IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
   Sentiti  il  Procuratore  generale e la difesa, che hanno concluso
come   da   verbale,   ha   pronunciato  la  seguente  ordinanza  nel
procedimento nei confronti di n. C. nata a Brescia il 31 luglio 1989,
alias  J.M.A.  nata in Croazia il 24 ottobre 1992, alias N.C. nata in
Romania o in Croazia o in Roma o in Bosnia il 31 luglio 1989, o il 30
luglio  1989  o  il  1  gennaio  1989,  e altri alias, codice univoco
identificativo  01XM4N6  , elettivamente domiciliata al momento della
scarcerazione  in Roma, via Prenestina n. 600, di fatto irreperibile,
assistita  di  fiducia  dall'avv.  Luciano  Bason  del  Foro di Roma,
tendente    alla   concessione   del   beneficio   del   differimento
dell'esecuzione  della  pena  in  relazione  alla  pena  inflitta con
sentenza del Tribunale di Venezia, composizione monocratica in data 4
aprile 2008.
                        M o t i v a z i o n e
   La sedicente N.C. veniva arrestata in Mestre (Venezia) il 3 aprile
2008  nella  flagranza  del  reato  di  tentato  furto  aggravato  in
abitazione, e il giorno successivo patteggiava la pena di anni due di
reclusione,  applicata  con  sentenza  emessa  ex art. 444 c.p.p. dal
Tribunale di Venezia.
   La giovane nomade rimaneva, pero' in vinculis in quanto sottoposta
a  custodia cautelare in carcere con ordinanza emessa in pari data (4
aprile 2008) ai sensi dell'art. 275, comma 4, c.p.p. dal Tribunale di
Venezia,   che   reputava   sussistenti   le  esigenze  cautelari  di
eccezionale   rilevanza   pur   risultando  l'imputata  in  stato  di
gravidanza e inoltre madre di infante di eta' inferiore ad anni uno.
   Non  appena  passata  in  giudicato  la  condanna, il difensore di
fiducia  presentava  istanza  di  differimento provvisorio davanti al
Magistrato  di  sorveglianza  di  Venezia  (essendo  a quella data la
n. ristretta presso la Casa reclusione donne di Venezia), adducendo a
sostegno lo stato di gravidanza dell'interessata.
   Acquisita  conferma  dal  sanitario  dell'istituto  della  dedotta
situazione  soggettiva  (la  detenuta  risultava  al  terzo  mese  di
gestazione), il Magistrato di sorveglianza di Venezia richiedeva alla
condannata  l'indicazione  di  un  domicilio  per  l'esecuzione della
detenzione  domiciliare,  reputando  piu'  adeguata  tale  misura  al
contenimento   della  pericolosita'  sociale  emergente  dai  plurimi
precedenti   dattiloscopici   e   giudiziari.  La  detenuta  indicava
genericamente, quale domicilio, l'abitazione del marito asseritamente
sita  in  Roma,  via  Prenestina  n. 600,  luogo la cui esistenza non
veniva   confermata  dalle  forze  dell'ordine  competenti  (v.  nota
informativa  Commissariato  P.S.  Prenestino di Roma datata 14 giugno
2008). Il Magistrato di sorveglianza disponeva, pertanto, con decreto
interinale  in  data 16 giugno 2008 il differimento provvisorio della
pena ex art. 684, comma 2 c.p.p., eseguito in pari data.
   Al  momento  della scarcerazione, la condannata eleggeva domicilio
nello stesso luogo gia' risultato inesistente, e pertanto l'avviso di
fissazione  dell'odierna  udienza  le  veniva  ritualmente notificato
presso il difensore di fiducia ex art. 677, comma 2-bis, c.p.p.
   All'odierna  udienza, alla quale la condannata non e' comparsa, il
Procuratore   generale  ha  concluso  chiedendo  la  sospensione  del
procedimento  in  attesa  della  decisione della Corte costituzionale
sulla  questione  di legittimita' costituzionale dell'art. 146, comma
1, n. 2) c.p. sollevata d'ufficio da questo tribunale di sorveglianza
con  ordinanza  n. 715/08 datata 13 maggio 2008, mentre il difensore,
nominato  ex  art.  97,  comma  4,  c.p.p.  (non  essendo comparso il
difensore  di  fiducia  nonostante  la  regolarita' delle notifiche e
degli  avvisi),  ha  richiesto  la concessione del differimento della
pena, rimettendosi sulla sospensione del procedimento.
