IL TRIBUNALE
   All'udienza  preliminare  del 15 febbraio 2007 nel p.p. n. 1690\06
RGg.i.p.-311\06 RNR nei confronti di C. M. e Z. S., entrambi imputati
del  reato  di  cui  agli artt. 81 secondo comma cp e 73 quarto comma
d.P.R.  n. 309\1990,  con  l'aggravante,  per  il  solo  C., di avere
commesso il fatto nei confronti di persona minorenne;
   Sentiti  il  pubblico  ministero  e i difensori degli imputati; ha
pronunciato la seguente ordinanza.
                          Ritenuto in fatto
   Il  primo  ottobre 2007 il Procuratore della Repubblica di Ferrara
iniziava  l'azione  penale  nei confronti degli odierni imputati e di
altri  sette  per  diverse ipotesi di spaccio individuale di sostanze
stupefacenti,   prevalentemente   ma  non  esclusivamente,  del  tipo
marijuana ed hascisc.
   Il  processo  in  base ai criteri oggettivi di distribuzione degli
affari tra i magistrati della sezione g.i.p.\g.u.p. era assegnato per
la  fissazione  e celebrazione dell'udienza preliminare al giudice R.
C.  avendo  gli altri due magistrati della predetta sezione svolto le
funzioni di g.i.p. nel medesimo procedimento.
   L'8   ottobre   2007   il  magistrato  titolare  del  procedimento
trasmetteva  al  Presidente del tribunale dichiarazione di astensione
dal processo ai sensi dell'art. 36, comma primo, lett. h, c.p.p.
   Il  dichiarante  osservava  che  tra  gli  imputati figurava C. M.
figlio  della dott.ssa E. G., magistrato in servizio presso la locale
Procura  della  Repubblica  con  la  quale nel corso degli anni aveva
avuto   «costanti   rapporti   per   ragioni  connesse  all'attivita'
d'ufficio».
   Il  coinvolgimento  del  C.  nel procedimento in questione rendeva
«particolarmente  sconveniente  la trattazione dello stesso» da parte
del   magistrato  assegnatario  del  fascicolo  «in  quanto  potrebbe
apparire  non garantita' la sua serenita' e imparzialita», in ragione
dei  rapporti professionali intercorrenti con la madre del prevenuto,
«particolarmente  intensi  attesa la funzione di g.i.p.-g.u.p.» dallo
stesso svolte.
   Il   successivo  12  ottobre  il  presidente  del  tribunale  f.f.
accoglieva  la  dichiarazione  di  astensione, designando se medesimo
giudice  dell'udienza preliminare nel procedimento in questione anche
nella sua qualita' di presidente della sezione penale.
   Nel  provvedimento si chiariva che l'autoassegnazione del processo
scaturiva  da  una  informale  riunione nel corso della quale tutti i
magistrati  del  settore penale avevano confermato come le ragioni di
convenienza addotte dal dott. C. sussistevano parimenti per ognuno di
essi, ragion per cui successive designazioni tabellari avrebbero dato
inevitabilmente  luogo  ad  altrettante  dichiarazioni di astensione,
fondate  sulle  medesime  ragioni  addotte nella prima dichiarazione,
posto  che  anche  i  magistrati  addetti  alla  sezione dibattimento
intrattenevano   da  anni  costanti  rapporti  professionali  con  la
dott.ssa  G.,  situazione  che  rendeva  inopportuno  e  imbarazzante
giudicare il figlio della stessa.
   All'udienza   del   15  dicembre  2007  sette  dei  nove  imputati
formulavano  richiesta  di  applicazione  pena ai sensi dell'art. 444
c.p.p.  con il consenso del pubblico ministero. Le relative posizioni
erano separate e definite con sentenza.
   Il  processo principale proseguiva nei confronti degli imputati C.
e Z.
   Entrambi  chiedevano  di  essere  giudicati  con  rito abbreviato,
previa produzione di documenti e di consulenza tecnica tossicologica.
   La   causa   era  rinviata  all'odierna  udienza  affinche'  fosse
pregiudizialmente  esaminata  l'eventuale  non manifesta infondatezza
della  questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 11 c.p.p.
nella  parte  in  cui  non prevede che anche i procedimenti in cui il
prossimo  congiunto  di un magistrato assume la qualita' di imputato,
danneggiato  o persona offesa dal reato che sarebbero attribuiti alla
competenza  di  un  ufficio  giudiziario compreso nel distretto della
Corte  di appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni o
le  esercitava al momento del fatto, siano di competenza del giudice,
ugualmente competente per materia, che ha sede nel distretto di corte
di  appello  determinato  ai  sensi dell'art. 1 delle disposizioni di
attuazione del codice di procedura penale.
