ha pronunciato la seguente
                              Ordinanza
nei  giudizi  di legittimita' costituzionale dell'art. 593 del codice
di  procedura  penale,  come  sostituito  dall'art.  1 della legge 20
febbraio  2006,  n. 46  (Modifiche  al codice di procedura penale, in
materia  di  inappellabilita'  delle  sentenze  di proscioglimento) e
dell'art. 10, comma 1, della citata legge, promossi con ordinanze del
30  maggio  2006 dal Tribunale di Reggio Emilia e del 22 gennaio 2007
dal Tribunale di Sondrio nei procedimenti penali a carico di P. R. ed
altri,  e di R. G., iscritte al n. 545 del registro ordinanze 2006 ed
al  n. 375  del  registro  ordinanze 2007 e pubblicate nelle Gazzette
Ufficiali della Repubblica n. 49, 1ª serie speciale, dell'anno 2006 e
n. 21, 1ª serie speciale, dell'anno 2007.
   Udito  nella  Camera  di  consiglio  del 25 giugno 2008 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
   Ritenuto  che,  con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale
di  Sondrio ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della
Costituzione,  questione di legittimita' costituzionale dell'art. 593
del  codice  di  procedura  penale, come sostituito dall'art. 1 della
legge  20  febbraio  2006,  n. 46  (Modifiche  al codice di procedura
penale,   in   materia   di   inappellabilita'   delle   sentenze  di
proscioglimento),  nella parte in cui non prevede che la parte civile
possa  proporre  appello  nei  casi  di cui all'art. 576 dello stesso
codice;
     che  il  giudice a quo premette di essere investito dell'appello
proposto, ai sensi dell'art. 576 cod. proc. pen., dal difensore della
parte  civile avverso una sentenza del Giudice di pace di Tirano, che
ha assolto una persona imputata del reato di ingiuria aggravata;
     che,  secondo  il  rimettente - nulla prevedendo, in merito alle
impugnazioni  della  parte  civile avverso le sentenze del giudice di
pace,  il  decreto  legislativo  28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni
sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14
della legge 24 novembre 1999, n. 468) - l'ammissibilita' dell'appello
proposto  andrebbe  verificata, in forza del disposto dell'art. 2 del
citato  d.lgs.  n. 274 del 2000, sulla base delle norme del codice di
procedura penale;
     che   le   disposizioni   del  codice  di  rito  in  materia  di
impugnazioni  sono  state,  peraltro,  profondamente modificate dalla
legge  n. 46 del 2006, la quale, per un verso, ha abrogato l'art. 577
cod. proc. pen., che consentiva alla parte civile di impugnare, anche
agli effetti penali, le sentenze di condanna e di proscioglimento per
i  reati  di  ingiuria  e  di diffamazione; e, per un altro verso, ha
novellato l'art. 576 cod. proc. pen., relativo all'impugnazione della
parte  civile  ai  fini  della  responsabilita' civile, eliminando il
collegamento  tra  tale  potere di impugnazione e quello del pubblico
ministero;
     che,  ad  avviso del giudice a quo - in assenza di una specifica
disciplina dell'appello della parte civile nella medesima legge n. 46
del  2006 - da una lettura combinata degli artt. 576 e 593 cod. proc.
pen.  si ricaverebbe che a tale parte processuale resta precluso ogni
potere   di   appello,  essendole  consentito  solo  il  ricorso  per
cassazione  agli effetti civili, ai sensi degli artt. 568, comma 2, e
576 cod. proc. pen.;
     che,  al  riguardo,  non  potrebbe  essere  condiviso il diverso
orientamento  della  Corte  di  cassazione  - espresso nella sentenza
dell'11  maggio-4  luglio  2006,  n. 22924  -  secondo  il  quale  le
modifiche  introdotte  dalla legge n. 46 del 2006 non avrebbero fatto
venire  meno,  in  capo alla parte civile, il potere di appellare, ai
soli   effetti   della   responsabilita'   civile,   le  sentenze  di
proscioglimento,  in  base a quanto previsto dall'art. 576 cod. proc.
