Sentenza
nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 6, commi 1, 2, 4
e  5,  dell'art.  10,  comma  3,  della legge 5 dicembre 2005, n. 251
(Modifiche  al  codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in
materia   di  attenuanti  generiche,  di  recidiva,  di  giudizio  di
comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di
prescrizione) e dell'art. 157, secondo comma, del codice penale, come
novellato  dall'art.  6,  comma  1,  della  legge  n. 251  del  2005,
promossi,  nell'ambito  di diversi procedimenti penali, con ordinanze
del  31  gennaio  2006 dal Tribunale di Roma, del 24 gennaio 2006 dal
Tribunale  di Salerno sezione distaccata di Cava de' Tirreni e del 18
luglio  2006 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di
Padova,  rispettivamente  iscritte  ai  nn.  115  e  192 del registro
ordinanze  2006  ed  al n. 1 del registro ordinanze 2007 e pubblicate
nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  nn.  17 e 26, 1ª serie
speciale, dell'anno 2006 e n. 7 1ª serie speciale, dell'anno 2007.
   Visti  gli  atti  di costituzione della Prima Idep S.p.r.l., della
Societe'  Generale  de  Sucreries,  S.G.S., s.a. in liquidazione, del
Patronato  Piccoli  Azionisti  Industria  Zuccheri,  P.A.I.Z. e della
Investissements  Dynamiques  et  Prudents, I.D.E.P. s.a., nonche' gli
atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
   Udito  nell'udienza  pubblica del 1° aprile 2008 e nella Camera di
consiglio  del  2  aprile 2008 il giudice relatore Gaetano Silvestri,
sostituito  per  la  redazione della sentenza dal giudice Paolo Maria
Napolitano;
   Uditi  gli  avvocati Bruno Rossini e Vittorio Poli per la Societe'
generale  de Sucreries, S.G.S., s.a. in liquidazione, Vittorio Fasce,
Salvatore  Greco e Vittorio Poli per la Investissements Dynamiques et
Prudents,  I.D.E.P.  s.a.,  Vittorio Fasce, Salvatore Greco, Vittorio
Poli  e  Bruno  Rossini  per la Prima Idep S.p.r.l., Vittorio Fasce e
Salvatore   Greco   per  il  Patronato  Piccoli  Azionisti  Industria
Zuccheri, P.A.I.Z.
                          Ritenuto in fatto
   1.  - Con ordinanza del 31 gennaio 2006 (r.o. n. 115 del 2006), il
Tribunale  di  Roma,  in  composizione  monocratica, ha sollevato, in
riferimento  all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimita'
costituzionale  dell'art. 157, secondo comma, del codice penale, come
novellato  dall'art.  6, comma 1, della legge 5 dicembre 2005, n. 251
(Modifiche  al  codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in
materia   di  attenuanti  generiche,  di  recidiva,  di  giudizio  di
comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di
prescrizione), nella parte in cui non prevede che, per determinare il
tempo  necessario  a  prescrivere,  debba  tenersi  conto anche della
minima   diminuzione   di   pena  derivante  dall'applicazione  delle
circostanze  attenuanti  per le quali la legge stabilisca una pena di
specie diversa da quella ordinaria e di quelle a effetto speciale.
   Il  rimettente  precisa  che  il  giudizio  a  quo  ha  ad oggetto
un'imputazione per il delitto di ricettazione, nell'ipotesi attenuata
di  cui  al  secondo comma dell'art. 648 cod. pen., commesso in epoca
anteriore  e prossima al novembre del 1997 e che, essendo il processo
nella   fase   antecedente   alla   dichiarazione   di  apertura  del
dibattimento,  al delitto per cui si procede, secondo il disposto del
comma  3  dell'art.  10  della  legge  n. 251  del  2005,  dovrebbero
applicarsi  i  termini  di  prescrizione introdotti dall'art. 6 della
stessa, in quanto piu' favorevoli.
   Il   Giudice   del   Tribunale   di   Roma   premette  di  aderire
all'interpretazione  della  giurisprudenza di legittimita' secondo la
quale  l'ipotesi  di  cui  al  secondo comma dell'art. 648 cod. pen.,
introdotta  dal  legislatore  con  la  legge  22  maggio 1975, n. 152
(Disposizioni a tutela dell'ordine pubblico), non integra un'autonoma
fattispecie  delittuosa, bensi' una circostanza attenuante ad effetto
speciale  che  determina  la  riduzione della pena base da otto a sei
anni di reclusione.
   Il  rimettente  rileva di non poter applicare la riduzione di pena
prevista dalla circostanza attenuante ai fini del calcolo del termine
di  prescrizione,  in  quanto,  a seguito della novella dell'art. 157
cod.  pen.,  introdotta  dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, per
determinare  il tempo necessario a prescrivere, si deve aver riguardo
unicamente  alla  pena  stabilita  per il reato commesso, senza tener
conto   dell'aumento  o  della  diminuzione  della  pena  determinata
dall'eventuale   concorso   di   circostanze,   ad   eccezione  delle
circostanze aggravanti speciali o ad effetto speciale.
   Di  qui  la rilevanza della questione, perche', qualora si potesse
far  riferimento,  ai  fini  del calcolo del termine di prescrizione,
alla  pena  prevista per l'ipotesi attenuata di ricettazione in luogo
di quella ordinaria di cui al primo comma dell'art. 648 cod. pen., il
reato risulterebbe prescritto.
   Il  giudice  a quo ritiene che la modifica introdotta dall'art. 6,
comma 1, della legge n. 251 del 2005 contrasti con l'art. 3 Cost. sia
sotto  il  profilo  del  principio di ragionevolezza che di quello di
uguaglianza.
   Quanto  alla  mancanza di ragionevolezza della norma censurata, il
rimettente  evidenzia  che  il legislatore ha ritenuto di individuare
nella  gravita' del reato e - con un significativo aspetto di novita'
riguardo  al  sistema  normativo  precedente  -  nella  pericolosita'
sociale  dell'imputato  i  criteri  che  consentono  di diversificare
ragionevolmente i termini di prescrizione del reato.
   Egli  ritiene  che  «l'aver  escluso  dal  calcolo  le circostanze
ordinarie,   ha,   praticamente,   privato   il   Giudice   di   ogni
discrezionalita'  nella  quantificazione  della  pena  ai  fini della
prescrizione  e  ha  reso  il  processo  di  determinazione del tempo
necessario  a  prescrivere  quanto  piu' rigido e rigoroso possibile,
introducendo  nell'ordinamento  una  sorta di presunzione iuris et de
iure   di   gravita'  del  reato»  Questa  scelta,  rientrante  nella
discrezionalita'   del  legislatore,  tuttavia,  verrebbe  ad  essere
contraddetta  dalla  stessa  norma allorche' prevede che l'aumento di
pena  previsto dalle circostanze aggravanti ad effetto speciale debba
essere calcolato nella determinazione del termine di prescrizione.
   Secondo  il rimettente, dal momento che il legislatore ha ritenuto
di  ricorrere  ai  massimi  edittali  per determinare la gravita' del
reato  cui,  a  sua  volta,  agganciare  i  termini  differenziati di
prescrizione,   escludendo   dal  calcolo  le  circostanze  ordinarie
(attenuanti   o   aggravanti   che   siano)  e  impedendo,  comunque,
qualsivoglia possibilita' di ricorrere al bilanciamento delle stesse,
la  successiva  scelta  di  utilizzare  contra  reum  le  circostanze
aggravanti  speciali  e  ad  effetto speciale senza tener conto delle
analoghe circostanze attenuanti, non trova alcuna valida spiegazione,
atteso  che  queste  ultime  concorrono  a determinare, al pari delle
prime, la gravita' dell'illecito penale.
   Se,  dunque,  il  legislatore  ha voluto irrigidire il riferimento
alla  gravita'  del  reato,  escludendo  le  circostanze  ordinarie e
valorizzando  solo  le  aggravanti speciali o ad effetto speciale che
incidono  piu'  significativamente sulla pena, una volta operata tale
scelta,  ragionevolmente,  doveva  attribuire  la  medesima rilevanza
anche alle circostanze attenuanti speciali o ad effetto speciale che,
al   pari   delle   prime,  quantunque  in  senso  opposto,  incidono
astrattamente sulla gravita' dell'evento criminoso.
   A  parere  del  Tribunale,  la  disciplina censurata provocherebbe
anche  «ingiustificate  disparita'  di trattamento» laddove, come nel
caso  di  specie,  ogni  reato  attenuato  da  circostanze ad effetto
speciale  verrebbe  a  prescriversi  in  un  termine  di  gran  lunga
superiore  a  quello  stabilito per tutti gli altri delitti puniti in
via   principale   con  la  medesima  pena  stabilita  per  l'ipotesi
delittuosa  attenuata. Disparita' ancora piu' accentuata allorche' si
consideri  l'ipotesi di chi debba rispondere di un delitto variamente
aggravato  da  circostanze ordinarie (di cui non si puo' tenere conto
ai  fini  del  calcolo  del termine di prescrizione) ma punito, nella
figura  base,  con  pena  uguale  a quella prevista per un'ipotesi di
altra  fattispecie  criminosa  attenuata da circostanze speciali o ad
effetto speciale.
   La   citata   evidente   disparita'  di  trattamento,  secondo  il
rimettente,  trasmoda,  in concreto, in un regolamento irrazionale di
identiche  situazioni  sostanziali, con la conseguenza, in termini di
ragionevolezza  che,  nel  caso di specie, l'imputato non potrebbe in
alcun  caso  riportare  una  pena superiore a sei anni di reclusione,
mentre  nei suoi confronti il tempo necessario a prescrivere andrebbe
calcolato  su  una pena massima diversa (quella di anni otto prevista
al primo comma) e, soprattutto, sostanzialmente estranea e, comunque,
inapplicabile alla fattispecie.