   Le parti hanno oggi discusso la questione e concluso come in atti.
                       Considerato in diritto
   Il  tribunale  ritiene rilevante e non manifestamente infondata la
questione  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 11 c.p.p. nella
parte  in cui non prevede che la speciale competenza territoriale per
i  procedimenti riguardanti direttamente i magistrati che assumono la
qualita'  di imputati, indagati ovvero danneggiati e offesi dal reato
non  si  estenda  anche  a quei procedimenti nei quali dette qualita'
siano assunte dai prossimi congiunti dei magistrati medesimi.
   I  parametri costituzionali sotto cui la questione di legittimita'
costituzionale  va esaminata e sollevata sono gli artt. 3, 24 secondo
comma, 25 primo comma, 111 secondo comma della Costituzione.
   La  norma  impugnata,  nella  parte  in  cui  non  estende  la sua
disciplina   ai   prossimi   congiunti   del   magistrato,  viola  la
Costituzione  sotto i distinti profili della violazione del principio
di  razionalita'  e  ragionevolezza;  della violazione del diritto di
difesa   dell'imputato;  della  mancanza  di  effettive  garanzie  di
predeterininazione  del giudice competente; della mancata garanzia di
un giudice terzo e imparziale.
A) Violazione dell'art. 3 della Costituzione.
   La  Corte  costituzionale  da tempo sottolinea come la norma della
cui  legittimita'  costituzionale  si  dubita,  anche  nella  diversa
versione  contenuta nell'art 41-bis dell'abrogato codice di procedura
penale  (R.D.  19  ottobre  1930,  n. 1399),  abbia  la  funzione  di
prevenire  turbative alla serenita' e imparzialita' dei giudizi tutte
le  volte  in  cui  per  rapporti  interpersonali  tra i giudici tale
premessa  necessaria  del giusto processo non possa essere realizzata
(ord. n. 593/1989).
   Nell'ordinanza  n. 462  del  1997  si  legge che «le ragioni della
deroga  alle regole ordinarie di competenza, predisposta dall'art. 11
cod.  proc.  pen. , vanno ravvisate nella necessita' di assicurare la
serenita'  ed  obbiettivita'  dei  giudizi, nonche' l'imparzialita' e
terzieta'  del  giudice  ...  anche  con  riferimento all'esigenza di
eliminare   presso   l'opinione   pubblica   qualsiasi   sospetto  di
parzialita'  determinato  dal  rapporto di colleganza e dalla normale
frequentazione   tra   magistrati   operanti   in  uffici  giudiziari
appartenenti al medesimo distretto di corte di appello».
   Il  profilo  della  immagine  di neutralita' e di terzieta' presso
l'opinione pubblica del magistrato chiamato a giudicare un collega e'
richiamato  nell'ordinanza n. 570 del 2000 e posto a fondamento della
disciplina   derogatoria   della   competenza   territoriale  dettata
dall'art. 11 cod. proc. pen.
   Nella sentenza 390 del 1991 la Corte costituzionale ha individuato
la  ratio  della  norma da un lato nella tutela del diritto di difesa
del  cittadino  imputato  e  dall'altro nell'esigenza di garantire la
terzieta' e l'imparzialita' del giudice. La Corte ha affermato che la
disciplina  derogatoria  della competenza deve assicurare la garanzia
della  serenita'  e  obbiettivita' dei giudizi, la imparzialita' e la
terzieta'  del  giudice,  la salvaguardia del diritto di difesa e del
principio  di  uguaglianza  dei  cittadini  che, a differenza di ogni
altro principio, hanno fondamento nella Costituzione.
   Tali  profili  assumono  tanto  maggiore rilevanza oggi, in virtu'
dell'art.  111  Cost.  come  modificato  dall'art.  1, legge cost. 23
novembre 1999, n. 2.
   E' opportuno sottolineare come la Corte assegni un valore assoluto
alla salvaguardia di dette garanzie fondamentali del giusto processo.
