Ricorso  della  Regione  Liguria,  in persona del Presidente della
Giunta  regionale  pro  tempore,  autorizzato con deliberazione della
giunta  regionale  14 ottobre 2008, n. 1272 (doc. 1), rappresentata e
difesa,  come  da procura speciale n. rep. 14131 del 15 ottobre 2008,
rogata  dal  dott.  Margherita  Poli,  notaio  in  Genova  (doc.  2),
dall'avv. prof. Giandomenico Falcon di Padova e dall'avv. Luigi Manzi
di  Roma,  con  domicilio  eletto  in Roma presso lo studio dell'avv.
Luigi Manzi, in via Confalonieri n. 5;
   Contro   il   Presidente   del   Consiglio  dei  ministri  per  la
dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale degli articoli: 11,
commi  1,  3,  4,  5,  8,  9,  11 e 12; 13, commi 1 e 2; 23, comma 2;
23-bis,  commi  2,  3,  4,  7 e 10; 26, comma 1; 76, comma 6-bis; 81,
commi  29,  30,  32, 33, 34, 35, 36 e 38, del decreto-legge 25 giugno
2008,  n. 112,  Disposizioni  urgenti  per  lo sviluppo economico, la
semplificazione,  la competitivita', la stabilizzazione della finanza
pubblica e la perequazione tributaria, convertito, con modificazioni,
dalla   legge  6  agosto  2008,  n. 133,  pubblicata  nella  Gazzetta
Ufficiale  n. 195  del  21  agosto  2008; per violazione dell'art. 3,
dell'art.  117,  terzo,  quarto e sesto comma, dell'art. 118, primo e
secondo  comma,  dell'art.  119,  primo  comma, e dell'art. 136 della
Costituzione,  del  principio di leale collaborazione e del principio
di  certezza  del  diritto,  nei  modi  e  per  i  profili di seguito
illustrati.
                              F a t t o

   Con il d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni,
dalla  legge  6  agosto 2008, n. 133, sono state dettate Disposizioni
urgenti   per   lo   sviluppo   economico,   la  semplificazione,  la
competitivita',  la  stabilizzazione  della  finanza  pubblica  e  la
perequazione tributaria.
   All'interno  del  Titolo II, Sviluppo economico, semplificazione e
competitivita',  e'  collocato il Capo IV, Casa e infrastrutture, che
contiene  alcune  disposizioni  in  materia  di edilizia residenziale
pubblica.  L'art.  11,  Piano  casa,  prevede  un  piano nazionale di
edilizia   abitativa   e   regola   dettagliatamente  gli  interventi
attraverso  cui  si  articola e le procedure attuative, istituendo un
apposito   Fondo  nello  stato  di  previsione  del  Ministero  delle
infrastrutture ed una gestione centralizzata degli interventi.
   L'art.  13, poi, Misure per valorizzare il patrimonio residenziale
pubblico,  che intervenendo nella gestione del patrimonio immobiliare
dell'edilizia  residenziale  pubblica  prevede  che il Ministro delle
infrastrutture   ed  il  Ministro  per  i  rapporti  con  le  Regioni
promuovono  in sede di Conferenza unificata la conclusione di accordi
con regioni ed enti locali aventi ad oggetto la semplificazione delle
procedure di alienazione degli immobili degli Iacp (comma 1), accordi
che devono tener conto dei criteri indicati nel comma 2.
   Il   Capo  VI,  Liberalizzazioni  e  deregolazione,  contiene  una
disposizione  (l'art.  23)  che  reca  Modifiche  alla disciplina del
contratto  di  apprendistato e, in particolare, al comma 2, inserisce
il  comma 5-ter nell'art. 49 d.lgs. n. 276/2003, in base al quale, in
caso  di  formazione  esclusivamente  aziendale, «i profili formativi
dell'apprendistato  professionalizzante sono rimessi integralmente ai
contratti   collettivi  di  lavoro  stipulati  a  livello  nazionale,
territoriale   o   aziendale.   ovvero  agli  enti  bilaterali»,  che
«definiscono  la  nozione  di formazione aziendale e determinano, per
ciascun  profilo  formativo,  la  durata e le modalita' di erogazione
della  formazione,  le  modalita'  di  riconoscimento della qualifica
professionale  ai  fini  contrattuali e la registrazione nel libretto
formativo».
   Ancora, il capo VI contiene l'art. 23-bis, Servizi pubblici locali
di  rilevanza  economica, che disciplina organicamente il settore dei
servizi  pubblici  locali  di  rilevanza  economica  e pone limiti ai
soggetti  titolari  della  gestione  di  servizi  pubblici locali non
affidati   mediante   le  procedure  competitive,  anche  tramite  la
previsione di regolamenti di delegificazione.
   Il Capo VII, Semplificazioni, contiene l'art. 26, Taglia-enti, che
al comma 1 sopprime gli enti pubblici non economici con una dotazione
organica  inferiore  alle  50 unita', esclusi gli enti indicati nella
medesima disposizione.
   All'interno   del   Titolo   III,  Stabilizzazione  della  finanza
pubblica,  il  Capo II e' dedicato al Contenimento della spesa per il
pubblico  impiego  e  l'art.  76 alle Spese di personale per gli enti
locali   e  delle  camere  di  commercio.  Il  comma  6-bis  di  tale
disposizione  riduce  dell'importo di 30 milioni di euro per ciascuno
degli  anni 2009, 2010 e 2011 i trasferimenti erariali a favore delle
comunita'  montane, con riferimento prioritario alle comunita' che si
trovano ad una altitudine media inferiore a settecentocinquanta metri
sopra il livello del mare.
   Infine,  il  Titolo IV, Perequazione tributaria, contiene nel Capo
I,  Misure  fiscali, l'art. 81, Settori petrolifero e del gas, che ai
commi  da  29  a  38-bis  istituisce  un  Fondo speciale destinato al
soddisfacimento  prioritario  delle  esigenze  di  natura alimentare,
energetica e sanitaria dei cittadini meno abbienti e, in particolare,
a finanziare la «social card», disciplinata dai commi 32-37.
   Tutte  tali norme risultano lesive delle competenze costituzionali
della Regione Liguria per le seguenti ragioni di
                            D i r i t t o

1)   Illegittimita'   costituzionale   dell'art.  11  per  violazione
dell'art.  117, terzo comma dell'art. 118, primo comma, dell'art. 119
della Costituzione e del principio di leale collaborazione.
   L'art. 11, d.l. n. 112/2008, prevede che, «al fine di garantire su
tutto   il  territorio  nazionale  i  livelli  minimi  essenziali  di
fabbisogno  abitativo  per  il pieno sviluppo della persona umana, e'
approvato  con  decreto  del  Presidente  del Consiglio dei ministri,
previa  delibera del Comitato interministeriale per la programmazione
economica  (CIPE)  e  d'intesa  con  la  Conferenza  unificata..., su
proposta  del  Ministro  delle  infrastrutture e dei trasporti, entro
sessanta  giorni  dalla  data  di  entrata  in  vigore della legge di
conversione  del  presente  decreto,  un  piano nazionale di edilizia
abitativa»  (comma  1).  Il  piano  «e'  rivolto  all'incremento  del
patrimonio  immobiliare  ad  uso  abitativo  attraverso  l'offerta di
abitazioni  di  edilizia residenziale, da realizzare nel rispetto dei
criteri  di  efficienza  energetica  e  di  riduzione delle emissioni
inquinanti,  con  il  coinvolgimento  di capitali pubblici e privati,
destinate prioritariamente a prima casa» per determinate categorie di
soggetti svantaggiati, indicati nel comma 2.
   In  base  al comma 3, «il piano nazionale di edilizia abitativa ha
ad  oggetto  la costruzione di nuove abitazioni e la realizzazione di
misure   di   recupero  del  patrimonio  abitativo  esistente  ed  e'
articolato,  sulla  base  di  criteri  oggettivi  che  tengano  conto
dell'effettivo  bisogno  abitativo  presente  nelle  diverse  realta'
territoriali»,  attraverso  gli  interventi  di seguito indicati, che
comprendono   la  costituzione  di  fondi  immobiliari  (lettera  a),
«l'incremento  del  patrimonio  abitativo  di edilizia con le risorse
anche  derivanti dalla alienazione di alloggi di edilizia pubblica in
favore  degli  occupanti  muniti di titolo legittimo» (lettera b), la
«promozione  da  parte  di privati di interventi anche ai sensi della
parte  II,  titolo  III, capo III, del codice dei contratti pubblici«
(lettera   c);  il  capo  III  in  questione  riguarda  il  promotore
finanziario,  la  societa'  di  progettazione  e  la disciplina della
locazione finanziaria per i lavori pubblici), le «agevolazioni, anche
amministrative,  in  favore  di cooperative edilizie costituite tra i
soggetti   destinatari   degli   interventi»,  la  «realizzazione  di
programmi  integrati  di  promozione  di  edilizia residenziale anche
sociale» (lettera e).
   Il  comma  4  prevede che «il Ministero delle infrastrutture e dei
trasporti  promuove la stipulazione di appositi accordi di programma,
approvati  con  decreto  del  Presidente  del Consiglio dei ministri,
previa  delibera  del CIPE, d'intesa con la Conferenza unificata,. al
fine   di   concentrare  gli  interventi  sulla  effettiva  richiesta
abitativa  nei  singoli contesti, rapportati alla dimensione fisica e
demografica    del   territorio   di   riferimento,   attraverso   la
realizzazione  di  programmi  integrati  di  promozione  di  edilizia
residenziale  e  di  riqualificazione  urbana«.  Sempre  il  comma  4
specifica che decorsi novanta giorni senza che sia stata raggiunta la
predetta  intesa,  «gli  accordi di programma possono essere comunque
approvati».
   Il  comma  5  dispone che 5 «gli interventi di cui al comma 4 sono
attuati anche attraverso le disposizioni di cui alla parte II, titolo
III, capo III, del citato codice» dei contratti pubblici... mediante:
a)  il  trasferimento  di diritti edificatori in favore dei promotori
degli   interventi   di   incremento  del  patrimonio  abitativo;  b)
incrementi premiali di diritti edificatori finalizzati alla dotazione
di  servizi, spazi pubblici e miglioramento della qualita' urbana...;
c)  provvedimenti  mirati  alla  riduzione  del  prelievo  fiscale di
pertinenza  comunale o degli oneri di costruzione; d) la costituzione
di  fondi  immobiliari  di  cui  al  comma  3,  lettera  a),  con  la
possibilita'  di  prevedere  altresi'  il  conferimento  al fondo dei
canoni di locazione, al netto delle spese di gestione degli immobili;
e)  la  cessione,  in  tutto o in parte, dei diritti edificatori come
corrispettivo  per  la  realizzazione  anche  di  unita' abitative di
proprieta'  pubblica  da destinare alla locazione a canone agevolato,
ovvero  da  destinare  alla  alienazione  in  favore  delle categorie
sociali svantaggiate di cui al comma 2».