   1.2. - E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato, il
quale  ha  chiesto  che  la  questione  sia dichiarata manifestamente
infondata in quanto il rimettente potrebbe fare comunque applicazione
della  circostanza  di  cui al secondo comma dell'art. 648 cod. pen.,
posto  che  -  a  norma dell'art. 10, comma 2, della legge n. 251 del
2005  - e' previsto che la nuova disciplina della prescrizione non si
applichi   nei   procedimenti   in  corso  «se  i  nuovi  termini  di
prescrizione risultano piu' lunghi di quelli previgenti».
   2.  -  Il  Tribunale  di  Salerno,  sezione distaccata di Cava de'
Tirreni, con ordinanza del 24 gennaio 2006 (r.o. n. 192 del 2006), ha
sollevato,  in  riferimento agli artt. 3, 13, 25, comma secondo, 27 e
79 Cost., questione di legittimita' costituzionale dell'art. 6, commi
1  e  4,  della  legge  n. 251 del 2005 nella parte in cui prevede un
sistema di computo dei termini prescrizionali collegato non gia' alla
gravita'   oggettiva   del   fatto,  bensi'  allo  status  soggettivo
dell'imputato;  ha  sollevato,  inoltre,  in  riferimento  all'art. 3
Cost., questione di legittimita' costituzionale dell'art. 6, comma 2,
della  legge  n. 251  del  2005 nella parte in cui non prevede che il
termine  prescrizionale,  nel caso di reato continuato, decorra dalla
data  di  cessazione  della  continuazione  e,  sempre in riferimento
all'art.   3   Cost.,   ha   sollevato   questione   di  legittimita'
costituzionale  dell'art.  10,  comma  3, della legge n. 251 del 2005
nella parte in cui prevede l'applicazione della nuova piu' favorevole
normativa   nei   procedimenti  relativi  a  fatti  antecedenti,  «ad
esclusione dei processi gia' pendenti in primo grado ove vi sia stata
la dichiarazione di apertura del dibattimento».
   Il  rimettente premette in fatto di essere chiamato a giudicare su
di  un'imputazione  relativa a due fatti astrattamente costituenti il
delitto  di  calunnia,  commessi  rispettivamente in data 19 dicembre
1994  e  22  ottobre  1998, ed avvinti, alla stregua dell'imputazione
elevata  dalla pubblica accusa, dal vincolo della continuazione. Egli
precisa  di dover valutare la richiesta della difesa dell'imputato di
applicazione  della  nuova  disciplina  dei  termini  di prescrizione
introdotta  dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005 non essendo stato
ancora  aperto il dibattimento, momento processuale cui e' collegata,
ai  sensi  dell'art.  10,  comma  3,  della stessa legge, l'efficacia
retroattiva della nuova disciplina piu' favorevole.
   In punto di rilevanza, il rimettente evidenzia che, con la riforma
della disciplina della prescrizione introdotta dalla legge n. 251 del
2005 e, in particolare, facendosi applicazione degli artt. 6, commi 1
e  4,  che  rispettivamente  modificano  i  termini di prescrizione e
l'efficacia  degli  atti  interruttivi, dell'art. 6, comma 2, che non
lascia piu' decorrere il termine di prescrizione dal giorno in cui e'
cessata  la continuazione, e dell'art. 10, comma 3, che fa coincidere
la  non  applicabilita' della nuova normativa con la dichiarazione di
apertura  del  dibattimento, quantomeno il primo delitto di calunnia,
commesso  secondo  l'imputazione  in  data 19 dicembre 1994, dovrebbe
ritenersi estinto per intervenuta prescrizione.
   2.1.  -  Quanto  alla  non  manifesta  infondatezza, il rimettente
prende  in  considerazione  innanzitutto l'art. 6, commi 1 e 4, della
legge n. 251 del 2005 che, modificando gli artt. 157 e 161 cod. pen.,
oltre   a   determinare   una   generale  riduzione  dei  termini  di
prescrizione,  disciplina  gli  effetti  dell'interruzione  del corso
della  prescrizione  con  un  prolungamento  del  tempo  necessario a
prescrivere  nel  seguente modo: «un aumento frazionario di un quarto
in  caso di soggetti incensurati, della meta' in caso di imputati cui
sia  applicabile  (o  contestata)  la  recidiva  infraquinquennale  o
specifica  (art.  99 comma 2, c.p.), di due terzi in caso di imputati
cui  sia  applicabile la recidiva plurima (art. 99 comma 4 c.p.), del
doppio  nel  caso  di imputati dichiarati delinquenti abituali (artt.
102 e 103 c.p.) o professionali (art. 105 c.p.)».
   Alla   stregua   della   nuova   normativa,   dunque,  sarebbe  la
personalita'  criminale del reo, desunta dalla recidiva o dallo stato
di   delinquente   abituale   o   professionale,   a  determinare  un
allungamento, anche consistente, dei termini di prescrizione.
   A  parere  del  giudice a quo, il legislatore, nell'adottare quale
criterio   distintivo   degli   effetti  della  proroga  connessa  al
compimento  di  atti interruttivi, non gia' la gravita' oggettiva del
fatto,  come  avveniva  precedentemente,  bensi' lo status soggettivo
dell'imputato,  avrebbe  riesumato  la  logica  del  «diritto  penale
d'autore»,  in  violazione degli artt. 13, 25 e 27 della Costituzione
che  impongono  «un  ordinamento  improntato ai tratti di un "diritto
penale del fatto"».
   Tale  disciplina,  inoltre,  sarebbe irragionevole laddove viene a
collegare   l'allungamento   dei   termini  di  prescrizione  ad  una
situazione di recidiva che puo' maturare anche a distanza di anni dal
fatto a causa della lunghezza dei tempi processuali.
   Il rimettente ritiene, inoltre, che la riforma dettata dalla legge
n. 251  del  2005,  determinando  l'estinzione  generalizzata  di una
molteplicita' di ipotesi di reato a causa della riduzione dei termini
di  prescrizione,  produce, per cio' che concerne la sua applicazione
retroattiva,  l'effetto  tipico  di  una amnistia, con un aggiramento
dell'art.  79  Cost., che, come e' noto, richiede una legge approvata
da  una  maggioranza  parlamentare  dei  due  terzi dei componenti di
ciascuna Camera.
   Infine,  secondo  il  Giudice  a quo, la riduzione consistente dei
termini   di   prescrizione,   poiche'   «impedisce,   di  fatto,  il
perseguimento  e  la  punizione di molteplici fatti di reato, con una
obliterazione della sicurezza collettiva, atteso che i consueti tempi
processuali,   dilatati  all'estremo  da  improvvide  elargizioni  di
"pseudogaranzie"   prive   di   reali  contenuti  difensivi  e  dalla
asfitticita'    dell'organizzazione   giudiziaria»,   violerebbe   il
principio  costituzionale  di  difesa  sociale,  immanente all'intero
sistema  costituzionale,  e  tale da giustificare la pretesa punitiva
dello Stato.
   2.2.  - Il rimettente censura anche l'art. 6, comma 2, della legge
n. 251  del  2005 che ha abrogato l'art. 158 cod. pen. nella parte in
cui  stabiliva  la  decorrenza  dei termini di prescrizione del reato
continuato  dalla  cessazione  della continuazione per violazione del
principio di ragionevolezza.
   Secondo la prospettazione del Tribunale, sarebbe irragionevole, in
presenza  di  una pluralita' di condotte avvinte dal medesimo disegno
criminoso,  prevedere  un  trattamento unitario, allorquando si versi
nell'ambito  del  regime  sanzionatorio,  ed un trattamento distinto,
allorquando   si   versi   in   tema  di  estinzione  del  reato  per
prescrizione,  in quanto la figura del reato continuato non e' frutto
di  una  finzione,  ma  coglie,  al  contrario, l'essenza di un fatto
criminoso unico, sebbene costituito da una pluralita' di condotte.
   2.3.  - Infine il rimettente ritiene che la disciplina transitoria
di  applicazione  della  legge n. 251 del 2005, dettata dall'art. 10,
comma  3,  sia  irragionevole  e  in  contrasto  con  l'art.  3 della
Costituzione.
   A  suo parere, la dichiarazione di apertura del dibattimento e' un
momento  processuale  privo  di  qualsivoglia  connotato  in grado di
giustificare  una  dismissione  della  pretesa  punitiva  non essendo
assimilabile  ne'  all'esercizio  dell'azione penale, ne', tantomeno,
alla  pronuncia  di  una  sentenza  di  condanna in primo grado, atto
autoritativo     che     esprime    l'accertamento    dell'ipotizzata
responsabilita'.
   2.4. - E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  che ha chiesto che siano dichiarate inammissibili, e comunque
infondate, le questioni sollevate dal rimettente.
   Preliminarmente,       l'Avvocatura       generale       eccepisce
l'inammissibilita'  per  difetto  di  rilevanza  della  questione  di
costituzionalita' sollevata dal rimettente in riferimento all'art. 6,
commi  1  e 4, della legge n. 251 del 2005 in quanto, dalla pur breve
descrizione della fattispecie, emerge che l'imputato e' incensurato e
che,  quindi,  dovrebbe  beneficiare del termine di prescrizione piu'
breve,   pertanto,   «venendo   in   considerazione   un'applicazione
favorevole delle nuove disposizioni, e' del tutto incongruo sollevare
una  censura  costituzionale  in ragione di una disparita' formale di
trattamento  che,  comunque,  nel  caso  concreto,  recherebbe sicuro
vantaggio al soggetto de quo».
   Nel merito le restanti questioni sarebbero, invece, infondate.
   Con   riferimento   alla   decorrenza   del  termine  in  caso  di
continuazione  tra  reati,  il  legislatore  avrebbe  inteso adottare
criteri  di calcolo il piu' possibile oggettivi e, d'altra parte, non
vi   sarebbe  contraddizione  tra  disciplina  della  prescrizione  e
trattamento  sanzionatorio,  perche'  gli  episodi  confluenti  nella
continuazione,  se  prescritti,  non  vengono considerati nel computo
della pena per il reato continuato.