   Nel   dichiarare   con   la   citata   sentenza   l'illegittimita'
costituzionale del terzo comma dell'art 11 c.p.p., nella sua versione
originaria ante legge n. 420/1998, che prevedeva l'inoperativita' del
trasferimento di competenza per i reati commessi in udienza nei quali
magistrati risultavano offesi o danneggiati, la Corte affermo' che il
pregiudizio    a    detti    valori    sussiste   ed   e'   rilevante
costituzionalmente  anche quando esso potrebbe considerarsi attenuato
o  limitato  dalla previsione dell'astensione o della ricusazione del
giudice  del  procedimento  ed  anche  se  si tratta di un magistrato
offeso   o   daneggiato   nell'esercizio   della   funzione  pubblica
assegnatagli dall'ordinamento.
   Vero  e'  che la Corte ha piu' volte richiamato l'attenzione sulla
necessita'  di  riservare  alla  discrezionalita'  del legislatore la
delimitazione di situazioni che astrattamente potrebbero considerarsi
pregiudizievoli  per l'obbiettivita' e l'imparzialita' del giudizio e
per  la  neutralita'  e serenita' del giudice, posto che l'estensione
dei  casi  e  l'ambito  territoriale  della  deroga devono trovare un
limite,  «altrimenti,  considerando  nella  sua piu' ampia latitudine
l'incidenza  di  tali  funzioni  ed  il  rapporto  di  colleganza tra
magistrato  giudice  e  magistrato parte del processo, la deroga alla
competenza  sarebbe  tale  da  potersi  tradurre nella incomptenza di
qualsiasi   ufficio   giudiziario,   sino  a  non  rendere  possibile
l'esercizio   della   stessa   giurisdizione»,   sicche'   la  scelta
legislativa  puo'  essere sindacata nel giudizio di costituzionalita'
solo  se  arbitraria o palesemente irragionevole, tenendo conto anche
della   necessaria  generalita'  delle  norme  sulla  competenza,  in
rispondenza al principio del giudice naturale precostituito per legge
(sent. n. 381/1999).
   Ritiene  tuttavia  il  tribunale  che  da un lato questo limite di
palese  irragionevolezza  la discrezionalita' legislativa nel caso in
esame  abbia superato e dall'altro che la ragionevolezza della scelta
legislativa  debba  essere  valutata  alla  stregua della sempre piu'
imperiosa  esigenza  di  assicurare l'imparzialita' e la credibilita'
della  funzione  giudiziaria  in  un'epoca  storica  nella quale tale
valore   assume   una  pregnanza  peculiare  per  la  conflittualita'
competitiva  tra  istituzioni  che fa si' che il peso di ciascuna nel
complessivo  equilibrio  tra  i poteri dello Stato discenda anche dal
grado  di  consenso  che ciascuna di esse riesce a raccogliere, a sua
volta  dipendente  dal  grado  in  cui i suoi caratteri e i suoi fini
istituzionali   siano   effettivamente   perseguiti   e   come   tali
riconosciuti  dall'opinione pubblica. E' a quest'ultima che in ultima
istanza   compete  il  giudizio  finale  sul  grado  di  fiducia  che
l'istituzione   e'  in  grado  di  raccogliere  e  quindi  sulla  sua
affidabilita', sul consenso sociale di cui dispone, determinandone in
ultima istanza la legittimazione sociale.
   La disparita' di trattamento che la legge compie nei confronti dei
prossimi  congiunti  del magistrato appare priva di giustificazione e
ragionevolezza  sussistendo,  in  relazione  a  questi  soggetti,  le
medesime  esigenze di garanzia e di tutela dell'imparzialita' e della
terzieta'  (e relativa immagine) del giudice, che sorreggono la ratio
dell'art.  11  cpp.,  sia  con  riferimento  ai  diretti  interessati
(imputati,   soggetti   sottoposti   ad   indagini,  persone  offese,
danneggiati) che rispetto alla collettivita' nel suo insieme.
   L'irragionevolezza  dell'omessa  previsione  della  categoria  dei
prossimi  congiunti,  risalta  ancor  di  piu'  se  si  considerano i
numerosi  casi  in  cui la legge processuale prende in considerazione
detta  categoria  per  estendere ad essi la disciplina prevista per i
magistrati  e  piu'  in generale per il soggetto direttamente oggetto
della disciplina processuale.
