IL TRIBUNALE Riunito in Camera di consiglio, sciogliendo la riserva di cui al verbale di udienza del 23 aprile 2008, ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento, iscritto al n. 125/2008 reg. ricorsi, pendente trea Kodak S.p.A., con sede in Cinisello Balsamo (MI), al viale Matteotti n. 62, in persona del legale rappresentante pro tempore ing. Manlio Orioli, rappresentata e difesa, giusta procura generale alle liti per notar R. Giocosa di Milano del 4 luglio 2001, n. 34.240 rep., dagli avv. Gabriele Chiesa ed Elisabetta Chiesa del Foro di Milano, unitamente ai quali elettivamente domicilia in Napoli, alla via Posillipo n. 69/7 presso lo studio dell'avv. Guido De Luca per effetto di «dichiarazione di nomina di sostituto e di elezione di domicilio» apposta in calce al ricorso introduttivo del giudizio, ricorrente; e Professional Printing New Play Color S.r.l. in liquidazione, in persona del liquidatore Renato Laurenza, con sede in Napoli, alla via A. Genovesi n. 45, resistente. Premesso in fatto Con ricorso depositato il 15 febbraio 2008 e ritualmente notificato alla controparte unitamente al pedissequo decreto di fissazione di udienza, la Kodak S.p.A. ha chiesto a questo tribunale di pronunciare la dichiarazione di fallimento della Professional Printing New Play Color S.r.l. in liquidazione essendo quest'ultima sua debitrice per il complessivo importo di € 79.852,73 ed in stato di insolvenza e deducendo tra l'altro che «... i limiti quantitativi previsti dall'art. 1, lettere a) e b) del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, nel testo riformato dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, individuano non la nozione fallimentare dell'imprenditore piccolo, ma, al contrario, determinano una presunzione legale di impresa media o comunque non piccola ai fini fallimentari o addirittura di piccolo imprenditore soggetto al fallimento in via di eccezione, poiche' diversamente, e paradossalmente, potrebbe accadere che una societa' in liquidazione, indipendentemente dalla sua natura giuridica, si trasformerebbe in un piccolo imprenditore non fallibile in considerazione del fatto che essa, non potendo compiere attivita' imprenditoriale non sarebbe in grado di superare i limiti posti dalla norma fallimentare ...». All'udienza tenutasi in camera di consiglio il 23 aprile 2008 non essendosi costituita, ne' essendo comparsa, la Professional Printing New Play Color S.r.l. in liquidazione il tribunale si e' riservato la decisione. Osserva in diritto Preliminarmente, va precisato che l'odierno procedimento, instaurato da un ricorso depositato il 15 febbraio 2008 va trattato e definito secondo la innovativa disciplina, sostanziale e processuale, della legge fallimentare (r.d. 16 marzo 1942, n. 267) introdotta dal d.lgs, (c.d. correttivo) 12 settembre 2007, n. 169 ed entrata in vigore il 1 gennaio 2008. Va poi pregiudizialmente ritenuta sussistente la competenza territoriale di questo tribunale avendo la Professional Printing New Play Color S.r.l. la propria sede legale, fin dalla sua costituzione, in Napoli, alla via A. Genovesi n. 45 (cfr. l'allegata visura storica), e non essendovi in atti elementi per dubitare della coincidenza di tale sede con quella effettiva della medesima societa'. Deve infine evidenziarsi che detta societa' non si e' costituita in giudizio, ne' e' comparsa all'udienza del 23 aprile 2008, malgrado la ritualita' (giusta quanto previsto dal combinato disposto degli artt. 145, primo comma, c.p.c. e 7 della legge n. 890/1982, come modificato dall'art. 36, comma 2-quater e 2-quinquies della legge 28 febbraio 2008, n. 31, in vigore dal 1 marzo 2008) della notificazione nei suoi confronti del ricorso e del pedissequo decreto di convocazione. Fermo quanto precede, va rilevato che la ricorrente ha compiutamente dimostrato di essere creditrice della Professional Printing New Play Color S.r.l. in liquidazione, per il complessivo importo di € 79.852,73: tanto emerge agevolmente dal decreto ingiuntivo n. 2565 pronunciato, in danno di quest'ultima, dal Tribunale di