Setenza
nei  giudizi  di legittimita' costituzionale dell'art. 434 del codice
penale,  promossi con n. 2 ordinanze del 12 dicembre 2006 dal Giudice
dell'udienza  preliminare  del  Tribunale di Santa Maria Capua Vetere
nei  procedimenti penali a carico di R. E. e C. F. ed altri, iscritte
ai  nn.  453  e  658  del  registro ordinanze 2007 e pubblicate nella
Gazzetta  Ufficiale  della Repubblica nn. 24 e 38, 1ª serie speciale,
dell'anno 2007.
   Visti  gli  atti  di  intervento  del Presidente del Consiglio dei
ministri;
   Udito  nella  Camera  di  consiglio  del 25 giugno 2008 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
                          Ritenuto in fatto
   1.1.  -  Con  le  due  ordinanze  indicate in epigrafe, di analogo
tenore,  il  Giudice  dell'udienza preliminare del Tribunale di Santa
Maria  Capua  Vetere  ha  sollevato,  in  riferimento  agli artt. 25,
secondo  comma,  24  e  27 della Costituzione - parametri, gli ultimi
due,   evocati  solo  in  motivazione  -  questione  di  legittimita'
costituzionale  dell'art.  434  del codice penale, nella parte in cui
punisce   chiunque,   «fuori   dei   casi  preveduti  dagli  articoli
precedenti,  commette  un  fatto  diretto  a cagionare [...] un altro
disastro,  [...]  se  dal  fatto  deriva  pericolo  per  la  pubblica
incolumita».
   Il  giudice a quo premette di essere investito del processo penale
nei  confronti  di  persone imputate, tra l'altro, del reato previsto
dalla  norma  censurata,  per  avere causato dolosamente un «disastro
ambientale»  in  un'ampia  zona  territoriale,  utilizzando  -  nella
gestione  di  un  traffico  illecito  di  rifiuti  - numerosi terreni
agricoli  come  discariche  abusive  di un'imponente massa di rifiuti
pericolosi, «estremamente inquinanti il terreno e l'ecosistema».
   Ad avviso del rimettente, l'art. 434 cod. pen., nella parte in cui
contempla  la  figura  delittuosa del cosiddetto disastro innominato,
violerebbe   il   principio   di   tassativita'   della   fattispecie
incriminatrice,  ricompreso  nella riserva assoluta di legge, sancita
dall'art. 25, secondo comma, Cost., in materia penale.
   Al  riguardo,  il  giudice a quo rileva preliminarmente come, alla
luce   della   giurisprudenza   di  questa  Corte,  il  principio  di
tassativita'   soddisfi   plurime   e  connesse  istanze:  quella  di
circoscrivere  «il  ruolo  creativo  dell'interprete»,  in omaggio al
principio  della  divisione  dei  poteri, scongiurando la transizione
dallo  «Stato  delle  leggi»  allo  «Stato  dei  giudici»;  quella di
presidiare  la  liberta'  e la sicurezza del cittadino, il quale puo'
conoscere,  in ogni momento, cosa gli e' lecito e cosa gli e' vietato
soltanto alla stregua di leggi precise e chiare, contenenti direttive
riconoscibili di comportamento.
   In  tale  prospettiva,  l'inosservanza,  da parte del legislatore,
dell'onere  di  chiarezza  nella  formulazione  del  precetto  penale
verrebbe  a ripercuotersi anche su ulteriori principi costituzionali:
in   particolare,   sul   principio  di  colpevolezza,  insito  nella
previsione  dell'art.  27,  primo  comma,  Cost.,  rendendo scusabile
l'ignoranza del cittadino e precludendo quel «rimprovero» in cui tale
principio  consiste;  sul  diritto di difesa, consacrato dall'art. 24
Cost.;  e, ancora, sulla finalita' di prevenzione generale, di cui la
pena  partecipa  nella  fase della comminatoria astratta: giacche' un
precetto  oscuro, non consentendo al destinatario la comprensione del
comportamento   vietato,  non  potrebbe  «funzionare»  ne'  in  senso
dissuasivo, ne' in senso ripristinatorio del valore presidiato.