   Si  pensi  ai  casi  (artt.  36  e  37  c.p.p.)  in  cui  la causa
pregiudicante  l'imparzialita' del giudice nel singolo processo viene
estesa  ai  prossimi congiunti. Alla sostanziale equiparazione che la
legge   opera   tra   l'imputato  ed  il  prossimo  congiunto  quanto
all'esonero  dall'obbligo  di  testimoniare.  Cio'  che  rileva della
disciplina  dell'art. 199 c.p.p. e' la speciale considerazione che la
legge  opera  della  condizione del prossimo congiunto dell'imputato,
confrontata  con  l'assoluta indifferenza della norma in esame per lo
stretto rapporto di parentela tra imputato e magistrato che opera nel
medesimo ufficio nel quale presta servizio il giudice competente.
   Appare  incompatibile  con la ragionevolezza e la razionalita' che
deve    accompagnare    le   scelte   del   legislatore   considerare
presuntivamente  non  in  grado  a  priori  di  offrire  garanzie  di
imparzialita'  e  terzieta'  il giudice che deve giudicare il collega
che  opera  nel  medesimo  ufficio  o  negli  uffici del distretto ed
escludere     altrettanto    aprioristicamente    qualsiasi    vulnus
all'imparzialita'  e alla terzieta' (e alla sua apparenza) in tutti i
casi  in cui in luogo del magistrato sia convolto nel processo un suo
prossimo  congiunto,  sicche' quel giudice che non puo' in alcun modo
essere considerato imparziale quando giudica un collega dell'Ufficio,
lo  diventa  se  invece  deve  giudicarne  il  figlio, il genitore il
coniuge.
   Che  il  processo penale coinvolga e interessi non solo il diretto
interessato ma l'intero nucleo degli stretti congiunti e' corroborato
da  numerose  sparse  disposizioni  processuali.  Viene in rilievo la
facolta'  di nomina del difensore di fiducia del soggetto in stato di
arresto fermo o custodia cautelare da parte dei prossimi congiunti, a
dimostrazione che per l'esplicazione del diritto di difesa l'imputato
puo'  avvalersi  anche dei prossimi congiunti, regola che nasce dalla
massima  di  esperienza  secondo cui il processo penale, attingendo i
fondamentali  diritti  della  persona,  e' questione che naturalmente
coinvolge,  condiziona  e mette in risalto un fortissimo interesse al
suo  esito  da  parte del nucleo dei familiari piu' intimi. Riportare
tale  rilievo  al  caso  che  ci  interessa  significa  dire  che  il
condizionamento  che  il rapporto di colleganza produce sull'immagine
di imparzialita' e terzieta' del giudice che deve giudicare in ambito
penale  un altro magistrato si estende necessariamente al caso in cui
ad   essere   giudicato   sia  un  prossimo  congiunto  dello  stesso
magistrato.
   Ulteriore  elemento  di  conferma  si  ricava  dagli artt. 643-644
c.p.p.   che   attribuiscono   iure   proprio,   in   caso  di  morte
dell'interessato,  il diritto alla riparazione agli stretti congiunti
della  vittima di errore giudiziario. Ennesima prova di come la legge
consideri   direttamente   e   personalmente  coinvolti  nel  destino
dell'imputato  i  suoi prossimi congiunti sicche', ogni qual volta ad
essere  giudicato  sia  uno  di  questi  soggetti, debbono valere per
l'ufficio  giudicante  nel  suo  insieme  le stesse considerazioni in
ordine  al  pregiudizio  che  la  legge  presume  accompagni  tutti i
componenti di esso quando sia astrattamente competente a giudicare un
magistrato del distretto.
   D'altra  parte, posto che la ratio dell'obbligatorio trasferimento
di  competenza  e' quella che le ss.uu. della cassazione hanno ancora
di  recente  individuato  con  riferimento  ai giudici onorari (sent.
n. 292/  2005), «ravvisata nell'esigenza, particolarmente marcata nel
processo  penale  (stante  la  natura  degli  interessi  coinvolti  e
l'assenza  della  mediazione dell'impulso paritario delle parti: vedi
Corte  cost.  sentt.  n. 51/1998  e  n. 147/2004),  di evitare che il
rapporto  di  colleganza e normale frequentazione nascente dal comune
espletamento  delle  funzioni  nello stesso plesso territoriale possa
inquinare,  anche  solo nelle apparenze, l'imparzialita' del giudizio
(v.  in  particolare,  sul  punto, Corte cost. ord. n. 462/1997),» ne
consegue che analoga valutazione deve essere fatta in tutti i casi in
cui   vengono   in   rilievo   gli  strettissimi  rapporti  familiari
dell'imputato con il magistrato togato che esercita le funzioni nello
stesso ufficio o in ufficio territorialmente prossimo a quello in cui
ha sede il magistrato competente in base alle ordinarie regole.