pen.;
     che  -  pur dovendosi condividere le argomentazioni della citata
sentenza  della Corte di cassazione, circa l'effettiva intenzione del
legislatore  -  a  tale interpretazione sarebbero infatti di ostacolo
tanto  l'art. 12 delle preleggi ed il principio di tassativita' delle
impugnazioni  (art.  568,  commi  1  e 3, cod. proc. pen.); quanto il
tenore letterale delle norme dianzi indicate;
     che  l'abolizione  del  potere  di appello della parte civile si
porrebbe  tuttavia in contrasto con i principi di eguaglianza (art. 3
Cost.)  e  della  parita' delle parti nel processo (art. 111, secondo
comma,  Cost.),  stante  l'irragionevole  discriminazione operata nei
confronti  del  danneggiato  dal reato - al quale pure e' concesso di
esercitare  l'azione  civile nel processo penale (artt. 74 cod. proc.
pen. e 185 cod. pen.) - rispetto al danneggiante-imputato;
     che  se  si  fornisce a quest'ultimo, infatti, uno «strumento di
doglianza»  nel  merito,  nei  confronti  della  decisione  del primo
giudice  -  ossia l'appello - lo stesso strumento non potrebbe essere
sottratto alla parte civile, nel caso di sua soccombenza;
     che sarebbe violato, inoltre, il diritto di difesa, riconosciuto
dall'art.  24  Cost. anche alla persona offesa dal reato in relazione
alle  proprie  pretese  civilistiche:  diritto  la  cui  effettivita'
sarebbe  vulnerata  dalla  previsione di un secondo grado di giudizio
nel  quale l'imputato puo' svolgere le proprie doglianze, mentre alla
parte civile cio' sarebbe precluso;
     che,   da  ultimo,  il  rimettente  rimarca  come  la  norma  da
sottoporre allo scrutinio di questa Corte non sia tanto quella di cui
all'art.  576  cod.  proc.  pen., che conferisce alla parte civile un
«ampio  potere  di  impugnazione»;  quanto  piuttosto  quella  di cui
all'art. 593 del medesimo codice, che, non prevedendo la parte civile
tra  i  soggetti  legittimati  ad interporre appello - previsione che
deve  essere  espressa,  ai  sensi dell'art. 568, comma 3, cod. proc.
pen.  -  limiterebbe  al solo ricorso per cassazione il suo potere di
impugnazione;
     che,  con  l'ordinanza  indicata  in  epigrafe,  il Tribunale di
Reggio Emilia ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, primo e
secondo   comma,  Cost.,  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 10, comma 1, della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui
prevede  che  debba  dichiararsi  inammissibile,  o qualificarsi come
ricorso  in  cassazione,  l'appello proposto dalla parte civile prima
dell'entrata  in  vigore  della medesima legge, ai soli effetti della
responsabilita'  civile, contro la sentenza di proscioglimento emessa
dal giudice di pace;
     che  il  giudice a quo premette di essere investito dell'appello
proposto,  anteriormente  all'entrata in vigore della legge n. 46 del
2006,  dalla  parte  civile  (non ricorrente a norma dell'art. 21 del
d.lgs.  n. 274  del  2000)  avverso  una  sentenza di assoluzione per
insussistenza  del  fatto dal reato di ingiuria aggravata, emessa dal
locale  Giudice  di  pace: appello con il quale si chiede la condanna
degli  imputati «alle pene di giustizia e la condanna degli stessi ai
danni e al pagamento di una provvisionale»;
     che,  con  riferimento  all'impugnazione  del  capo penale della
sentenza,  il  rimettente  osserva  che  essa  deve essere dichiarata
inammissibile,  giacche'  l'art. 9 della sopravvenuta legge n. 46 del
2006 - immediatamente applicabile ai procedimenti in corso in base al
disposto  dell'art.  10  -  ha abrogato in toto l'art. 577 cod. proc.
