di operativita' dell'incriminazione si espanda a condotte prive di un'apprezzabile potenzialita' lesiva. 4. - Cio' premesso, questa Corte ha gia' avuto modo di chiarire come la previsione punitiva di cui all'art. 707 cod. pen. - nel testo risultante dopo la parziale declaratoria di illegittimita' costituzionale operata dalla sentenza n. 14 del 1971 - non possa ritenersi contrastante con il principio di offensivita' «in astratto» (sentenza n. 265 del 2005). Contrariamente a quanto assume il rimettente, la disposizione non prefigura una responsabilita' «per il modo di essere dell'autore», in assenza di offesa per il bene protetto; ma mira a salvaguardare il patrimonio rispetto a situazioni di pericolo normativamente tipizzate: richiedendo, a tal fine, il concorso di tre distinti elementi. In primo luogo, una particolare qualita' del soggetto attivo, che deve identificarsi in persona gia' condannata - in via definitiva - per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio. In secondo luogo, il possesso - nel quale detto soggetto deve essere «colto» - di oggetti idonei a vincere congegni posti a difesa della proprieta' (chiavi alterate o contraffatte, chiavi genuine, strumenti atti ad aprire o a sforzare serrature): possesso che - come reiteratamente rilevato da questa Corte - e' esso stesso una condotta, o fa comunque seguito ad una condotta, con conseguente insussistenza di un vulnus al principio di materialita' del reato (sentenze n. 265 del 2005, n. 236 del 1975 e n. 14 del 1971). In terzo luogo e da ultimo, l'incapacita' del soggetto di giustificare - e, amplius, per quanto si dira', l'impossibilita' di desumere aliunde - l'attuale destinazione (lecita) dei predetti strumenti. In presenza di tali elementi, non puo' reputarsi, in termini generali, irrazionale e arbitraria la previsione - nella quale la fattispecie in esame rinviene pacificamente la propria ratio - che l'agente si accinga a commettere reati contro il patrimonio mediante violenza sulle cose (quali furti in abitazione o su autovetture). Sara', per il resto, compito del giudice ordinario evitare che - a fronte della descrizione, per certi versi, non particolarmente perspicua del fatto represso - la norma incriminatrice venga a colpire anche fatti concretamente privi di ogni connotato di pericolosita'. A tal fine, il giudice dovra' procedere ad un vaglio accurato sia dell'attitudine funzionale degli strumenti ad aprire o a sforzare serrature; sia delle modalita' e delle circostanze di tempo e di luogo con cui gli stessi sono detenuti. In particolare, quanto meno univoca ed esclusiva risulti la destinazione dello strumento allo scasso - come nel caso in cui si discuta di oggetti di uso comune, suscettibili di impieghi diversi e leciti - tanto piu' significative dovranno risultare le modalita' e le circostanze spazio-temporali della detenzione, nella direzione dell'esistenza di un attuale e concreto pericolo di commissione di delitti contro il patrimonio (sentenza n. 265 del 2005). Al riguardo, non va del resto dimenticato che la norma incriminatrice non punisce chi «possiede», ma chi «e' colto in possesso» degli strumenti in questione: formula, questa, opportunamente valorizzabile al fine di escludere la rilevanza penale di situazioni di generica disponibilita', a fronte delle quali la possibilita' di un impiego dell'oggetto per finalita' criminose appaia remota e meramente congetturale. 5. - In simile prospettiva, non e' quindi riscontrabile la violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), denunciata dal giudice a quo sotto il profilo che la norma incriminatrice risulterebbe basata su una presunzione di pericolosita' riguardante «il passato» e «troppo generica». A fronte di una condotta che deve gia' presentare, nei termini dianzi evidenziati, una potenziale proiezione verso l'offesa al patrimonio, non puo' considerarsi irragionevole che il legislatore tenga conto delle precedenti condanne riportate dal soggetto attivo per reati aggressivi del medesimo bene, o comunque connotati da finalita' di lucro, elevandole ad elemento di selezione dei fatti punibili, in quanto idonee a rendere maggiormente concreta detta proiezione offensiva (sentenza n. 236 del 1975 e ordinanza n. 146 del 1977; nonche' sentenza n. 370 del 1996). 6. - Ne', d'altra parte, tale soluzione legislativa si pone in contrasto con la finalita' rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.): finalita' che imporrebbe - secondo il giudice a quo - di considerare il condannato «socialmente recuperato». Al legislatore non e' inibito, infatti, prevedere che alla condanna, anche se seguita dall'espiazione della pena, residuino «effetti penali», al cui novero va ascritto quello in esame. Ne' si puo' ritenere che, in tale ottica, la condanna per determinati reati si trasformi in un «marchio indelebile», che pone il condannato in una posizione di perenne sfavore rispetto alla generalita' dei cittadini, senza alcuna possibilita' di emenda. Per communis opinio, difatti, il condannato cessa di rientrare tra i possibili autori della contravvenzione di cui all'art. 707 cod. pen. ove abbia ottenuto la riabilitazione, che estingue gli effetti penali della condanna (art. 178 cod. pen.). 