IL TRIBUNALE All'udienza preliminare del 15 febbraio 2007 nel p.p. n. 1690\06 RGg.i.p.-311\06 RNR nei confronti di C. M. e Z. S., entrambi imputati del reato di cui agli artt. 81 secondo comma cp e 73 quarto comma d.P.R. n. 309\1990, con l'aggravante, per il solo C., di avere commesso il fatto nei confronti di persona minorenne; Sentiti il pubblico ministero e i difensori degli imputati; ha pronunciato la seguente ordinanza. Ritenuto in fatto Il primo ottobre 2007 il Procuratore della Repubblica di Ferrara iniziava l'azione penale nei confronti degli odierni imputati e di altri sette per diverse ipotesi di spaccio individuale di sostanze stupefacenti, prevalentemente ma non esclusivamente, del tipo marijuana ed hascisc. Il processo in base ai criteri oggettivi di distribuzione degli affari tra i magistrati della sezione g.i.p.\g.u.p. era assegnato per la fissazione e celebrazione dell'udienza preliminare al giudice R. C. avendo gli altri due magistrati della predetta sezione svolto le funzioni di g.i.p. nel medesimo procedimento. L'8 ottobre 2007 il magistrato titolare del procedimento trasmetteva al Presidente del tribunale dichiarazione di astensione dal processo ai sensi dell'art. 36, comma primo, lett. h, c.p.p. Il dichiarante osservava che tra gli imputati figurava C. M. figlio della dott.ssa E. G., magistrato in servizio presso la locale Procura della Repubblica con la quale nel corso degli anni aveva avuto «costanti rapporti per ragioni connesse all'attivita' d'ufficio». Il coinvolgimento del C. nel procedimento in questione rendeva «particolarmente sconveniente la trattazione dello stesso» da parte del magistrato assegnatario del fascicolo «in quanto potrebbe apparire non garantita' la sua serenita' e imparzialita», in ragione dei rapporti professionali intercorrenti con la madre del prevenuto, «particolarmente intensi attesa la funzione di g.i.p.-g.u.p.» dallo stesso svolte. Il successivo 12 ottobre il presidente del tribunale f.f. accoglieva la dichiarazione di astensione, designando se medesimo giudice dell'udienza preliminare nel procedimento in questione anche nella sua qualita' di presidente della sezione penale. Nel provvedimento si chiariva che l'autoassegnazione del processo scaturiva da una informale riunione nel corso della quale tutti i magistrati del settore penale avevano confermato come le ragioni di convenienza addotte dal dott. C. sussistevano parimenti per ognuno di essi, ragion per cui successive designazioni tabellari avrebbero dato inevitabilmente luogo ad altrettante dichiarazioni di astensione, fondate sulle medesime ragioni addotte nella prima dichiarazione, posto che anche i magistrati addetti alla sezione dibattimento intrattenevano da anni costanti rapporti professionali con la dott.ssa G., situazione che rendeva inopportuno e imbarazzante giudicare il figlio della stessa. All'udienza del 15 dicembre 2007 sette dei nove imputati formulavano richiesta di applicazione pena ai sensi dell'art. 444 c.p.p. con il consenso del pubblico ministero. Le relative posizioni erano separate e definite con sentenza. Il processo principale proseguiva nei confronti degli imputati C. e Z. Entrambi chiedevano di essere giudicati con rito abbreviato, previa produzione di documenti e di consulenza tecnica tossicologica. La causa era rinviata all'odierna udienza affinche' fosse pregiudizialmente esaminata l'eventuale non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 11 c.p.p. nella parte in cui non prevede che anche i procedimenti in cui il prossimo congiunto di un magistrato assume la qualita' di imputato, danneggiato o persona offesa dal reato che sarebbero attribuiti alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto della Corte di appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni o le esercitava al momento del fatto, siano di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel distretto di corte di appello determinato ai sensi dell'art. 1 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale. Le parti hanno oggi discusso la questione e concluso come in atti. Considerato in diritto Il tribunale ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 11 c.p.p. nella parte in cui non prevede che la speciale competenza territoriale per i procedimenti riguardanti direttamente i magistrati che assumono la qualita' di imputati, indagati ovvero danneggiati e offesi dal reato