   Dal  comma  8 risulta che, «in sede di attuazione dei programmi di
cui  al  comma  4,  sono  appositamente disciplinati le modalita' e i
termini  per  la  verifica  periodica delle fasi di realizzazione del
piano,   in   base   al  cronoprogramma  approvato  e  alle  esigenze
finanziarie,   potendosi   conseguentemente   disporre,  in  caso  di
scostamenti,   la   diversa  allocazione  delle  risorse  finanziarie
pubbliche verso modalita' di attuazione piu' efficienti». Inoltre, si
aggiunge  che  le  abitazioni realizzate o alienate nell'ambito delle
procedure  di  cui  al  presente  articolo  possono essere oggetto di
successiva alienazione decorsi dieci anni dall'acquisto originario.
   Il  comma  9  precisa  che  «l'attuazione del piano nazionale puo'
essere  realizzata, in alternativa alle previsioni di cui al comma 4,
con  le  modalita' approvative di cui alla parte II, titolo III, capo
IV,  del  citato codice» dei contratti pubblici, concernente i lavori
relativi a infrastrutture strategiche e a insediamenti produttivi.
   Il  comma  11  dispone  che,  «per  la  migliore realizzazione dei
programmi,  i  comuni  e le province possono associarsi» ai sensi del
d.1gs. n. 267/2000; che «i programmi integrati di cui al comma 4 sono
dichiarati  di  interesse  strategico  nazionale»  e  che  «alla loro
attuazione  si  provvede  con  l'applicazione»  dell'art.  81, d.P.R.
n. 616/1977.
   Infine,  il  comma  12  stabilisce  che  «per  l'attuazione  degli
interventi previsti dal presente articolo e' istituito un Fondo nello
stato   di  previsione  del  Ministero  delle  infrastrutture  e  dei
trasporti,  nel  quale  confluiscono  le  risorse  finanziarie di cui
all'art.  1,  comma  1154,  legge  n. 296/2006,  nonche'  di cui agli
articoli 21, 21-bis, ad eccezione di quelle gia' iscritte nei bilanci
degli   enti   destinatari   e  impegnate,  e  41  del  decreto-legge
n. 159/2007, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 222/2007».
Il  comma  12  aggiunge  che «gli eventuali provvedimenti adottati in
attuazione delle disposizioni legislative citate al primo periodo del
presente comma, incompatibili con il presente articolo, restano privi
di effetti».
   La  disciplina sopra riportata risulta a volte imprecisa o oscura,
In particolare, non e' precisato quali sono i soggetti che concludono
gli «accordi di programma» di cui al comma 4. Inoltre, non e' agevole
comprendere in che modo si configuri un'attivita' regolativa «in sede
di   attuazione   dei   programmi»   (comma   8),  ne'  in  che  modo
all'attuazione  dei  programmi  di  cui  al  comma  4 si provveda con
l'applicazione  dell'art.  81, d.P.R. n. 616/1977, che contiene norme
di diversa natura, alcune delle quali abrogate.
   Nel  complesso,  pero',  e' chiaro che l'art. 11, d.l. n. 112/2008
regola  dettagliatamente gli interventi attraverso cui si articola il
Piano  casa  e  le  procedure attuative, istituendo un apposito Fondo
presso   il   Ministero   delle   infrastrutture   ed   una  gestione
centralizzata degli interventi.
   La   potesta'   legislativa   regionale  in  materia  di  edilizia
residenziale pubblica e' stata riconosciuta sin dagli anni '70 (v. ad
es.,  la  sent.  n. 140/1976  di  codesta  Corte), anche se e' con il
d.P.R.  n. 616/1977  che  e' stato attuato un rilevante trasferimento
alle  regioni  delle  competenze  in materia di edilizia residenziale
pubblica (v. gli artt. 87, 88, 93 e 94).
   In particolare, l'art. 93 di tale decreto trasferisce alle regioni
le    funzioni   concernenti   «la   programmazione   regionale,   la
localizzazione,   le  attivita'  di  costruzione  e  la  gestione  di
interventi di edilizia residenziale e abitativa pubblica, di edilizia
convenzionata,  di edilizia agevolata, di edilizia sociale nonche' le
funzioni connesse alle relative procedure di finanziamento».
   A  seguito del d.P.R. n. 616/1977, codesta Corte ha specificato, a
proposito  dell'edilizia  residenziale pubblica, che «si verte in una
materia  attribuita  in  via  generale  alla  competenza  legislativa
regionale»  (sentenza  n. 217  del  1988).  Sempre con riferimento al
quadro  costituzionale  anteriore alla riforma del Titolo V, la Corte
ha  statuito  (sentenza  n. 727  del  1988)  che  «al  di fuori della
formulazione  dei "criteri generali" da osservare nelle assegnazioni,
e'  attribuita  alle regioni la piu' ampia potesta' legislativa nella
materia,  e  quindi  la disciplina attinente alle assegnazioni e alle
successive   vicende   dei  relativi  rapporti»  (fra  le  quali,  la
trasformazione  della locazione in proprieta': cio' rileva per l'art.
13,  impugnato  nel  punto 2). La competenza legislativa regionale in
materia di edilizia residenziale pubblica era pertanto «riconducibile
all'art.  117, primo comma, Cost.» e gli Istituti autonomi delle case
popolari  dovevano essere «considerati come enti regionali» (sentenza
n. 1115 del 1988).
   Gli   artt.   59  ss.  del  d.lgs.  n. 112/1998  hanno  confermato
l'ampiezza   delle   competenze  regionali  in  materia  di  edilizia
residenziale   pubblica.  L'art.  60  conferisce  alle  regioni,  «in
particolare»,  la  «determinazione  delle  linee d'intervento e degli
obiettivi  nel  settore», la programmazione delle risorse finanziarie
destinate   al   settore»,   la   «gestione»  e  l'«attuazione  degli
interventi»,    nonche'    la   «definizione   delle   modalita'   di
incentivazione»,  la  «determinazione  delle  tipologie di intervento
anche  attraverso  programmi  integrati,  di  recupero  urbano  e  di
riqualificazione    urbana»,   la   «fissazione   dei   criteri   per
l'assegnazione  degli  alloggi  di  edilizia  residenziale  destinati
all'assistenza  abitativa»,  nonche'  la «determinazione dei relativi
canoni».
   La  riforma  del Titolo V ha introdotto due importanti elementi di
novita': la «creazione» di una potesta' legislativa regionale piena e
l'attribuzione  allo Stato della competenza esclusiva di cui all'art.
117,  secondo  comma, lettera. m). A seguito di cio', la Corte - come
noto  -  ha  puntualizzato  in  questo  modo  l'attuale assetto delle
competenze  in materia di edilizia residenziale pubblica: «la materia
dell'edilizia   residenziale  pubblica  si  estende  su  tre  livelli
normativi»,   il   primo   dei   quali  «riguarda  la  determinazione
dell'offerta minima di alloggi destinati a soddisfare le esigenze dei
ceti   meno   abbienti»  («in  tale  determinazione  -  che,  qualora
esercitata,  rientra  nella competenza esclusiva dello Stato ai sensi
dell'art.  117,  secondo  comma,  lettera m), cost. - si inserisce la
fissazione  di  principi  che  valgano  a garantire l'uniformita' dei
criteri  di  assegnazione  su  tutto  il  territorio  nazionale»); il
secondo   livello   normativo   «riguarda   la  programmazione  degli
insediamenti  di  edilizia  residenziale  pubblica,  che ricade nella
materia  "governo del territorio", ai sensi del terzo comma dell'art.
117  Cost.»; il terzo livello normativo, «rientrante nel quarto comma
dell'art.  117 Cost., riguarda la gestione del patrimonio immobiliare
di  edilizia  residenziale  pubblica  di  proprieta'  degli  Istituti
autonomi  per  le  case popolari o degli altri enti che a questi sono
stati  sostituiti  ad  opera  della legislazione regionale» (cosi' la
sent. 94/2007).
   Se  ora  si valutano le norme impugnate dell'art. 11 alla luce del
riparto  di  competenze  appena  illustrato,  emerge, ad avviso della
ricorrente  Regione,  che esse esorbitano dai limiti della competenza
statale in materia edilizia residenziale pubblica.
   Innanzi  tutto,  e'  da  precisare  che  non risulta pertinente il
riferimento,  contenuto  al comma 1, ai «livelli minimi essenziali di
fabbisogno  abitativo»:  l'art. 11 non determina «l'offerta minima di
alloggi  destinati  a  soddisfare le esigenze dei ceti meno abbienti»
(per  usare  le  espressioni  della  sent. n. 94/2007), non individua
alcun  «livello» di prestazione sociale, ma prevede solo un Piano per
«incrementare»  (comma 2) il patrimonio immobiliare ad uso abitativo.
Fra  l'altro,  la  destinazione  degli  immobili  a  prima  casa  per
categorie svantaggiate e' «prioritaria» (comma 2) ma non esclusiva.
   Dunque,  l'ambito  principale  di  riferimento  dell'art. 11 e' la
programmazione  degli  interventi  di edilizia residenziale pubblica,
che   ricade   -  come  visto  -  nella  competenza  concorrente.  Il
riferimento ai «livelli minimi essenziali», lungi dal dare fondamento
costituzionale  all'art.  11,  concorre  ad inficiarlo perche' rivela
l'intento  del  legislatore  di  «attrarre»  la  disciplina  verso le
materie di competenza esclusiva statale.
   Il  comma  2  non  e'  oggetto  di  impugnazione in quanto fissa i
criteri  generali  per  individuare i beneficiari degli interventi e,
quindi,  rientra  nel  «primo  livello  normativo»  di cui alla sent.
n. 94/2007.
   I  commi 3, 4, 5, 8 e 9 risultano lesivi perche' non si limitano a
fissare  obiettivi  ed  indirizzi  per la programmazione regionale di
edilizia  residenziale  pubblica  o  ad attribuire al Piano nazionale
questo   scopo   (in   questi  limiti,  esso  avrebbe  potuto  essere
giustificato  ex  art.  118,  primo  comma,  Cost.)  ma  dettano  una
disciplina  completa  e  dettagliata  della  tipologia  di interventi
(commi  3  e  5) e delle procedure di attuazione e verifica del piano
(commi  4,  8  e  9),  che  sembrano  svolgersi attraverso un «doppio
livello» (accordi di programma e programmi integrati di promozione di
edilizia residenziale). Si tenga presente che fin dall'art. 60, comma
1, lettera d) d.lgs. n. 112/1998 spetta alle regioni, come accennato,
la  «determinazione  delle  tipologie  di intervento anche attraverso
programmi   integrati,  di  recupero  urbano  e  di  riqualificazione
urbana».
