Sentenza
nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 268, primo
comma,  del  codice  di  procedura  civile, promosso dal Tribunale di
Pordenone, nel procedimento civile vertente tra la Baratto Spedizioni
s.r.l. e la Apigi International s.a.s., con ordinanza del 27 novembre
2007 iscritta al n. 57 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella
Gazzetta   Ufficiale   della  Repubblica  n. 12, 1ª  serie  speciale,
dell'anno 2008.
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
ministri;
   Udito  nella  Camera  di  consiglio  del  9 luglio 2008 il Giudice
relatore Francesco Amirante.
                          Ritenuto in fatto
   1.  -  Nel  corso  di  un  giudizio  in cui, tenutasi l'udienza di
trattazione,  nella  pendenza  del  termine  concesso per il deposito
delle  memorie  ai sensi dell'art. 183, sesto comma, n. 2, del codice
di  procedura civile, una parte aveva spiegato intervento volontario,
proponendo  domande  risarcitorie  nei  confronti delle altre parti e
successivamente  avanzando  richieste  istruttorie,  il  Tribunale di
Pordenone ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 111, secondo
comma,  ultimo periodo, della Costituzione, questione di legittimita'
costituzionale  dell'art.  268,  primo  comma, cod. proc. civ., nella
parte  in  cui  ammette  l'intervento  principale  o  litisconsortile
previsto  dell'art. 105, primo comma, cod. proc. civ. fino al momento
di  precisazione  delle  conclusioni,  anziche'  fino  all'udienza di
trattazione   prevista  dal  medesimo  art.  183.  In  subordine,  il
remittente  ha  sollevato  questione  di  legittimita' costituzionale
della  medesima  disposizione,  per  violazione degli artt. 24 e 111,
secondo   comma,  primo  periodo,  Cost.,  nella  parte  in  cui  non
attribuisce   al   giudice,   in  caso  di  intervento  volontario  o
litisconsortile,  il  potere-dovere  di  fissare,  alla prima udienza
successiva all'intervento del terzo, una nuova udienza di trattazione
nel  corso  della  quale  le  parti possano esercitare tutti i poteri
previsti dell'art. 183 cod. proc. civ..
   Nelle  premesse  in  fatto  il  Tribunale  chiarisce che, tenutasi
l'udienza  di  trattazione,  alle  parti  e'  stato concesso, su loro
richiesta,  termine  per  le  memorie  previste  dall'art. 183, sesto
comma,  n. 1,  cod.  proc.  civ.  nelle quali sono state ribadite «le
domande,  le eccezioni e le conclusioni gia' proposte», ed infine che
esse hanno ricevuto comunicazione dell'intervento, dalla cancelleria,
nel  giorno  precedente  a  quello  di  scadenza delle memorie di cui
all'art. 183, sesto comma, n. 2, citato.
   Il  giudice  a  quo motiva la rilevanza della questione osservando
che  le  parti,  avverso  entrambe  le  quali  gli  intervenuti hanno
proposto  autonome  domande,  hanno  chiesto  (utilizzando le memorie
previste  dall'art.  183,  sesto  comma,  n. 3,  cod.  proc. civ.) la
dichiarazione  di  inammissibilita'  dell'intervento,  nonche'  delle
istanze istruttorie, per tardivita'; egli assume, pertanto, di essere
tenuto  a decidere sull'ammissibilita' dell'intervento stesso e delle
domande  con  esso  proposte, nonche' «sull'ammissibilita' o meno dei
mezzi  istruttori  richiesti  dagli intervenuti, con memoria apposita
depositata  l'ultimo giorno utile». Ulteriore profilo di rilevanza e'
poi  legato  alla  subordinata  richiesta  di  rimessione  in termini
avanzata   dalle   parti   originarie   per   il   caso  di  ritenuta
ammissibilita' dell'intervento.