non si estenda anche a quei procedimenti nei quali dette qualita' siano assunte dai prossimi congiunti dei magistrati medesimi. I parametri costituzionali sotto cui la questione di legittimita' costituzionale va esaminata e sollevata sono gli artt. 3, 24 secondo comma, 25 primo comma, 111 secondo comma della Costituzione. La norma impugnata, nella parte in cui non estende la sua disciplina ai prossimi congiunti del magistrato, viola la Costituzione sotto i distinti profili della violazione del principio di razionalita' e ragionevolezza; della violazione del diritto di difesa dell'imputato; della mancanza di effettive garanzie di predeterininazione del giudice competente; della mancata garanzia di un giudice terzo e imparziale. A) Violazione dell'art. 3 della Costituzione. La Corte costituzionale da tempo sottolinea come la norma della cui legittimita' costituzionale si dubita, anche nella diversa versione contenuta nell'art 41-bis dell'abrogato codice di procedura penale (R.D. 19 ottobre 1930, n. 1399), abbia la funzione di prevenire turbative alla serenita' e imparzialita' dei giudizi tutte le volte in cui per rapporti interpersonali tra i giudici tale premessa necessaria del giusto processo non possa essere realizzata (ord. n. 593/1989). Nell'ordinanza n. 462 del 1997 si legge che «le ragioni della deroga alle regole ordinarie di competenza, predisposta dall'art. 11 cod. proc. pen. , vanno ravvisate nella necessita' di assicurare la serenita' ed obbiettivita' dei giudizi, nonche' l'imparzialita' e terzieta' del giudice ... anche con riferimento all'esigenza di eliminare presso l'opinione pubblica qualsiasi sospetto di parzialita' determinato dal rapporto di colleganza e dalla normale frequentazione tra magistrati operanti in uffici giudiziari appartenenti al medesimo distretto di corte di appello». Il profilo della immagine di neutralita' e di terzieta' presso l'opinione pubblica del magistrato chiamato a giudicare un collega e' richiamato nell'ordinanza n. 570 del 2000 e posto a fondamento della disciplina derogatoria della competenza territoriale dettata dall'art. 11 cod. proc. pen. Nella sentenza 390 del 1991 la Corte costituzionale ha individuato la ratio della norma da un lato nella tutela del diritto di difesa del cittadino imputato e dall'altro nell'esigenza di garantire la terzieta' e l'imparzialita' del giudice. La Corte ha affermato che la disciplina derogatoria della competenza deve assicurare la garanzia della serenita' e obbiettivita' dei giudizi, la imparzialita' e la terzieta' del giudice, la salvaguardia del diritto di difesa e del principio di uguaglianza dei cittadini che, a differenza di ogni altro principio, hanno fondamento nella Costituzione. Tali profili assumono tanto maggiore rilevanza oggi, in virtu' dell'art. 111 Cost. come modificato dall'art. 1, legge cost. 23 novembre 1999, n. 2. E' opportuno sottolineare come la Corte assegni un valore assoluto alla salvaguardia di dette garanzie fondamentali del giusto processo. Nel dichiarare con la citata sentenza l'illegittimita' costituzionale del terzo comma dell'art 11 c.p.p., nella sua versione originaria ante legge n. 420/1998, che prevedeva l'inoperativita' del trasferimento di competenza per i reati commessi in udienza nei quali magistrati risultavano offesi o danneggiati, la Corte affermo' che il pregiudizio a detti valori sussiste ed e' rilevante costituzionalmente anche quando esso potrebbe considerarsi attenuato o limitato dalla previsione dell'astensione o della ricusazione del giudice del procedimento ed anche se si tratta di un magistrato offeso o daneggiato nell'esercizio della funzione pubblica assegnatagli dall'ordinamento. Vero e' che la Corte ha piu' volte richiamato l'attenzione sulla necessita' di riservare alla discrezionalita' del legislatore la delimitazione di situazioni che astrattamente potrebbero considerarsi pregiudizievoli per l'obbiettivita' e l'imparzialita' del giudizio e per la neutralita' e serenita' del giudice, posto che l'estensione dei casi e l'ambito territoriale della deroga devono trovare un limite, «altrimenti, considerando nella sua piu' ampia latitudine l'incidenza di tali funzioni ed il rapporto di colleganza tra magistrato giudice e magistrato parte del processo, la deroga alla competenza sarebbe tale da potersi tradurre nella incomptenza di qualsiasi ufficio giudiziario, sino a non rendere