   Nella  specie, l'analisi testuale e l'esame della giurisprudenza e
della  dottrina  formatesi  sulla  disposizione  impugnata  farebbero
ritenere    quest'ultima    non    rispettosa    del   principio   di
«tassativita-precisione»,  dianzi  ricostruito, e dunque lesiva degli
artt. 25, secondo comma, 24 e 27 Cost.
   L'art.  434 cod. pen. punisce, infatti, con la reclusione da uno a
cinque  anni  «chiunque,  fuori  dei  casi  preveduti  dagli articoli
precedenti,  commette  un  fatto diretto a cagionare il crollo di una
costruzione o di una parte di essa ovvero un altro disastro [...], se
dal  fatto  deriva  pericolo per la pubblica incolumita»; prevedendo,
altresi',  una  maggiore  pena - la reclusione da tre a dodici anni -
«se il crollo o il disastro avviene».
   Tale  precetto  penale  -  che ricalca lo schema delle fattispecie
cosiddette   «causalmente  orientate»  -  non  porrebbe,  secondo  il
rimettente,   «particolari  problemi  di  comprensione»  nella  parte
relativa  al  «crollo»:  trattandosi di nozione corrispondente a dati
naturalistici  di  esperienza  comune, agevolmente identificabili nei
fenomeni   di  disintegrazione  delle  strutture  essenziali  di  una
costruzione.  Il  medesimo  precetto  rivelerebbe,  al contrario, una
«insufficiente  [...]  capacita'  informativa»  nella  parte  in  cui
incrimina  chi  compia  atti  diretti  a  cagionare, o effettivamente
cagioni,  un  «altro  disastro»:  giacche',  per tale parte, la norma
incriminatrice   -   oltre   a  non  descrivere  la  condotta  -  non
determinerebbe  in  modo  adeguato  ne'  l'«evento intermedio» che la
condotta  stessa  deve  essere obiettivamente diretta a cagionare (il
«disastro»);  ne'  gli ulteriori eventi di pericolo (il «pericolo per
la pubblica incolumita») o di danno (la verificazione del «disastro»)
che perfezionano il delitto o lo aggravano.
   1.2. - In proposito, non gioverebbe obiettare che tanto la nozione
di «disastro», quanto quella di «pericolo per la pubblica incolumita»
hanno   trovato  «concretizzazione»  negli  indirizzi  interpretativi
formatisi  con riguardo a norme incriminatrici che utilizzano formule
identiche  o similari (quali, in specie, quelle degli articoli da 427
a  433  del  codice  penale).  Nei  delitti  previsti  da tali norme,
difatti,  le  formule in questione identificherebbero una particolare
dimensione  e  gravita'  degli effetti prodotti da una condotta umana
adeguatamente  descritta, ovvero gli esiti di una «situazione tipica»
che  evoca  nozioni  di comune esperienza (rottura di dighe, valanga,
frana;  naufragio  o  caduta  di aeromobile; attentati ad impianti di
energia  elettrica,  del gas o delle pubbliche comunicazioni, e cosi'
via  dicendo).  Ben  diversa  risulterebbe,  invece, la valenza delle
formule  in  questione nella cornice della fattispecie incriminatrice
del   «disastro  innominato»:  fattispecie  in  rapporto  alla  quale
difetterebbe  qualsiasi  delimitazione  della  condotta,  dell'evento
primario  e del settore della vita sociale in cui si colloca il fatto
incriminato.
   E'  ben  vero  - prosegue il giudice a quo - che la verifica della
determinatezza  non  va  compiuta  con  una  analisi «atomistica» dei
singoli  elementi della fattispecie; e che gli elementi descrittivi a
carattere  «elastico»  -  impiegati dal legislatore nella descrizione
del  fatto  incriminato  -  vanno  raccordati  con gli altri elementi
costitutivi  del  reato  e  con  l'ambito  di  disciplina  in  cui la
fattispecie   si   inserisce.  Nella  specie,  tuttavia,  le  formule
elastiche  censurate  esaurirebbero  l'intera  descrizione  del fatto
tipico;  nessun  ausilio  interpretativo potrebbe venire dalle figure
criminose  comprese  nello  stesso  titolo  del codice penale: figure
delle  quali,  anzi,  il  delitto  di  «disastro innominato» - con la
clausola   di  sussidiarieta'  che  lo  introduce  («fuori  dei  casi
preveduti     dagli     articoli     precedenti»)     -    presuppone
l'inapplicabilita'.  D'altra  parte, la stessa fattispecie del crollo
di  costruzioni, anch'essa prevista dall'art. 434 cod. pen., verrebbe
costantemente   -  e,  secondo  il  rimettente,  condivisibilmente  -
interpretata   come   ipotesi   eterogenea   rispetto   al  «disastro
innominato».