   Quanto  alla  non manifesta infondatezza, il Tribunale richiama il
costante   orientamento   della  Corte  di  cassazione,  che  ammette
l'intervento  fino  all'udienza di precisazione delle conclusioni, in
quanto  la  formulazione  della  domanda costituisce l'essenza stessa
dell'intervento  principale e litisconsortile, sicche' la preclusione
sancita  dall'art. 268, secondo comma, cod. proc. civ. non si estende
all'attivita'   assertiva   del   volontario  interveniente  nei  cui
confronti  non  e'  operante  il divieto di proporre domande nuove ed
autonome   fino   all'udienza   di  precisazione  delle  conclusioni,
configurandosi  solo  l'obbligo,  per  l'interventore stesso ed avuto
riguardo al momento della sua costituzione, di accettare lo stato del
processo  in relazione alle preclusioni istruttorie gia' verificatesi
per  le  parti  originarie.  Su  tale  giurisprudenza - condivisa dal
giudice  a  quo  - si sottolinea come le preclusioni cui si riferisce
l'art.  268,  secondo  comma,  non  possano  essere estese anche alla
proposizione  della  domanda.  Ne consegue l'impraticabilita' di ogni
diversa  interpretazione  dell'art.  268  cod.  proc.  civ.  volta  a
limitare  a  fasi  processuali  iniziali  gli  interventi  con cui si
propongono   domande   nuove  e  ad  ammettere  fino  all'udienza  di
precisazione  delle conclusioni il solo intervento adesivo dipendente
con  cui  non si fanno valere nuove domande, ma solo si sostengono le
ragioni   dell'una   o   dell'altra   parte.  Ammettere  l'intervento
principale  e  litisconsortile  fino  alla  fine del processo, pero',
comporta  un  notevole  ampliamento  del thema decidendum (rispetto a
quello  originariamente introdotto dalle parti) ed anche dei fatti su
cui occorre decidere e della conseguente istruttoria da svolgere.
   In   particolare,  nel  giudizio  a  quo,  gli  intervenuti  hanno
depositato  una memoria istruttoria in cui hanno chiesto l'ammissione
di  prova  per  interpello e testi, di consulenza tecnica d'ufficio e
l'esibizione di documentazione ai sensi dell'art. 210 cod. proc. civ.
Oltre   al   conseguente   aggravamento  dei  tempi  processuali,  il
remittente vede compromesso il diritto al contraddittorio delle parti
originarie  (che,  nella  specie,  hanno  richiesto  la rimessione in
termini),  per  tutelare il quale il giudice, ove richiesto, si trova
costretto a far regredire il processo ad una fase anteriore, fissando
nuova  udienza di trattazione e concedendo altri termini ai sensi del
menzionato  art.  183,  sesto comma. Verrebbe cosi' ad alterarsi quel
sistema  scandito  da  rigide  preclusioni e da un numero «chiuso» di
udienze,   voluto   per  attuare  concretamente  il  principio  della
ragionevole durata del processo.
   La  norma impugnata avrebbe potuto essere giustificata nell'ambito
di  un  processo  privo di scadenze e preclusioni per le parti, quale
era quello ante riforma del 1990, ma costituisce una grave disarmonia
nell'attuale  processo,  ove  quelle  scadenze  e preclusioni si sono
fatte   via   via   sempre  piu'  stringenti  per  le  parti,  e  ove
l'interveniente ha tuttavia la possibilita' di introdurre un processo
piu'   ampio  rispetto  a  quello  voluto  dalle  parti  inizialmente
costituite,  cosi' costringendole a subire la conseguente dilatazione
dei tempi processuali.