Monza, in composizione monocratica, il 27 giugno 2005 e munito di esecutorieta', ex art. 647 c.p.c., il 10 novembre 2005 (cfr. in atti) dal successivo precetto del 21 febbraio 2006, oltre che dalla copiosa documentazione gia' allegata a sostegno della predetta istanza monitoria e depositata anche in questa sede (cfr. fatture della Kodak S.p.A. ed estratti autentici dei suoi registri I.V.A. vendite). Inoltre, dalla documentazione acquisita di ufficio dal tribunale in virtu' dei poteri conferitigli dall'art. 15 della legge fallimentare (cfr., in particolare quanto recapitato dall'Agenzia della riscossione competente per territorio), si evince agevolmente l'esistenza di ulteriori debiti scaduti della resistente per complessivi € 95.232,76 per le specifiche causali riportate in ciascuna delle cartelle indicate. L'entita' dei descritti debiti consente, allora, di ritenere superato il limite di cui all'art. 15 del r.d. n. 267/1942 come modificato dal d.lgs. n. 169/2007 (non si fa luogo a dichiarazione di fallimento se l'ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dall'istruttoria prefallimentare e' complessivamente inferiore ad € 30.000,00) al di sotto del quale, anche in presenza di un accertato stato di insolvenza, non potrebbe comunque dichiararsi il fallimento dell'imprenditore che stando al tenore dell'attuale art. 1 del r.d. n. 267/1942 (come risultante dalle modifiche apportategli dal gia' richiamato d.lgs. n. 169/2007), non dimostri il possesso congiunto dei tre requisiti dimensionali previsti dalla medesima disposizione. Per poter giungere alla pronuncia della invocata dichiarazione di fallimento occorre, pertanto, verificare la sussistenza, nella specie, dei presupposti, oggettivo (stato di insolvenza) e soggettivo (impresa soggetta al fallimento), rispettivamente previsti dagli odierni testi degli artt. 5 ed 1 della citata legge fallimentare. Giova premettere, quanto al primo, che la S.r.l. Professional Printing New Play Color S.r.l. si trova attualmente in liquidazione giusta atto per notar R. Chiari del 17 novembre 2005, iscritto nel registro delle imprese il 2 dicembre 2005 (cfr. l'allegata visura storica) e che, secondo la costante giurisprudenza della Corte di cassazione, «quando la societa' e' in liquidazione, la valutazione del giudice, ai fini dell'applicazione della l.fall., art. 5, deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l'eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali, e cio' in quanto - non proponendosi l'impresa in liquidazione di restare sul mercato, ma avendo come esclusivo obiettivo quello di provvedere al soddisfacimento dei creditori sociali, previa realizzazione delle attivita' sociali, ed alla distribuzione dell'eventuale residuo tra i soci - non e' piu' richiesto che essa disponga, come invece la societa' in piena attivita', di credito e di risorse, e quindi di liquidita', necessari per soddisfare le obbligazioni contratte» (cfr. Cass., 6 settembre 2006, n. 19141; Cass. 17 aprile 2003, n. 6170, Cass. 11 maggio 2001, n. 6550). Infatti «il principio secondo il quale l'insolvenza della societa' non puo' necessariamente desumersi da uno squilibrio patrimoniale, il quale puo' essere eliminato dal favorevole andamento degli affari o da eventuali ricapitalizzazioni, non e' invocabile quando la societa' e' in liquidazione, ossia quando l'impresa non si propone di restare sul mercato, ma ha come unico suo obiettivo quello di provvedere al soddisfacimento dei creditori sociali, previa realizzazione delle attivita' sociali ed alla distribuzione dell'eventuale residuo attivo tra i soci. In tale ipotesi, pertanto, la valutazione del giudice, ai fini dell'accertamento delle condizioni richieste per l'applicazione della l.fall. art. 5, non puo' essere rivolta a stimare, in una prospettiva di continuazione dell'attivita' sociale, l'attitudine dell'impresa a disporre economicamente della liquidita' necessaria per far fronte ai costi determinati dallo svolgimento della gestione aziendale, ma deve essere diretta, invece, ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l'eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali» (cfr. Cass. 10 aprile 1996, n. 3321, richiamata, in motivazione dalla piu' recente Cass. 6 settembre 2006, n. 19141). In applicazione dei riportati principi, quindi, nella specie non puo' seriamente dubitarsi, sulla base della seppure scarsa documentazione prodotta dalla ricorrente e di quella acquisita, ex officio, dal tribunale, dello stato di insolvenza della societa' resistente atteso che dall'ultimo bilancio dalla stessa depositato presso il registro delle imprese, risalente all'esercizio chiuso il 31 dicembre 2003, emerge un attivo complessivamente pari ad € 172.176,00: importo, quest'ultimo, gia' da solo inferiore al totale dei debiti attualmente scaduti della medesima societa' come in precedenza accertati (€ 79.852 73 + 95.232,76 = 175.085,49). A tale significativa circostanza va aggiunto il riscontro di ulteriori sintomi, da valutarsi unitariamente ed individuabili: a) nei dati ricavabili dalla documentazione acquisita ex officio dal tribunale presso l'Anagrafe tributaria (in particolare, dalla sensibile diminuzione del volume di affari della societa' passato dagli € 399.695,00 del 2004 agli € 88.337,00 del 2005); b) nell'abbandono della sede (cfr. relata di notifica del ricorso introduttivo di questo procedimento); c); nel rilevante importo del debito verso la odierna ricorrente, e nel suo protratto mancato soddisfacimento malgrado le reiterate sollecitazioni giudiziali e stragiudiziali; d) nell'omesso deposito dei bilanci successivi a quello concernente l'esercizio chiuso il 31 dicembre 2003. Quanto, invece, alla ricorrenza o meno del presupposto soggettivo, l'essere cioe', oggi, la Professional Printing New Play Color S.r.l., attualmente in liquidazione, un imprenditore fallibile o non, il corrispondente accertamento non puo' che avvenire allo stato in base a quanto previsto dall'art. 1, primo e secondo comma, del r.d. n. 267/1942, come modificato dal d.lgs. n. 169/2007. Secondo la citata norma «1) Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attivita' commerciale, esclusi gli enti pubblici. 2) Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti: a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall'inizio dell'attivita' se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila; b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento o dall'inizio dell'attivita' se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila; c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila». Ad avviso di questo Collegio, pero', il riportato secondo comma della citata disposizione e' in contrasto, in primis, con l'art. 3 della Costituzione, per violazione del principio di ragionevolezza, essendo foriero di irragionevoli disparita' di trattamento, nella parte in cui addossa al debitore l'onere di provare la propria non assoggettabilita' a fallimento o, se si preferisce, nella parte in cui prevede il fallimento dell'imprenditore commerciale insolvente che non abbia dimostrato di non essere compreso nell'area della non fallibilita' definita dalle lett. a), b) e c) del medesimo comma (si tratta, infatti, al contrario di quanto sembra ritenere la relazione di accompagnamento dello schema del d.lgs. n. 169 del 2007, di una falsa alternativa, giacche' le regole di distribuzione dell'onere della prova sono in definitiva, sempre regole di giudizio). In proposito, infatti, va innanzitutto osservato che, prima della riforma della legge fallimentare recata dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, nessuno aveva mai dubitato che l'accoglimento della domanda di fallimento richiedesse la dimostrazione, oltre che dell'insolvenza, della qualita' di imprenditore commerciale del debitore, e che quasi altrettanto unanime era l'idea che analoga soluzione dovesse valere anche per la qualita' di non piccolo imprenditore del debitore, il quale, dunque, si riteneva comunemente che non potesse essere dichiarato fallito qualora il giudice non fosse stato in possesso di elementi (da qualsiasi fonte legittimamente