pen.,  che  consentiva  alla  parte  civile, in forza del rinvio alle
norme  del  codice  di rito operato dall'art. 2 del d.lgs. n. 274 del
2000,  di  impugnare,  anche  agli  effetti  penali,  le  sentenze di
proscioglimento per i reati di ingiuria emesse dal giudice di pace;
     che, quanto all'appello proposto agli effetti civili, il giudice
a  quo  rileva  come, dopo la novella del 2006, sia rimasto in vigore
l'art.  576  cod.  proc.  pen. (applicabile anch'esso al procedimento
davanti  al  giudice  di  pace  in  base  al  richiamato art. 2), che
consente  alla  parte  civile  di  impugnare,  ai  soli effetti della
responsabilita' civile, la sentenza di proscioglimento;
     che,  tuttavia, l'art. 6 della legge n. 46 del 2006 ha soppresso
nel  testo  dell'art.  576  cod.  proc.  pen. l'inciso («con il mezzo
previsto  dal  pubblico  ministero»)  che  - collegando l'impugnativa
della  parte privata a quella della parte pubblica - riconosceva alla
prima,   in  virtu'  del  principio  di  tassativita'  dei  mezzi  di
impugnazione  (art.  568,  comma  1,  cod.  proc. pen.), il potere di
proporre appello;
     che  il  giudice  a  quo  ne  trae la conseguenza - a suo avviso
«unica   formalmente   corretta»,   alla   luce   di   una   doverosa
interpretazione    letterale    e    sistematica    delle   norme   -
dell'intervenuta  soppressione  del  potere  di  appello  della parte
civile, anche per le sentenze del giudice di pace;
     che,  ad  avviso  del  rimettente,  l'eliminazione del potere di
appello   della   parte   civile   non   presenterebbe   profili   di
illegittimita'  costituzionale  nella  disciplina «a regime»: e cio',
sia per l'impossibilita' di porre a confronto la parte civile, che e'
parte   eventuale,  con  le  altre  parti  necessarie;  sia  perche',
comunque,  la  prima  fruisce  del  potere di ricorrere in cassazione
contro   la   sentenza  di  proscioglimento,  al  pari  del  pubblico
ministero;
     che  a  diversa  conclusione  dovrebbe  pervenirsi,  invece,  in
riferimento  alla disciplina transitoria contenuta nell'art. 10 della
legge  n. 46  del  2006,  il  cui comma 1, in assenza di disposizioni
specifiche  relative  alla  parte  civile,  imporrebbe  di dichiarare
inammissibile l'appello proposto;
     che  la parte civile la quale, prima della riforma, abbia scelto
di  far valere le proprie pretese risarcitorie nel processo penale si
troverebbe infatti privata, nel nuovo assetto normativo, di un potere
di  gravame  «ampiamente  devolutivo»  della  questione  di  fatto, e
costretta a subire, in caso di assoluzione, l'efficacia del giudicato
penale nel giudizio civile ai sensi dell'art. 652 cod. proc. pen.;
     che  tale disciplina violerebbe l'art. 3 Cost., determinando una
irragionevole  disparita'  di  trattamento  fra  la  persona offesa o
danneggiata  dal  reato  la quale, prima dell'entrata in vigore della
legge  n. 46  del  2006,  abbia  scelto di costituirsi parte civile e
quella  che non l'abbia fatto, scegliendo di agire davanti al giudice
civile;
     che  risulterebbe  violato, altresi', l'art. 24, primo e secondo
comma,  Cost.,  venendo pregiudicata la difesa dei diritti soggettivi
di  detta  parte, originariamente garantiti dal «modello processuale»
prescelto.