possibile l'esercizio della stessa giurisdizione», sicche' la scelta legislativa puo' essere sindacata nel giudizio di costituzionalita' solo se arbitraria o palesemente irragionevole, tenendo conto anche della necessaria generalita' delle norme sulla competenza, in rispondenza al principio del giudice naturale precostituito per legge (sent. n. 381/1999). Ritiene tuttavia il tribunale che da un lato questo limite di palese irragionevolezza la discrezionalita' legislativa nel caso in esame abbia superato e dall'altro che la ragionevolezza della scelta legislativa debba essere valutata alla stregua della sempre piu' imperiosa esigenza di assicurare l'imparzialita' e la credibilita' della funzione giudiziaria in un'epoca storica nella quale tale valore assume una pregnanza peculiare per la conflittualita' competitiva tra istituzioni che fa si' che il peso di ciascuna nel complessivo equilibrio tra i poteri dello Stato discenda anche dal grado di consenso che ciascuna di esse riesce a raccogliere, a sua volta dipendente dal grado in cui i suoi caratteri e i suoi fini istituzionali siano effettivamente perseguiti e come tali riconosciuti dall'opinione pubblica. E' a quest'ultima che in ultima istanza compete il giudizio finale sul grado di fiducia che l'istituzione e' in grado di raccogliere e quindi sulla sua affidabilita', sul consenso sociale di cui dispone, determinandone in ultima istanza la legittimazione sociale. La disparita' di trattamento che la legge compie nei confronti dei prossimi congiunti del magistrato appare priva di giustificazione e ragionevolezza sussistendo, in relazione a questi soggetti, le medesime esigenze di garanzia e di tutela dell'imparzialita' e della terzieta' (e relativa immagine) del giudice, che sorreggono la ratio dell'art. 11 cpp., sia con riferimento ai diretti interessati (imputati, soggetti sottoposti ad indagini, persone offese, danneggiati) che rispetto alla collettivita' nel suo insieme. L'irragionevolezza dell'omessa previsione della categoria dei prossimi congiunti, risalta ancor di piu' se si considerano i numerosi casi in cui la legge processuale prende in considerazione detta categoria per estendere ad essi la disciplina prevista per i magistrati e piu' in generale per il soggetto direttamente oggetto della disciplina processuale. Si pensi ai casi (artt. 36 e 37 c.p.p.) in cui la causa pregiudicante l'imparzialita' del giudice nel singolo processo viene estesa ai prossimi congiunti. Alla sostanziale equiparazione che la legge opera tra l'imputato ed il prossimo congiunto quanto all'esonero dall'obbligo di testimoniare. Cio' che rileva della disciplina dell'art. 199 c.p.p. e' la speciale considerazione che la legge opera della condizione del prossimo congiunto dell'imputato, confrontata con l'assoluta indifferenza della norma in esame per lo stretto rapporto di parentela tra imputato e magistrato che opera nel medesimo ufficio nel quale presta servizio il giudice competente. Appare incompatibile con la ragionevolezza e la razionalita' che deve accompagnare le scelte del legislatore considerare presuntivamente non in grado a priori di offrire garanzie di imparzialita' e terzieta' il giudice che deve giudicare il collega che opera nel medesimo ufficio o negli uffici del distretto ed escludere altrettanto aprioristicamente qualsiasi vulnus all'imparzialita' e alla terzieta' (e alla sua apparenza) in tutti i casi in cui in luogo del magistrato sia convolto nel processo un suo prossimo congiunto, sicche' quel giudice che non puo' in alcun modo essere considerato imparziale quando giudica un collega dell'Ufficio, lo diventa se invece deve giudicarne il figlio, il genitore il coniuge. Che il processo penale coinvolga e interessi non solo il diretto interessato ma l'intero nucleo degli stretti congiunti e' corroborato da numerose sparse disposizioni processuali. Viene in rilievo la facolta' di nomina del difensore di fiducia del soggetto in stato di arresto fermo o custodia cautelare da parte dei prossimi congiunti, a dimostrazione che per l'esplicazione del diritto di difesa l'imputato puo' avvalersi anche dei prossimi congiunti, regola che nasce dalla massima di esperienza secondo cui il processo penale, attingendo i fondamentali diritti della persona, e' questione che naturalmente coinvolge, condiziona e mette in risalto un fortissimo interesse al suo esito da parte del