   Un  contributo  alla  intelligibilita'  del  precetto da parte del
cittadino  e  alla limitazione della discrezionalita' del giudice non
verrebbe  neppure  dal riferimento alla voluntas legis, quale risulta
dalle  indicazioni contenute nella relazione ministeriale al progetto
del   codice   penale:   indicazioni  alla  stregua  delle  quali  la
disposizione   denunciata,   nella   parte   concernente  gli  «altri
disastri»,  sarebbe  diretta  a colmare ogni eventuale lacuna che, in
conseguenza  della continua evoluzione tecnica, possa presentarsi nel
sistema  dei  delitti  contro  la pubblica incolumita'. Tale voluntas
dimostrerebbe,  difatti, unicamente che il legislatore del 1930 - nel
conflitto  fra  le  esigenze di integrale penalizzazione e le istanze
della   certezza   del   diritto  e  del  contenimento  dell'arbitrio
giudiziale - ha riconosciuto come prevalenti le prime.
   Il  dubbio  di  costituzionalita'  non  potrebbe  essere  superato
neanche  facendo  leva  sul  «diritto  vivente»: giacche' le pronunce
della  giurisprudenza  di legittimita' sulla figura delittuosa de qua
risulterebbero  esigue,  risalenti  nel  tempo,  e  talora riferite a
fattispecie   che   avrebbero   potuto   essere  piu'  opportunamente
inquadrate  - secondo il rimettente - sotto diverse e piu' specifiche
previsioni  punitive. Non sarebbe possibile, pertanto, far ricorso ad
argomenti  analoghi  a  quelli che hanno consentito a questa Corte di
escludere   la  carenza  di  tassativita'  dei  reati  di  «attivita'
sediziosa»  e  di «manifestazioni e grida sediziose», delineati dagli
artt.  182  e  183  del  codice  penale militare di pace: fattispecie
rispetto alle quali una giurisprudenza consolidata aveva identificato
le condizioni necessarie per qualificare come «sediziose» le condotte
incriminate (sentenza n. 519 del 2000).
   L'ipotesi   in  esame  risulterebbe  assimilabile,  piuttosto,  al
delitto   di   «plagio»,  relativamente  al  quale  questa  Corte  ha
considerato  indice del difetto di tassativita' la circostanza che la
norma incriminatrice avesse trovato, in cinquanta anni di vigenza del
codice  penale,  un'unica  e assai controversa applicazione (sentenza
n. 96 del 1981).
   2.  - In entrambi i giudizi di costituzionalita' e' intervenuto il
Presidente   del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
dall'Avvocatura  generale dello Stato, chiedendo che la questione sia
dichiarata manifestamente infondata.
   Ad  avviso  della  difesa  erariale,  l'art. 434 cod. pen. sarebbe
suscettibile   di   differenti  interpretazioni,  «costituzionalmente
orientate»,  idonee  ad  assicurare  il  rispetto  del  principio  di
tassativita'  della  fattispecie  incriminatrice.  In particolare, la
locuzione  «altro disastro» postulerebbe un fatto omogeneo alle altre
condotte   riconducibili  alla  fattispecie  del  disastro:  lettura,
questa,  che  consentirebbe  di assegnare alla norma censurata, sulla
base  di una interpretazione sistematica, significati compatibili con
il predetto principio.
                       Considerato in diritto
   1.  -  Il  Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Santa
Maria Capua Vetere dubita della legittimita' costituzionale dell'art.