   Quanto  infine alla censura riguardante la disciplina transitoria,
il  rimettente  avrebbe trascurato come detta disciplina presenti per
la sua stessa funzione una natura «temporanea», sottraendosi pertanto
alla disciplina della successione tra leggi ed essendo riconducibile,
piuttosto, alla previsione del quarto (recte: quinto) comma dell'art.
2  cod.  pen.:  «la  transitorieta',  che connota quelle disposizioni
destinate  ad  esplicare la propria efficacia per un periodo di tempo
determinato,  ragionevolmente  sottrae le stesse all'applicazione del
principio  del  favor  rei,  e,  altrettanto  ragionevolmente, riduce
l'alea della dispersione processuale».
   3.  -  Il  Giudice  per  le  indagini preliminari del Tribunale di
Padova,  con  ordinanza  del  18 luglio 2006 (r.o. n. 1 del 2007), ha
sollevato:  questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 6,
comma  1,  della legge n. 251 del 2005, in riferimento agli artt. 3 e
111,  secondo  comma,  Cost., nella parte in cui non prevede che, per
determinare  il  tempo necessario a prescrivere, si tenga conto anche
delle  circostanze  aggravanti comuni e delle circostanze attenuanti;
questione  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 6, n. 2 (recte:
dell'art.  6,  comma  2), della legge n. 251 del 2005, in riferimento
all'art.  3  Cost., nella parte in cui esclude che, nel caso di reato
continuato,  il  termine  prescrizionale  decorra  dal  momento della
cessata   continuazione;  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art.  6,  comma  5,  della legge n. 251 del 2005, in riferimento
agli  artt.  3  e  111 della Cost., nella parte in cui prevede che la
maggior   durata   dei   termini  prescrizionali,  in  caso  di  atti
interruttivi,  sia determinata con riguardo alle ipotesi di recidiva,
abitualita'  e professionalita' nel reato - dunque in base a «criteri
meramente  soggettivi»  -  e  nella parte in cui esclude che gli atti
interruttivi  del  corso della prescrizione riguardanti un dato reato
dispieghino  i  loro effetti anche con riferimento ai reati connessi;
questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 10, n. 3 (recte:
dell'art.  10,  comma 3), della legge n. 251 del 2005, in riferimento
agli  artt.  3  e  111 della Cost., nella parte in cui prevede che le
nuove  disposizioni  sulla  prescrizione  siano  applicabili ai reati
perseguiti in procedimenti nei quali, al momento di entrata in vigore
della   legge,   non  sia  stata  ancora  dichiarata  l'apertura  del
dibattimento;     questione     di     legittimita'    costituzionale
dell'applicazione  retroattiva  della  nuova disciplina in materia di
prescrizione, in riferimento all'art. 79 Cost., in quanto si verrebbe
a determinare un'amnistia mascherata.
   3.1.  -  Il  rimettente  precisa di essere chiamato a valutare una
richiesta  di  archiviazione formulata dal pubblico ministero per una
complessa  serie  di  reati,  di cui riporta dettagliatamente il capo
d'imputazione,  riguardanti  piu'  delitti di falsita' ideologica del
pubblico  ufficiale  in  atti pubblici aggravati dal cosiddetto nesso
teleologico  e dall'aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante
gravita'  (artt.  479,  476,  comma  secondo,  61, numeri 2 e 7, cod.
pen.),  il delitto di peculato aggravato dall'aver cagionato un danno
patrimoniale  di  rilevante  gravita' (artt. 314 e 61, numero 7, cod.
pen.),  e, infine, il delitto di interesse privato del curatore negli
atti  del  fallimento  aggravato  dal  cosiddetto nesso teleologico e
dall'aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravita' (art.
228  del  regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 recante «Disciplina del
fallimento,    del    concordato   preventivo,   dell'amministrazione
controllata  e  della  liquidazione  coatta amministrativa», art. 61,
numeri 2 e 7, cod. pen.).
   Tali   delitti   sarebbero   stati   commessi,  secondo  l'ipotesi
accusatoria, tra il febbraio del 1986 e il maggio del 1989.
   Il  giudice,  in punto di rilevanza, osserva che per effetto delle
modifiche  al regime della prescrizione introdotte dalla legge n. 251
del   2005,   tutti   i   reati  risulterebbero  prescritti,  essendo
effettivamente  maturati,  secondo  i criteri riformati di computo, i
relativi  termini  temporali,  mentre,  applicando  correttamente  la
disciplina  della  prescrizione vigente prima della riforma del 2005,
nonostante  si  proceda  a  distanza  di  circa  20  anni  dai fatti,
risulterebbero    intervenuti    diversi    atti   interruttivi   che
impedirebbero  di  ritenere,  per  tutti  i  reati  in contestazione,
decorso il termine ultimo di prescrizione.
   Innanzitutto,  troverebbe applicazione il disposto di cui al primo
comma dell'art. 161 cod. pen., secondo il quale gli atti interruttivi
si  estendono  a  tutti  i  concorrenti nel medesimo reato, ancorche'
processati separatamente ed ancorche' perseguiti, in ipotesi, dopo il
proscioglimento  dell'imputato  nei  cui confronti era diretto l'atto
interruttivo.  In  tal  senso il rimettente richiama, senza indicarne
gli  estremi, quella giurisprudenza della Corte di cassazione secondo
la  quale «gli atti interrutivi della prescrizione compiuti contro un
imputato,  anche  se  assolto,  hanno  effetto  per il loro carattere
oggettivo  anche nei confronti di colui che sia stato successivamente
imputato dello stesso reato».
   Il  Giudice  precisa  che,  nel  caso  di  specie, per il medesimo
delitto  di interesse privato in atti di ufficio, di cui all'art. 228
della legge fallimentare, contestato ad alcuni degli imputati, si era
gia'   tenuto   un  procedimento  penale  a  carico  di  un  presunto
concorrente poi prosciolto. Gli atti di quel processo, analiticamente
indicati dal rimettente, avrebbero prodotto l'effetto di interrompere
la  prescrizione anche nei confronti di coloro ai quali e' contestato
quello stesso reato nel procedimento al suo esame.
   In  secondo  luogo,  il rimettente ritiene che, qualora si potesse
fare applicazione del secondo comma dell'art. 161 cod. pen. nel testo
antecedente    la    riforma,    l'effetto   interruttivo   derivante
dall'applicazione  del  primo comma si estenderebbe anche a tutti gli
altri  reati  ad esso connessi, ricorrendo connessione tanto in senso
soggettivo, quanto in senso oggettivo e «procedimentale».
   Pertanto,  l'accoglimento  delle  censure  implicherebbe l'attuale
perseguibilita'   dei  reati  medesimi  che,  in  applicazione  della
disciplina  precedente,  non sarebbero prescritti, non essendo ancora
trascorso il termine ultimo di ventidue anni e mezzo.
   3.2.  -  Il  rimettente,  prima  di enucleare le ragioni della non
manifesta   infondatezza   delle   singole   censure,   premette  che
l'evoluzione  della  giurisprudenza  della  Corte  costituzionale sul
principio  di  ragionevolezza  e  di  eguaglianza  ha  portato  ad un
progressivo  superamento  dello schema trilaterale cui fa riferimento
la  regola  del tertium comparationis, consentendo anche un sindacato
sulla ragionevolezza intrinseca delle scelte legislative.
   In  tale  ottica, la ragionevolezza e' diventata «parametro di non
contraddittorieta' interna del sistema giuridico», con la conseguenza
che  rientra  ormai  «nel  controllo di costituzionalita' sia l'esame
sulla   contraddittorieta'   della   norma   rispetto   ai   principi
dell'ordinamento  giuridico, sia l'incompatibilita' da norma a norma,
sia  l'incongruita'  dei mezzi rispetto ai fini, sia l'inesistenza di
qualunque giustificazione dell'eccezione rispetto alla regola».
   A  parere  del  rimettente,  tale  giudizio di ragionevolezza, con
riferimento  alla  disciplina  della  prescrizione, deve essere fatto
tenendo  presente i valori costituzionali che sottendono al permanere
della  pretesa  punitiva  da  parte dello Stato. Infatti, l'interesse
dello  Stato  a  reprimere  le condotte criminose non e' costante, ma
varia  in  relazione alla gravita' del fatto-reato e all'intensita' e
alla  natura della lesione causata al bene giuridico tutelato, e, per
tale  ragione, le regole del processo penale devono essere idonee, in
astratto,  ad  evidenziare  tali  differenze  per poter adeguatamente
stabilire  i  criteri  atti  a determinare il permanere della pretesa
punitiva dell'ordinamento.
   La  stessa  Corte  costituzionale,  secondo  il  giudice a quo, ha
affermato  l'esigenza di ancorare il permanere della pretesa punitiva
a  criteri oggettivi, che non possono essere disgiunti dalla gravita'
del  fatto-reato,  al  fine  di  calibrare l'interesse generale dello
Stato a perseguire fatti che, per la modalita' di esecuzione e per la
gravita'  della  lesione inferta al bene tutelato, esigono differenti
termini prescrizionali.
   3.3.  -  Sulla base di queste premesse, il rimettente ritiene che,
per  determinare  il  termine  di prescrizione, debba necessariamente
farsi  riferimento  alla  gravita'  del  fatto-reato  e  che, quindi,
debbano  essere obbligatoriamente considerate tutte le circostanze e,
per  questo motivo, ritiene che l'art. 6, comma 1, della legge n. 251
del  2005,  violi  il principio di ragionevolezza laddove esclude dal
calcolo   l'aumento  o  la  diminuzione  di  pena  determinato  dalle
aggravanti  comuni  e dalle attenuanti. Tale norma «collocat[a] in un
modello    astratto    ed    oggettivo    quale    quello    relativo
all'individuazione  dei criteri atti a stabilire il permanere in vita
della  pretesa  punitiva  dello  Stato», costituirebbe di per se' una
violazione  del principio di eguaglianza, trascendendo dalle potesta'
riservate  in via esclusiva al legislatore. A questo si aggiungerebbe
l'assoluta  abnormita' ed irragionevolezza di operare un sindacato ex
ante  tra le circostanze aggravanti, ritenendo solo quelle speciali o
ad  effetto  speciale  idonee  ad  influire  sulla determinazione del
permanere della pretesa punitiva dello Stato.