nucleo dei familiari piu' intimi. Riportare tale rilievo al caso che ci interessa significa dire che il condizionamento che il rapporto di colleganza produce sull'immagine di imparzialita' e terzieta' del giudice che deve giudicare in ambito penale un altro magistrato si estende necessariamente al caso in cui ad essere giudicato sia un prossimo congiunto dello stesso magistrato. Ulteriore elemento di conferma si ricava dagli artt. 643-644 c.p.p. che attribuiscono iure proprio, in caso di morte dell'interessato, il diritto alla riparazione agli stretti congiunti della vittima di errore giudiziario. Ennesima prova di come la legge consideri direttamente e personalmente coinvolti nel destino dell'imputato i suoi prossimi congiunti sicche', ogni qual volta ad essere giudicato sia uno di questi soggetti, debbono valere per l'ufficio giudicante nel suo insieme le stesse considerazioni in ordine al pregiudizio che la legge presume accompagni tutti i componenti di esso quando sia astrattamente competente a giudicare un magistrato del distretto. D'altra parte, posto che la ratio dell'obbligatorio trasferimento di competenza e' quella che le ss.uu. della cassazione hanno ancora di recente individuato con riferimento ai giudici onorari (sent. n. 292/ 2005), «ravvisata nell'esigenza, particolarmente marcata nel processo penale (stante la natura degli interessi coinvolti e l'assenza della mediazione dell'impulso paritario delle parti: vedi Corte cost. sentt. n. 51/1998 e n. 147/2004), di evitare che il rapporto di colleganza e normale frequentazione nascente dal comune espletamento delle funzioni nello stesso plesso territoriale possa inquinare, anche solo nelle apparenze, l'imparzialita' del giudizio (v. in particolare, sul punto, Corte cost. ord. n. 462/1997),» ne consegue che analoga valutazione deve essere fatta in tutti i casi in cui vengono in rilievo gli strettissimi rapporti familiari dell'imputato con il magistrato togato che esercita le funzioni nello stesso ufficio o in ufficio territorialmente prossimo a quello in cui ha sede il magistrato competente in base alle ordinarie regole. Conviene ricordare il messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica Cossiga del 26 luglio 1990 che, a proposito della necessita' di prestare la massima attenzione alla determinazione del foro competente nei processi penali nei quali fossero coinvolti magistrati, affermava: «Il problema dell'individuazione del giudice competente per i procedimenti penali riguardanti i magistrati, e precisamente per i procedimenti penali nei quali i magistrati assumano la qualita' di persona sottoposta alle indagini, di imputato, di persona offesa o danneggiata dal reato, e' sempre stato un problema presente sul piano della disciplina del processo penale, sia nell'ordinamento italiano che negli ordinamenti esteri. Cio' ben si comprende, in quanto esso attiene alla garanzia di indipendenza e di soggezione solo alla legge del giudice, principi che costituiscono valori che debbono essere realizzati nel concreto, tenendo conto che in un ambiente hanno, o si puo' ritenere che abbiano, una qualche incidenza proprio i rapporti di conoscenza, di quotidiana frequentazione e di appartenenza allo stesso ufficio giudiziario. Vi e', insomma, la necessita' di escludere, anche nelle apparenze, che la giustizia, quando amministrata da altri magistrati, possa essere una giustizia amministrata in modo diverso e meno oggettivo, "domestico'', di privilegio ovvero di casta». Il richiamo all'esigenza di una disciplina che sia mirata sulla concretezza delle situazioni in grado di' nuocere all'immagine del magistrato e alla credibilita' dell'istituzione giudiziaria si traduceva nell'invito ad evitare una giustizia che appaia appunto «domestica». In tale ultimo concetto puo' certamente rientrare la condizione di una giustizia che si occupi dei prossimi congiunti, che sia anche la «casa» in cui il magistrato finisce per svolgere le sue funzioni, dandosi cosi' adito a dubbi, sospetti, sfiducia, distruttivi dell'immagine della giustizia che vive del consenso dei consociati e della disponibilita' degli stessi ad accettarne le decisioni come frutto di giudizio neutro, oggettivo, indifferente a passioni e interessi e che rintuzza attraverso le buone norme, le buone decisioni e le buone prassi qualsiasi tentazione di nichilismo giuridico. Posta la finalita' dell'art 