434  del  codice  penale, nella parte in cui punisce chiunque, «fuori
dei  casi  preveduti  dagli  articoli  precedenti,  commette un fatto
diretto  a  cagionare  [...]  un  altro  disastro, [...] se dal fatto
deriva pericolo per la pubblica incolumita»: ossia nella parte in cui
punisce il cosiddetto disastro innominato.
   A   parere  del  rimettente,  la  norma  censurata  violerebbe  il
principio  di  tassativita'  della  fattispecie penale - insito nella
riserva   di   legge  sancita  dall'art.  25,  secondo  comma,  della
Costituzione  -  e,  di riflesso, anche il diritto di difesa (art. 24
Cost.),  il  principio  di colpevolezza e la finalita' di prevenzione
generale,  propria  della pena nella fase della comminatoria astratta
(art.  27  Cost.).  La  norma  in  questione,  difatti  - oltre a non
descrivere  la  condotta  incriminata,  stante  la configurazione del
reato   de   quo  come  fattispecie  «causalmente  orientata»  -  non
determinerebbe  in  modo  adeguato  ne'  l'«evento intermedio» che la
condotta  stessa  deve  essere obiettivamente diretta a cagionare (il
«disastro»);  ne'  gli ulteriori eventi di pericolo (il «pericolo per
la pubblica incolumita») o di danno (la verificazione del «disastro»)
che  perfezionano  il  delitto  o  che,  ai  sensi  del secondo comma
dell'art. 434 cod. pen., lo aggravano.
   La rilevata carenza di determinatezza non potrebbe essere colmata,
d'altro  canto,  facendo  riferimento  alle altre norme, comprese nel
capo I del titolo VI del libro II del codice penale, in cui compaiono
le   medesime   formule  («disastro»  e  «pericolo  per  la  pubblica
incolumita»):  trattandosi  di  disposizioni  delle  quali  la  norma
impugnata  -  con  la  clausola  di  sussidiarieta'  che la introduce
(«fuori  dei  casi preveduti dagli articoli precedenti») - presuppone
l'inapplicabilita'.    Analogamente,    non   gioverebbe   far   leva
sull'ipotesi  del crollo di costruzioni - congiuntamente punita dallo
stesso  art.  434  cod.  pen.  -  trattandosi di fattispecie che, per
costante  interpretazione,  deve  ritenersi  eterogenea  rispetto  al
disastro innominato.
   Nessun   ausilio   potrebbe  provenire,  ancora,  dalla  finalita'
dell'incriminazione:  quella,  cioe',  di colmare le eventuali lacune
che   si   manifestassero,  in  conseguenza  del  progresso  tecnico,
nell'ambito   dei   delitti  contro  la  pubblica  incolumita'.  Tale
finalita'  dimostrerebbe  soltanto  che  il  legislatore  ha ritenuto
prevalenti le esigenze di integrale penalizzazione, rispetto a quelle
di  certezza  del diritto e di contenimento dell'arbitrio giudiziale.
Ne',  infine,  un ausilio potrebbe provenire da un eventuale «diritto
vivente»:  avendo  la  previsione  punitiva  conosciuto  - secondo il
rimettente  -  solo  sporadiche,  remote  e  discutibili applicazioni
giurisprudenziali.
   2. - Le due ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche,
onde  i  relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica
decisione.
   3. - La questione non e' fondata.
   4.  - Per costante giurisprudenza di questa Corte, la verifica del
rispetto  del  principio  di  determinatezza  della  norma  penale va
condotta   non   gia'  valutando  isolatamente  il  singolo  elemento
descrittivo  dell'illecito,  ma  raccordandolo con gli altri elementi
costitutivi  della  fattispecie  e con la disciplina in cui questa si
inserisce.  In  particolare,  «l'inclusione nella formula descrittiva
dell'illecito  di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero
[...]  di  clausole  generali  o concetti "elastici", non comporta un
vulnus  del  parametro  costituzionale evocato, quando la descrizione
complessiva  del  fatto  incriminato  consenta  comunque al giudice -
avuto  riguardo  alle  finalita' perseguite dall'incriminazione ed al
piu'  ampio  contesto  ordinamentale  in  cui  essa  si  colloca - di
stabilire  il  significato  di  tale  elemento mediante un'operazione
interpretativa non esorbitante dall'ordinario compito a lui affidato:
quando  cioe' quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di
corrispondenza  della fattispecie concreta alla fattispecie astratta,
sorretto    da    un   fondamento   ermeneutico   controllabile;   e,
correlativamente,  permetta  al destinatario della norma di avere una
percezione  sufficientemente  chiara ed immediata del relativo valore
precettivo»  (sentenza  n. 5 del 2004; in senso analogo, ex plurimis,
sentenze  n. 34 del 1995, n. 122 del 1993, n. 247 del 1989; ordinanze
n. 395 del 2005, n. 302 e n. 80 del 2004).