acquisiti al procedimento) sufficienti a negare la sua qualita' di piccolo imprenditore: basti pensare, da un lato, a quanto precisato dalla Corte di cassazione con la sentenza del 3 febbraio 1990, n. 744, in cui si affermava, sostanzialmente che la qualita' di imprenditore non piccolo del fallito (secondo i criteri di cui al secondo comma dell'allora vigente art. 1 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 e in particolare, dopo l'abolizione della imposta di ricchezza mobile e la conseguente impossibilita' di far riferimento al relativo imponibile, in base al parametro del capitale investito), al pari degli altri presupposti della dichiarazione del fallimento doveva essere dimostrato dal creditore istante; dall'altro, all'autorevole opinione dottrinaria concernente l'impossibilita' di concepire un onere probatorio principale del debitore, quando lo stesso non fosse il richiedente, giacche' la domanda o la iniziativa era contro di lui e quindi ogni onere spettava al ricorrente ed al tribunale, aggiungendosi che neppure la qualifica di piccolo imprenditore commerciale poteva essere oggetto di un suo onere probatorio principale. Proprio la Corte costituzionale, poi, gia' con la sentenza n. 570 del 22 dicembre 1989 (con cui ebbe a dichiarare la incostituzionalita' dell'art. 1, secondo comma, del r.d. n. 267/1942, come modificato dalla legge 20 ottobre 1952, n. 1375, nella parte in cui prevedeva che «quando e' mancato l'accertamento ai fini dell'imposta di ricchezza mobile sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un'attivita' commerciale nella cui azienda risulta investito un capitale non superiore a lire novecentomila»), preciso' che «... le categorie di piccolo, medio e grande imprenditore, ed insolvente civile nell'ordinamento economico e giuridico hanno posizioni nettamente differenziate. A fondare la distinzione, specie ai fini dell'assoggettabilita' o meno alla procedura fallimentare, occorre un criterio assolutamente idoneo e sicuro. I limiti devono essere stabiliti in relazione all'attivita' svolta, all'organizzazione dei mezzi impiegati, alla entita' dell'impresa ed alle ripercussioni che il dissesto produce nell'economia generale. La insussistenza di validi presupposti per la diversificazione delle situazioni soggettive che si volevano diversamente e distintamente disciplinate, crea anche disparita' di trattamento, tanto piu' che, altre norme (artt. 2083 e 2221 del codice civile) pongono piu' validi criteri di distinzione. Imprese molto modeste incorrono nelle procedure fallimentari e vengono meno le finalita' del fallimento. L'esiguo patrimonio attivo del fallito puo' rimanere assorbito interamente dalle spese della complessa procedura e a volte risulta persino insufficiente a coprire le spese anticipate dall'erario. Il fallimento finisce con l'essere un rimedio processuale impeditivo della tutela dei creditori e un mezzo di difesa insufficiente ...». Secondo la riportata statuizione della Consulta, quindi, la linea di discrimine tra chi e' e chi non e' assoggettabile a fallimento, deve fondarsi su «un criterio assolutamente idoneo e sicuro», cioe' su un criterio che non puo' non essere oggettivo, e che deve tener conto dell'«attivita' svolta» e dell'«organizzazione dei mezzi impiegati» dall'imprenditore, dell'«entita' dell'impresa» da questi esercitata e delle «ripercussioni che il (suo) dissesto produce nell'economia generale» e mirare ad evitare che «imprese molto modeste incorr(a)no nelle procedure fallimentari» e che vengano meno le finalita' del fallimento o, peggio, che questo si trasformi, nei fatti, addirittura in «un rimedio processuale impeditivo della tutela dei creditori». Considerazioni, queste della Consulta, da cui gia' si ricavava chiaramente l'obbligo del legislatore ordinario e dei giudici di legiferare, e, rispettivamente, di interpretare ed applicare la legge in modo da ridurre al minimo i fallimenti nei quali non si realizza un attivo nemmeno sufficiente a soddisfare, almeno in parte, qualche creditore concorsuale e da liberare risorse umane