   L'incoerenza  intrinseca  della  disciplina  sarebbe  evidenziata,
secondo   il   rimettente,  dall'attuale  equiparazione  dei  termini
prescrizionali per situazioni dalla capacita' lesiva ben diversa come
il  peculato di una somma insignificante (reato attenuato), quello di
una  somma  significativa (reato non circostanziato) ed infine quello
di   una   somma   di  particolare  entita'  (reato  aggravato).  Con
riferimento  al  caso  di  peculato  aggravato  sarebbe  «ragionevole
ipotizzare  una  maggiore  difficolta' e o complicatezza del processo
(nonche'  della fase delle indagini preliminari) tale da giustificare
un  tempo  piu'  lungo a prescrivere, collegata alla maggior gravita'
del fatto-reato per cui si procede».
   3.4.   -   Il   rimettente   ritiene  contrario  al  principio  di
ragionevolezza  anche l'art. 6, comma 5, della legge n. 251 del 2005,
che  disciplina  i  termini  massimi di prescrizione nel caso di atti
interruttivi.  Il  legislatore,  sostituendo il criterio oggettivo da
sempre  previsto  nel  nostro  ordinamento  con un criterio meramente
soggettivo, quale quello della recidiva, avrebbe ideato un meccanismo
del  tutto irrazionale, con una diversificazione del tutto arbitraria
di  situazioni  identiche, non esistendo «principi costituzionali che
giustifichino   una   scelta  operata  sulla  base  di  meri  criteri
soggettivi  senza  essere  ancorata  a  criteri di ordine oggettivo».
Tanto  piu'  dal  momento  che  si  potrebbe  determinare  una  grave
situazione  di incertezza nel caso in cui la recidiva - nella maggior
parte dei casi a contestazione facoltativa - non venga effettivamente
contestata.
   Inoltre,  l'eliminazione dell'estensione dell'effetto interruttivo
del  corso  della  prescrizione  riguardante  un dato reato a tutti i
reati  connessi  sarebbe «irrazionale nonche' irragionevole perche' i
criteri  in  base ai quali determinare il permanere dell'interesse al
perseguimento  dei  reati  non  possono  non far riferimento al fatto
inteso  come  costellazione  di  condotte  di  cui spesso il medesimo
fatto-reato in esame ne rappresenta solo una parte».
   3.5.  -  Un'ulteriore  censura  di  incostituzionalita' e' rivolta
all'art.  6,  comma 2, della legge n. 251 del 2005 nella parte in cui
esclude  che, nel caso di reato continuato, il termine prescrizionale
decorra dal momento della cessata continuazione.
   Ad   avviso  del  giudice  a  quo,  la  natura  stessa  del  reato
continuato,  cosi'  come previsto dal secondo comma dell'art. 81 cod.
pen., impone di considerare come facenti parte di un unico reato piu'
azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso che, anche in tempi
differenti,  violino  la  stessa  o  diverse  disposizioni  di legge.
Pertanto,  non  sembra  logico,  ne'  tanto  meno  coerente,  che  la
disciplina  che regola la decorrenza dei termini prescrizionali possa
dettare  regole che ignorino l'esistenza del reato continuato. Con la
paradossale  conseguenza  «che,  ai fini della consumazione, il reato
continuato   farebbe   riferimento   al  momento  della  consumazione
dell'ultimo  reato;  per contro, per la prescrizione si applicherebbe
la disciplina prevista per il concorso formale di reati».
   Il  rimettente  richiama  anche  la  giurisprudenza costituzionale
secondo  la  quale il reato continuato non e' un istituto ispirato al
favor  rei,  volto  a  mitigare  l'eccessiva  severita'  del concorso
materiale  di reati, bensi' una autonoma figura di reato che trova la
sua  ratio  nell'unicita'  del disegno criminoso (sentenze n. 108 del
1973  e n. 217 del 1972). Se il vincolo che rende unite le differenti
condotte  e'  l'unicita'  del disegno criminoso, come ha precisato la
Corte costituzionale (sentenza n. 254 del 1985), e, per tale ragione,
il  legislatore  ha  deciso  di  punire  non ogni singolo fatto-reato
commesso  ma  il  solo  reato  continuato  nella  sua  unita', appare
necessario  ricollegare  la  decorrenza della prescrizione al cessare
della   continuazione,  in  quanto  la  piu'  recente  manifestazione
dell'unicita'  del  disegno  criminoso  mantiene  fermo o addirittura
acuisce  l'allarme  sociale  su cui si basa la pretesa punitiva dello
Stato.
   Da tali argomentazioni emergerebbe l'irragionevolezza della scelta
del  legislatore  di  non  indicare la cessazione della continuazione
come  dies  a  quo  per  il decorrere del termine di prescrizione del
reato continuato.
   3.6.  -  Il  rimettente  riprende la censura dell'art. 6, comma 1,
osservando,  anche  mediante  una  tabella  comparativa  dei tempi di
prescrizione  di alcuni reati, che, in linea generale, il legislatore
avrebbe  variato  i termini senza assicurare congruenza rispetto alla
gravita'  dei  vari  fatti  criminosi,  elevando  arbitrariamente gli
stessi  termini  solo  per  i  reati di cui agli artt. 449 e 589 cod.
pen.,  e  riducendoli  in modo altrettanto arbitrario per condotte di
gravita' assimilabile.
   3.7.  -  Il  giudice a quo evidenzia che la disciplina transitoria
dettata  dall'art.  10, comma 3, della legge n. 251 del 2005 non pone
alcun  rimedio  ai  vizi di incostituzionalita' da lui evidenziati e,
anzi,  che  e'  essa  stessa  incostituzionale «in quanto correlata a
tutti gli altri profili di incostituzionalita».
   3.8.  -  Infine,  il rimettente, pur dichiarando di condividere la
giurisprudenza  costituzionale  e di legittimita' secondo la quale la
prescrizione   e'   un   istituto  di  carattere  sostanziale  e  non
processuale,   ritiene  che  vi  siano  dei  casi  in  cui  la  Corte
costituzionale    possa    pronunciare    sentenze    che   producano
indirettamente effetti in malam partem.
   Egli  afferma  che «occorre, nell'ambito degli istituti di diritto
sostanziale,  scindere  le  norme  incriminatici dagli altri istituti
che, pur rientrando sempre nell'ambito del diritto sostanziale, se ne
differenziano  tuttavia  in  maniera  essenziale,  non  prevedendo un
particolare  tipo  di  sanzione.  In  tale  ottica, nel mentre non e'
certamente  possibile  pronunciare  una  sentenza in malam partem con
riferimento  alle  norme incriminatrici, a una diversa conclusione si
deve  pervenire relativamente alle altre norme di diritto sostanziale
contenute  nel  codice  penale.  In  tal  caso  infatti  ove la Corte
Costituzionale  dovesse  accogliere  le  questioni  sollevate, con il
ritorno  in vita delle norme previgenti, non si attuerebbe certamente
un  danno  nei  confronti  degli  indagati,  posto  che gli stessi si
troverebbero   a   dover   rispondere  sempre  delle  medesime  norme
incriminatici  contestate,  che  non  sarebbero  certamente state nel
frattempo per nulla modificate».
   3.9.  - Con atti depositati il 23 febbraio 2007 si sono costituite
in  giudizio,  a  mezzo  di  procuratori speciali, rispettivamente la
S.p.r.l.  Prima  Idep  (gia'  Prima  s.r.l.), la S.a. Investissements
Dynamiques   et   prudents  (IDEP),  la  S.a.  Societe'  Generale  de
Sucreries,  in liquidazione; il Patronato Piccoli Azionisti Industria
Zuccheri (PAIZ).
   Le  parti dichiarano di avere interesse a costituirsi nel giudizio
costituzionale perche', in caso di rigetto delle questioni sollevate,
sarebbe  preclusa  la  costituzione  di parte civile nel procedimento
penale  divenendo  automatica l'archiviazione del medesimo e sarebbe,
altresi',   preclusa   l'azione   civile   in  ossequio  ai  principi
giurisprudenziali   di   legittimita'   elaborati   in   materia   di
prescrizione  dell'azione  civile  nel  giudizio  civile ex art. 2947
codice civile.
   Nel   merito,   tutti   gli   atti  di  costituzione  ripercorrono
analiticamente le motivazioni dell'ordinanza del GIP del Tribunale di
Padova  con  espressa  condivisione delle stesse, sia con riferimento
alle  ragioni  della  rilevanza  che  a  quelle  della  non manifesta
infondatezza.
   3.10.  -  In  data  6  marzo  2008  e'  stata  depositata  memoria
nell'interesse di tutte le parti private costituite.
   In  tale atto, da una parte viene presa in esame la giurisprudenza
della  Corte  costituzionale successiva all'ordinanza di rimessione e
in  particolare  la  sentenza  n. 393 del 2006, con la quale e' stata
dichiarata  la  parziale  illegittimita'  costituzionale  del comma 3
dell'art.  10 della legge n. 251 del 2005, e, dall'altra, si affronta
il  problema  del  limite  al sindacato di costituzionalita' in malam
partem.
   Secondo le parti private, la sentenza della Corte n. 393 del 2006,
che  ha  esteso  l'applicazione  delle  nuove  norme  in  materia  di
prescrizione,  ove  piu'  favorevoli,  a  tutti  i  reati antecedenti
l'entrata  in  vigore  della  legge  per  i quali, a tale momento, il
processo  non  sia  pervenuto  al  grado  di  appello  od a quello di
cassazione, ha anche precisato che la retroattivita' della lex mitior
non e' imposta dal dettato costituzionale, e che, in tale materia, il
legislatore e' vincolato solo dall'art. 3 Cost., dovendo discriminare
con   ragionevolezza   tra  le  situazioni  assoggettate  alla  nuova
disciplina e quelle regolate dalla legge precedente.