   Ed  e' in tale prospettiva che, ad avviso del remittente (il quale
richiama  anche  il  principio  di  effettivita'  della  tutela),  si
configurano,  da  un  lato, l'irragionevolezza di una disposizione di
legge  che  snatura  totalmente il nuovo processo civile consentendo,
senza  valida  giustificazione,  inutili  e  rilevanti complicazioni;
dall'altro,  la  violazione del diritto delle parti originarie - e in
special  modo  dell'attore -  a  vedere definita la sua domanda entro
tempi  ragionevoli  e comunque non piu' ampi di quelli che richiedono
le  relative  prospettazioni. La soluzione sembra al giudice a quo da
individuare nello spostamento del termine preclusivo per l'intervento
principale  e  litisconsortile  ad  un  momento  anteriore,  e  cioe'
l'udienza   di   trattazione,  quando  il  thema  decidendum  non  e'
cristallizzato  ed e' ancora prevista per le parti la possibilita' di
proporre  ulteriori  domande  ed  eccezioni,  posto  che  chi intende
intervenire  potra'  sempre  far valere le sue ragioni in un separato
giudizio.
   Il  Tribunale,  richiamando  l'ordinanza n. 215 del 2005 di questa
Corte,  osserva che la legittimita' costituzionale dell'art. 268 cod.
proc.  civ.,  in  quella  sede riconosciuta, non puo' far superare le
discrasie di un sistema che ammette domande nuove da parte del terzo,
ma non gli consente di provarle.
   Dopo  aver  ritenuto illogico estromettere il terzo, disponendo la
separazione  dei  giudizi  allorche'  la  causa  sia  matura  per  la
decisione  o  comunque  quando l'intervento ritarderebbe o renderebbe
piu' gravoso il processo, il giudice a quo si sofferma sulla funzione
(definita di saracinesca) dell'udienza di trattazione.
   Cio'  posto in ordine alla prima questione, il remittente precisa,
in  punto  di  rilevanza della questione subordinata, che, mentre una
delle  parti  non  ha motivato la richiesta di rimessione in termini,
l'attrice   ha  viceversa  proposto  domande  ed  avanzato  richieste
istruttorie.  Il  Tribunale osserva che, avendo l'intervento alterato
l'impostazione  originaria  data alla causa dall'attrice, essa non ha
avuto  la  possibilita',  perche' preclusa dalla fase processuale, di
proporre  le  domande  e le eccezioni conseguenti alle domande svolte
dal  terzo,  ne'  ha  potuto  precisare  o  modificare le domande, le
eccezioni  e le conclusioni gia' proposte. A parere del Tribunale, se
l'intervento  e' ammissibile fino al momento della precisazione delle
conclusioni,  cio'  non  deve  trasformarsi per il terzo in un vero e
proprio  vantaggio  processuale  che va a danno del diritto di difesa
delle  parti originarie del processo. Dopo aver richiamato il decisum
della  sentenza  n. 193  del  1983  di  questa  Corte  - dichiarativa
dell'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  419  cod. proc. civ.,
nella  parte  in cui, ove un terzo spieghi intervento volontario, non
attribuiva  al  giudice  il potere-dovere di fissare, con il rispetto
del  termine  di cui all'art. 415, quinto comma, cod. proc. civ., una
nuova  udienza,  sia  pure  nel  particolare  ambito del processo del
lavoro -  il  remittente  auspica  un'applicazione  di  quella  ratio
decidendi   e   individua  nell'udienza  di  trattazione  il  momento
processuale corrispondentemente idoneo a garantire il contraddittorio
delle parti originarie nei confronti del terzo intervenuto.
   Il Tribunale esclude, peraltro, di poter fissare una nuova udienza
senza  l'invocata  addizione  normativa  e di poter dare all'istituto
della  rimessione in termini un'applicazione estensiva come strumento
utilizzabile   per  rimediare  non  solo  a  decadenze  derivanti  da
impedimenti di natura strettamente materiale o comunque obiettiva, ma
anche  per  ammettere  i  nova  giustificati  da eventi o da esigenze
difensive realmente sopravvenute.