   La  disciplina  dell'art. 11 pare destinata ad essere integrata da
quanto  sara'  stabilito in sede di accordi di programma (ed «in sede
di attuazione dei programmi», secondo l'oscura formula del comma 8) e
non  emergono  spazi  per una disciplina regionale di svolgimento dei
principi statali.
   Dunque,  i  commi 3, 4, 5, 8 e 9 risultano illegittimi perche' non
dettano   i   principi  regolatori  della  programmazione  regionale,
lasciando   spazio   a  leggi  regionali  regolatrici  dei  programmi
regionali,  ma  prevedono una complessa procedura gestita dal centro,
esaurendo gli spazi di normazione (salvo quanto saro' stabilito dagli
accordi di programma).
   La  giurisprudenza  costituzionale  ha  piu' volte annullato norme
legislative  statali  che  non  lasciavano  un  margine  di scelta al
legislatore  regionale  in  materie concorrenti (v., ad es., la sent.
n. 401/2007,  punto  16,  e  la  sent. n. 339/2007; d'altro canto, la
sent.  n. 387/2007 ha giustificato la legge statale impugnata perche'
le  «norme  censurate  sono  molto ampie e richiedono... un'attivita'
normativa  di  attuazione,  precisazione  e  adattamento alle singole
realta' territoriali, di competenza delle regioni»).
   Si  noti  che,  nei  termini  sopra  esposti,  l'art.  11  risulta
nettamente  differente  rispetto  alle  norme  della legge n. 9/2007,
fatte  salve  dalla  sent.  n. 166/2008.  Infatti  la legge n. 9/2007
prevede  che  le  Regioni  predispongano  piani straordinari (art. 3,
comma  1),  ed  il programma nazionale di cui all'art. 4 contiene gli
obiettivi  e  gli  indirizzi per la programmazione regionale: dunque,
l'art.  4,  comma  2, sembra effettivamente una norma di principio in
materia di programmazione dell'Erp (v. sent. n. 94/2007) ed il potere
statale di predisporre il programma nazionale si puo' giustificare ex
art.  118,  primo comma, Cost.: non a caso, esso e' stato fatto salvo
dalla  Corte  perche'  «non  interferisce  nella  predisposizione dei
programmi  regionali,  ma  si  limita  a  fissare  le  linee generali
indispensabili per l'armonizzazione dei programmi su scala nazionale»
(cosi' la sent. n. 166/2008).
   Invece,  l'art.  11 ha il contenuto dettagliato sopra illustrato e
non  prevede affatto programmi regionali. I commi 1 e 4 attribuiscono
al  Ministero delle infrastrutture, al Presidente del Consiglio ed al
CIPE  poteri  non  sonetti  da  esigenze  unitarie,  perche'  non  si
traducono  nella fissazione delle linee generali della programmazione
regionale   o   in  atti  che  richiedono  una  visione  unitaria  ma
nell'adozione  di criteri (comma 1) e, soprattutto, accordi (comma 4)
gia' «calibrati» sulle diverse realta' territoriali (come risulta dal
riferimento  all'«effettivo  bisogno abitativo presente nelle diverse
realta' territoriali», all'«effettiva richiesta abitativa nei singoli
contesti»  e  «alla dimensione fisica e demografica del territorio di
riferimento»; quanto ai «programmi integrati», v. infra).
   Per   tener   conto  delle  particolari  esigenze  di  determinati
territori  in  termini  costituzionalmente  legittimi,  lo Stato deve
attivare  «interventi  speciali»  ex  art.  119,  quinto  comma,  non
accentrare  la  regolazione  e  la  gestione di un piano nazionale di
edilizia abitativa.
   Gli accordi di programma di cui al comma 4 sembrano gia' implicare
la  localizzazione  degli  insediamenti:  il che risulta lesivo delle
competenze  regionali,  considerato che gia' dal 1977 sono trasferite
alle  regioni  «le  funzioni  amministrative  statali  concernenti la
programmazione   regionale,   la   localizzazione,  le  attivita'  di
costruzione  e  la  gestione di interventi di edilizia residenziale e
abitativa pubblica, di edilizia convenzionata, di edilizia agevolata,
di  edilizia  sociale  nonche'  le  funzioni  connesse  alle relative
procedure di finanziamento» (art. 93, comma 1, d.P.R. n. 616/1977).
   Dunque, i commi 1 e 4 dell'art. 11 risultano illegittimi anche per
violazione  dell'art.  118,  primo  comma,  Cost. in quanto prevedono
poteri  amministrativi statali senza che sussistano esigenze unitarie
idonee a giustificarli.
   E'  inoltre  da  sottolineare  che  l'ultimo  periodo  del comma 4
precisa  espressamente  che  gli  accordi di programma possono essere
approvati  anche  senza  intesa  con la Conferenza unificata; dunque,
anche  qualora  -  in  denegata  ipotesi  -  i poteri statali fossero
considerati legittimi, sarebbe in ogni modo incostituzionale l'ultimo
periodo   del   comma   4  per  violazione  del  principio  di  leale
collaborazione,   dato  che  la  forte  incidenza  degli  accordi  di
programma  su  una  materia  di  competenza  regionale  non  puo' non
richiedere un'intesa (appunto) «forte».
   Quanto  al comma 11, esso dichiara i programmi integrati di cui al
comma 4 «di interesse strategico nazionale» e cio' pare sottintendere
che  anche  su di essi puo' esserci un potere codecisorio statale (il
comma  4  non  precisa  da  chi  sono approvati questi programmi). In
questi  termini,  il comma 11 viola l'art. 118, primo comma, cost. in
quanto  prevede un potere statale non sorretto da esigenze unitarie e
gia'  attribuito  alle  regioni  dall'art.  93,  d.P.R. n. 616/1977 e
dall'art. 60 d.lgs. n. 112/1998 (v. soprattutto la letter d).
   Infine,  il  comma  12  istituisce  un  fondo settoriale presso il
Ministero   delle  infrastrutture,  nel  quale  confluiscono  risorse
contemplate  da altre leggi. Non e' precisato a chi saranno destinate
le risorse.
   Ove  dovesse  intendersi che di tale fondo dispone direttamente il
Ministero vi sarebbe violazione piena delle competenze legislative ed
amministrative  regionali, con violazione dell'art. 117, commi 3 e 4,
dell'art.  118,  primo  comma,  oltre  che dell'autonomia finanziaria
regionale.
   Ma  se  anche  si  debba intendere - come la regione ritiene - che
esse  debbano «transitare» attraverso le regioni (dato che l'art. 93,
d.P.R.  n. 616/1977  attribuisce  ad  esse le «funzioni connesse alle
relative  procedure  di  finanziamento»),  comunque, il comma 12 crea
presso  il  Ministero un fondo settoriale a destinazione vincolata in
materia   di   competenza   regionale,   invece   di   attribuire  le
corrispondenti  risorse  alle  regioni  (si  ricordi  che  l'art. 60,
lettera   b),   d.lgs.   n. 112/1998   attribuisce  alle  regioni  la
«programmazione delle risorse finanziarie destinate al settore»).
   In   tal  modo,  il  comma  12  viola  in  ogni  caso  l'autonomia
finanziaria  regionale  (art.  119  Cost.),  come  risulta  ormai  da
consolidata  giurisprudenza  costituzionale; piu' volte codesta Corte
ha  colpito  fondi istituiti proprio in materie «sociali», precisando
che  le  risorse dovevano essere assegnate alle regioni per generiche
finalita' sociali: v., ad es., le sentt. n. 168/2008 e n. 181/2006.
2) Illegittimita' dell'art. 13, commi 1 e 2, per violazione dell'art.
117, quarto comma, dell'art. 119 dell'art. 136 della Costituzione.
   L'art.  13,  d.l.  n. 112/2008 dispone al comma l che, «al fine di
valorizzare gli immobili residenziali costituenti il patrimonio degli
Istituti  autonomi  per  le  case popolari, comunque denominati, e di
favorire  il soddisfacimento dei fabbisogni abitativi, entro sei mesi
dalla  data  di  entrata  in  vigore del presente decreto il Ministro
delle  infrastrutture  e  dei trasporti ed il Ministro per i rapporti
con  le  regioni  promuovono,  in sede di Conferenza unificata,... la
conclusione  di  accordi con regioni ed enti locali aventi ad oggetto
la  semplificazione  delle procedure di alienazione degli immobili di
proprieta' dei predetti Istituti».
   Il comma 2 fissa di criteri di cui «si tiene conto» «ai fini della
conclusione  degli  accordi di cui al comma l», nei seguenti termini:
«a)  determinazione del prezzo di vendita delle unita' immobiliari in
proporzione  al canone di locazione; b) riconoscimento del diritto di
opzione  all'acquisto,  purche'  i  soggetti  interessati  non  siano
proprietari  di  un'altra abitazione, in favore dell'assegnatario non
moroso  nel pagamento del canone di locazione o degli oneri accessori
unitamente al proprio coniuge, qualora risulti in regime di comunione
dei  beni, ovvero, in caso di rinunzia da parte dell'assegnatario, in
favore   del   coniuge   in   regime  di  separazione  dei  beni,  o,
gradatamente,  del convivente more uxorio, purche' la convivenza duri
da   almeno   cinque  anni,  dei  figli  conviventi,  dei  figli  non
conviventi;  c)  destinazione  dei  proventi  delle  alienazioni alla
realizzazione di interventi volti ad alleviare il disagio abitativo».
   Dunque,  l'art.  13,  commi 1 e 2, regola - sia dal punto di vista
procedurale  (attraverso il rinvio agli accordi in sede di Conferenza
unificata)   sia   dal  punto  di  vista  sostanziale  -  la  materia
dell'alienazione   degli  immobili  degli  «Iacp»,  con  il  fine  di
valorizzare   il   patrimonio  immobiliare  di  questi,  di  favorire
l'acquisto  in  proprieta'  da parte degli assegnatari e di acquisire
risorse  per  realizzare  nuovi  interventi  di edilizia residenziale
pubblica.
   Nel  punto  1  si  e'  gia' illustrata l'ampiezza delle competenze
regionali  in  materia  di  Erp. E' ora il caso di evidenziare alcune
disposizioni  che  conferiscono alle regioni la competenza proprio in
relazione  alla  vendita  degli  immobili  degli Iacp. Innanzi tutto,
l'art.  93,  d.P.R. n. 616/1977 trasferisce alle regioni «le funzioni
statali  relative agli I.A.C.P. fermo restando il potere alle regioni
di  cui all'art. 13 di stabilire soluzioni organizzative diverse». Di
particolare interesse, per la presente controversia, e' l'art. 94 che
trasferisce  «alle  regioni  le  funzioni  amministrative  esercitate
dall'amministrazione  centrale  e  periferica dei lavori pubblici, in
base  al  regio  decreto  28  aprile  1938,  n. 1165», e, inoltre, la
funzione  relativa  alla  determinazione  dei  requisiti e dei prezzi
massimi  delle  abitazioni,  ai sensi dell'art. 8 del decreto-legge 6
settembre  1965,  n. 1022,  convertito  nella legge 1° novembre 1965,
n. 1179».