   Inoltre,  nella memoria si evidenzia che l'odierna questione ha ad
oggetto   l'illegittimita'   costituzionale   «di   tutto  l'impianto
normativo»  e,  dunque,  e'  ben  «possibile  che  una  legge, la cui
applicazione    venga   estesa   attraverso   la   dichiarazione   di
incostituzionalita'  di  una norma transitoria, venga poi caducata in
radice  da  una  declaratoria  di incostituzionalita' della totalita'
della stessa ovvero di gran parte della medesima».
   Le  parti  proseguono  affermando  che  i  limiti  al sindacato di
costituzionalita'  connessi  al  principio  di irretroattivita' delle
norme  penali  riguarderebbero  le  sole  norme  incriminatici  e non
opererebbero  nel  caso  di specie. Sostengono, infatti, che la Corte
costituzionale  non puo' «emettere sentenze additive in malam partem,
creando  tout  court  nuove  fattispecie  di  reato  non previste dal
legislatore, ovvero estendendo quelle esistenti a casi non previsti»,
mentre  la  normativa  avente  ad  oggetto le cause di estinzione del
reato  o  della  pena  sarebbe  «ontologicamente  distinta  da quella
relativa  all'antigiuridicita»,  con  la conseguenza che una verifica
del   dettato   costituzionale   sarebbe   consentita,  entro  limiti
«decisamente piu' ampi».
   A  tal  proposito  gli esponenti richiamano la sentenza n. 394 del
2006  secondo  la  quale  il sindacato di legittimita' costituzionale
sulle   norme   penali  di  favore  e'  ammesso  quando  sussiste  la
specialita'  cosiddetta  «sincronica»  ovvero  quando  sono  poste in
comparazione   due   o   piu'   norme   contemporaneamente   presenti
nell'ordinamento   giuridico.   In  tal  caso,  l'accoglimento  della
richiesta  di  incostituzionalita'  non introdurrebbe norme penali di
sfavore,  limitandosi  ad  eliminare dall'ordinamento la disposizione
illegittima,  ancorche'  piu'  favorevole  al  reo, e determinando di
conseguenza la riespansione della norma generale in parte derogata.
   Un  rapporto del genere sussisterebbe tra l'art. 6, comma 2, della
legge  n. 251  del  2006  che,  ai  fini  del  calcolo del termine di
prescrizione,  ha  escluso la rilevanza del rapporto di continuazione
tra  reati,  e l'art. 81 cod. pen., norma di carattere generale, che,
secondo  gli  esponenti,  «determina  la  data  del  commissi delicti
nell'ultima azione delittuosa contestata».
   Un  ragionamento  sostanzialmente analogo dovrebbe condursi quanto
al  rapporto tra la disciplina processuale della connessione e l'art.
6,  comma  5,  che esclude la rilevanza della connessione nel computo
dei termini prescrizionali.
   Infine,  secondo  gli  esponenti,  il  sindacato  di  legittimita'
dovrebbe  essere  ammissibile  anche nei casi che vengono definiti di
specialita'  «diacronica».  Sarebbe  precluso,  infatti, un raffronto
diretto   tra   norma  abrogata  e  norma  abrogativa,  ma  cio'  non
escluderebbe  il  ripristino della prima quando la seconda risultasse
incoerente  coi  principi  costituzionali: infatti «non puo' accadere
che per via di una rigida interpretazione del concetto di specialita'
cosiddetta  "diacronica" si impedisca di esaminare la norma alla luce
del principio di ragionevolezza».
                       Considerato in diritto
   1.  -  Il  Tribunale  di Roma, in composizione monocratica, dubita
della  legittimita'  costituzionale dell'art. 157, secondo comma, del
codice  penale,  come  novellato  dall'art. 6, comma 1, della legge 5
dicembre  2005,  n. 251  (Modifiche  al codice penale e alla legge 26
luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva,
di  giudizio  di  comparazione  delle  circostanze  di  reato  per  i
recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui non prevede
che,  per  determinare  il  termine  di prescrizione del reato, debba
tenersi  conto  anche  della  minima  diminuzione  di  pena derivante
dall'applicazione  delle circostanze attenuanti per le quali la legge
stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e di quelle
ad effetto speciale.
   Ad  avviso del Giudice rimettente, la norma censurata risulterebbe
incompatibile  con l'art. 3 della Costituzione, essendo irragionevole
che  il legislatore, per determinare la gravita' del reato al fine di
differenziare  i termini di prescrizione, abbia ritenuto di ricorrere
ai  massimi  edittali  escludendo  dal  computo  della pena l'aumento
connesso  alle  circostanze  ordinarie  (attenuanti  o aggravanti che
siano) impedendo, comunque, qualsivoglia possibilita' di ricorrere al
bilanciamento delle stesse, ed abbia poi operato la successiva scelta
di  utilizzare  contra reum le circostanze aggravanti per le quali la
legge  stabilisce  una  pena  di specie diversa da quella ordinaria e
quelle   ad   effetto  speciale  senza  tener  conto  delle  analoghe
circostanze  attenuanti  che  concorrono a determinare, al pari delle
prime, la gravita' dell'illecito penale.
   La   disciplina   censurata  provocherebbe  anche  «ingiustificate
disparita'   di   trattamento»   laddove   ogni  reato  attenuato  da
circostanze ad effetto speciale verrebbe a prescriversi in un termine
di  gran  lunga  superiore  a  quello  stabilito  per tutti gli altri
delitti  puniti  in via principale con la medesima pena stabilita per
l'ipotesi delittuosa attenuata.
   2.  -  Il  Tribunale  di  Salerno,  sezione distaccata di Cava de'
Tirreni,  dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 6, commi
1  e  4, della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui, modificando
gli  artt.  157  e  160  cod. pen., prevede un sistema di computo dei
termini prescrizionali collegato non gia' alla gravita' oggettiva del
fatto, bensi' allo status soggettivo dell'imputato.
   Il  rimettente  ritiene  che la norma censurata, nell'adottare, in
caso  di atti interruttivi, come criterio per determinare il tempo di
prescrizione  dei  reati,  la personalita' criminale del reo, desunta
dalla  recidiva o dallo stato di delinquente abituale o professionale
e non la gravita' oggettiva del reato, contrasti con gli artt. 13, 25
e  27 della Costituzione, i quali impongono un ordinamento improntato
a   un  «diritto  penale  del  fatto».  La  norma,  inoltre,  sarebbe
irragionevole, in violazione dell'art. 3 Cost., anche perche' collega
l'allungamento  dei  termini  di  prescrizione,  in  presenza di atti
interruttivi, ad una situazione di recidiva che puo' maturare anche a
distanza  di  anni  dal  fatto  a  causa  della  lunghezza  dei tempi
processuali.
   Infine, la norma censurata violerebbe il «principio costituzionale
di  difesa  sociale»  immanente  all'intero  sistema costituzionale e
l'applicazione ai fatti pregressi produrrebbe l'effetto tipico di una
amnistia conseguito in violazione dell'art. 79 Cost.
   2.1.  - Il rimettente censura anche l'art. 6, comma 2, della legge
n. 251  del 2005, che ha abrogato l'art. 158 cod. pen. nella parte in
cui  stabiliva  che  i  termini  di prescrizione del reato continuato
decorressero dalla cessazione della continuazione, per violazione del
principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.
   Secondo la prospettazione del Tribunale, sarebbe irragionevole, in
presenza  di  una pluralita' di condotte avvinte dal medesimo disegno
criminoso,  prevedere  un  trattamento unitario, allorquando si versi
nell'ambito  del  regime  sanzionatorio,  ed un trattamento distinto,
allorquando   si   versi   in   tema  di  estinzione  del  reato  per
prescrizione, perche' la figura del reato continuato non e' frutto di
una  finzione,  ma  coglie,  al  contrario,  l'essenza  di  un  fatto
criminoso unico, sebbene costituito da una pluralita' di condotte.
   2.2.  - Infine, il Giudice del Tribunale di Salerno ritiene che la
disciplina  transitoria  di applicazione della legge n. 251 del 2005,
dettata  dall'art.  10, comma 3, sia irragionevole e in contrasto con
l'art. 3 della Costituzione.
   A  suo parere, la dichiarazione di apertura del dibattimento e' un
momento  processuale  privo  di  qualsivoglia  connotato  in grado di
giustificare  una dismissione della pretesa punitiva dello Stato, non
essendo  assimilabile  ne'  all'esercizio  dell'azione  penale,  ne',
tantomeno, alla pronuncia di una sentenza di condanna in primo grado,
atto  autoritativo  che  esprime l'accertamento della responsabilita'
ipotizzata.
   3. - Anche il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di
Padova dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 6, comma 1,
della  legge  n. 251 del 2005, nella parte in cui, modificando l'art.
157 cod. pen., non prevede che, per determinare il tempo necessario a
prescrivere, si tenga conto anche delle circostanze aggravanti comuni
e delle circostanze attenuanti.
   Secondo  il  rimettente,  il  principio  di  ragionevolezza  e  il
principio  del  giusto  processo,  di  cui  agli  artt. 3 e 111 Cost,
impongono che sia assicurata la miglior corrispondenza tra il termine
massimo  di  prescrizione  e le caratteristiche oggettive di gravita'
del  fatto-reato  mediante  la  valutazione di tutti gli elementi che
incidono  sulla  quantificazione  edittale  della  pena, ivi comprese
tutte le circostanze, attenuanti e aggravanti.