e materiali preziose per l'organizzazione giudiziaria, evitando, al contempo, di criminalizzare (stante l'ambito di applicabilita' delle disposizioni penali contenute nella legge fallimentare) comportamenti privi di concreto disvalore sociale. Ed evidentemente in questa prospettiva si era posto l'art. 1 della legge 14 maggio 2005, n. 80, che, al comma quinto, aveva delegato al Governo l'adozione, con l'osservanza dei principi e dei criteri direttivi di cui al sesto comma, di uno o piu' decreti legislativi recanti la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali di cui al r.d. 16 marzo 1942, n. 267: infatti, il menzionato sesto comma, prevedeva che, nell'esercizio della citata delega, il Governo si sarebbe dovuto attenere, tra i vari principi e criteri direttivi ivi dettati, a quello di «semplificare la disciplina attraverso l'estensione dei soggetti esonerati dall'applicabilita' dell'istituto e l'accelerazione delle procedure applicabili alle controversie in materia». Appare di tutta evidenza, quindi, che scopo del legislatore delegante era quello di eliminare quelli che, all'epoca, costituivano la grande maggioranza dei fallimenti dichiarati e che concretamente, si chiudevano con la realizzazione di un attivo spesso non sufficiente a coprire nemmeno le spese della procedura, e, dunque, con un bilancio negativo che ricadeva integralmente sulle spalle dello Stato (anche per le risorse umane ed economiche destinate allo svolgimento della procedura), senza alcun apprezzabile beneficio ne' per i creditori concorsuali, ne' per il fallito, ne' per la collettivita'. Si comprende, allora, il perche' il d.lgs. n. 5 del 2006 emanato in attuazione della predetta delega ed entrato in vigore il 16 luglio 2006, pur mantenendo il richiamo alla categoria dei piccoli imprenditori come una di quelle (con gli enti pubblici) escluse dalla assoggettabilita' al fallimento, si fosse sul tema limitato a dettare alcuni parametri finalizzati a consentire la individuazione dei soggetti da qualificare agli effetti delle disposizioni della legge fallimentare, piccoli imprenditori, senza nulla prevedere specificamente quanto alla ripartizione del corrispondente onere probatorio (tenuto altresi' conto della conservazione al tribunale del potere di disporre d'ufficio mezzi istruttori), ed ad introdurre la disposizione di cui all'ultimo comma dell'art. 15 l.f., che escludeva che potesse essere dichiarato il fallimento dell'imprenditore i cui debiti scaduti e non pagati fossero di importo inferiore a 25.000,00 euro e che, con d.lgs. n. 169 del 2007, e' stata modificata aumentando tale limite a 30.000,00 euro. A seguito dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 5/2006, si e' pero' verificata in Italia una sensibilissima riduzione delle dichiarazioni di fallimento; ed una delle principali cause di tale fenomeno e' stata da taluni individuata proprio nella perdurante adesione a quell'orientamento per il quale il dubbio sulla qualita' di non piccolo imprenditore del debitore, cioe', mutatis mutandis, sul superamento da parte del debitore delle soglie quantitative dell'area della non fallibilita' allora fissate dal secondo comma dell'art. 1, l.fall., doveva importare il rigetto dell'istanza di fallimento. Il fenomeno - benche', ad avviso di questo Collegio, certamente in linea con la citata direttiva di cui all'art. 1, sesto comma, lett. a), n. 1), della legge 14 maggio 2005, n. 80 - ha indotto il legislatore delegato a tentare, con il d.lgs. correttivo n. 169 del 2007, di attenuarne la rilevanza soprattutto mediante l'espressa attribuzione al debitore dell'onere di dimostrare la sua qualita' di imprenditore non fallibile poiche' rientrante nell'area di non fallibilita' come ora delimitata dal nuovo secondo comma dell'art. 1, l.fall. Questo comma ora stabilisce infatti che «Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al comma 1, i quali dimostrino il possesso congiunto dei ... requisiti» di cui alle seguenti lett. a), b) e c). La soluzione sembrerebbe essere espressione del principio generale di cui