   In  tal  modo,  risultano soddisfatti i due obiettivi fondamentali
sottesi  al principio di determinatezza: obiettivi consistenti - come
lo  stesso  rimettente  ricorda  - per un verso, nell'evitare che, in
contrasto  con  il  principio  della  divisione  dei  poteri e con la
riserva  assoluta  di  legge  in materia penale, il giudice assuma un
ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra
il  lecito  e  l'illecito;  e,  per  un altro verso, nel garantire la
libera  autodeterminazione  individuale,  permettendo al destinatario
della   norma   penale   di   apprezzare   a  priori  le  conseguenze
giuridico-penali  della propria condotta (a quest'ultimo riguardo, si
vedano le sentenze n. 185 del 1992 e n. 364 del 1988).
   5.  - Nell'ipotesi oggetto dell'odierno scrutinio, e' ben vero che
il  concetto  di  «disastro»  -  su cui gravita, nella cornice di una
fattispecie  a  forma  libera o causalmente orientata, la descrizione
del fatto represso dall'art. 434 cod. pen. - si presenta, di per se',
scarsamente definito: traducendosi in una espressione sommaria capace
di   assumere,  nel  linguaggio  comune,  una  gamma  di  significati
ampiamente diversificati.
   Contrariamente   a   quanto  assume  il  rimettente,  tuttavia,  a
precisare  la  valenza  del  vocabolo  -  riconducendo  la previsione
punitiva  nei limiti di compatibilita' con il precetto costituzionale
evocato  -  concorrono  la  finalita'  dell'incriminazione  e  la sua
collocazione nel sistema dei delitti contro la pubblica incolumita'.
   L'art.  434  cod.  pen.,  nella  parte  in cui punisce il disastro
innominato,  assolve  difatti  -  pacificamente  - ad una funzione di
"chiusura"  del  predetto  sistema.  La  norma  mira  «a colmare ogni
eventuale  lacuna,  che  di fronte alla multiforme varieta' dei fatti
possa  presentarsi  nelle  norme  [...]  concernenti  la tutela della
pubblica  incolumita»;  e  cio'  anche  e soprattutto in correlazione
all'incessante  progresso tecnologico, che fa continuamente affiorare
nuove  fonti  di  rischio e, con esse, ulteriori e non preventivabili
modalita'  di  aggressione  del  bene  protetto  (in questo senso, la
relazione  del  Ministro  guardasigilli  al  progetto  definitivo del
codice penale).
   D'altra  parte,  alla stregua di un criterio interpretativo la cui
validita'  appare  di  immediata evidenza, allorche' il legislatore -
nel  descrivere  una  certa  fattispecie  criminosa - fa seguire alla
elencazione  di  una serie di casi specifici una formula di chiusura,
recante  un  concetto  di  genere  qualificato dall'aggettivo «altro»
(nella  specie:  «altro  disastro»),  deve presumersi che il senso di
detto concetto - spesso in se' alquanto indeterminato - sia destinato
a  ricevere  luce  dalle  species  preliminarmente  enumerate, le cui
connotazioni  di  fondo  debbono  potersi rinvenire anche come tratti
distintivi del genus.