   3.1.  -  Il  Giudice  per le indagini preliminari del Tribunale di
Padova,  inoltre,  censura,  in relazione all'art. 3 Cost., l'art. 6,
comma  2, della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui modificando
l'art.  158  cod. pen., esclude che, nel caso di reato continuato, il
termine    prescrizionale   decorra   dal   momento   della   cessata
continuazione.  Tale  scelta  sarebbe in contraddizione con la natura
stessa del reato continuato, cosi' come prevista dall'art 81, secondo
comma,  cod. pen., che impone di considerare come facenti parte di un
unico  reato  piu'  azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso
che,   anche  in  tempi  differenti,  violino  la  stessa  o  diverse
disposizioni  di legge. Inoltre, facendo riferimento alle ragioni che
giustificano  la conservazione della pretesa punitiva dello Stato, la
piu'  recente  manifestazione  dell'unicita'  del  disegno  criminoso
manterrebbe  fermo  o  addirittura acuirebbe l'allarme sociale su cui
essa si basa.
   3.2.  -  Un'ulteriore censura sempre in relazione all'art. 3 Cost.
investe  l'art.  6,  comma  5,  della  legge  n. 251 del 2005, che ha
modificato  l'art.161  cod.  pen.,  nella parte in cui prevede che la
maggior   durata   dei   termini  prescrizionali,  in  caso  di  atti
interruttivi,  sia determinata con riguardo alle ipotesi di recidiva,
abitualita'  e professionalita' nel reato - dunque in base a «criteri
meramente  soggettivi»  -  e  nella parte in cui esclude che gli atti
interruttivi  del  corso della prescrizione riguardanti un dato reato
dispieghino  i  loro effetti anche con riferimento ai reati connessi.
Sarebbe  contrario  al principio di ragionevolezza l'aver adottato un
criterio  meramente  soggettivo,  quale  quello  della  recidiva, che
diversifica situazioni identiche in maniera del tutto arbitraria, non
esistendo  «principi  costituzionali  che  giustifichino  una  scelta
operata sulla base di meri criteri soggettivi senza essere ancorata a
criteri di ordine oggettivo».
   Inoltre, l'eliminazione del principio dell'estensione dell'effetto
interruttivo del corso della prescrizione riguardante un dato reato a
tutti  i  reati  connessi  sarebbe «irrazionale nonche' irragionevole
perche'   i  criteri  in  base  ai  quali  determinare  il  permanere
dell'interesse  al  perseguimento  dei  reati  non  possono  non  far
riferimento  al  fatto  inteso  come costellazione di condotte di cui
spesso  il  medesimo  fatto-reato  in  esame  ne rappresenta solo una
parte».
   3.3.  -  Infine un'ultima censura e' rivolta all'art. 10, comma 3,
della  legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede che le nuove
disposizioni sulla prescrizione siano applicabili ai reati perseguiti
in  procedimenti  nei  quali,  al  momento di entrata in vigore della
legge,  non  sia stata ancora dichiarata l'apertura del dibattimento.
Tale  disposizione  transitoria,  comportando l'applicazione di norme
illegittime  anche  con  riguardo  a  reati  commessi in precedenza e
producendo   un  vulnus  per  gli  interessi  delle  persone  offese,
violerebbe   gli   artt.  3  e  111,  secondo  comma,  Cost.  Infine,
l'applicazione  retroattiva  della  nuova  disciplina  in  materia di
prescrizione   determinerebbe  un'amnistia  mascherata,  adottata  in
violazione delle modalita' previste dall'art. 79 Cost.
   4.  -  Essendo  le  questioni sollevate di analogo contenuto, deve
essere  disposta  la  riunione  dei  relativi  giudizi ai fini di una
trattazione unitaria e di un'unica decisione.
   5.  -  Le  censure  prospettate  sia  dal giudice del Tribunale di
Salerno  che dal g.i.p. del Tribunale di Padova in merito all'art. 6,
comma  2, della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui non prevede
che  il termine prescrizionale, nel caso di reato continuato, decorra
dalla data di cessazione della continuazione, sono inammissibili.
   Il  rimettente padovano, a differenza del Giudice del Tribunale di
Salerno,  che  non fornisce motivazioni in ordine alla sindacabilita'
in  malam  partem  delle  norme  penali,  ritiene  che  il  limite al
sindacato  di  costituzionalita'  cui  e' sottoposta questa Corte nel
caso  in  cui  si  invochi  una pronuncia additiva in malam partem in
materia  penale  non  operi  con  riferimento  alla  disciplina della
prescrizione.
   Secondo   la   ricostruzione  del  GIP  del  Tribunale  di  Padova
occorrerebbe  «scindere  le  norme incriminatici dagli altri istituti
che, pur rientrando sempre nell'ambito del diritto sostanziale, se ne
differenziano  tuttavia  in  maniera  essenziale,  non  prevedendo un
particolare   tipo   di  sanzione.  In  tale  ottica,  ove  la  Corte
costituzionale  dovesse  accogliere  le  questioni  sollevate, con il
ritorno  in  vita  delle norme previgenti, non si attuerebbe un danno
nei  confronti degli indagati, posto che gli stessi si troverebbero a
dover   rispondere   sempre   delle   medesime   norme  incriminatici
contestate, che non sarebbero state per nulla modificate».
   Il  rimettente  trascura  di  considerare,  anche  al solo fine di
confutarla,  la  costante giurisprudenza di questa Corte che, in piu'
occasioni,  ha  ribadito  che  il  principio  della  riserva di legge
sancito  dall'art.  25,  secondo  comma,  Cost.  rende  inammissibili
pronunce  il  cui  effetto  possa  essere  quello di introdurre nuove
fattispecie  criminose,  di  estendere  quelle  esistenti  a casi non
previsti,  o, comunque, «di incidere in peius sulla risposta punitiva
o  su  aspetti  inerenti  alla  punibilita',  aspetti  fra  i  quali,
indubbiamente,   rientrano   quelli   inerenti  la  disciplina  della
prescrizione e dei relativi atti interruttivi o sospensivi» (sentenza
n. 394 del 2006 e ordinanza n. 65 del 2008).
   Pertanto  la  pronuncia  che  il  rimettente  sollecita, mirando a
introdurre  nuovamente quale dies a quo per il decorso del termine di
prescrizione,   in   caso  di  reato  continuato,  il  momento  della
cessazione  della  continuazione,  esorbita  dai  poteri  spettanti a
questa  Corte,  a  cio'  ostando  il principio della riserva di legge
sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost., in base al quale «nessuno
puo'  essere  punito  se non in forza di una legge che sia entrata in
vigore  prima  del  fatto  commesso»:  principio  che  demanda in via
esclusiva  al  legislatore  la scelta dei fatti da sottoporre a pena,
delle   sanzioni  loro  applicabili  e  del  complessivo  trattamento
sanzionatorio  (ex plurimis, tra le ultime, sentenze n. 161 del 2004,
n. 49  del  2002 e n. 508 del 2000; ordinanze n. 164 del 2007, n. 187
del 2005, n. 580 del 2000 e n. 392 del 1998).
   Al  riguardo,  non puo' essere condivisa la tesi prospettata dalla
difesa   delle  parti  private  secondo  cui,  nel  caso  di  specie,
troverebbero  applicazione i principi affermati da questa Corte nella
sentenza n. 394 del 2006 che ha ritenuto suscettibili di sindacato di
costituzionalita'  le  cosiddette  norme  penali  di favore, ossia le
norme  «che  stabiliscono,  per  determinati  soggetti  o ipotesi, un
trattamento  penalistico  piu'  favorevole di quello che risulterebbe
dall'applicazione di norme generali o comuni».
   Il   presupposto   necessario  per  l'ammissibilita'  di  un  tale
sindacato  e' che tra le norme poste a raffronto sussista un rapporto
di  specialita'  e  che  le  stesse siano contemporaneamente presenti
nell'ordinamento  giuridico.  In tali casi, questa Corte ha affermato
che  l'eventuale effetto in malam partem non deriva dall'accoglimento
della richiesta di incostituzionalita' della norma piu' favorevole al
reo,  ma dall'automatica «riespansione» della norma generale derogata
(fermo  restando  il  divieto  di applicazione del regime penale piu'
severo ai fatti commessi sotto il vigore della norma di favore).
   Secondo  le  parti  private,  potrebbe individuarsi un rapporto di
specialita'  e  di  contemporanea presenza nell'ordinamento giuridico
tra l'art. 6, comma 2, della legge n. 251 del 2005, che ha escluso la
rilevanza del rapporto di continuazione tra reati ai fini del calcolo
del  dies  a quo del decorso del termine di prescrizione e l'art. 81,
secondo  comma,  cod.  pen.  che  «determina la data commissi delicti
nell'ultima azione delittuosa contestata».
   Tale  ricostruzione  non e' fondata, essendo evidente che la norma
censurata  non  ha  natura  di  norma di favore e non contiene alcuna
limitazione  dell'efficacia  dell'art.  81, secondo comma, cod. pen.,
ne'  di  altre  norme  contemporaneamente  presenti  nell'ordinamento
giuridico. L'art. 6, comma 2, infatti, nel modificare l'art. 158 cod.
pen.,  che  individua  i termini di decorrenza della prescrizione dei
reati  consumati  o  tentati,  si  limita  a  sopprimere le parole «o
continuato»   e  «o  continuazione»  dal  testo  precedente,  mentre,
diversamente  da  quanto affermato nella memoria di parte, l'art. 81,
secondo  comma,  cod.  pen.  non  fa  alcun riferimento al momento di
consumazione  del  reato continuato, limitandosi a stabilire che tale
fattispecie  e'  integrata  anche  nel caso di violazioni commesse in
tempi diversi, ne' prevede alcunche' circa la prescrizione dei reati.
Pertanto, non sussistendo alcun rapporto di specialita' tra l'art. 6,
comma 2, della legge n. 251 del 2005 e l'art. 81, secondo comma, cod.
pen.,   e'  erroneo  ritenere  che,  al  venir  meno  del  primo,  si
riespanderebbe,  come  effetto  automatico, il secondo. Si tratta, in
sostanza,  di  previsioni  che  disciplinano  aspetti  diversi  della
fattispecie del reato continuato.