   Infatti,  il  r.d. n. 1165/1938 (ora abrogato proprio dall'art. 24
del  d.l.  n. 112/2008) concerneva - agli artt. 31, 34 e 35 - proprio
la  procedura di vendita delle case popolari, attribuendo al Ministro
per i lavori pubblici il potere di autorizzare gli Iacp a vendere gli
immobili agli inquilini e regolando il relativo prezzo di vendita.
   Quanto al d.l. n. 1022/1965, l'art. 8, comma 3, di esso stabilisce
che  «il Ministro dei lavori pubblici stabilira' con proprio decreto,
con  riferimento alle situazioni locali, il prezzo massimo, per metro
quadrato  o per metro cubo, degli alloggi da costruire con i benefici
del  presente  decreto,  nonche'  l'incidenza massima del costo delle
aree» (i commi 4 e 5 regolano poi la vendita).
   Dunque,  sin  dal  1977 alle regioni sono attribuite le competenze
relative  all'alienazione  degli  immobili  degli  Iacp, sia sotto il
profilo procedurale sia sotto quello del prezzo di vendita.
   E'  poi  da ricordare che, in base alla sent. n. 94/2007, il terzo
livello  normativo, «rientrante nel quarto comma dell'art. 117 Cost.,
riguarda   la   gestione   del  patrimonio  immobiliare  di  edilizia
residenziale  pubblica  di  proprieta' degli Istituti autonomi per le
case  popolari  o degli altri enti che a questi sono stati sostituiti
ad  opera della legislazione regionale»; ancora gli Istituti autonomi
delle  case  popolari devono essere «considerati come enti regionali»
(sentenza n. 1115 del 1988).
   La   sentenza   n. 94   del  2007  e'  interessante  non  solo  la
precisazione  relativa  al riparto delle competenze in materia di Erp
ma  anche  perche'  ha  annullato due disposizioni del tutto simili a
quelle  qui impugnate. Infatti il comma 597, legge n. 266/2005, cioe'
della  legge  finanziaria  per il 2006, prevedeva che, «ai fini della
valorizzazione   degli   immobili  costituenti  il  patrimonio  degli
Istituti  autonomi  per  le  case  popolari, comunque denominati», un
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri - da emanare previo
accordo  tra Governo e regioni - semplificasse le norme in materia di
alienazione degli immobili di proprieta' degli Istituti medesimi.
   Dunque, rispetto all'art. 13, comma 1, d.l. n. 112/2008, l'accordo
intercorreva  solo con le regioni (e non anche con gli enti locali) e
veniva recepito in un d.P.C.m.
   Il  comma 598 fissava i principi-guida per l'accordo tra Governo e
regioni,  praticamente  uguali  a quelli di cui all'art. 13, comma 2,
d.l.    n. 112/2008;    anzi,   quest'ultima   disposizione   risulta
peggiorativa perche' - a proposito della determinazione del prezzo di
vendita  -  non  fa  riferimento alle «vigenti leggi regionali» (come
faceva, invece, l'art. 1, comma 598, legge n. 266/2005).
   La  Corte  costituzionale  ha  annullato il comma 597 perche' « il
fine  della  disposizione  in  esame  non  e'  quello  di dettare una
disciplina generale in tema di assegnazione degli alloggi di edilizia
residenziale pubblica, di competenza dello Stato,... bensi' quello di
regolare  le procedure amministrative e organizzative per arrivare ad
una  piu'  rapida  e conveniente cessione degli immobili»: «si tratta
quindi - continuava la Corte - di un intervento normativo dello Stato
nella gestione degli alloggi di proprieta' degli I.A.C.P. (o di altri
enti  o  strutture  sostitutivi  di questi), che esplicitamente viene
motivato  dalla  legge  statale con finalita' di valorizzazione di un
patrimonio  immobiliare  non  appartenente  allo  Stato,  ma  ad enti
strumentali  delle  regioni».  La  conclusione della Corte e' che «si
profila,  pertanto,  una  ingerenza  nel  terzo livello di normazione
riguardante  l'edilizia residenziale pubblica, sicuramente ricompreso
nella  potesta'  legislativa  residuale  delle  regioni, ai sensi del
quarto comma dell'art. 117 Cost.».
   Quanto  al  comma  598  (corrispondente,  come detto, all'art. 13,
comma  2), la Corte lo ha dichiarato illegittimo perche' esso «e' una
logica  conseguenza  del  comma  precedente,  giacche'  fissa  alcuni
obiettivi  al  decreto  del  Presidente del Consiglio dei ministri da
emanarsi   successivamente»;  esso  non  pone  «criteri  uniformi  di
assegnazione  degli  alloggi  di  edilizia  residenziale  pubblica in
relazione  alla  soddisfazione  del  diritto  sociale all'abitazione,
ma...   indirizzi   e  limiti«  in  un  «ambito  materiale  riservato
esclusivamente  alle regioni: non vengono in rilevo, infatti, profili
programmatori  o progettuali idonei ad avere un qualsiasi impatto con
il territorio».
   La  Corte  esclude  anche  che  la materia possa essere ricondotta
all'«ordinamento  civile», «poiche' si tratta di criteri destinati ad
incidere  sulle  procedure  amministrative  inerenti  all'alienazione
degli  immobili di proprieta' di enti regionali e non gia' a regolare
rapporti giuridici di natura privatistica».
   La  sentenza  n. 94/2007  conclude  ricordando  che «la competenza
regionale  in materia e' stata gia' riconosciuta dalla giurisprudenza
di  questa Corte (si veda, ad esempio, la sentenza n. 486 del 1995) e
non   v'e'  spazio,  pertanto,  per  una  normativa  statale  che  si
sostituisca  o  si  sovrapponga  a  quella  delle regioni, tuttora in
vigore».   L'alienazione   degli   alloggi  deve  essere  considerata
«indissolubilmente connessa con l'assegnazione degli stessi»: dunque,
«se  la  "disciplina  organica  dell'assegnazione  e  cessione  degli
alloggi di edilizia residenziale pubblica [...] costituisce, in linea
di  principio, espressione della competenza spettante alla regione in
questa  materia"  (ordinanza  n. 104  del  2004), la disciplina delle
procedure   amministrative   tendenti   all'alienazione  non  rientra
nell'ordinamento  civile,  ma  deve  essere  ricondotta  al potere di
gestione  dei  propri  beni e del proprio patrimonio, appartenente in
via esclusiva alle regioni ed ai loro enti strumentali».
   I  passi  appena citati possono essere agevolmente addotti al fine
di  argomentare  l'illegittimita'  dei commi 1 e 2 dell'art. 13, d.l.
n. 112/2008.  La  somiglianza  di tali norme con i commi 597 e 598 e'
gia'  stata  illustrata, ma e' opportuno sottolineare che la presenza
nel precedente testo di un regolamento governativo (cosi' la Corte ha
qualificato il d.P.C.m. di cui al comma 597) non vale a differenziare
il  comma  597  dall'art.  13,  comma  1:  quel  regolamento  infatti
presupponeva  necessariamente  l'accordo tra Governo e regioni, tanto
e'  vero  che  il  comma  598  fissava  i criteri che dovevano essere
rispettati  dall'accordo  stesso.  Dunque,  era  questo  il vero atto
regolatore  della  materia, mentre il d.P.C.m. aveva solo la funzione
di  recepire  il contenuto dell'accordo e di formalizzarlo in un atto
normativo tipico.
   Pertanto, l'unica differenza fra il comma 597 e l'art. 13, comma 1
(a  parte il coinvolgimento degli enti locali), sta nel fatto che nel
presente  giudizio  non  ha ragione di essere invocato come parametro
l'art.  117,  sesto  comma,  Cost.,  mancando  un  atto regolamentare
statale in materia regionale.
   Quanto  sopra  argomentato  non potrebbe essere contraddetto dalla
circostanza  che  la  disciplina  di  recepimento dei criteri fissati
dall'art.  13,  comma,  2,  avviene  (ai  sensi del comma 1) mediante
«accordi»,  da  stipulare  «in  sede  di  Conferenza  unificata», con
«regioni ed enti locali». Tali accordi, infatti, si porrebbero poi di
necessita'  come improprio condizionamento della potesta' legislativa
regionale,  da  parte  di un organismo e di un atto non legittimati a
produrre tale condizionamento.
   Si noti che il lesivo condizionamento si verificherebbe persino se
si supponesse che gli «accordi» in questione, benche' da stipulare in
sede  di  Conferenza, intercorressero non con la Conferenza ma con la
singola   Regione:  dato  che  la  potesta'  legislativa  spetta  per
Costituzione  ad  un  organo  diverso  da  quello  che  concluderebbe
l'accordo  e  non  puo'  essere  vincolata  (come  vorrebbe  la legge
statale)  a  previ  accordi  intercorsi  tra  soggetti  privi di tale
potesta'.
   Ancora   piu'   lesiva  sarebbe  poi  l'ipotesi  -  anch'essa  non
impensabile  sulla base dell'ambiguo testo dell'art. 13, comma 1 - di
un  accordo  stipulato direttamente tra uno o piu' Ministri e singoli
comuni:   dai   quali  risulterebbe  direttamente  lesa  la  potesta'
legislativa spettante alla regione.
   In  definitiva,  l'art. 13, commi 1 e 2, d.l. n. 112/2008, risulta
lesivo  della  competenza  legislativa  regionale in quanto regola la
materia   della  gestione  del  patrimonio  immobiliare  degli  Iacp,
rientrante  nella  potesta'  regionale piena (art. 117, quarto comma,
Cost.).
   Inoltre,  il  fatto  che  lo  Stato  abbia  reiterato - in termini
pressoche' identici - una disciplina annullata a distanza di soli tre
anni  fa  si' che le norme impugnate siano illegittime, oltre che per
violazione   dell'art.   117,  quarto  comma,  anche  per  violazione
dell'art.  136  Cost.,  cioe' del giudicato costituzionale, in quanto
l'art.  13,  commi  1  e  2,  rida' efficacia a norme gia' dichiarate
illegittime dalla Corte costituzionale.
   L'art.  13,  comma  2,  lettera  c)  prevede  la «destinazione dei
proventi  delle alienazioni alla realizzazione di interventi volti ad
alleviare  il  disagio  abitativo».  In  questo  modo, il legislatore
statale  pone  un  vincolo  di  destinazione  all'uso  delle  risorse
spettanti   agli   Iacp,   cioe'  a  enti  para-regionali,  limitando
l'autonomia  finanziaria  di  spesa  garantita alle regioni dall'art.