   Entrambi  i criteri ora indicati convergono, dunque, nel senso che
l'«altro  disastro»,  cui  fa riferimento l'art. 434 cod. pen., e' un
accadimento  si'  diverso,  ma  comunque  omogeneo,  sul  piano delle
caratteristiche strutturali, rispetto ai «disastri» contemplati negli
altri  articoli  compresi  nel  capo  relativo  ai «delitti di comune
pericolo   mediante   violenza»:   conclusione,   questa,  confortata
anch'essa dai lavori preparatori del codice.
   6.  -  La  conclusione ora prospettata (necessaria omogeneita' tra
disastro innominato e disastri tipici) non basterebbe peraltro ancora
a  consentire  il superamento del dubbio di costituzionalita'. Rimane
infatti  da acclarare se, dal complesso delle norme che incriminano i
«disastri»  tipici,  sia  concretamente possibile ricavare dei tratti
distintivi  comuni  che  illuminino  e  circoscrivano  la valenza del
concetto di genere «disastro» (con riferimento alla similare esigenza
posta,  in  via  generale,  dalle fattispecie criminose cosiddette ad
analogia esplicita - quelle, cioe', che, dopo aver indicato una serie
di  casi  specifici, recano espressioni del tipo «e altri simili», «e
altri analoghi» - si veda la sentenza n. 120 del 1963).
   Al  riguardo, si e' evidenziato in dottrina come - al di la' delle
caratteristiche particolari delle singole figure (inondazione, frana,
valanga,  disastro aviatorio, disastro ferroviario, ecc.) - l'analisi
d'insieme  dei delitti compresi nel capo I del titolo VI consenta, in
effetti,  di  delineare  una  nozione  unitaria  di «disastro», i cui
tratti  qualificanti  si  apprezzano  sotto  un duplice e concorrente
profilo.  Da  un  lato,  sul  piano  dimensionale,  si deve essere al
cospetto di un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche
se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi,
complessi  ed  estesi.  Dall'altro  lato,  sul piano della proiezione
offensiva,  l'evento  deve  provocare - in accordo con l'oggettivita'
giuridica  delle  fattispecie  criminose  in  questione (la «pubblica
incolumita»)  -  un pericolo per la vita o per l'integrita' fisica di
un  numero indeterminato di persone; senza che peraltro sia richiesta
anche  l'effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o
piu' soggetti.
   Tale  nozione - avvalorata una volta ancora dai lavori preparatori
del codice (e, segnatamente, dalla relazione ministeriale al progetto
definitivo,  nella  parte illustrativa del «disastro ferroviario», di
cui  all'attuale  art.  430  cod. pen.) - corrisponde sostanzialmente
alla   nozione   di   disastro   accolta   dalla   giurisprudenza  di
legittimita', con un indirizzo che - contrariamente a quanto sostiene
il  rimettente - appare apprezzabile, ai presenti fini, in termini di
«diritto  vivente». Pronunciandosi, infatti, non soltanto sul delitto
di disastro innominato doloso, di cui all'art. 434 cod. pen., e sulla
corrispondente ipotesi colposa, di cui all'art. 449 cod. pen. (figure
in  ordine  alle  quali  si registrano plurime recenti pronunce della
Corte  di  cassazione),  ma  anche sugli altri delitti del capo I del
titolo  VI  rispetto  ai  quali  viene  in  rilievo  il sostantivo in
questione,   la   giurisprudenza   ha  da  tempo  enucleato  -  senza
oscillazioni  significative rispetto a quanto qui rileva -un concetto
di  «disastro» che fa perno, per l'appunto, sui due tratti distintivi
(dimensionale e offensivo) in precedenza indicati.
   Al   riguardo,   e'   opportuno   rilevare   come  l'esistenza  di
interpretazioni  giurisprudenziali  costanti non valga, di per se', a
colmare  l'eventuale  originaria  carenza  di precisione del precetto
penale.  Sostenere  il  contrario significherebbe, difatti, "tradire"
entrambe  le  funzioni  del  principio  di  determinatezza.  La prima
funzione  -  cioe'  quella  di garantire la concentrazione nel potere
legislativo  della  produzione  della  regula  iuris  - verrebbe meno
giacche',  nell'ipotesi  considerata,  la  regula verrebbe creata, in
misura  piu'  o  meno ampia, dai giudici. La seconda funzione - cioe'
quella   di   assicurare  al  destinatario  del  precetto  penale  la
conoscenza  preventiva di cio' che e' lecito e di cio' che e' vietato
-  non  sarebbe  rispettata perche' tale garanzia deve sussistere sin
dalla  prima  fase  di  applicazione della norma, e non gia' solo nel
momento  (che  puo'  essere  anche  di molto successivo) in cui si e'
consolidata  in  giurisprudenza  una  certa interpretazione, peraltro
sempre suscettibile di mutamenti.