   Considerato  che  le  ordinanze  di rimessione sollevano questioni
analoghe,  onde  i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti
con unica decisione;
     che  i  quesiti  di  costituzionalita' sottoposti a questa Corte
hanno  ad  oggetto  la  disciplina  -  «a  regime»  e  transitoria  -
dell'appello    della   parte   civile   avverso   le   sentenze   di
proscioglimento  emesse  dal  giudice  di  pace,  dopo  le  modifiche
introdotte  dalla  legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice
di procedura penale, in materia di inappellabilita' delle sentenze di
proscioglimento);
     che,   in  particolare,  il  Tribunale  di  Sondrio  dubita,  in
riferimento  agli  artt.  3,  24  e  111  della  Costituzione,  della
legittimita'  costituzionale  dell'art.  593  del codice di procedura
penale,  come  sostituito  dall'art.  1 della legge di riforma, nella
parte  in  cui non prevede che la parte civile possa proporre appello
nei  casi  di cui all'art. 576 cod. proc. pen. avverso le sentenze di
proscioglimento del giudice di pace;
     che  il  Tribunale  di  Reggio  Emilia  censura, a sua volta, in
riferimento  agli  artt.  3  e  24,  primo e secondo comma, Cost., la
disciplina  transitoria  di  cui  all'art.  10, comma 1, della citata
legge   n. 46  del  2006,  nella  parte  in  cui  prevede  che  debba
dichiararsi inammissibile, o qualificarsi come ricorso in cassazione,
l'appello  proposto  dalla  parte civile prima dell'entrata in vigore
della  legge  n. 46  del  2006, ai soli effetti della responsabilita'
civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata dal giudice
di pace;
     che  i  rimettenti  muovono  dalla  premessa interpretativa, non
implausibile,  per  cui  -  in  mancanza  di una specifica disciplina
dell'impugnazione  della  parte  civile  nel  decreto  legislativo 28
agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice
di  pace,  a  norma  dell'articolo  14  della legge 24 novembre 1999,
n. 468)  -  detta  impugnazione  resta  regolata, in forza del rinvio
operato  dall'art.  2  del  medesimo decreto legislativo, dalle norme
sulle  impugnazioni contenute nel codice di rito: norme profondamente
modificate dalla legge n. 46 del 2006;
     che  i  giudici a quibus assumono, per altro verso, che l'art. 6
di  tale  legge  -  modificando  l'art. 576 cod. proc. pen. - avrebbe
eliminato il potere di appello della parte civile avverso le sentenze
di  proscioglimento:  e  cio'  segnatamente  alla  luce  del generale
principio  di tassativita' dei mezzi di impugnazione (art. 568, comma
1,  cod. proc. pen.), posto che, per un verso, la parte civile non e'
inclusa  tra  i soggetti legittimati a proporre appello dall'art. 593
cod.  proc. pen.; e, per un altro verso, il testo novellato dell'art.
576  del  codice  di  rito  -  nel corpo del quale e' stata soppressa
l'originaria   statuizione,  che  consentiva  alla  parte  civile  di
proporre  impugnazione  con  lo stesso mezzo previsto per il pubblico
ministero  - non specifica di quali mezzi di impugnazione detta parte
sia ammessa a fruire;
     che,  di  conseguenza  -  secondo  i  rimettenti  - il potere di
appello  della  parte  civile  sarebbe venuto meno anche in relazione
alle sentenze emesse dal giudice di pace;
     chequesta   Corte  -  dichiarando  manifestamente  inammissibili
questioni  di  legittimita'  costituzionale fondate su un presupposto
ermeneutico  identico a quello da cui muovono gli odierni rimettenti,
riguardo  alla  soppressione del potere di appello della parte civile
nel procedimento ordinario (ordinanze n. 266, n. 155 e n. 3 del 2008;
n. 32  del  2007)  - ha evidenziato come debba registrarsi l'assenza,
allo   stato,   di   un  "diritto  vivente"  conforme  alla  premessa
interpretativa posta a base dei dubbi di costituzionalita';
     che  i rilievi svolti dal Tribunale di Sondrio per contestare la