all'art. 2697 c.c. e del correlato c.d. principio di vicinanza (o prossimita' o riferibilita) della prova, alla stregua del quale l'onere di provare i fatti rilevanti ai fini della decisione giudiziale va addossato alla parte nella cui sfera giuridica essi si sono verificati e che quindi deve presumersi in possesso degli elementi utili per fornirne la dimostrazione. Tanto, invero, emerge chiaramente dalla relazione illustrativa del decreto legislativo n. 169/2007, in cui si legge, tra l'altro relativamente all'intervenuta nuova formulazione dell'art. 1 del r.d. n. 267/1942 che «... Le modifiche tengono conto del fatto che l'eccessiva riduzione dell'area della fallibilita' venutasi a determinare a seguito della novella del 2006 spesso ha impedito di assoggettare al fallimento ed alle conseguenti sanzioni penali imprenditori di rilevanti dimensioni con elevati livelli di indebitamento, danneggiando, in tal modo, sia i numerosi creditori insoddisfatti, che il sistema economico in generale. Piu' in dettaglio, va evidenziato il fatto che, per delimitare l'area dei soggetti esonerati dal fallimento non viene piu' utilizzata la nozione di piccolo imprenditore commerciale ma vengono indicati direttamente una serie di requisiti dimensionali massimi che gli imprenditori commerciali (resta quindi fermo l'esonero dalle procedure concorsuali di tutti gli imprenditori agricoli, piccoli e medio grandi) devono possedere congiuntamente per non essere assoggettati alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo. In questo modo, si superano i contrasti interpretativi sorti in ordine all'individuazione dei criteri di qualificazione delle nozioni di piccolo imprenditore (art. 2083 del cod. civ.), da una parte, e di imprenditore non piccolo (art. 1, l.f.), dall'altra: concetti entrambi contemplati dall'articolo 1 della legge fallimentare, come modificato dal decreto legislativo n. 5 del 2006. ... Di notevole importanza, poiche' supera i gravi problemi interpretativi emersi in materia di distribuzione dell'onere della prova del presupposto soggettivo del fallimento, e' la disposizione volta a precisare che grava sul debitore l'onere di fornire la prova dei requisiti di non fallibilita', intesi come fatti impeditivi della dichiarazione di fallimento. E quindi onere dell'imprenditore fallendo dimostrare di non aver superato (nel periodo di riferimento) alcuno dei tre parametri dimensionali previsti dalla norma in esame. Si evita, cosi', di «premiare» con la non fallibilita' quegli imprenditori che scelgono di non difendersi in sede di istruttoria prefallimentare o che non depositino la documentazione contabile dalla quale sarebbe possibile rilevare i dati necessari per verificare la sussistenza dei parametri dimensionali. In tale modo, qualora elementi probatori, dedotti dalle parti o acquisiti d'ufficio, non siano sufficienti a fornire la prova della sussistenza dei requisiti di non fallibilita', l'imprenditore, permanendo l'incertezza sulla sussistenza o meno dei requisiti soggettivi di esenzione dal fallimento, resta assoggettato alla procedura fallimentare ...». Senonche', la correzione di tiro operata dal legislatore delegato con il d.lgs. n. 169 del 2007 - vale a dire l'aver addossato al debitore l'onere di provare la propria non assoggettabilita' a fallimento o, se si vuole, l'aver previsto il fallimento dell'imprenditore commerciale insolvente che non dimostri di non essere compreso nell'area della non fallibilita' definita dalle lett. a), b) e c) del secondo comma dell'art. 1, l.fall. - non puo' ritenersi, ad avviso di questo Collegio, rispettosa dell'art. 3 della Costituzione, per violazione del principio di ragionevolezza. Essa, infatti, ha sostanzialmente disatteso le indicazioni date dalla Corte costituzionale con la menzionata sentenza n. 570/1989 che, come si e' visto in precedenza, aveva evidenziato la necessita' che la linea di discrimine tra soggetto assoggettabile, o meno, a fallimento fosse fondata su «un criterio assolutamente idoneo e sicuro», cioe' su un criterio oggettivo, che tenesse