   D'altra  parte  questa  Corte,  nella sentenza n. 394 del 2006, ha
espressamente escluso che la qualificazione di norma penale di favore
«possa  esser fatta discendere dal raffronto tra una norma vigente ed
una   norma   anteriore,   sostituita  dalla  prima  con  effetti  di
restringimento  dell'area  di rilevanza penale o di mitigazione della
risposta punitiva. In tal caso, difatti, la richiesta di sindacato in
malam  partem  mirerebbe non gia' a far riespandere la portata di una
norma   tuttora   presente   nell'ordinamento,   quanto  piuttosto  a
ripristinare   la   norma   abrogata,   espressiva   di   scelte   di
criminalizzazione  non  piu'  attuali: operazione, questa, senz'altro
preclusa alla Corte, in quanto chiaramente invasiva del monopolio del
legislatore  su  dette  scelte (sentenze n. 330 del 1996 e n. 108 del
1981; ordinanza n. 175 del 2001)».
   Nella  specie,  peraltro,  non  soltanto  manca il requisito della
contemporanea  presenza  delle  due  norme  poste  a raffronto, ma la
disposizione  speciale e' quella abrogata, e non gia' quella di nuovo
conio.  Il  previgente  articolo  158  cod.  pen. recava, infatti - a
fianco  della  regola  generale per cui il termine della prescrizione
decorre dal giorno della consumazione del reato (o, nel caso di reato
tentato,  dal giorno della cessazione dell'attivita' del colpevole) -
una  regola  specifica,  e meno favorevole per il reo, concernente il
reato continuato (vale a dire che il termine decorre dalla cessazione
della  continuazione:  con  l'effetto di allineare il dies a quo, per
tutti  i reati legati da tale vincolo, a quello valevole per l'ultimo
di  essi). La riforma ha soppresso tale previsione specifica rendendo
applicabile    la    regola   generale   anche   nell'ipotesi   della
continuazione,  onde  e'  del  tutto evidente come - contrariamente a
quanto  assumono le parti private - il petitum del giudice rimettente
non sia affatto finalizzato alla «riespansione» di una norma generale
derogata  (non  rinvenibile,  come  detto,  nel disposto dell'art. 81
secondo  comma, cod. pen., peraltro neppure a questi fini evocato dal
giudice  a  quo);  ma  miri  direttamente  al ripristino di una norma
speciale sfavorevole ormai abrogata.
   5.1.  - Le stesse argomentazioni valgono in relazione alla censura
mossa  dal  g.i.p. del Tribunale di Padova all'art. 6, comma 5, della
legge  n. 251  del  2005 nella parte in cui, modificando il testo del
secondo   comma  dell'art.  161  cod.  pen.,  esclude  che  gli  atti
interruttivi  del corso della prescrizione riguardanti un determinato
reato  dispieghino  i  loro  effetti  anche  con riferimento ai reati
connessi.
   Anche  in  questo  caso,  la questione e' inammissibile perche' si
chiede una pronuncia in malam partem non consentita alla Corte per il
principio della riserva di legge sancito dall'art. 25, secondo comma,
Cost.
   6.   -   Del  pari  inammissibili  sono  le  questioni  sollevate,
rispettivamente, dal Tribunale di Salerno (sezione distaccata di Cava
de'  Tirreni)  in  merito all'art. 6, commi 1 e 4, della legge n. 251
del  2005,  nella  parte  in  cui  assegna importanza prevalente allo
status  soggettivo  del  reo e non alla gravita' oggettiva del fatto,
prevedendo un prolungamento dei termini piu' cospicuo in caso di atti
interruttivi   riguardanti   delinquenti  recidivi,  abituali  o  per
tendenza,  e dal g.i.p. del Tribunale di Padova in ordine all'art. 6,
comma  5, della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede che
la  maggior  durata  dei  termini  prescrizionali,  in  caso  di atti
interruttivi,  sia determinata con riguardo alle ipotesi di recidiva,
abitualita'  e  professionalita' nel reato, dunque in base a «criteri
meramente soggettivi».
   Entrambe  le questioni presentano un petitum oscuro, ancipite e di
difficile   determinazione,   che   gia'  di  per  se'  e'  causa  di
inammissibilita'   delle   stesse.  Non  e'  chiaro,  infatti,  se  i
rimettenti  vogliano censurare la norma nella parte in cui determina,
per  i  soli  recidivi, un allungamento dei termini di prescrizione o
se,  al  contrario,  ritengano  che  l'allungamento  previsto  per  i
recidivi, in caso di atti interruttivi, debba essere esteso a tutti.
   La  giurisprudenza  di questa Corte e' costante nell'affermare che
«il  carattere  oscuro, ancipite e indeterminato del petitum rende la
questione   manifestamente  inammissibile»  (ex  plurimis,  ordinanze
n. 187  del  2004  e  n. 210  del  2002;  con riguardo alle questioni
prospettate in forma ancipite, ordinanze n. 363 del 2005 e n. 382 del
2004).
   Vi  sono comunque ulteriori, specifici motivi di inammissibilita',
qualsiasi interpretazione si voglia dare alla censura dei rimettenti.
   Nel  primo caso, infatti, la questione prospettata non rileverebbe
nei  giudizi  a  quibus,  in quanto a nessuno degli imputati e' stata
contestata la recidiva, sicche' i rimettenti non sono chiamati a dare
applicazione   alla   norma   nella   parte   dagli  stessi  ritenuta
irragionevole.
   Nella    seconda   ipotesi,   invece,   avendo   la   censura   di
irragionevolezza lo scopo di estendere ai non recidivi gli effetti di
allungamento  dei  termini  di  prescrizione dei reati prevista per i
recidivi   in   caso  di  atti  interruttivi,  troverebbe  nuovamente
applicazione  il  limite  al  sindacato di costituzionalita' in malam
partem delle norme penali.
   7.  -  La  questione  di  costituzionalita' dell'art. 10, comma 3,
della legge n. 251 del 2005 nella parte in cui prevede l'applicazione
delle  norme  contenute  nell'art.  6  della  medesima  legge ai soli
procedimenti  penali  in  cui non sia stata dichiarata l'apertura del
dibattimento,  sollevata sia dal Giudice del Tribunale di Salerno che
dal g.i.p. del Tribunale di Padova, e' inammissibile sotto molteplici
profili.
   Il  primo  motivo  di  inammissibilita' in ordine logico e' che in
entrambi  i  casi  il  petitum  e'  oscuro,  ancipite  e di difficile
determinazione.  Sotto  altro  aspetto,  poi,  le motivazioni, sia in
ordine  alla  rilevanza che alla non manifesta infondatezza, sono del
tutto generiche.
   Va  premesso  che  la  norma censurata costituisce una deroga alla
regola generale della applicazione retroattiva della nuova disciplina
della prescrizione, in quanto piu' favorevole al reo.
   E'  pacifico,  infatti,  che  la  prescrizione,  quale istituto di
diritto  sostanziale,  e' soggetta alla disciplina di cui all'art. 2,
quarto  comma,  cod.  pen.  che  prevede  la  regola  generale  della
retroattivita' della norma piu' favorevole, in quanto «il decorso del
tempo  non  si  limita  ad  estinguere l'azione penale, ma elimina la
punibilita'  in se' e per se', nel senso che costituisce una causa di
rinuncia  totale dello Stato alla potesta' punitiva» (sentenza n. 393
del 2006) .
   D'altra  parte,  questa  Corte  ha  gia'  dichiarato  parzialmente
illegittima  la norma de qua ritenendo che essa limitasse in modo non
ragionevole il principio della retroattivita' della legge penale piu'
mite  in violazione dell'art. 3 della Costituzione. In tale occasione
si  e' ribadito che «per le leggi in esame l'applicazione retroattiva
e' la regola e tale regola e' derogabile solo in presenza di esigenze
tali  da  prevalere  su  un  principio  il  cui  rilievo,  si e' gia'
osservato, non si fonda soltanto su una norma, sia pure generale e di
principio,  del  codice penale» ma che assume carattere di «principio
generale  dell'ordinamento  comunitario,  desunto dal complesso degli
ordinamenti  giuridici  nazionali  e  dei trattati internazionali dei
quali  gli  Stati  membri sono parti contraenti» (sentenza n. 393 del
2006  che  espressamente cita la sentenza della Corte di Giustizia, 3
maggio 2005, C-387/02, C-391/02 e C-403/02).
   Dalla  motivazione  dei  rimettenti,  come  si  e' detto del tutto
generica  e contraddittoria, non e' possibile comprendere perche' gli
stessi ritengano irragionevole la norma transitoria, non nel senso di
costituire   un'illegittima   eccezione   a   un  principio  generale
dell'ordinamento,  come  sottolineato da questa Corte con la sentenza
n. 393  del  2006,  ma,  nel  senso opposto, di costituire una deroga
eccessivamente limitata a tale principio.
   In  definitiva,  i  giudici  a  quibus,  lungi  dal  lamentare una
violazione  del  principio  dell'applicazione  retroattiva  della lex
mitior,  sembrano voler estendere la deroga al favor rei anche a casi
non  contemplati  dal legislatore e, tuttavia, si limitano a chiedere
la  declaratoria  di incostituzionalita' dell'art. 10, comma 3, della
legge n. 251 del 2005, non argomentando in alcun modo in ordine a una
soluzione  «costituzionalmente obbligata» che imporrebbe di estendere
la deroga al principio della efficacia retroattiva della legge penale
piu'   mite,   prevista  dalla  disciplina  transitoria,  a  tutti  i
procedimenti  pendenti  prima  dell'entrata  in vigore della legge di
riforma.