7. - Priva di consistenza appare l'ulteriore censura di violazione del principio di eguaglianza, formulata dal giudice rimettente in rapporto alla disparita' di trattamento che si verificherebbe tra coloro i quali hanno riportato una condanna definitiva per i reati indicati dalla norma incriminatrice censurata, e coloro che - pur avendo commesso un identico fatto - non sono stati invece condannati, a causa dell'estinzione del reato o della improcedibilita' dell'azione penale per mancanza di querela. Le situazioni poste a confronto risultano, all'evidenza, non comparabili: giacche' nel caso del prosciolto (anche se non nel merito) e' comunque mancato un accertamento definitivo della responsabilita' per il fatto anteriore. 8. - Quanto alla lamentata violazione del principio di determinatezza dell'illecito penale (art. 25, secondo comma, Cost.), questa Corte ha gia' escluso che detto principio resti vulnerato dalla locuzione descrittiva dell'oggetto materiale del reato, la quale fa perno sull'attitudine funzionale degli strumenti posseduti ad aprire o a sforzare serrature: attitudine la cui verifica non eccede il normale compito ermeneutico istituzionalmente demandato al giudice (ordinanza n. 36 del 1990). Ma analoga conclusione si impone anche con riguardo alle modalita' e alle circostanze spazio-temporali della detenzione, la cui analisi - alla luce di quanto dianzi evidenziato - si rende necessaria ai fini della verifica della concretezza e dell'attualita' del pericolo per il patrimonio, specie quando si tratti di oggetti di uso comune e a destinazione «aspecifica» (si veda, in rapporto alla similare problematica postasi con riferimento alla contravvenzione di possesso ingiustificato di strumenti atti ad offendere, di cui all'art. 4, secondo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, la sentenza n. 79 del 1982). 9. - Tanto meno, poi, puo' ritenersi compromesso il principio della responsabilita' per fatto proprio colpevole (art. 27, primo comma, Cost.), il quale esige che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all'agente, nella forma del dolo o della colpa, e al medesimo «rimproverabili» (sentenze n. 322 del 2007 e n. 1085 del 1988). Nella specie, il presupposto soggettivo da cui dipende l'applicazione della norma incriminatrice e' costituito da un dato certo e pienamente conoscibile dal soggetto attivo (la precedente condanna irrevocabile). Detto soggetto e' posto quindi in condizione di evitare la realizzazione dell'elemento oggettivo del reato, in quanto l'acquisizione del possesso degli strumenti atti allo scasso avviene in un momento in cui la legge - a fronte della precedente condanna irrevocabile - impone all'agente di adottare particolari cautele (al riguardo, si veda la sentenza n. 48 del 1994). Mentre, per il resto, e' pacifico che, ai fini dell'insorgenza della responsabilita' penale, l'acquisto della disponibilita' materiale del bene debba essere cosciente e volontario: se il possesso e' inconsapevole, la contravvenzione non si configura. 10. - Questa Corte ha in piu' occasioni escluso, ancora, i dedotti vulnera alla presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.) e al diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.), nel particolare aspetto del diritto al silenzio, legati alla circostanza che la norma impugnata stabilirebbe una inversione dell'onere della prova in danno dell'imputato (sentenza n. 236 del 1975; ordinanze n. 36 del 1990 e n. 146 del 1977). In effetti, al di la' della formulazione letterale della previsione punitiva («dei quali non giustifichi l'attuale destinazione»), cio' che la medesima prefigura e' solo un onere di allegazione, da parte dell'imputato, delle circostanze da cui possa desumersi la destinazione lecita degli oggetti, che non risultino conosciute o conoscibili dal giudicante. Quest'ultimo - alla stregua di una interpretazione ormai generalmente recepita - potra' trarre comunque aliunde il convincimento in ordine alla liceita' degli obiettivi di impiego degli strumenti, ove l'imputato abbia scelto la via del silenzio. Si tratta di una situazione non dissimile, nella sostanza, da quella originata dalle numerose norme incriminatrici, presenti nell'ordinamento, che puniscono il compimento di determinate azioni od omissioni «senza giustificato motivo» (quale, ad esempio, la gia' ricordata disposizione incriminatrice del porto di strumenti atti a recare offesa alla persona: disposizione che prefigura una tutela in forma preventiva della vita e dell'incolumita' fisica delle persone strutturalmente analoga, mutatis mutandis, a quella apprestata dall'art. 707 cod. pen. in rapporto al patrimonio; salvo a non richiedere - in correlazione al piu' elevato rango dell'interesse protetto - una specifica caratterizzazione del soggetto attivo). Nell'anzidetta clausola - quella dell'assenza di giustificato motivo - non puo' infatti scorgersi una inversione dell'onere della prova, lesiva dei parametri costituzionali evocati (sentenza n. 5 del 2004). 11. - Priva di specifica motivazione risulta, da ultimo, l'allegata violazione dell'art. 13 Cost.