conto dell'«attivita' svolta» e dell'«organizzazione dei mezzi impiegati» dall'imprenditore, dell'«entita' dell'impresa» da questi esercitata e delle «ripercussioni che il (suo) dissesto produce nell'economia generale» e cio' al fine di evitare - come sapientemente si disse in quell'occasione - che «imprese molto modeste incorr(a)no nelle procedure fallimentari» e che vengano meno le finalita' del fallimento o, peggio, che questo si trasformi nei fatti addirittura in «un rimedio processuale impeditivo della tutela dei creditori». L'addossare al debitore l'onere di provare la sua non assoggettabilita' a fallimento puo' invece finire per far concretamente dipendere il fallimento - come nel caso di specie - anche da un comportamento, peraltro nemmeno necessariamente colpevole, del medesimo debitore che potrebbe non dipendere, e normalmente non dipende, dalla natura e dall'importanza dell'attivita' economica e dei mezzi impiegati nell'impresa da costui esercitata e non ha alcun rapporto con le ripercussioni del dissesto dell'imprenditore sul sistema economico e, dunque, non solo non impedisce ma addirittura favorisce dichiarazioni di fallimenti del tutto inutili (tanto piu' se si considera che nulla sembra precludere al debitore che non si sia costituito o che, pur essendosi costituito, non si sia difeso sullo specifico punto della sua estraneita' all'area degli imprenditori commerciali insolventi fallibili delineata dal secondo comma dell'art. 1, l.fall. nel procedimento di primo grado di proporre reclamo, ai sensi dell'art. 18, l.fall., avverso la sentenza dichiarativa del suo fallimento e di dimostrare in quella sede di essere in possesso di tutti i requisiti di cui alle lettere a), b) e c) del secondo comma del predetto art. 1), ridando spazio alle disparita' di trattamento gia' dalla Corte costituzionale, alla stregua delle cui indicazioni va interpretata - come si e' gia', chiarito - anche la direttiva dell'estensione dell'area di non fallibilita' impartita dal legislatore delegante al Governo. Il principio generale di cui all'art. 2697 c.c. e quello, al primo correlato, di vicinanza della prova, oltre a non aver rango costituzionale, devono, peraltro, ritenersi impropriamente richiamati allorche' come nel caso del procedimento per la dichiarazione di fallimento, non siano in gioco diritti di cui le parti possano disporre. Benche' la riforma della legge fallimentare del 2005-2007 abbia sensibilmente ampliato i poteri delle parti a discapito di quelli dell'autorita' giudiziaria, rimane infatti che l'evitare fallimenti inutili, se non addirittura dannosi per i creditori e per lo Stato, e', per le considerazioni svolte dalla Consulta con la sentenza n. 570/1989, questione di interesse pubblico e che, dunque, come il creditore non ha il diritto di ottenere il fallimento del proprio debitore, cosi' quest'ultimo non ha il diritto di ottenere il proprio fallimento; che il fallimento non e' un bene di cui le parti possano liberamente disporre. Difficile, poi, sarebbe comprendere perche' mai, stando alla nuova formulazione del secondo comma dell'art. 1, l.fall., il debitore che chieda il proprio fallimento dovrebbe preoccuparsi di dimostrare di non essere fallibile, non avendo evidentemente alcun interesse a fornire una siffatta prova, salvo che, in contrasto con la lettera della norma, ma in coerenza con la sua assunta ratio e con l'art. 14, l.fall., si ritenga che, in questo caso sul debitore ricorrente incomba l'onere di dimostrare non gia' la sua non assoggettabilita', ma la sua assoggettabilita' a fallimento. Il che conferma, ove ve ne fosse bisogno, l'irragionevolezza della soluzione in tema di distribuzione dell'onere probatorio in ordine al superamento delle soglie dell'area della fallibilita' individuate dal secondo comma dell'art. 1, l.fall. escogitata dal legislatore delegato con il d.lgs. n. 169 del 2007 per contrastare la riduzione, evidentemente giudicata eccessiva, del numero dei nuovi fallimenti. La distribuzione dell'onere probatorio disegnata dal legislatore delegato con il d.lgs. n. 