   2.  -  E'  intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  che  ha concluso per la declaratoria di inammissibilita' o di
infondatezza  delle  questioni,  richiamandosi  sia  all'ordinanza di
questa  Corte n. 215 del 2005, sia all'obbligo del terzo interventore
di  accettare  il processo nello stato in cui esso si trova, ai sensi
dell'art. 268, secondo comma, cod. proc. civ., sia, infine, al potere
di  estromissione  di  cui  il  giudice e' titolare (e che implica la
potesta' di non ammettere affatto l'intervento, quando esso contrasti
con   la  concreta  attuazione  del  principio  costituzionale  della
ragionevole durata del processo).
   Inoltre la tesi del giudice rimettente, secondo cui la garanzia di
celerita' del processo imporrebbe un diverso e piu' rigido sistema di
preclusioni,   si  traduce  in  una  inammissibile  richiesta  di  un
intervento  creativo  da parte del Giudice delle leggi, allo scopo di
modificare l'equilibrio che il legislatore ha inteso istituire tra le
contrapposte   esigenze   di  concentrare  in  un  solo  processo  la
definizione  di  tutte  le  problematiche  derivanti  da  una vicenda
complessa  e  di  definire  il  giudizio  gia' pendente entro termini
ragionevoli.
   La  questione  proposta  in via subordinata sarebbe poi stata gia'
risolta  dalla citata ordinanza n. 215 che l'avrebbe qualificata come
richiesta  di  una  pronuncia  «fortemente  creativa  e  di sistema»,
poiche'  la  pretesa  di  far  retrocedere il processo all'udienza di
trattazione,  allo  scopo  di  consentire  la  riapertura  della fase
istruttoria, incide profondamente sulla struttura del giudizio civile
e   comporta  un  intervento  sostanzialmente  additivo,  che  sembra
eccedere   i   limiti   del   giudizio   di   costituzionalita'.   La
contraddittorieta'   della  questione  proposta  in  via  subordinata
rispetto  a  quella  principale  impedisce,  secondo l'Avvocatura, di
comprendere  quali  siano  -  ad  avviso  del remittente - i principi
costituzionali  ai  quali  dovrebbe ispirarsi la norma censurata. Nel
merito,  sarebbe  problematico  consentire la riespansione dei poteri
processuali  delle  parti  originarie  mediante  la retrocessione del
processo alla udienza di trattazione, in presenza di una disposizione
-  come  quella  dell'art.  268, secondo comma, cod. proc. civ. - che
impone  al  terzo di accettare il processo nello stato in cui esso si
trova.  Diversamente,  ritenendo  che  la  retrocessione del processo
all'udienza  di  trattazione vale anche per il terzo interventore, si
giungerebbe   ad   una  sostanziale  abrogazione  del  secondo  comma
dell'art. 268 citato.
   Inoltre,  l'invocata retrocessione eccede di gran lunga l'esigenza
delle parti di formulare ogni opportuna eccezione e difesa avverso la
nuova domanda proposta dal terzo nei loro confronti, ne' il Tribunale
avrebbe  verificato,  con la dovuta analiticita', se le norme vigenti
consentono   di   conseguire   questo  piu'  limitato  risultato.  In
particolare,  ferma  la  peculiarita' del rito del lavoro e quindi la
non   pertinenza   del   richiamo  alla  sentenza  n. 193  del  1983,
l'Avvocatura  rileva  che  il rito ordinario conserva un assetto piu'
elastico rispetto al rito del lavoro.
                       Considerato in diritto
   1.  --  Questa  Corte  e'  chiamata  dal  Tribunale di Pordenone a
scrutinare, con riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, ultimo
periodo, della Costituzione, la legittimita' costituzionale dell'art.
268,  primo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui
ammette  che  l'intervento  principale  o litisconsortile possa avere
luogo  fino a che non vengano precisate le conclusioni, anziche' fino
all'udienza  di  trattazione  prevista dall'articolo 183 del medesimo
codice;  in subordine, il remittente censura la suddetta disposizione
per  violazione  degli  artt. 24 e 111, secondo comma, primo periodo,
Cost.,  nella  parte  in  cui  non  prevede,  in  caso  di intervento
volontario  (recte:  autonomo  o  principale)  o  litisconsortile, il
dovere del giudice di fissare una nuova udienza di trattazione.