11 c.p.p., quale la Corte costituzionale ha piu' volte fatta propria, non sembra possano residuare dubbi sull'irragionevolezza, per incoerenza e contraddittorieta' intrinseca, di una norma che, postulando il trasferimento con criteri automatici della competenza nei processi penali nei quali i magistrati siano imputati o sottoposti a indagine, offesi o danneggiati dal reato, per la presupposta inidoneita' di quel foro domestico a dare oggettive garanzie di imparzialita' e terzieta', ometta di considerar ugualmente come causa di privilegio o di giustizia domestica e di casta quella che porta i medesimi giudici, che la legge presume per gli stretti rapporti professionali non ugualmente sereni rispetto alla generalita' dei casi nel giudicare i colleghi d'ufficio, a giudicare i prossimi congiunti degli stessi colleghi. L'intrinseca sua irrazionalita/irragionevolezza induce il tribunale a sottoporre alla Corte costituzionale la verifica della legittimita' costituzionale della norma dell'art 11 c.p.p. per contrasto con l'art 3 della Costituzione. B) Violazione dell'art. 24 della Costituzione in relazione agli artt. 3 e 111. Brevemente le considerazioni svolte in precedenza possono essere riesaminate alla luce di altri parametri costituzionali. Esaminata dal punto di vista dell'imputato, indagato, danneggiato o persona offesa dal reato, prossimo congiunto di un magistrato operante nell'Ufficio competente per il giudizio secondo le ordinarie regole, la questione assume rilievo sotto il profilo della violazione del diritto di difesa. Non sembra possa dubitarsi che la difesa di tale soggetto puo' subire condizionamenti morali, psicologici, materiali dalla circostanza di doversi esplicare in un ambiente nel quale il giudice si trovi in stretti rapporti di contiguita' professionale, di relazioni personali umane e lavorative con il prossimo congiunto dell'imputato medesimo. Ogni qual volta la difesa trovi nel sistema normativo intralci di fatto o psicologici non giustificati dalla necessita' di rispettare beni di rango preminente, si ha una limitazione del diritto stesso incompatibile con la Costituzione. La possibilita' che il giudice possa essere portatore di un qualsiasi pregiudizio discendente dalla conoscenza del rapporto di familiarita' che lega l'imputato ad altro magistrato dell'ufficio, condiziona inevitabilmente la strategia difensiva che oltre a tutti gli elementi di cui di regola deve tenere conto, e' costretta nel bene e nel male a confrontarsi con una variabile peculiare, che ingiustamente discrimina la posizione difensiva, consistente nella necessita' di comprendere se e quali meccanismi mentali anomali possano scattare nel giudice che sa che deve affrontare un giudizio nel quale e' indirettamente coinvolto un magistrato del suo ufficio. Quella consuetudine, frequentazione, conoscenza, insieme di relazioni che coinvolgono il giudice ed il magistrato prossimo congiunto del soggetto interessato al processo, possono diventare materia impropria di valutazione e di condizionamento della strategia difensiva che puo' risultare menomata o vincolata dalla natura, intensita' segno e qualita' di dette relazioni. Non si e' molto lontano dal vero se si afferma che molte scelte processuali e difensive potrebbero finire col passare al vaglio dei loro possibili effetti in relazione alla natura dei rapporti professionali fra il giudice ed il magistrato prossimo congiunto. I fatti, le circostanze, i temi di prova, le fonti di prova, le relazioni interpersonali che in un normale processo vengono addotti dall'interessato avendo riguardo esclusivamente alla propria causa, potrebbero dover essere impropriamente riesaminati alla stregua della peculiarissima condizione in cui il soggetto del processo viene a trovarsi per effetto della suo rapporto di parentela. Lo stesso timore che il giudice - conscio di essere sottoposto ad una speciale osservazione da parte della comunita' professionale e dell'opinione pubblica sotto il profilo della sua capacita' di mantenersi terzo e imparziale in una situazione in cui ad essere giudicato e' un soggetto rispetto al quale si possa ipotizzare una sua qualche sensibilita' personale - possa adottare soluzioni e decisioni strumentali non al merito della causa ma all'esigenza di apparire imparziale, potrebbe nuocere e condizionare il diritto di difesa dell'imputato, le cui strategie difensive sarebbero