119, primo comma, Cost. Di qui un'ulteriore ragione di illegittimita'
dell'art. 13, comma 2, lettera c), che si aggiunge a quelle derivanti
dalla violazione degli artt. 117, quarto comma, e 136 Cost.
3)  Illegittimita'  dell'art.  23,  comma 2, per violazione dell'art.
117, quarto comma, Cost.
   Come  sopra  esposto  l'art.  23, d.l. n. 112/2008, reca Modifiche
alla disciplina del contratto di apprendistato.
   Esso,  in  particolare,  al  comma  2,  inserisce  il  comma 5-ter
nell'art. 49, d.lgs. n. 276/2003. In base alla nuova disposizione, in
caso  di  formazione  esclusivamente  aziendale,  «non  opera  quanto
previsto  dal  comma  5»;  in  questa  ipotesi,  invece,  «i  profili
formativi   dell'apprendistato   professionalizzante   sono   rimessi
integralmente  ai  contratti collettivi di lavoro stipulati a livello
nazionale,  territoriale  o aziendale... ovvero agli enti bilaterali»
(cioe',  a  quegli  organismi  previsti  dai  contratti  collettivi e
composti  da  esponenti delle associazioni dei datori di lavoro e dei
sindacati),  che  «definiscono  la  nozione di formazione aziendale e
determinano,  per ciascun profilo formativo, la durata e le modalita'
di  erogazione della formazione, le modalita' di riconoscimento della
qualifica  professionale  ai fini contrattuali e la registrazione nel
libretto formativo».
   Il  comma  5  dell'art.  49  -  chiamato  ora  a  «non  operare» -
stabilisce   che   «la   regolamentazione   dei   profili   formativi
dell'apprendistato professionalizzante e' rimessa alle regioni e alle
Province  autonome  di Trento e Bolzano, d'intesa con le associazioni
dei   datori   e   prestatori   di   lavoro   comparativamente   piu'
rappresentative  sul  piano  regionale  e  nel  rispetto dei seguenti
criteri  e  principi  direttivi»,  che  riguardano  sia la formazione
interna  che  quella  esterna  alla  azienda  (v.  la lettera a) e la
lettera c).
   In  questo  modo,  l'art.  23,  comma  2,  sottrae  una competenza
normativa  gia' riconosciuta alle regioni e la attribuisce alla fonte
contrattuale,    destinata    a    regolare   i   profili   formativi
dell'apprendistato   professionalizzante  in  relazione  a  tutte  le
imprese  e a tutti gli apprendisti: ivi compresi, si noti, quelli non
iscritti ad alcun sindacato.
   A  prescindere  da valutazioni sull'opportunita' di una disciplina
del  genere  (nei  settori  dove  il  ccl e' solo nazionale - come il
commercio - i profili formativi saranno rimessi agli enti bilaterali,
che  si  trovano  in  grossa  difficolta'  per  adempiere  il compito
affidato   dall'art.   23),   tale  circostanza  (cioe',  l'efficacia
normativa del ccl) determina un problema di compatibilita' con l'art.
39 Cost. che, come noto, ammette l'efficacia generale del ccl solo se
il   sindacato   e'   registrato   e,  quindi,  non  l'ammette,  data
l'inattuazione dell'art. 39.
   Naturalmente,  la  questione  si  e'  gia'  posta (non essendo una
novita'  che  il  legislatore  rinvil ai ccl per l'integrazione della
propria   disciplina)   e,  in  passato,  la  Corte  ha  sottolineato
l'illegittimita'  di  leggi  del genere (v. la sent. n. 106/1962 e la
sent.  n. 344/1996),  e  le ha giustificate solo «quando si tratta di
materie  del rapporto di lavoro che esigono uniformita' di disciplina
in  funzione  di  interessi  generali connessi al mercato del lavoro,
come  il  lavoro a tempo parziale..., i contratti di solidarieta'...,
la  definizione  di  nuove  ipotesi  di  assunzione a termine» (sent.
344/1996).
   Poiche' i profili formativi dell'apprendistato professionalizzante
di  certo  non  rappresentano  una  materia  che esige una disciplina
uniforme  per  gli  interessi  del  mercato del lavoro, la «delega di
funzioni  paralegislative»  (per  usare  un'espressione  della  sent.
n. 344/1996)  ai contratti collettivi - operata dall'art. 23, comma 2
-  costituisce una palese violazione dell'art. 39 Cost. e trasforma i
contratti  stessi (o gli accordi conclusi in sede di ente bilaterale)
in una fonte extra-ordinem.
   Poiche'  attraverso  questa  violazione si produce una menomazione
delle  competenze regionali (dato che la regione viene privata di una
potesta'   normativa   che  prima  aveva,  anche  in  relazione  alla
formazione  aziendale,  come  risulta  dall'art.  49, comma 5, d.lgs.
n. 276/2003)  e  poiche' si verte in materia di competenza regionale,
esistono  tutti  gli  elementi della lesione di competenza indiretta,
nel  senso  che  la  violazione dell'art. 117, quarto comma, Cost. si
determina  attraverso  la violazione dell'art. 39 cost. (si tratta di
una  connessione  che  codesta ecc.ma Corte ha in molti casi ammesso,
ammettendo  le  relative censure: v., ad es., le sentt. nn. 503/2000,
206/2001,  punti 15, 16 e 34, 110/2001, 303/2003, punto 35, 280/2004,
355/1993).  Di  qui  la  legittimazione  regionale  a  far  valere la
violazione  dell'art.  39  e,  tramite questa, della propria potesta'
legislativa  in  materia di formazione professionale. Del resto, gia'
in  un'occasione  codesta Corte ha mostrato di non escludere a priori
il  riferimento  all'art.  39 Cost. in un ricorso regionale (v. sent.
n. 219/1984).
   Fra  l'altro,  l'assegnazione alla contrattazione collettiva della
funzione  di  fonte esclusiva, in luogo di quella regionale, viola il
principio  di  certezza  del  diritto perche' si istituisce una fonte
extra-ordinem  i  cui  rapporti con le previgenti leggi regionali non
sono  chiari;  anche tale violazione si riflette in una lesione della
competenza  regionale dato che incide sull'applicabilita' delle leggi
regionali.
   Inoltre,  come  noto,  la  formazione  professionale rientra nella
competenza  regionale  piena,  come risulta dall'espressa clausola di
esclusione  di  cui all'art. 117, comma 3, Cost. Pur se codesta Corte
ha  ritenuto che la formazione aziendale non rientri nella competenza
regionale  ma nel sinallagma contrattuale e, quindi, nelle competenze
dello  Stato  in  materia  di  ordinamento civile (sent. n. 50/2005),
tuttavia    «le   modalita'   di   riconoscimento   della   qualifica
professionale  ai fini contrattuali» e «la registrazione nel libretto
formativo»   (menzionate   nell'ultimo   periodo  della  disposizione
impugnata)   non   attengono   propriamente  allo  svolgimento  della
formazione  aziendale (cioe', alla prestazione spettante al datore di
lavoro)  ma  a profili diversi, rientranti nella competenza regionale
in  materia di formazione (art. 117, quarto comma 4) e di professioni
(art.  117, terzo comma, Cost.). Dunque, in relazione a tali profili,
l'eliminazione   della  competenza  regionale  risulta  lesiva  delle
prerogative costituzionali della regione.
   E'  dunque  illegittima, almeno per questi profili, la sottrazione
della  materia  alla  disciplina  generale di cui al comma 5 che, fra
l'altro,  gia' si occupa del «riconoscimento sulla base dei risultati
conseguiti  all'interno del percorso di formazione, esterna e interna
alla impresa, della qualifica professionale ai fini contrattuali».
   In relazione a tali profili, in ogni modo, se anche non si volesse
riconoscere   una   competenza   regionale   piena,  sembra  evidente
l'esigenza   di   un   coordinamento   con   la  disciplina  generale
dell'apprendistato,  e  dunque  la  necessita'  di un raccordo con le
Regioni, che la norma impugnata completamente pretermette.
4) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23-bis, commi 2, 3, 4, 7 e
10.
   L'art.  23-bis  e'  dedicato  alla disciplina dei Servizi pubblici
locali  di  rilevanza  economica.  Conviene  ricordare  che i servizi
pubblici, in quanto tali, non ricadono in alcuna potesta' legislativa
statale,  ma  che  lo  Stato  puo'  intervenire in essa, come codesta
ecc.ma  Corte  costituzionale ha stabilito con la sentenza n. 272 del
2004  a  titolo  di tutela della concorrenza, ai sensi dell'art. 117,
comma secondo, lettera e) della Costituzione, e che pertanto non sono
censurabili tutte quelle norme «che garantiscono, in forme adeguate e
proporzionate,  la  piu' ampia liberta' di concorrenza nell'ambito di
rapporti  -  come  quelli  relativi  al  regime  delle  gare  o delle
modalita'  di  gestione  e  conferimento dei servizi - i quali per la
loro diretta incidenza sul mercato appaiono piu' meritevoli di essere
preservati da pratiche anticoncorrenziali» (punto 3 in diritto).
   La presente impugnazione non intende mettere in discussione questo
principio.  Tuttavia,  le  impugnate  disposizioni  dell'art. 23-bis,
commi secondo e terzo, riguardano non la tutela della concorrenza, ma
piu'  precisamente  il diritto dell'ente territoriale responsabile di
erogare  in  proprio  il  servizio  pubblico  a  favore della propria
comunita'.
   Occorre  ricordare che tale diritto non solo non e' precluso dalle
regole  di tutela della concorrenza, ma e' espressamente riconosciuto
dalla   giurisprudenza  della  Corte  di  giustizia  delle  Comunita'
europee,  espressa  in  modo  chiaro  e lineare nella decisione Stadt
Halle (sentenza dell'11 gennaio 2005, in causa C-26/03).
   Al  punto  48  di  tale  decisione  e'  chiaramente  stabilito che
«un'autorita' pubblica, che sia un'amministrazione aggiudicatrice, ha
la possibilita' di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa
incombenti  mediante  propri  strumenti, amministrativi, tecnici e di
altro  tipo,  senza essere obbligata a far ricorso ad entita' esterne
non  appartenenti ai propri servizi», e che «in tal caso, non si puo'
parlare  di  contratto  a  titolo  oneroso  concluso  con  un entita'
giuridicamente  distinta  dall'amministrazione  aggiudicatrice» e che
dunque  «non  sussistono  dunque i presupposti per applicare le norme
comunitarie in materia di appalti pubblici».
   Ha  inoltre  precisato,  al  punto  49,  che «in conformita' della
giurisprudenza della Corte, non e' escluso che possano esistere altre
circostanze   nelle   quali   l'appello   alla   concorrenza  non  e'
obbligatorio  ancorche'  la  controparte  contrattuale sia un'entita'
giuridicamente  distinta  dall'amministrazione aggiudicatrice», e che
«cio'  si  verifica  nel  caso  in  cui l'autorita' pubblica, che sia
un'amministrazione  aggiudicatrice, eserciti sull'entita' distinta in
questione  un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri
servizi  e  tale  entita'  realizzi  la  parte  piu' importante della
propria  attivita'  con  l'autorita'  o le autorita' pubbliche che la
controllano».