   Conviene  ricordare  il messaggio alle Camere del Presidente della
Repubblica  Cossiga  del  26  luglio  1990  che,  a  proposito  della
necessita'  di prestare la massima attenzione alla determinazione del
foro  competente  nei  processi  penali  nei  quali fossero coinvolti
magistrati, affermava:
     «Il  problema  dell'individuazione  del giudice competente per i
procedimenti  penali  riguardanti  i magistrati, e precisamente per i
procedimenti  penali  nei  quali i magistrati assumano la qualita' di
persona  sottoposta  alle  indagini, di imputato, di persona offesa o
danneggiata dal reato, e' sempre stato un problema presente sul piano
della  disciplina  del processo penale, sia nell'ordinamento italiano
che  negli  ordinamenti esteri. Cio' ben si comprende, in quanto esso
attiene alla garanzia di indipendenza e di soggezione solo alla legge
del  giudice,  principi  che  costituiscono valori che debbono essere
realizzati nel concreto, tenendo conto che in un ambiente hanno, o si
puo'  ritenere  che abbiano, una qualche incidenza proprio i rapporti
di  conoscenza,  di  quotidiana frequentazione e di appartenenza allo
stesso   ufficio  giudiziario.  Vi  e',  insomma,  la  necessita'  di
escludere,   anche   nelle   apparenze,   che  la  giustizia,  quando
amministrata   da   altri  magistrati,  possa  essere  una  giustizia
amministrata  in  modo  diverso  e  meno  oggettivo, "domestico'', di
privilegio ovvero di casta».
   Il  richiamo  all'esigenza  di una disciplina che sia mirata sulla
concretezza  delle  situazioni  in grado di' nuocere all'immagine del
magistrato   e  alla  credibilita'  dell'istituzione  giudiziaria  si
traduceva  nell'invito  ad  evitare  una giustizia che appaia appunto
«domestica».  In  tale  ultimo  concetto puo' certamente rientrare la
condizione di una giustizia che si occupi dei prossimi congiunti, che
sia  anche la «casa» in cui il magistrato finisce per svolgere le sue
funzioni,   dandosi   cosi'   adito   a  dubbi,  sospetti,  sfiducia,
distruttivi  dell'immagine  della giustizia che vive del consenso dei
consociati  e  della  disponibilita'  degli  stessi  ad accettarne le
decisioni  come  frutto di giudizio neutro, oggettivo, indifferente a
passioni  e  interessi  e  che rintuzza attraverso le buone norme, le
buone  decisioni e le buone prassi qualsiasi tentazione di nichilismo
giuridico.
   Posta   la   finalita'   dell'art   11   c.p.p.,  quale  la  Corte
costituzionale  ha  piu'  volte  fatta  propria,  non  sembra possano
residuare    dubbi    sull'irragionevolezza,    per    incoerenza   e
contraddittorieta'  intrinseca,  di  una  norma  che,  postulando  il
trasferimento  con  criteri  automatici della competenza nei processi
penali nei quali i magistrati siano imputati o sottoposti a indagine,
offesi  o  danneggiati  dal  reato, per la presupposta inidoneita' di
quel  foro  domestico  a  dare  oggettive garanzie di imparzialita' e
terzieta', ometta di considerar ugualmente come causa di privilegio o
di  giustizia  domestica  e  di  casta  quella  che  porta i medesimi
giudici,  che la legge presume per gli stretti rapporti professionali
non   ugualmente  sereni  rispetto  alla  generalita'  dei  casi  nel
giudicare  i  colleghi  d'ufficio,  a  giudicare i prossimi congiunti
degli stessi colleghi.
   L'intrinseca    sua   irrazionalita/irragionevolezza   induce   il
tribunale  a  sottoporre  alla Corte costituzionale la verifica della
legittimita'  costituzionale  della  norma  dell'art  11  c.p.p.  per
contrasto con l'art 3 della Costituzione.
B) Violazione dell'art. 24 della Costituzione in relazione agli artt.
3 e 111.
   Brevemente  le  considerazioni svolte in precedenza possono essere
riesaminate alla luce di altri parametri costituzionali.
   Esaminata  dal punto di vista dell'imputato, indagato, danneggiato
o  persona  offesa  dal  reato,  prossimo  congiunto di un magistrato
operante nell'Ufficio competente per il giudizio secondo le ordinarie
regole, la questione assume rilievo sotto il profilo della violazione
del diritto di difesa.