   Cio'  non  esclude,  tuttavia,  che  l'esistenza  di  un indirizzo
giurisprudenziale  costante  possa  assurgere ad elemento di conferma
della  possibilita'  di  identificare,  sulla  scorta  d'un ordinario
percorso  ermeneutico,  la  piu'  puntuale  valenza di un'espressione
normativa  in  se'  ambigua,  generica  o  polisensa. Ed e' in questa
prospettiva  che va letto, per l'appunto, il precedente richiamo alla
corrente nozione giurisprudenziale di «disastro».
   7.  -  Con  riguardo,  poi,  all'ulteriore  concetto  sul quale si
appuntano  i  dubbi  di  costituzionalita' del giudice a quo, si deve
rilevare  come,  nell'ipotesi  descritta  dall'art. 434 cod. pen., il
«pericolo  per  la  pubblica  incolumita»  -  implicito,  per  quanto
osservato dianzi, rispetto alla fattispecie di evento contemplata dal
secondo  comma (verificazione del «disastro») - risulti espressamente
richiesto  anche  in  rapporto  al  delitto di attentato previsto dal
primo comma (compimento di fatti diretti a cagionare un disastro).
   Diversamente da quanto assume il rimettente, peraltro, la predetta
espressione  -  nella  quale  si  compendia  il  momento  dell'offesa
all'interesse  protetto  -  non  puo'  ritenersi  priva  di  un senso
sufficientemente    definito   (salvi,   naturalmente,   i   problemi
interpretativi  connessi  alla  verifica  dell'elemento  in questione
nella   concretezza   delle   singole   fattispecie).   Per  opinione
praticamente   unanime,   e   conformemente  alle  indicazioni  della
relazione  ministeriale,  il  concetto  di  «incolumita»  deve essere
difatti  inteso  - agli effetti del titolo VI del libro II del codice
penale - «nel suo preciso significato filologico, ossia come un bene,
che  riguarda  la  vita  e  l'integrita'  fisica  delle  persone» (da
ritenere  naturalmente  comprensiva anche della salute). Il «pericolo
per  la  pubblica  incolumita»  viene  cioe'  a designare - come gia'
anticipato  - la messa a repentaglio di un numero non preventivamente
individuabile  di  persone,  in correlazione alla capacita' diffusiva
propria   degli   effetti   dannosi  dell'evento  qualificabile  come
«disastro».
   8.  - L'accertata insussistenza del denunciato vulnus al principio
di  determinatezza  travolge  automaticamente  le  ulteriori  censure
relative  al  diritto  di  difesa  (art.  24  Cost.), al principio di
colpevolezza  e  alla  finalita'  di  prevenzione speciale della pena
(art.  27  Cost.): trattandosi di censure che il rimettente prospetta
come  meramente  conseguenziali  alla  lesione  dell'art. 25, secondo
comma, Cost., e dunque prive di autonomia.
   9.   -  Ferma  restando  la  conclusione  raggiunta,  e'  tuttavia
auspicabile  che talune delle fattispecie attualmente ricondotte, con
soluzioni  interpretative  non sempre scevre da profili problematici,
al   paradigma  punitivo  del  disastro  innominato  -  e  tra  esse,
segnatamente, l'ipotesi del cosiddetto disastro ambientale, che viene
in  discussione  nei  giudizi  a quibus - formino oggetto di autonoma
considerazione  da  parte  del  legislatore penale, anche nell'ottica
dell'accresciuta  attenzione  alla  tutela  ambientale  ed  a  quella
dell'integrita'   fisica  e  della  salute,  nella  cornice  di  piu'
specifiche figure criminose.