   Tale  giurisprudenza  della  Corte  di giustizia e' sempre rimasta
ferma e costante, dalla Teckal, (18 novembre 1999, in causa C-107/98)
alla    recente   sentenza   Associazione   Nazionale   Autotrasporto
Viaggiatori (6 aprile 2006, in causa C-410/04).
   Ora,  questo  diritto  delle  amministrazioni,  che  non  mette in
discussione la tutela della concorrenza ed e' pienamente riconosciuto
dalla  Corte  di  giustizia,  e'  invece  negato  dai  commi 2, 3 e 4
dell'art. 23-bis qui impugnato.
   Il  comma  2, infatti, prevede che «il conferimento della gestione
dei  servizi  pubblici  locali avviene, in via ordinaria, a favore di
imprenditori  o di societa' in qualunque forma costituite individuati
mediante procedure competitive ad evidenza pubblica», mentre il comma
3  dispone  che  ogni  diverso  modo  di  «affidamento» (ma con cio',
presumibilmente,  anche  ogni  diverso modo di gestione) possa essere
scelto  «in  deroga alle modalita' di affidamento ordinario di cui al
comma  2,  per  situazioni  che, a causa di peculiari caratteristiche
economiche,   sociali,  ambientali  e  geomorfologiche  del  contesto
territoriale  di  riferimento,  non  permettono  un  efficace e utile
ricorso  al  mercato»,  nel  rispetto  dei  principi della disciplina
comunitaria.
   Ed  il  comma  4 aggiunge che, «nei casi di cui al comma 3, l'ente
affidante  deve dare adeguata pubblicita' alla scelta, motivandola in
base  ad  un'analisi  del  mercato  e contestualmente trasmettere una
relazione  contenente gli esiti della predetta verifica all'Autorita'
garante   della  concorrenza  e  del  mercato  e  alle  autorita'  di
regolazione  del  settore,  ove  costituite,  per l'espressione di un
parere  sui  profili  di  competenza da rendere entro sessanta giorni
dalla ricezione della predetta relazione».
   Ad  avviso della Regione Liguria, tale limitazione della capacita'
delle  amministrazioni  regionali  e  locali  di gestire in proprio i
servizi  pubblici  risulta  costituzionalmente  illegittima  e lesiva
della potesta' legislativa regionale nella materia.
   In  effetti, un problema di tutela della concorrenza puo' iniziare
solo  dopo  che  e'  stata  presa la decisione di gestire il servizio
attraverso   il  mercato,  anziche'  in  proprio.  Al  contrario,  la
decisione   di   mantenere  il  servizio  nell'ambito  della  propria
organizzazione  diretta, o della propria organizzazione in house, non
restringe e non altera in alcun modo la concorrenza.
   Nel   quadro   della   gestione   in   proprio,   invece,  abbiamo
semplicemente  lo  svolgimento dell'attivita' amministrativa da parte
dell'ente responsabile davanti alla propria comunita'.
   Naturalmente, le regole di concorrenza riprenderanno pienamente il
loro   vigore  ogni  volta  che  l'amministrazione  responsabile  del
servizio  si  debba  rivolgere  al  mercato  per l'acquisto di beni o
servizi:  ma  essa  non  puo'  invece essere costretta ad affidare il
servizio  in quanto tale ad entita' esterne, con le quali essa non ha
un   rapporto   di  pieno  controllo  ma  esclusivamente  un  vincolo
contrattuale.
   Le disposizioni dei commi 2, 3 e 4 risultano dunque illegittime in
quanto,  in  violazione  dell'art.  117,  quarto  comma,  limitano la
potesta' legislativa regionale di disciplinare il normale svolgimento
del  servizio pubblico da parte dell'ente, sottoponendo tale scelta a
vincoli  sia  sostanziali  (le «peculiari caratteristiche economiche,
sociali,  ambientali  e  geomorfologiche del contesto territoriale di
riferimento,  non permettono un efficace e utile ricorso al mercato»)
che procedurali (l'onere di «trasmettere una relazione contenente gli
esiti della predetta verifica all'Autorita' garante della concorrenza
e  del  mercato  e  alle  autorita'  di  regolazione del settore, ove
costituite,   per   l'espressione   di   un  parere  sui  profili  di
competenza»).
   Il  comma  7  dell'art.  23-bis dispone che «le regioni e gli enti
locali,  nell'ambito  delle  rispettive  competenze e d'intesa con la
Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28
agosto  1997,  n. 281,  e successive modificazioni, possono definire,
nel  rispetto  delle  normative  settoriali,  i  bacini di gara per i
diversi  servizi,  in  maniera  da  consentire  lo sfruttamento delle
economie  di  scala  e di scopo e favorire una maggiore efficienza ed
efficacia  nell'espletamento  dei  servizi, nonche' l'integrazione di
servizi  a  domanda  debole  nel  quadro  di  servizi piu' redditizi,
garantendo  il  raggiungimento  della  dimensione minima efficiente a
livello  di  impianto  per piu' soggetti gestori e la copertura degli
obblighi di servizio universale».
   Tale  disposizione,  sotto  una apparenza meramente facoltizzante,
vincola  in  realta'  le  regioni  e  gli  enti locali ad assumere le
proprie  decisioni  relative  ai  bacini  di gara (che diverranno poi
bacini di esercizio dei servizi pubblici) «d'intesa con la Conferenza
unificata»,  in  violazione dell'art. 117, comma 4, nonche' dell'art.
118, primo e secondo comma della Costituzione.
   Da una parte, infatti, la disciplina della dimensione di esercizio
dei   servizi  pubblici  rientra  nella  potesta'  legislativa  della
regione,  dall'altra  il  condizionare l'esercizio di tale potesta' e
delle  scelte  amministrative  che essa esprime viola sia la potesta'
legislativa  in  se'  considerata  -  a prescindere dal suo carattere
concorrente   o  pieno,  sia  il  principio  di  sussidiarieta',  non
potendosi vedere alcuna ragione di centralizzazione di tali scelte.
   Si  noti  che la lesione non viene meno per il fatto che si tratti
dell'intesa  con un organismo espressivo delle autonomie: sia perche'
in  realta' l'intesa con la Conferenza richiede necessariamente anche
l'intesa  con  lo  Stato  (parte  esso  stesso della Conferenza), sia
perche'  si  tratterebbe  in  ogni  caso  di un condizionamento delle
scelte  della  regione  da parte di altre regioni ed enti locali, che
non  hanno  alcun  potere da esercitare in relazione al territorio di
una specifica regione.
   Il  comma  10 dell'art. 23-bis dispone che il Governo, su proposta
del  Ministro  per  i  rapporti con le regioni «sentita la Conferenza
unificata  di  cui  all'articolo  8 del decreto legislativo 28 agosto
1997,  n. 281,  e  successive  modificazioni,  nonche'  le competenti
Commissioni  parlamentari,  emana  uno  o  piu' regolamenti, ai sensi
dell'articolo  17,  comma  2, della legge 23 agosto 1988, n. 400», al
fine di disciplinare una pluralita' di oggetti.
   La   previsione   di  una  disciplina  regolamentare  puo'  essere
giustificata,   secondo  l'art.  117,  sesto  comma,  ed  i  principi
enunciati  dalla  giurisprudenza costituzionale, in quanto essa abbia
ad oggetto materie rientranti nella competenza esclusiva dello Stato.
   Tuttavia,  la  materia  che  forma  oggetto di tali regolamenti ai
sensi  del  comma  10, nelle diverse lettere da a) ad l), presenta un
inestricabile   intreccio   con   le   materie  oggetto  di  potesta'
concorrente (come il coordinamento della finanza pubblica, fondamento
della  lettera  a)  o  esclusiva  delle  regioni (come nel caso della
gestione associata dei servizi locali, oggetto della lettera c).
   In  tale  situazione,  il  solo modo di contemperare le competenze
rispettive  dello  Stato  e  delle regioni consiste nel sottoporre il
regolamento   all'intesa   della  Conferenza  Stato-regioni  o  della
Conferenza  unificata,  in  luogo  del semplice parere previsto dalla
disposizione impugnata.
   Diversamente,   non   potrebbe   evitarsi   l'affermazione   della
illegittimita' costituzionale dell'uso dello strumento regolamentare,
in violazione dell'art. 117, comma sesto, per tutti gli oggetti che -
come  quelli sopra indicati - non rientrano nelle materie di potesta'
legislativa esclusiva dello Stato.
5) Illegittimita' costituzionale dell'art. 26, comma 1.
   L'art.  26  e'  intitolato, con linguaggio per vero giornalistico,
«Taglia-enti».
   Esso  dispone  al comma 1 che «gli enti pubblici non economici con
una dotazione organica inferiore alle 50 unita', con esclusione degli
ordini   professionali  e  le  loro  federazioni,  delle  federazioni
sportive  e  degli  enti  non inclusi nell'elenco ISTAT pubblicato in
attuazione  del  comma  5  dell'art.  1 della legge 30 dicembre 2004,
n. 311,  degli  enti  la  cui funzione consiste nella conservazione e
nella   trasmissione   della   memoria   della   Resistenza  e  delle
deportazioni,  anche  con  riferimento  alle  leggi  20  luglio 2000,
n. 211,  istitutiva  della  Giornata  della  memoria e 30 marzo 2004,
n. 92,  istitutiva  del  Giorno  del ricordo, nonche' delle Autorita'
portuali, degli enti parco e degli enti di ricerca, sono soppressi al
novantesimo  giorno  dalla  data  di entrata in vigore della legge di
conversione  del  presente decreto, ad eccezione di quelli confermati
con   decreto   dei   Ministri  per  la  pubblica  amministrazione  e
l'innovazione  e  per la semplificazione normativa, da emanarsi entro
il predetto termine».
   Sempre  il  comma  1  dispone anche che «sono, altresi', soppressi
tutti gli enti pubblici non economici, per i quali, alla scadenza del
31  marzo  2009, non siano stati emanati i regolamenti di riordino ai
sensi  del  comma  634  dell'art.  2  della  legge  24 dicembre 2007,
n. 244»,  e  che  «nei successivi novanta giorni i Ministri vigilanti
comunicano   ai   Ministri   per   la   pubblica   amministrazione  e
l'innovazione  e  per  la  semplificazione  normativa  gli  enti  che
risultano soppressi ai sensi del presente comma».