   Non  sembra  possa  dubitarsi  che la difesa di tale soggetto puo'
subire   condizionamenti   morali,   psicologici,   materiali   dalla
circostanza  di doversi esplicare in un ambiente nel quale il giudice
si  trovi  in  stretti  rapporti  di  contiguita'  professionale,  di
relazioni  personali  umane  e  lavorative  con il prossimo congiunto
dell'imputato  medesimo.  Ogni qual volta la difesa trovi nel sistema
normativo  intralci  di  fatto  o  psicologici non giustificati dalla
necessita'  di  rispettare  beni  di  rango  preminente,  si  ha  una
limitazione del diritto stesso incompatibile con la Costituzione.
   La  possibilita'  che  il  giudice  possa  essere  portatore di un
qualsiasi  pregiudizio  discendente  dalla conoscenza del rapporto di
familiarita'  che  lega  l'imputato ad altro magistrato dell'ufficio,
condiziona  inevitabilmente  la strategia difensiva che oltre a tutti
gli  elementi  di  cui  di regola deve tenere conto, e' costretta nel
bene  e  nel  male  a  confrontarsi  con una variabile peculiare, che
ingiustamente  discrimina  la  posizione difensiva, consistente nella
necessita'  di  comprendere  se  e  quali  meccanismi mentali anomali
possano  scattare  nel giudice che sa che deve affrontare un giudizio
nel quale e' indirettamente coinvolto un magistrato del suo ufficio.
   Quella   consuetudine,   frequentazione,  conoscenza,  insieme  di
relazioni  che  coinvolgono  il  giudice  ed  il  magistrato prossimo
congiunto  del  soggetto  interessato  al processo, possono diventare
materia impropria di valutazione e di condizionamento della strategia
difensiva  che  puo'  risultare  menomata  o  vincolata dalla natura,
intensita' segno e qualita' di dette relazioni.
   Non  si  e'  molto lontano dal vero se si afferma che molte scelte
processuali  e  difensive potrebbero finire col passare al vaglio dei
loro   possibili  effetti  in  relazione  alla  natura  dei  rapporti
professionali fra il giudice ed il magistrato prossimo congiunto.
   I  fatti,  le  circostanze, i temi di prova, le fonti di prova, le
relazioni  interpersonali  che in un normale processo vengono addotti
dall'interessato  avendo  riguardo esclusivamente alla propria causa,
potrebbero dover essere impropriamente riesaminati alla stregua della
peculiarissima  condizione  in  cui  il soggetto del processo viene a
trovarsi per effetto della suo rapporto di parentela.
   Lo  stesso timore che il giudice - conscio di essere sottoposto ad
una  speciale  osservazione  da parte della comunita' professionale e
dell'opinione  pubblica  sotto  il  profilo  della  sua  capacita' di
mantenersi  terzo  e  imparziale  in  una situazione in cui ad essere
giudicato  e'  un  soggetto rispetto al quale si possa ipotizzare una
sua  qualche  sensibilita'  personale  -  possa  adottare soluzioni e
decisioni  strumentali  non  al merito della causa ma all'esigenza di
apparire  imparziale,  potrebbe  nuocere e condizionare il diritto di
difesa  dell'imputato, le cui strategie difensive sarebbero costrette
a  fare  i  conti  con  una serie aggiuntiva di impalpabili variabili
psicologiche  che  si aggiungono alle molteplici alle quali di regola
la parte processuale deve fare fronte.
   Tale  indebita  pressione psicologica, non riconducibile ad alcuna
ragionevole  norma  giuridica, influisce sul diritto di difesa che e'
menomato  ogni  qual  volta  le  regole processuali non ne consentono
materialmente o moralmente una piena e regolare esplicazione.
   In  definitiva  ogni qual volta per ragioni esterne al processo la
parte  ha  ragione  di  dubitare  o  di problematizzare il tema della
serenita'   e  tranquillita'  del  giudice  nell'approccio  al  fatto
processuale,  situazione  fondata  oggettivamente  su  un dato che la
legge  stessa  presume  come  rilevante  tanto da prevedere una norma
quale  quella  dell'art.  11 c.p.p., il diritto di difesa subisce una
inammissibile  compressione  o  comunque un indebito condizionamento,
inconciliabile  con la pienezza dello stesso secondo il dettato della
Costituzione.