   Il  remittente  espone  che  davanti  a lui pende una causa civile
instaurata  da  una  societa'  che assume di essere committente di un
contratto di trasporto nei confronti di altra indicata come vettrice,
per   la  risoluzione  del  contratto  non  adempiuto,  a  causa  del
ribaltamento  del  veicolo adoperato, e per il risarcimento del danno
per   perdita   o  avaria  della  merce;  che,  dopo  lo  svolgimento
dell'udienza  di  trattazione e in pendenza del termine concesso alle
parti  ai  sensi  dell'art.  183, sesto comma, n. 2, cod. proc. civ.,
hanno  spiegato  intervento, ai sensi dell'articolo 105, primo comma,
del  medesimo  codice, tre persone le quali, dichiarando di essere le
proprietarie   della   merce   trasportata,  hanno  proposto  domande
risarcitorie   nei   confronti   di  entrambe  le  parti  originarie,
formulando anche istanze istruttorie.
   Il  Tribunale  di Pordenone premette che la disposizione censurata
non   puo'   essere  interpretata,  tenuto  conto  della  sua  chiara
formulazione  letterale, se non nel senso, ritenuto anche dalla Corte
di  cassazione,  che essa si riferisce a tutti i tipi di intervento e
quindi  anche  a quello principale o autonomo, comportante di per se'
la  proposizione  di  domande  nuove  rispetto  a  quelle delle parti
originarie,  in  relazione alle quali non opera la preclusione di cui
all'art.   268,   secondo   comma,  cod.  proc.  civ.,  che  concerne
l'attivita'  istruttoria  e  non  quella  assertiva. Ma anche la mera
attivita'  assertiva  amplia i termini del processo, pur prescindendo
dalla  circostanza  -  fa rilevare il remittente - che nel processo a
quo  l'intervento  era  avvenuto  quando  non era ancora consumata la
facolta'  delle  parti di proporre istanze istruttorie, sicche' anche
quelle  degli  intervenienti dovrebbero essere esaminate. Ne consegue
l'intrinseca  irragionevolezza  di un sistema che, mentre consente al
terzo  interveniente di proporre le sue domande nel giudizio pendente
tra  altri, non gli permette pero' di provare i fatti costitutivi dei
diritti fatti valere e, nel contempo prolunga la durata del processo,
ampliandone l'oggetto, in violazione del principio costituzionale che
ad esso deve essere assicurata una durata ragionevole.
   Queste  discrasie  potrebbero essere risolte da una sentenza della
Corte che sostituisca al termine ora previsto per l'intervento quello
della   udienza   di   trattazione,  con  l'attribuzione  anche  agli
intervenienti delle facolta' che in essa possono essere esercitate.
   In subordine, con riferimento agli artt. 111, secondo comma, prima
parte,  e  24 Cost., il remittente - premesso in fatto che, a seguito
dell'intervento,  le parti originarie hanno chiesto di essere rimesse
in termini al fine di contrastare le pretese degli intervenienti, una
di  esse  anche  in via istruttoria - sostiene che non sussistono gli
estremi  della  remissione  in  termini  e  che la questione non puo'
essere  risolta  enucleando  dall'ordinamento un generale obbligo del
giudice di fissare una nuova udienza, e quindi in via interpretativa,
ogniqualvolta l'oggetto del processo venga ad essere allargato. A tal
proposito,  il remittente richiama la sentenza di questa Corte n. 193
del  1983,  dichiarativa dell'illegittimita' costituzionale dell'art.
419  cod.  proc. civ., nella parte in cui non prevedeva l'obbligo del
giudice  del lavoro di fissare una nuova udienza in caso d'intervento
in causa, principale o dipendente.