costrette a fare i conti con una serie aggiuntiva di impalpabili variabili psicologiche che si aggiungono alle molteplici alle quali di regola la parte processuale deve fare fronte. Tale indebita pressione psicologica, non riconducibile ad alcuna ragionevole norma giuridica, influisce sul diritto di difesa che e' menomato ogni qual volta le regole processuali non ne consentono materialmente o moralmente una piena e regolare esplicazione. In definitiva ogni qual volta per ragioni esterne al processo la parte ha ragione di dubitare o di problematizzare il tema della serenita' e tranquillita' del giudice nell'approccio al fatto processuale, situazione fondata oggettivamente su un dato che la legge stessa presume come rilevante tanto da prevedere una norma quale quella dell'art. 11 c.p.p., il diritto di difesa subisce una inammissibile compressione o comunque un indebito condizionamento, inconciliabile con la pienezza dello stesso secondo il dettato della Costituzione. C) Violazione dell'art. 25, primo comma della Costituzione in relazione agli artt. 3 e 111 della stessa. L'art. 36 primo comma lett. h c.p.p. prevede, come e' noto, l'obbligo per il giudice di astenersi dal processo se esistono gravi ragioni di convenienza. A sua volta l'art. 43 secondo comma c.p.p. stabilisce che nei casi in cui, in conseguenza di astensioni o ricusazioni dei magistrati dello stesso ufficio, designati secondo le leggi di ordinamento giudiziario a seguito di precedenti astensioni o ricusazioni accolte, non sia possibile celebrare il processo nella sede giudiziaria competente, il procedimento debba essere rimesso alla sede ugualmente competente per materia a norma dell'art. 11 c.p.p. Si potrebbe sostenere che gli inconvenienti prima denunciati sono evitabili con l'applicazione del meccanismo fissato negli artt. 36 e 43 c.p.p. che permetterebbe di realizzare lo stesso risultato senza giungere alla dichiarazione di incostituzionalita' della norma, lasciando al sistema quel necessario margine di elasticita' che eviterebbe di ingessarlo con automatici trasferimenti di competenza in una serie di casi, che potrebbe rivelarsi assai numerosi, non richiedenti in concreto l'effettivo spostamento del processo. Il tribunale ritiene che una tale soluzione non solo non rispetta i parametri costituzionali prima invocati ma si presta ad essere censurata sotto il profilo dell'intollerabile incertezza che si avrebbe nella determinazione del giudice competente, che verrebbe rimessa all'insindacabile valutazione dei singoli magistrati dell'ufficio astrattamente competente. Costoro dovrebbero essere chiamati singolarmente e di volta in volta a valutare la sussistenza delle gravi ragioni di convenienza che giustificano la dichiarazione di astensione, quando parte interessata al processo penale sia un prossimo congiunto di un magistrato dello stesso ufficio distrettuale, potendo ciascuno giungere a conclusioni diverse sulla base di insindacabili valutazioni di opportunita', non apprezzabili e controllabili in alcun modo. Ferma l'esatta distinzione richiamata dalla difesa dell'imputato Carra' tra regole processuali «generali» volte ad assicurare l'imparzialita' e la terzieta' del giudice ogni qual volta la legge individua fatti e situazioni da cui scaturisce una generale inidoneita' dell'ufficio nel suo complesso e in tutti i suoi componenti, e regole processuali particolari, volte ad evidenziare situazioni che rendono inidoneo sotto gli individuati profili il singolo giudice a trattare il processo, ricondurre la questione qui prospettata ad un problema di incompatibilita', astensione o ricusazione, potrebbe far dipendere l'individuazione del giudice competente dal soggettivo apprezzamento da parte dei magistrati dell'ufficio in ordine alla ricorrenza di quelle gravi ragioni di convenienza che potrebbero portare, attraverso il meccanismo delle astensioni a catena, a produrre l'effetto del trasferimento del processo nella sede determinata ai sensi degli artt. 11 e 43 del c.p.p. In tal modo peraltro l'imputato o il soggetto interessato al processo che si trova nella condizione che stiamo analizzando non sarebbe mai in grado di sapere preventivamente chi sara' il suo giudice naturale, tale determinazione non potendosi effettuare ex ante ma soltanto ex post a seguito dell'interpello dei singoli magistrati dell'ufficio che dovranno di volta in volta