C)  Violazione  dell'art.  25,  primo  comma  della  Costituzione  in
relazione agli artt. 3 e 111 della stessa.
   L'art.  36  primo  comma  lett.  h  c.p.p.  prevede, come e' noto,
l'obbligo  per il giudice di astenersi dal processo se esistono gravi
ragioni  di  convenienza.  A sua volta l'art. 43 secondo comma c.p.p.
stabilisce  che  nei  casi  in  cui,  in  conseguenza di astensioni o
ricusazioni dei magistrati dello stesso ufficio, designati secondo le
leggi di ordinamento giudiziario a seguito di precedenti astensioni o
ricusazioni  accolte,  non  sia possibile celebrare il processo nella
sede  giudiziaria  competente,  il  procedimento debba essere rimesso
alla  sede  ugualmente  competente  per  materia a norma dell'art. 11
c.p.p.
   Si  potrebbe sostenere che gli inconvenienti prima denunciati sono
evitabili  con l'applicazione del meccanismo fissato negli artt. 36 e
43  c.p.p.  che permetterebbe di realizzare lo stesso risultato senza
giungere  alla  dichiarazione  di  incostituzionalita'  della  norma,
lasciando  al  sistema  quel  necessario  margine  di elasticita' che
eviterebbe  di  ingessarlo con automatici trasferimenti di competenza
in  una  serie  di  casi,  che potrebbe rivelarsi assai numerosi, non
richiedenti in concreto l'effettivo spostamento del processo.
   Il  tribunale ritiene che una tale soluzione non solo non rispetta
i  parametri  costituzionali  prima  invocati  ma si presta ad essere
censurata  sotto  il  profilo  dell'intollerabile  incertezza  che si
avrebbe  nella  determinazione  del  giudice competente, che verrebbe
rimessa   all'insindacabile   valutazione   dei   singoli  magistrati
dell'ufficio  astrattamente  competente.  Costoro  dovrebbero  essere
chiamati  singolarmente e di volta in volta a valutare la sussistenza
delle  gravi ragioni di convenienza che giustificano la dichiarazione
di  astensione,  quando  parte  interessata al processo penale sia un
prossimo   congiunto   di   un   magistrato   dello   stesso  ufficio
distrettuale,  potendo  ciascuno giungere a conclusioni diverse sulla
base di insindacabili valutazioni di opportunita', non apprezzabili e
controllabili in alcun modo.
   Ferma  l'esatta  distinzione richiamata dalla difesa dell'imputato
Carra'   tra   regole  processuali  «generali»  volte  ad  assicurare
l'imparzialita'  e  la terzieta' del giudice ogni qual volta la legge
individua   fatti   e  situazioni  da  cui  scaturisce  una  generale
inidoneita'  dell'ufficio  nel  suo  complesso  e  in  tutti  i  suoi
componenti,  e  regole  processuali particolari, volte ad evidenziare
situazioni  che  rendono  inidoneo  sotto  gli individuati profili il
singolo  giudice  a trattare il processo, ricondurre la questione qui
prospettata   ad   un  problema  di  incompatibilita',  astensione  o
ricusazione,  potrebbe  far  dipendere  l'individuazione  del giudice
competente  dal  soggettivo  apprezzamento  da  parte  dei magistrati
dell'ufficio  in  ordine  alla  ricorrenza di quelle gravi ragioni di
convenienza  che  potrebbero  portare, attraverso il meccanismo delle
astensioni  a  catena,  a  produrre  l'effetto  del trasferimento del
processo  nella  sede  determinata  ai  sensi degli artt. 11 e 43 del
c.p.p.
   In  tal  modo  peraltro  l'imputato  o  il soggetto interessato al
processo  che  si  trova  nella condizione che stiamo analizzando non
sarebbe  mai  in  grado  di  sapere  preventivamente chi sara' il suo
giudice  naturale,  tale  determinazione  non potendosi effettuare ex
ante  ma  soltanto  ex  post  a  seguito  dell'interpello dei singoli
magistrati dell'ufficio che dovranno di volta in volta interrogare il
proprio  intimo  nel  contesto per valutare l'esistenza di ragioni di
convenienza  tali  da  indurli  all'astensione,  con tutte le singole
varianti  del caso, soggettive ed arbitrarie, e conseguente eventuale
trasferimento del processo nella sede individuata dall'art. 11.