   Motivata in tal modo la rilevanza della questione, sul presupposto
di   dover   provvedere   sulle   istanze   anche  istruttorie  degli
intervenienti,  il  remittente sostiene che soltanto la fissazione di
una  nuova  udienza  puo' evitare la violazione del diritto di difesa
delle  parti  originarie e, quindi, quello della parita' tra le parti
processuali, che costituisce uno dei principi fondamentali del giusto
processo.
   2.  --  Le  questioni  sono inammissibili per diverse, concorrenti
ragioni.
   Nella   esposizione   dei   fatti   e   nello   svolgimento  delle
argomentazioni  il  remittente  manifesta  perplessita' ed incorre in
contraddizioni.
   Nell'ordinanza  di  rimessione si afferma che, secondo la costante
giurisprudenza  della  Corte  di cassazione - cui si aderisce - a chi
abbia    proposto   l'intervento   successivamente   all'udienza   di
trattazione non e' consentito lo svolgimento di attivita' istruttoria
ma  soltanto  assertiva,  e  si  argomenta  che  anche  quest'ultima,
ampliando  i  termini  del  dibattito  processuale, puo' ritardare la
conclusione  del processo, in violazione del principio secondo cui ad
esso deve essere assicurata ragionevole durata.
   Nella  stessa ordinanza, pero', si mette in rilievo la circostanza
che  l'intervento  era  avvenuto  durante  la  pendenza  del  termine
concesso  alle  parti originarie ai sensi dell'art. 183, sesto comma,
n. 2,  cod. proc. civ. e si profila la necessita' di dover provvedere
anche  sulle  istanze  istruttorie degli intervenienti. Il remittente
non affronta neppure il problema dell'individuazione dei soggetti che
della concessione del suddetto termine avrebbero potuto giovarsi e se
tra  costoro  rientrassero  anche  gli  intervenienti che non avevano
partecipato  all'udienza  di  trattazione,  al  cui  svolgimento  era
correlata la concessione del termine. Sembra che egli propenda per la
soluzione positiva, che comporterebbe uno squilibrio della situazione
processuale  a  danno delle parti originarie, ma non viene evocata la
violazione  del  diritto di difesa di queste (art. 24 Cost.), ne' del
principio di parita' delle parti, cardine della disciplina del giusto
processo (art. 111, secondo comma, prima parte, della Costituzione).
   La  questione,  dichiaratamente  proposta  in  via subordinata, si
fonda  sulla  tesi, non piu' espressa in forma ipotetica o perplessa,
ma  pur sempre non argomentata, che il remittente, per le circostanze
in  cui  e'  avvenuto  l'intervento,  debba  provvedere sulle istanze
istruttorie  degli  intervenienti;  donde  l'evocazione  dei suddetti
parametri.
   Ora,  anche  a  voler  trascurare  il  rilievo  che  il  nesso  di
subordinazione non puo' essere riconosciuto per il solo fatto che sia
enunciato  da chi solleva le questioni, qualora esso non si riscontri
anche   nella  struttura  logica  delle  medesime,  nel  proporre  la
questione   subordinata   il   remittente   considera   indiscutibile
l'interpretazione  dell'art.  268,  secondo  comma,  cod.  proc. civ.
secondo cui a coloro che sono intervenuti nella pendenza del suddetto
termine,  concesso  ai  sensi  dell'art. 183, sesto comma, cod. proc.
civ., spetta la facolta' di avanzare istanze istruttorie; tesi questa
che avrebbe viceversa richiesto una motivazione.
   Inoltre, l'invocato incremento dei poteri del giudice, consistente
nella possibilita' di fissare una nuova udienza in caso d'intervento,
nel  quale si sostanzia il petitum di quest'ultima questione, si pone
in  antitesi  con  le  limitazioni  temporali  richieste con la prima
prospettazione e postula una decisione modificativa del sistema della
trattazione  della  causa,  tale  da  incidere  ben  oltre  la  norma
impugnata  (e  non  necessariamente su di essa: vedi ordinanza n. 215
del 2005).