interrogare il proprio intimo nel contesto per valutare l'esistenza di ragioni di convenienza tali da indurli all'astensione, con tutte le singole varianti del caso, soggettive ed arbitrarie, e conseguente eventuale trasferimento del processo nella sede individuata dall'art. 11. Ne' puo' dirsi che il principio del giudice naturale non e' violato poiche' si tratta semplicemente di applicare un meccanismo per l'individuazione in concreto del giudice che la legge ha obbiettivamente predisposto e che le concrete variabili empiriche non possono influire sulla legittimita' costituzionale di un modello legale astrattamente conforme a Costituzione. In realta', se si declassa la questione della competenza per i processi in cui i magistrati dell'ufficio sono inevitabilmente coinvolti in ragione del rapporto di prossimita', legalmente predefinito, con i soggetti del processo, nelle loro qualita' normativamente rilevanti, a questione di soggettivo apprezzamento della convenienza a che il processo si celebri o meno nella sede, si elude quella rigorosa predeterminazione normativa della competenza per situazioni tipiche che l'art. 25 primo comma della Costituzione intende garantire perche' non si tratta di commisurare la scelta del legislatore in relazione a situazioni atipiche e imprevedibili ma di valutare se sia ammissibile che di fronte a situazioni perfettamente definite, prevedibili e normativamente rilevanti, possa giustificarsi un'assenza di disciplina specifica che lasci alle insondabili scelte e valutazioni individuali la determinazione finale del giudice competente. D) Violazione dell'art. 111, secondo comma della Costituzione. Le considerazioni che precedono inducono a considerare autonomamente il profilo di incostituzionalita' di una norma che non prende in considerazione la necessita' di assicurare l'imparzialita' del giudice in una situazione equivalente o riconducibile a quella espressamente da essa stessa disciplinata con regola di segno contrario a quella ricavabile dall'omessa disciplina della situazione omologa. Nella misura in cui il legislatore valuta come incompatibile con il principio di imparzialita' la situazione del giudice che deve giudicare colleghi che operino nei medesimi uffici distrettuali, egli pone le premesse per la diffusione di un generalizzato alone di sospetto in tutti i casi in cui quel medesimo giudice deve affrontare processi nei confronti di prossimi congiunti di magistrati che, se direttamente coinvolti nel processo, determinerebbero il trasferimento del processo ad altra sede. Non potendo richiedersi alla generalita' dei consociati di valutare in modo sottilmente difforme le due situazioni, la ragionevole omologazione delle stesse nel comune sentire, determinando la convinzione che il caso e' affidato ad un giudice che non puo' considerarsi imparziale, producendo un'apparenza di parzialita' e non neutralita' del giudice, finisce con il violare sul piano normativo la garanzia costituzionale che si esplica non solo nell'assicurare un giudice terzo e imparziale ma anche nel porre le condizioni perche' detta imparzialita' possa essere comunemente apprezzata da chi deve essere sottoposto al giudizio e dalla generalita' dei consociati, il cui giudizio determina il grado di accettabilita' delle decisioni giudiziarie, elemento fondante di una societa' democratica. Cio' posto e' appena il caso di osservare come la questione non possa essere risolta in via interpretativa, precludendo inesorabilmente la lettera della norma qualsiasi interpretazione nel senso che si ritiene costituzionalmente conforme. L'evidenza impone di accennare appena alla rilevanza nel processo della questione di legittima costituzionale che si propone. L'imputato C. ha chiesto di essere giudicato con rito abbreviato e questo giudice deve pronunciarsi sull'ammissione del rito e procedere al relativo giudizio. Stessa richiesta e' stata avanzata dall'altro imputato. Ove la proposta questione di legittimita' costituzionale fosse accolta, questo giudice non potrebbe provvedere sulla richiesta degli imputati ne' procedere ad esaminare il merito della causa nelle forme del rito abbreviato ma dovrebbe dichiarare immediatamente la propria incompetenza funzionale a giudicare nei confronti degli imputati e trasmettere gli atti al giudice dell'udienza preliminare presso il tribunale di Ancona ex artt. 11, c.p.p. e 1, dip. stt. c.p.p.