   Ne'  puo'  dirsi  che  il  principio  del  giudice naturale non e'
violato  poiche'  si  tratta semplicemente di applicare un meccanismo
per  l'individuazione  in  concreto  del  giudice  che  la  legge  ha
obbiettivamente predisposto e che le concrete variabili empiriche non
possono  influire  sulla  legittimita'  costituzionale  di un modello
legale astrattamente conforme a Costituzione.
   In  realta',  se  si  declassa la questione della competenza per i
processi  in  cui  i  magistrati  dell'ufficio  sono  inevitabilmente
coinvolti   in   ragione  del  rapporto  di  prossimita',  legalmente
predefinito,  con  i  soggetti  del  processo,  nelle  loro  qualita'
normativamente  rilevanti,  a  questione  di soggettivo apprezzamento
della  convenienza a che il processo si celebri o meno nella sede, si
elude  quella  rigorosa  predeterminazione normativa della competenza
per  situazioni  tipiche che l'art. 25 primo comma della Costituzione
intende  garantire perche' non si tratta di commisurare la scelta del
legislatore  in relazione a situazioni atipiche e imprevedibili ma di
valutare  se sia ammissibile che di fronte a situazioni perfettamente
definite, prevedibili e normativamente rilevanti, possa giustificarsi
un'assenza  di disciplina specifica che lasci alle insondabili scelte
e  valutazioni  individuali  la  determinazione  finale  del  giudice
competente.
D) Violazione dell'art. 111, secondo comma della Costituzione.
   Le   considerazioni   che   precedono   inducono   a   considerare
autonomamente  il profilo di incostituzionalita' di una norma che non
prende  in considerazione la necessita' di assicurare l'imparzialita'
del  giudice  in  una situazione equivalente o riconducibile a quella
espressamente  da  essa  stessa  disciplinata  con  regola  di  segno
contrario a quella ricavabile dall'omessa disciplina della situazione
omologa.
   Nella  misura  in cui il legislatore valuta come incompatibile con
il  principio  di  imparzialita'  la  situazione del giudice che deve
giudicare colleghi che operino nei medesimi uffici distrettuali, egli
pone  le  premesse  per  la  diffusione  di un generalizzato alone di
sospetto in tutti i casi in cui quel medesimo giudice deve affrontare
processi  nei  confronti  di prossimi congiunti di magistrati che, se
direttamente    coinvolti    nel    processo,   determinerebbero   il
trasferimento  del  processo  ad  altra sede. Non potendo richiedersi
alla  generalita'  dei  consociati  di  valutare  in modo sottilmente
difforme  le due situazioni, la ragionevole omologazione delle stesse
nel  comune  sentire,  determinando  la  convinzione  che  il caso e'
affidato   ad  un  giudice  che  non  puo'  considerarsi  imparziale,
producendo un'apparenza di parzialita' e non neutralita' del giudice,
finisce con il violare sul piano normativo la garanzia costituzionale
che si esplica non solo nell'assicurare un giudice terzo e imparziale
ma  anche  nel  porre le condizioni perche' detta imparzialita' possa
essere  comunemente  apprezzata  da  chi  deve  essere  sottoposto al
giudizio   e  dalla  generalita'  dei  consociati,  il  cui  giudizio
determina  il  grado  di  accettabilita' delle decisioni giudiziarie,
elemento fondante di una societa' democratica.
   Cio'  posto  e'  appena il caso di osservare come la questione non
possa    essere    risolta   in   via   interpretativa,   precludendo
inesorabilmente  la lettera della norma qualsiasi interpretazione nel
senso che si ritiene costituzionalmente conforme.
   L'evidenza  impone di accennare appena alla rilevanza nel processo
della questione di legittima costituzionale che si propone.
   L'imputato C. ha chiesto di essere giudicato con rito abbreviato e
questo giudice deve pronunciarsi sull'ammissione del rito e procedere
al relativo giudizio.
   Stessa richiesta e' stata avanzata dall'altro imputato.
   Ove  la  proposta  questione  di legittimita' costituzionale fosse
accolta, questo giudice non potrebbe provvedere sulla richiesta degli
imputati ne' procedere ad esaminare il merito della causa nelle forme
del  rito abbreviato ma dovrebbe dichiarare immediatamente la propria
incompetenza  funzionale  a  giudicare nei confronti degli imputati e
trasmettere  gli  atti  al giudice dell'udienza preliminare presso il
tribunale di Ancona ex artt. 11, c.p.p. e 1, dip. stt. c.p.p.