169/2007 suscita poi dubbi di costituzionalita' anche per violazione dell'art. 76, primo comma, Cost., sotto il profilo dell'eccesso di delega in quanto potenzialmente idonea a contraddire, di fatto, nella sua concreta applicazione, la direttiva della legge delega concernente l'estensione del novero dei soggetti esclusi dal fallimento: vi saranno, infatti, imprenditori che pur non raggiungendo - magari anche di gran lunga - le soglie di fallibilita' poste dalla norma, non saranno in grado di darne la prova, oppure trascureranno (anche incolpevolmente) di darla, oppure avranno addirittura interesse a non darla (anche se piccoli imprenditori ex art. 2083 c.c.) al fine di accedere all'istituto dell'esdebitazione. Il chiaro disposto dell'art. 1, secondo comma, della l.fall. come modificato dal d.lgs. n. 169/2007 - laddove, nell'escludere ormai qualsivoglia rilevanza alla distinzione tra imprenditore piccolo e non (invece mantenuta dal d.lgs. n. 5/2006), stabilisce, semplicemente, che non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento ... gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei requisiti di cui alle successive lettere a), b) e c) - induce il tribunale a ritenere preclusa (in claris non fit interpretatio) la possibilita' di interpretazioni della predetta normativa che prescindano dalla concreta ripartizione dell'onere probatorio, quanto ai presupposti soggettivi del fallimento, in termini diversi da quelli fin qui prospettati e considerati di dubbia costituzionalita'. La prospettata questione di costituzionalita' oltre a non essere manifestamente infondata per le ragioni fin qui evidenziate, ad avviso del Collegio e' anche rilevante in questo giudizio in quanto: a) la Professional Printing New Play Color S.r.l., ora in liquidazione, di cui e' stato chiesto il fallimento, non si e' costituita in giudizio; b) relativamente al triennio 2005 - 2007) anteriore alla data (15 febbraio 2008) di deposito dell'istanza di fallimento, vi e' in atti (per effetto dei poteri istruttori ex officio utilizzati dal tribunale mediante l'acquisizione dei dati della predetta societa' ricavabili dall'anagrafe tributaria) esclusivamente la prova (mod. U760) che, nel 2005, la resistente aveva realizzato un volume di affari di soli € 88.337,00; c) nessun'altra indagine istruttoria appare concretamente ed utilmente ipotizzabile sulla base della documentazione in atti, risultando, peraltro, per tabulas (cfr. l'allegata visura storica) che l'ultimo bilancio redatto dalla stessa e' quello (ininfluente ai fini che ci occupano atteso il tenore letterale della citata norma) relativo all'esercizio chiuso il 31 dicembre 2003. In buona sostanza, quindi, l'invocata declaratoria di fallimento avverrebbe esclusivamente perche' la Professional Printing New Play Color S.r.l., in liquidazione, non costituendosi, non ha dimostrato come invece impostole dalla norma qui sospettata di incostituzionalita', il possesso congiunto di tutti i requisiti di cui alle lettere a), b) e c) del secondo comma dell'art. 1, del r.d. n. 267/1942 come modificato dal d.lgs. n. 169/2007, prescindendosi, invece, del tutto da quel «criterio assolutamente idoneo e sicuro», oltre che oggettivo, che tenga conto dell'«attivita' svolta», dell'«organizzazione dei mezzi impiegati», dell'«entita' dell'impresa» e delle «ripercussioni che il (suo) dissesto produce nell'economia generale» gia' ritenuto necessario dalla Consulta al fine di evitare che «imprese molto modeste incorr(a)no nelle procedure fallimentari» e che vengano meno le finalita' del fallimento o, peggio, che questo si trasformi nei fatti addirittura in «un rimedio processuale impeditivo della tutela dei creditori». Tanto premesso in fatto ed in diritto, va disposta la sospensione del presente giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la decisione sulla questione pregiudiziale di legittimita' costituzionale, siccome rilevante e non manifestamente infondata. Alla cancelleria vanno affidati gli adempimenti di competenza, ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87.