   Nell'odierno   procedimento  deve  essere  valutata  l'istanza  di
differimento  dell'esecuzione  ex  art.  146 c.p. in ordine alla pena
inflitta  con  sentenza  del  Tribunale  di  Venezia  in composizione
monocratica  in  data 4 aprile 2008, il cui residuo alla data odierna
e'  di  anni uno, mesi nove e giorni sedici di reclusione. Dagli atti
acquisiti  risulta  confermata  la  sussistenza  dei  presupposti del
differimento   obbligatorio   dell'esecuzione  della  pena  ai  sensi
dell'art.  146,  comma  1,  n. 1),  c.p., risultando la condannata in
stato  di gravidanza . Il breve tempo trascorso dalla scarcerazione e
l'andamento  regolare  della gestazione attestato nella relazione del
sanitario dell'istituto acquisita agli atti fanno ritenere perdurante
la   sussistenza   della   condizione   soggettiva   legittimante  il
differimento obbligatorio della pena. L'esame delle vicende cautelari
ed  esecutive  verificatesi  solo  negli ultimi mesi (tralasciando la
considerevole  storia criminale dell'interessata, appena diciottenne)
impone  alcune  considerazioni.  La n. (le cui esatte generalita' non
sono  note)  qualche mese prima del delitto commesso in Mestre veniva
arrestata in Roma in data 25 ottobre 2007 nella flagranza dei delitti
di  rapina  impropria  aggravata e lesioni personali (con la recidiva
specifica   reiterata  infraquinquennale)  e  sottoposta  a  custodia
cautelare  in  carcere  ai  sensi  dell'art. 275, comma 4, c.p.p. dal
Tribunale  di  Roma  per esigenze cautelari di eccezionale rilevanza,
pur risultando madre di infante di eta' inferiore ad anni uno.
   Con  sentenza del 13 novembre 2007 del Tribunale di Roma emessa ex
art.  444  c.p.p.  veniva applicata la pena di anni due e mesi due di
reclusione, ma l'imputata rimaneva in vinculis; non appena passata in
giudicato    la    condanna,   la   n. richiedeva   il   differimento
dell'esecuzione  al  Magistrato  di  sorveglianza  di Roma, il quale,
accertato  che la condannata risultava madre di un infante nato il 14
maggio 2007, concedeva con decreto interinale datato 13 dicembre 2007
la   detenzione  domiciliare  provvisoria  quale  regime  sostitutivo
dell'esecuzione della pena, rilevando che la particolare gravita' del
reato,  commesso  con  violenza  contro la persona appena cinque mesi
dopo   il   parto,  imponeva  «un  regime  penitenziario  rigoroso  e
contenitivo   della   pericolosita'  sociale  dimostrata  in  maniera
persistente e indifferente alla maternita'».
   In data 2 gennaio 2008, tuttavia, la condannata si allontanava dal
luogo  prescritto  (un  campo  nomadi  di  Roma)  e  il Magistrato di
sorveglianza  di  Roma  disponeva  con decreto datato 8 gennaio 2008,
ratificato dal Tribunale di sorveglianza di Roma con ordinanza emessa
in  data 28 febbraio 2008, la sospensione interinale della detenzione
domiciliare, non eseguita per l'irreperibilita' della condannata.
   In  data  4  marzo  2008  la  n. veniva nuovamente arrestata nella
flagranza  del  delitto  di  tentato furto aggravato in abitazione in
Scafati,  e  veniva  sottoposta  a  custodia cautelare in carcere con
ordinanza  del Tribunale di Nocera Inferiore datata 5 marzo 2008, pur
avendo  dedotto  di essere nuovamente incinta e di essere madre di un
infante  di eta' inferiore ad anni uno; riteneva, infatti, il giudice
sussistenti  le  esigenze  cautelari di eccezionale rilevanza ex art.
275,  comma  4,  c.p.p.,  tenuto  conto  dei numerosissimi precedenti
specifici  per  reati  commessi  anche  in  eta'  minore  in  diverse
localita'  del  territorio  nazionale,  denotanti  «una proclivita' e
un'abitualita'  non  comune  a  commettere  reati di furto in privare
dimore»  (v.  ordinanza  del  5  marzo  2008  del Tribunale di Nocera
Inferiore).
   Con  decreto interinale emesso in data 21 marzo 2008, tuttavia, il
Magistrato  di  sorveglianza  di  Salerno  concedeva  il differimento
dell'esecuzione  in  ordine alla pena di cui alla menzionata sentenza
del  Tribunale  di  Roma  datata  13  novembre  2007  (nel  frattempo
nuovamente  posta  in  esecuzione),  e  in  pari data il Tribunale di
Nocera  Inferiore  disponeva la sostituzione della custodia cautelare
in  carcere  con  il  divieto  di dimora in Roma in ordine al tentato
furto in Scalati. Con ordinanza datata 25 giugno 2008 il Tribunale di
sorveglianza   di   Salerno  ratificava  il  decreto  interinale  del
Magistrato  di  sorveglianza  di  Salerno e concedeva il differimento
fino al 31 ottobre 2008.