fondatezza  della  diversa  linea ermeneutica adottata dalla Corte di
cassazione  -  nell'unica  pronuncia all'epoca espressasi sul punto -
non  esauriscono,  in  effetti,  la gamma di argomenti che potrebbero
avallare  un'interpretazione  diversa della nuova disciplina, tale da
porla   al  riparo  dai  sospetti  di  illegittimita'  costituzionale
prospettati;
     che  la tesi secondo cui, anche dopo la legge n. 46 del 2006, la
parte  civile  avrebbe conservato il potere di proporre appello, agli
effetti  civili,  avverso  la  sentenza  di  proscioglimento  -  tesi
divenuta,   nel  frattempo,  maggioritaria  nella  giurisprudenza  di
legittimita'  -  ha  trovato,  d'altro  canto, l'avallo delle Sezioni
unite  della  Corte di cassazione (si veda la sentenza 29 marzo 2007,
n. 27614);
     che,  nell'aderire  a  tale soluzione interpretativa, le Sezioni
Unite   hanno   fatto   leva,  in  particolare,  sull'interpretazione
logico-sistematica  dell'art.  576  cod.  proc. pen. - attribuendo «a
mero  difetto di tecnica legislativa la formulazione letterale» della
norma  in  questione  -  e,  soprattutto, sulla volonta' legislativa,
quale desumibile dai lavori parlamentari;
     che, in proposito, la Corte di cassazione ha evidenziato come le
modifiche  apportate al testo normativo originariamente approvato dal
Parlamento,  dopo il rinvio alle Camere da parte del Presidente della
Repubblica   ai   sensi  dell'art.  74  Cost.  -  e  segnatamente  la
soppressione,  nell'art.  576  cod.  proc.  pen., dell'inciso «con il
mezzo previsto dal pubblico ministero» - risultassero finalizzate, in
realta', a «rimodulare, accrescendoli, i poteri di impugnazione della
parte  civile,  sganciandone  la  posizione  da  quella  del pubblico
ministero»;  nonche',  conseguentemente,  a ripristinare il potere di
appello  della  parte  privata:  con il chiaro intento di recepire il
rilievo  formulato  nel  messaggio  presidenziale,  circa l'eccessiva
compressione della tutela delle vittime del reato, quale si delineava
nelle soluzioni legislative inizialmente adottate;
     che  a  cio'  va aggiunto come neppure in ordine alla disciplina
transitoria  si riscontri uniformita' di vedute: essendosi affermato,
da  una  parte  della giurisprudenza di legittimita', che ove pure la
nuova  legge avesse effettivamente rimosso il potere di appello della
parte civile, non ne conseguirebbe comunque - contrariamente a quanto
assume   il   Tribunale   di   Reggio   Emilia  -  l'inammissibilita'
dell'appello  anteriormente proposto da detta parte; e cio' in quanto
la disposizione transitoria di cui all'art. 10, comma 1 - evocata dal
rimettente  a  sostegno del proprio assunto - nello stabilire che «la
presente  legge  si  applica  ai  procedimenti  in corso alla data di
entrata  in  vigore  della  medesima», si sarebbe limitata soltanto a
riaffermare  il  generale  principio tempus regit actum, tipico della
materia processuale (si veda l'ordinanza n. 3 del 2008);
     che,  in  conclusione, i rimettenti hanno omesso di sperimentare
soluzioni   ermeneutiche,  diverse  da  quelle  praticate,  idonee  a
superare  i  vizi  di costituzionalita' denunciati, poiche' - in base
alla  stessa  prospettazione dei giudici a quibus - il riconoscimento
alla  parte  civile  del  potere  di  appello  avverso le sentenze di
proscioglimento   nel   procedimento   ordinario,   si  rifletterebbe
automaticamente sul procedimento davanti al giudice di pace;
     che,   pertanto,   le   questioni   devono   essere   dichiarate
manifestamente    inammissibili,   in   conformita'   alla   costante
giurisprudenza  di questa Corte (si vedano, ex plurimis, le ordinanze
n. 35  del  2006,  n. 381  del  2005  e  n. 279 del 2003; nonche', le
richiamate ordinanze n. 226, n. 155 e n. 3 del 2008; n. 32 del 2007).
     Visti  gli  artt.  26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.