   Il  comma  2  destina  le  funzioni  esercitate  da  ciascun  ente
soppresso   «all'amministrazione   vigilante   ovvero,  nel  caso  di
pluralita'  di  amministrazioni  vigilanti,  a  quella titolare delle
maggiori  competenze  nella  materia  che  ne e' oggetto». La Regione
Liguria  ritiene  che  il  linguaggio  utilizzato dalla nonna, con il
riferimento   ai   «Ministri  vigilanti»,  e  la  totale  assenza  di
riferimenti  alle regioni, o di coinvolgimento delle regioni stesse o
della Conferenza nelle determinazioni da assumere, possano costituire
elementi  interpretativi  in  grado  di condurre alla conclusione che
l'art.  26  si  applica  soltanto agli «enti pubblici nazionali», sui
quali  lo  Stato ha potesta' legislativa esclusiva ai sensi dell'art.
117, comma secondo, lettera g), della Costituzione.
   Essa  dunque  impugna  tali disposizioni a titolo cautelativo, per
l'ipotesi  che  esse  andassero  intese  nel  senso  di comportare la
soppressione anche degli enti pubblici regionali e locali.
   In  tale  caso,  infatti,  risulterebbe violato l'art. 117, quarto
comma,  della  Costituzione,  che implicitamente affida alla potesta'
regionale  piena l'organizzazione amministrativa della regione e (per
quanto  non  rientri  nella  loro  autonomia) degli enti locali, e la
disciplina degli enti pararegionali.
   Risulterebbe    violata    altresi'    l'autonomia   normativa   e
amministrativa  degli  enti  locali,  tutelata  dall'art.  117, sesto
comma, secondo periodo, della Costituzione. Risulterebbe in ogni caso
violato anche il principio di leale collaborazione, dato l'assenza di
partecipazione delle Regioni ai procedimenti decisionali.
   Ne'  l'art.  26,  comma  1,  potrebbe  giustificarsi  a  titolo di
coordinamento  della  finanza  pubblica:  esso, infatti, non potrebbe
considerarsi   certo   un   principio   di  coordinamento,  dato  che
inciderebbe  su  una  voce  specifica  della  spesa  regionale  e non
lascerebbe  alcun  margine  di  scelta  alle  regioni per raggiungere
l'obiettivo  di risparmio, ma rappresenterebbe una norma direttamente
operativa  e puntuale, in contrasto con la consolidata giurisprudenza
costituzionale che e' intervenuta sul punto.
6) Illegittimita' costituzionale dell'art. 76, comma 6-bis.
   Il comma 6-bis dell'art. 76 dispone che «sono ridotti dell'importo
di  30  milioni  di  euro per ciascuno degli anni 2009, 2010 e 2011 i
trasferimenti erariali a favore delle comunita' montane», e che «alla
riduzione  si  procede  intervenendo prioritariamente sulle comunita'
che    si    trovano    ad   una   altitudine   media   inferiore   a
settecentocinquanta  metri  sopra  il livello del mare». Ancora, esso
dispone  che  «all'attuazione  del  presente  comma  si  provvede con
decreto  del  Ministro  dell'interno,  da adottare di concerto con il
Ministro dell'economia e delle finanze».
   La   Regione  Liguria  ritiene  che  esso  sia  costituzionalmente
illegittimo in tutte le sue tre disposizioni.
   Quanto  alla  prima, infatti, essa viola, sia pure indirettamente,
l'autonomia  finanziaria  regionale.  Infatti,  benche'  si tratti di
fondi  che  -  allo  stato  attuale  della  legislazione  (e per vero
incongruamente)  costituiscono  trasferimenti  diretti  alle  singole
Comunita'  montane  (anziche'  essere  diretti  alle  regioni, che li
utilizzerebbero   secondo   criteri  corrispondenti  alle  situazioni
locali),  le  Comunita'  montane  stesse  rientrano nella sfera delle
competenze  legislative  regionali  («la  disciplina  delle Comunita'
montane,  pur  in presenza della loro qualificazione come enti locali
contenuta  nel  d.lgs.  n. 267 del 2000, rientra ora nella competenza
legislativa  residuale  delle regioni, ai sensi dell'art. 117, quarto
comma,   della  Costituzione»:  sent.  n. 456/2005)  e  costituiscono
strumenti  a  disposizione  della  regione e degli enti locali per la
riorganizzazione delle proprie funzioni in termini associativi.
   La loro finanza, percio', non puo' che essere considerata come una
parte  della  complessiva finanza regionale (come del resto mostra il
fatto  che  il  «Fondo Montagna», destinato ai finanziamenti in conto
capitale, e' regionalizzato da moltissimi anni).
   La  riduzione di trasferimenti settoriali in termini significativi
come  quella disposta dal comma 6-bis dell'art. 76 - con il possibile
azzeramento  del contributo ordinario, e la riduzione anche di quello
detto  «consolidato»  -  e'  suscettibile  di  produrre  il  tracollo
economico  e  la scomparsa di numerose Comunita' montane, pure appena
riorganizzate  dalle leggi regionali in attuazione dell'art. 2, comma
17, della legge n. 244 del 2007.
   Si  noti  che la «drammaticita'» della situazione deriva dal fatto
che  la  riduzione di 30 milioni di euro disposta con la disposizione
impugnata  va a sommarsi alle riduzioni anche maggiori previste dalla
finanziaria  2008,  pari a 66, 4 milioni di euro: sicche' il «taglio»
totale  dei  finanziamenti  ammonta a quasi 97 milioni di euro, e del
contributo  ordinario iniziale non resta che 1/10, (taglio totale del
90%).
   L'art.   119  della  Costituzione  presuppone  un  equilibrio  tra
funzioni  ed  entrate,  ed  obbliga  lo Stato a dotare le regioni dei
mezzi  per  fare fronte ai propri compiti, sia mediante trasferimenti
di tributi erariali, sia mediante entrate proprie.
   Non  si  vuole  certo  negare in assoluto il potere dello Stato di
delimitare le proprie spese. Tuttavia, esso non puo' ridurre i propri
trasferimenti  al  sistema regionale in termini tali da compromettere
l'esercizio  delle  loro  funzioni (si consideri che si tratta di una
riduzione  di oltre il 30% del contributo ordinario), senza prevedere
strumenti  con  i  quali  le regioni possano rimediare alle riduzioni
stesse.   L'illegittimita'   costituzionale  qui  lamentata  consiste
appunto  in  questa  drastica  riduzione  dei  finanziamenti, e nella
assenza  della  assegnazione  di  poteri  regionali che consentano di
sopperire alle necessita'.
   In  secondo  luogo,  il comma 6-bis dispone, come detto, che «alla
riduzione  si  procede  intervenendo prioritariamente sulle comunita'
che    si    trovano    ad   una   altitudine   media   inferiore   a
settecentocinquanta metri sopra il livello del mare».
   Anche  tale  disposizione  e'  ad  avviso della ricorrente regione
illegittima,  incidendo  sulle decisioni relative alla politica della
montagna,  di  competenza  regionale (si veda anche l'art. 27, d.lgs.
n. 267/2000).
   Oltre  che invasiva, l'adozione di un criterio meramente legato al
profilo   altimetrico   risulta   irrazionale.   Infatti,  la  stessa
conformazione delle zone montane rende impossibile dedurre dalla mera
altimetria  -  ovviamente  influenzata  dai  picchi  in profondita' o
altitudine  -  le  condizioni  di  maggiore  o  minore isolamento, di
maggiore   o  minore  difficolta'  di  comunicazione  ed  ogni  altra
condizione  che  possano suggerire di sostenere determinate comunita'
invece  di  altre. L'irragionevolezza del criterio si riflette in una
lesione della competenza regionale, perche' incide sull'esercizio dei
poteri  spettanti  alla regione (ex art. 117, quarto comma, Cost.) in
materia  di  comunita'  montane:  si pensi alla «disciplina dei piani
zonali  e  dei programmi annuali», ai «criteri di ripartizione tra le
Comunita' montane dei finanziamenti regionali e di quelli dell'Unione
europea»,  «ai  rapporti con gli altri enti operanti nel territorio»,
tutti  oggetti  che  la  regione deve disciplinare ex art. 27, d.lgs.
n. 267/2000  subendo  il  condizionamento  irragionevole  della norma
statale,   che   penalizza   economicamente  le  comunita'  poste  ad
un'altitudine rigidamente prefissata.
   Ulteriormente  irragionevole risulta la soglia ora indicata di 750
m.s.l.m.  in  quanto  diversa  e  lontana  da quella dei 500 m.s.l.m.
prevista  all'art.  2,  comma  20  della finanziaria 2008 ed assunta,
insieme agli altri criteri ivi stabiliti, a riferimento dalle regioni
nella  redazione  delle loro leggi di riordino. Si introduce cosi' un
elemento  di  contraddizione  proprio  nella fase di attuazione delle
leggi  regionali di riordino, richieste ed imposte dalla stessa legge
statale.
   La  disposizione  viola dunque ad un tempo l'autonomia finanziaria
regionale, nel senso sopra indicato, e l'autonomia legislativa.
   Infine,  risulta  illegittima anche la terza disposizione, secondo
la  quale  «all'attuazione del presente comma si provvede con decreto
del  Ministro  dell'interno,  da adottare di concerto con il Ministro
dell'economia  e  delle  finanze».  In  effetti,  qualunque  siano le
decisioni  da  assumere  in  materia di finanziamento della Comunita'
montane,  e  per  quanto  nelle  attuali condizioni di non attuazione
dell'art. 119 della Costituzione, sembra evidente che ad esse debbano
essere  chiamate  a partecipare le regioni, titolari della competenza
costituzionale   nella   materia,   almeno  attraverso  lo  strumento
dell'intesa in Conferenza Stato-regioni o Conferenza unificata.
   Esiste  infatti  una  connessione indissolubile tra i problemi del
finanziamento  e  i  problemi della stessa esistenza ed articolazione
delle  Comunita' montane (oltre che della complessiva funzionalita' e
possibilita'  di  assumere funzioni), problemi delle quali le regioni
sono  direttamente  responsabili.  La politica di finanziamento delle
Comunita'  montane  deve essere dunque necessariamente coordinata con
le politiche regionali.
   Di  qui l'illegittimita' costituzionale del mancato coinvolgimento
delle  regioni  nelle decisioni attuative della legge, per violazione
dei principi di sussidiarieta' e di leale collaborazione.
7)  Illegittimita' costituzionale dell'art. 81, commi 29, 30, 32, 33,
34, 35, 36 e 38.
   Il   comma  29  dell'art.  81  (Settori  petrolifero  e  del  gas)
istituisce  un  «Fondo  speciale  destinato  al soddisfacimento delle
esigenze  prioritariamente  di  natura  alimentare  e successivamente
anche  energetiche e sanitarie dei cittadini meno abbienti». Il comma
30  indica  le  fonti  di  alimentazione  del  Fondo,  fra  le  quali
«trasferimenti dal bilancio dello Stato» (lettera d).