   A   questo  motivo  di  inammissibilita'  si  aggiunge,  anch'esso
preliminarmente   alla  valutazione  sulla  non  fondatezza  e  sulla
sussistenza del limite alle pronunce additive in malam partem, quello
derivante  dalla  considerazione  che  la  richiesta  declaratoria di
incostituzionalita'   dell'art.   10,  comma  3,  cosi'  come  posta,
determina  un'insanabile  contraddizione  tra  le  argomentazioni che
vengono   sviluppate   nelle   ordinanze   e   gli   effetti  che  si
determinerebbero a seguito della mancata prospettazione di un petitum
che  possa  soddisfare le formulate censure. Dato, infatti, il valore
di  eccezione  alla previsione contenuta nel quarto comma dell'art. 2
cod. pen. della disposizione transitoria impugnata, la caducazione di
quest'ultima  determinerebbe l'effetto (paradossale per i rimettenti)
di   estendere   l'applicazione   della  nuova  disciplina  contenuta
nell'art.  6  della legge n. 251 del 2005 a tutti i fatti per i quali
non sia intervenuta pronuncia passata in giudicato.
   Deve,  del  pari, respingersi l'argomentazione delle parti private
volta  a sostenere che la Corte, nella ricordata decisione n. 393 del
2006, si sarebbe pronunciata solo in merito alla ragionevolezza della
soglia specifica individuata dal legislatore per la limitazione degli
effetti  retroattivi  della nuova legge e che la valutazione circa la
costituzionalita'   del   suo   impianto  generale  sarebbe,  quindi,
impregiudicata. In realta', questa Corte non si e' limitata, con tale
sentenza,  a  sindacare  la  scelta  del legislatore circa il momento
processuale  da  cui  applicare  o  meno  retroattivamente  la  nuova
normativa,  ma  ha  affermato,  in  via  di  principio, che la regola
generale  dell'applicazione  della  lex  mitior e' derogabile solo in
funzione  della  tutela  di interessi di non minore rilevanza, tutela
che non ha ritenuto esservi laddove il limite alla retroattivita' era
stato  fissato  nell'apertura  del  dibattimento,  ma  che  ha invece
ravvisato  nell'avvenuto  passaggio  all'ulteriore  grado di giudizio
(sentenza n. 72 del 2008).
   8.  -  Il Tribunale di Salerno censura anche il combinato disposto
degli  artt.  6,  commi  1 e 4, e 10, comma 3, della legge n. 251 del
2005,   perche'   la   generalizzata   diminuzione   dei  termini  di
prescrizione,  per  effetto  dell'applicazione  ai fatti pregressi ai
sensi della norma transitoria, costituirebbe una forma dissimulata di
amnistia in violazione dell'art. 79 Cost.
   Allo  stesso  modo  il GIP del Tribunale di Padova ritiene che gli
effetti  complessivi  della  riforma,  che  non  vengono attribuiti a
specifiche  disposizioni  legislative,  costituiscano una amnistia in
forma mascherata.
   Le censure non sono fondate.
   Questa Corte in piu' occasioni ha ribadito che l'amnistia (al pari
dell'indulto)  e'  una  particolarissima causa d'estinzione dei reati
(misura   di  clemenza  generalizzata)  che  incide  «soltanto  sulla
punibilita',  principale  ed  "accessoria", sull'applicabilita' delle
misure  di  sicurezza,  e  sulle  obbligazioni  civili  per l'ammenda
relative  ai  fatti  tipici,  commessi  in un circoscritto periodo di
tempo,  anteriore  alla  proposta di delegazione» mentre gli «effetti
penali  ("e  non") determinati dalla legge incriminatrice permangono,
invece,  tutti,  intatti,  in relazione a tutti i fatti, precedenti e
successivi,  non rientranti nel periodo beneficiato» (sentenza n. 369
del 1988).
   E'  del  tutto  evidente  che  la norma che abroga o riformula una
norma  incriminatrice o una ipotesi di estinzione del reato, quale la
prescrizione,  non  presenta alcuna delle caratteristiche proprie dei
provvedimenti  di  amnistia, prima fra tutte l'efficacia limitata nel
tempo, essendo invece destinata a disciplinare in via stabile tutti i
fatti  successivi  alla  sua  entrata  in  vigore,  salvo gli effetti
retroattivi    piu'    favorevoli   al   reo   derivanti,   peraltro,
dall'operativita' della regola generale.
   Risulta del tutto inconferente, pertanto, il richiamo all'istituto
dell'amnistia.
   9.  -  La  questione  di  costituzionalita' dell'art. 157, secondo
comma,  del codice penale, come novellato dall'art. 6, comma 1, della
legge  n. 251  del  2005,  nella  parte  in  cui  non prevede che per
determinare  il  tempo  necessario a prescrivere si tenga conto anche
delle  circostanze  attenuanti  per  le quali la legge stabilisce una
pena  di  specie  diversa  da quella ordinaria e di quelle ad effetto
speciale,  sollevata  dal  Giudice  del  Tribunale  di  Roma,  non e'
fondata.
   La  scelta  di  considerare,  ai  fini  del calcolo del termine di
prescrizione   dei   reati,   solo   l'aumento   di   pena  derivante
dall'applicazione   delle   circostanze   aggravanti  con  previsione
speciale  di  pena  o  ad  effetto  speciale  e non la corrispondente
diminuzione  derivante dall'applicazione delle circostanze attenuanti
della  stessa  natura  e'  espressione  del legittimo esercizio della
discrezionalita'  legislativa  e  non  trasmoda in una violazione del
principio di ragionevolezza.
   La  legge  n. 251  del  2005,  nel  riformare  la disciplina della
prescrizione, ha confermato la tendenziale correlazione, gia' accolta
nel  codice  del  1930,  tra  il  tempo necessario a prescrivere e la
gravita'  del  reato, ancorando il criterio per la determinazione del
termine  di  prescrizione  del reato alla sanzione per esso prevista,
indice  del suo maggiore o minore disvalore. Il primo comma dell'art.
157  cod. pen. novellato collega, infatti, il termine di prescrizione
alla misura della pena massima edittale.
   Nel   dettare   tali   regole,   il  legislatore  puo',  peraltro,
nell'esercizio  della  propria  discrezionalita',  ponderare  i  vari
interessi  coinvolti dalla complessa disciplina della prescrizione e,
cio'  facendo,  puo'  anche  escludere  la  considerazione  di alcuni
fattori,  pure  suscettibili di incidere sull'entita' della pena, con
il solo limite costituito dalla non irragionevolezza di tale scelta.
   In  siffatta  prospettiva, non puo' considerarsi irragionevole che
il  legislatore  abbia  ritenuto che la rinuncia a perseguire i fatti
criminosi  debba  essere rapportata alla gravita' del reato nella sua
massima  ipotizzabile  esplicazione  sanzionatoria  prevista  per  la
fattispecie  base  e  sul massimo aumento di pena previsto per quelle
circostanze  aggravanti  -  quelle  a  effetto  speciale e quelle che
comportano  un  mutamento  qualitativo  della  pena  - che, cogliendo
elementi  del  fatto  connotati  da una maggiore idoneita' a incidere
sull'ordinaria  fisionomia  dell'illecito, comportano una eccezionale
variazione del trattamento sanzionatorio.
   L'esclusione  della considerazione delle attenuanti e' conseguente
alla  scelta  del legislatore in favore di un criterio di misurazione
del  tempo  necessario  a  prescrivere  in  grado di evitare che solo
successivamente  all'accertamento  del fatto, in sede di decisione di
merito,  si pervenga, per effetto del riconoscimento e dell'eventuale
giudizio  di  comparazione  tra  circostanze di segno opposto, ad una
pronuncia  di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, con
conseguente  inutilita' dell'attivita' processuale svolta; nonche' in
grado  di  evitare  che  la determinazione del termine prescrizionale
venga  a  dipendere  da  valutazioni  giudiziali  ad  alto  tasso  di
discrezionalita'  quale,  in  particolare,  quella  che  presiede  al
bilanciamento tra circostanze eterogenee.
   Infatti,  secondo  un principio di elaborazione giurisprudenziale,
assurto  al rango di vero e proprio «diritto vivente», per effettuare
il giudizio di comparazione tra circostanze di segno opposto e, ancor
prima,  per la stessa valutazione sulla sussistenza delle circostanze
attenuanti,  era  necessario  svolgere  interamente  il processo, non
essendo   possibile  riconoscere  la  sussistenza  delle  circostanze
attenuanti  ed  effettuare  il  cosiddetto  «bilanciamento»  previsto
dall'articolo 69 del codice penale, se non alla fine dell'istruttoria
dibattimentale (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 4
novembre 1997 n. 4319; sezione quinta penale, sentenza 13 luglio 1993
n. 2710; sezione prima penale, ordinanza 15 aprile 1998 n. 2110) .
   E',  quindi,  non  irragionevole  la  scelta  del  legislatore  di
adottare  un  criterio  predeterminato e astratto chiamato ad operare
anche    prima    del    giudizio,   e   comunque   indipendentemente
dall'accertamento  in  fatto,  il quale e', invece, necessario per il
riconoscimento della sussistenza delle circostanze attenuanti.
   Le  considerazioni sopra svolte escludono che possano ritenersi in
contrasto  con  il  principio  di  uguaglianza le differenziazioni di
trattamento prospettate nell'ordinanza di rimessione.
   9.1.  -  Per  gli  stessi  motivi sopra evidenziati non e' fondata
l'analoga  questione di costituzionalita' dell'art. 6, comma 1, della
legge  n. 251 del 2005, sollevata dal g.i.p. del Tribunale di Padova,
nella  parte  in  cui  non  prevede  che,  per  determinare  il tempo
necessario  a  prescrivere,  si  tenga  conto anche delle circostanze
aggravanti comuni e delle circostanze attenuanti.
   A  prescindere  da ogni altro possibile rilievo circa i limiti dei
poteri  di  questa  Corte allorche' si discuta di interventi in peius
sulla  disciplina  della  prescrizione,  come si determinerebbero dal
riconoscimento  della possibilita' di calcolare anche l'incidenza che
sulla  pena  ha l'applicazione delle circostanze ordinarie del reato,
va ribadito, per le ragioni sopra esposte, che la norma censurata non
e'   irragionevole,  in  quanto  volta  a  stabilire  tempi  certi  e
predeterminati di prescrizione dei reati.