   Il  comma 32 istituisce la c.d. «social card», stabilendo che, «in
considerazione  delle  straordinarie  tensioni  cui sono sottoposti i
prezzi  dei  generi alimentari e il costo delle bollette energetiche,
nonche'  il  costo  per  la  fornitura  di gas da privati, al fine di
soccorrere  le  fasce  deboli  di popolazione in stato di particolare
bisogno  e  su  domanda  di  queste,  e'  concessa  ai  residenti  di
cittadinanza  italiana  che  versano in condizione di maggior disagio
economico,  individuati  ai  sensi  del  comma 33, una carta acquisti
finalizzata  all'acquisto  di tali beni e servizi, con onere a carico
dello Stato».
   Il  comma  33  dispone  che  «con  decreto interdipartimentale del
Ministero  dell'economia  e delle finanze e del Ministero del lavoro,
della  salute  e  delle  politiche  sociali,  sono disciplinati,... i
criteri  e  le modalita' di individuazione dei titolari del beneficio
di  cui  al  comma  32«  (tenendo  conto  degli  elementi  di seguito
indicati),  «l'ammontare  del  beneficio unitario», «le modalita' e i
limiti  di  utilizzo  del Fondo di cui al comma 29 e di fruizione del
beneficio  di  cui  al  comma  32». Il comma 34 prevede che, «ai fini
dell'attuazione  dei  commi  32 e 33,... il Ministero dell'economia e
delle  finanze  puo'  avvalersi  di  altre  amministrazioni,  di enti
pubblici,  di  Poste  italiane  S.p.A.,  di  SOGEI S.p.A. o di CONSIP
S.p.A.».
   Il comma 35 statuisce che Ministero dell'economia e delle finanze,
ovvero  uno  dei  soggetti di cui questo si avvale ai sensi del comma
34,  individua:  a)  i  titolari del beneficio di cui al comma 32, in
conformita'  alla  disciplina  di  cui al comma 33; b) il gestore del
servizio  integrato  di  gestione delle carte acquisti e dei relativi
rapporti amministrativi».
   Il  comma  36  stabilisce  che «le pubbliche amministrazioni e gli
enti     pubblici     che     detengono    informazioni    funzionali
all'individuazione  dei  titolari del beneficio di cui al comma 32...
forniscono,  in  conformita' alle leggi che disciplinano i rispettivi
ordinamenti, dati, notizie, documenti e ogni ulteriore collaborazione
richiesta  dal  Ministero  dell'economia  e  delle  finanze  o  dalle
amministrazioni o enti di cui questo si avvale, secondo gli indirizzi
da  questo  impartiti». Il comma 38 dispone che «agli oneri derivanti
dall'attuazione  dei  commi  da 32 a 37 si provvede mediante utilizzo
del Fondo di cui al comma 29».
   Le  norme  sopra  illustrate non possono non stupire per la totale
estromissione  delle  regioni  (il  cui  coinvolgimento  in  fase  di
attuazione  e'  reso  del  tutto  eventuale e, pare, improbabile, non
apparendovi  esse  che  uno  dei  vari soggetti - neppure nominati ma
confuse  con  gli  altri  enti  pubblici!  - di cui il Ministero puo'
avvalersi  ai  sensi  del  comma  34)  in  una  materia di competenza
regionale piena.
   Le  norme  in  questione,  infatti, non solo istituiscono un fondo
settoriale nella materia delle politiche sociali (il che gia' sarebbe
illegittimo,  come  piu'  volte  riconosciuto  da codesta Corte) ma -
invece  di  ripartire  il  fondo  tra  le  regioni  -  prevedono  una
regolazione  ed  una  gestione  del  tutto  accentrata del fondo (con
erogazione  diretta  ai  privati),  senza  alcun coinvolgimento delle
regioni.
   Il  comma  33  prevede  un  decreto «interdipartimentale» (dunque,
neppure  adottato  da  Ministri  ma da dirigenti ministeriali) che ha
sostanza  di  regolamento  attuativo  della  legge,  essendo  volto a
definire  i criteri e le modalita' di individuazione dei titolari del
beneficio,  l'ammontare  del  beneficio  unitario  e le modalita' e i
limiti di utilizzo del Fondo e di fruizione del beneficio. I commi 34
e   35   danno   competenza  al  Ministero  dell'economia  (che  puo'
«avvalersi»  di  altri  soggetti  pubblici  o privati) per la fase di
attuazione  e  per  l'individuazione dei titolari del beneficio e del
gestore del servizio integrato di gestione delle carte acquisti e dei
relativi rapporti amministrativi.
   Codesta Corte ha piu' volte colpito i finanziamenti (ripartiti tra
le  regioni)  a  destinazione  vincolata in quanto essi rappresentano
«uno  strumento  indiretto,  ma  pervasivo,  di ingerenza dello Stato
nell'esercizio  delle  funzioni  delle  regioni  e degli enti locali,
nonche'  di  sovrapposizione  di  politiche  e di indirizzi governati
centralmente  a  quelli  legittimamente  decisi  dalle  regioni negli
ambiti  materiali di propria competenza» (cosi' la sent. n. 423/2004,
proprio  in  materia  di  politiche sociali), ma e' chiaro che ancora
piu'  gravi e lesive sono norme che non si limitano a condizionare le
Regioni   ma   le  estromettono  totalmente  dalla  materia  di  loro
competenza.
   Ne'  a  fondamento  della  competenza  statale  puo'  invocarsi la
«concorrenza  delle  competenze»,  dato che il fondo riguarda solo la
materia   delle   politiche   sociali.   Neppure  puo'  invocarsi  la
sussidiarieta',  dato  che non esistono esigenze di gestione unitaria
della  carta acquisti ne' di definizione unitaria dei criteri e delle
modalita' di erogazione.
   Le  norme  indicate in epigrafe, dunque (e tranne il comma 36, che
sara'   esaminato   a   parte),   violano   l'autonomia  legislativa,
regolamentare,  amministrativa  e  finanziaria  di  cui all'art. 117,
commi  4  e  6,  all'art.  118, commi 1 e 2, e all'art. 119 Cost., in
quanto istituiscono un fondo settoriale nella materia delle politiche
sociali   e   prevedono  poteri  regolamentari  e  amministrativi  in
relazione  al  medesimo fondo, invece di attribuire le corrispondenti
risorse  alle Regioni e di lasciare a queste le conseguenti scelte in
materia  di  regolazione  degli  interventi  e  di  allocazione delle
funzioni amministrative.
   E'  da sottolineare che la recente sentenza n. 166/2008 di codesta
ecc.ma  Corte  ha  deciso  un  ricorso  su  una  fattispecie analoga,
colpendo un fondo (in quanto incidente «esclusivamente su una materia
di  competenza legislativa regionale») che finanziava «interventi, di
carattere  sociale, relativi alla riduzione dei costi delle forniture
di  energia  per  usi  civili  a  favore  di  clienti  economicamente
disagiati,   anziani  e  disabili»  e  interveniva,  percio',  «nella
materia,   di  potesta'  legislativa  residuale  delle  regioni,  dei
"servizi    sociali",    inerendo   ad   attivita'   riguardanti   la
"predisposizione  ed erogazione di servizi, gratuiti e a pagamento, o
di  prestazioni  economiche  destinate  a  rimuovere  e  superare  le
situazioni  di bisogno e di difficolta' che la persona umana incontra
nel  corso  della  sua  vita" (sentenza n. 50 del 2008)». La Corte ha
accolto  la  questione  di  costituzionalita', «non sussistendo alcun
titolo  di competenza esclusiva statale che giustifichi il vincolo di
destinazione del fondo in tale materia», ed ha annullato la norma che
poneva  il vincolo di destinazione specifica del fondo per interventi
di  riduzione  dei  costi  della  fornitura  energetica per finalita'
sociali  e  disponeva  che, con decreto ministeriale, dovevano essere
stabiliti  le  condizioni,  le  modalita'  e i termini per l'utilizzo
della dotazione del fondo stesso. La Corte ha anche precisato che «da
tale  pronuncia  di  illegittimita'  costituzionale  consegue  che  a
ciascuna  regione  dovra'  essere  assegnata  genericamente,  per  il
perseguimento  di  finalita'  sociali,  la quota parte del fondo loro
spettante,  senza  il  suindicato  vincolo  di destinazione specifica
(sentenze n. 181 del 2006 e n. 423 del 2004)». La Corte ha dichiarato
l'illegittimita' di norme che prevedevano fondi settoriali in materia
di politiche sociali anche con le sentt. nn.50/2008 e 423/2004.
   In  denegata  ipotesi,  qualora  codesta  Corte  dovesse  ritenere
giustificato  il  potere  regolativo statale di cui al comma 33, tale
disposizione   sarebbe   comunque   illegittima  per  violazione  del
principio  di  leale  collaborazione,  nella parte in cui non prevede
un'intesa  con  la Conferenza Stato-regioni, data la stretta inerenza
del fondo alla materia delle politiche sociali.
   Anche  in questa ipotesi, pero', resterebbe ferma l'illegittimita'
dei commi 34 e 35, non sussistendo ragioni unitarie che giustifichino
l'attribuzione al Ministero dei poteri di attuazione degli interventi
e  di  individuazione  dei  titolari  del beneficio e del gestore del
servizio  integrato  di  gestione delle carte acquisti e dei relativi
rapporti  amministrativi.  Qualora, sempre in denegata ipotesi, anche
questi  poteri  statali  amministrativi fossero ritenuti legittimi, i
commi  34  e  35  sarebbero pur sempre illegittimi per violazione del
principio  di  leale collaborazione, nella parte in cui non prevedono
un'intesa con la Conferenza Stato-regioni in relazione alla scelta di
cui al comma 34 e agli atti di cui al comma 35.
   Infine,  quanto  al  comma  36,  esso risulta illegittimo la' dove
prevede che le comunicazioni e collaborazioni richieste dal Ministero
dell'economia  e delle finanze (o dalle amministrazioni o enti di cui
questo  si  avvale)  debbano essere fornite «secondo gli indirizzi da
questo  impartiti». Se si puo' giustificare un dovere collaborativo e
comunicativo fra enti territoriali, in ossequio al principio di leale
collaborazione,  non  si puo' ammettere che il Ministero «impartisca»
alle  regioni indirizzi che regolano tale attivita' collaborativi. Le
limitazioni  che  lo  Stato  puo' recare all'attivita' regionale sono
solo  quelle  previste dalla Costituzione e, in materia di competenza
regionale,  lo  Stato  non puo' piu' emanare atti di indirizzo (v. le
sentt.   nn.324/2005   e   329/2003   e  l'art.  8,  comma  6,  1egge
n. 131/2003).  Se anche si ritenesse il contrario, la norma impugnata
sarebbe  illegittima  perche'  l'atto  di  indirizzo  dovrebbe essere
adottato  dal  Consiglio  dei  ministri,  secondo  la  normativa e la
giurisprudenza pacifiche prima della riforma del Titolo V.