   Qualche  giorno  dopo  la scarcerazione, la n. veniva arrestata in
Mestre nella flagranza del menzionato tentativo di furto, commesso in
concorso con una minorenne; per tale episodio veniva inflitta la pena
della  cui  esecuzione  oggi  si  discute,  ed  applicata la custodia
cautelare   in   carcere,   per   «il   notevolissimo   pericolo   di
recidiva»desumibile  dalla  storia  delinquenziale della stessa, e la
ritenuta   non   concedibilita'   degli   arresti   domiciliari   per
l'impossibilita'  di  formulare  una  prognosi  positiva in ordine al
rispetto  delle  prescrizioni  (v.  ordinanza  di  custodia cautelare
datata  4  aprile  2008  del  Tribunale  di  Venezia  in composizione
monocratica, in atti).
   Deve,  altresi',  rilevarsi  che  nelle note informative trasmesse
dalle  forze  dell'ordine a questo Tribunale di sorveglianza la n. e'
descritta  come  una nomade di spiccata pericolosita' sociale, che ha
fatto  del  crimine  (in  particolare dei furti in private dimore) l'
unica  fonte  di  sostentamento  ed e' priva di fissa dimora (v. nota
Questura  di  Venezia  Commissariato  P.S.  di Mestre datata 5 giugno
2008).  Il  certificato  del  casellario,  che  si compone di ben sei
pagine  nonostante  la  giovane  eta',  evidenzia sedici condanne per
plurimi   furti   in   abitazione   consumati   e  tentati,  possesso
ingiustificato  di  strumenti  atti  a  forzare  serrature,  rapina e
lesioni personali.
   Dai  certificati  acquisiti  e  dal  nutrito  elenco di precedenti
dattiloscopici  si  evince, inoltre, che la n. ha commesso delitti in
tutto  il  territorio  nazionale,  nell'ambito  del  quale  si sposta
frequentemente   da  un  capo  all'altro  della  penisola,  e'  stata
segnalata  o  arrestata  ben  126  volte  e  ha fornito numerosissime
generalita'  diverse  (v.  elenco trasmesso dal Commissariato P.S. di
Mestre  e  relazione  datata  5  giugno  2008); a fronte dei numerosi
precedenti  e  segnalazioni,  i periodi di carcerazione che risultano
dall'archivio  storico dell'amministrazione penitenziaria sono esigui
(v.  cartelle  giuridiche  storiche  in  atti), e risultano seguiti a
breve  dalla  scarcerazione dell'indagata con l'imposizione di misure
cautelari  non detentive o collocamento in comunita' minorile, oppure
dal  differimento  della  pena  ex  art.  146 c.p. o della detenzione
domiciliare  in  luogo del differimento (v. ordinanze di differimento
del  Tribunale  per i minorenni di Torino in data 22 luglio 2005, del
Magistrato  di  sorveglianza  di  Salerno  in data 21 marzo 2008, del
Magistrato  di  sorveglianza  di  Venezia  in  data  16 giugno 2008 e
ordinanza  di  applicazione  della detenzione domiciliare provvisoria
del Magistrato di sorveglianza di Roma datata 13 dicembre 2007).
   Esaminati  gli  atti  acquisiti,  questo  Collegio  non  puo'  che
condividere  il  giudizio di spiccatissima pericolosita' sociale gia'
formulato  nei  confronti  dell'odierna  istante  da  altre autorita'
giudiziarie,  il  cui  grado  attuale  esigerebbe,  al fine di un suo
adeguato   contenimento,  l'applicazione  di  una  misura  detentiva;
parimenti,  reputa  certo, piu' che verosimile, l'abuso del richiesto
differimento,  ove  concesso,  al  fine  di  commettere altri delitti
contro  il  patrimonio, senza alcun riguardo per le esigenze alla cui
tutela  il  beneficio  e'  preordinato,  posto che gia' in passato la
nascita  dei  primi  due  figli (avvenuta il 28 dicembre 2004 e il 14
maggio  2007)  non ha dissuaso la donna dal commettere delitti, cosi'
come nessuna efficacia dissuasiva ha avuto la recente gravidanza.
   Questo Tribunale di sorveglianza, tuttavia, non puo' negare sic et
simpliciter  il  differimento  della pena (con conseguente esecuzione
penale   in   carcere),  potendo  al  piu'  concedere,  quale  misura
sostitutiva  del richiesto differimento, la detenzione domiciliare ex
art.  47-ter,  comma  1-ter o.p., misura gia' di recente concessa dal
Magistrato  di  sorveglianza di Roma e rivelatasi inadeguata, essendo
la n. evasa il 2 gennaio 2008 dal luogo prescritto, commettendo altri
tre  furti  in  epoca  successiva (uno in Scalati e due in Mestre, v.
precedenti dattiloscopici).
   Non    appare    superfluo    rammentare    l'orientamento   della
giurisprudenza  della  dottrina  e  della giurisprudenza in ordine ai
rapporti tra il differimento e la detenzione domiciliare.
   Nella vigenza della normativa preesistente alla legge n. 165/1998,
parte  della  dottrina,  facendo  riferimento  al  dato testuale, che
qualifica   come  obbligatorio  il  rinvio,  lo  riteneva  prevalente
rispetto alla detenzione domiciliare. Di diverso avviso coloro che si
soffermavano  sugli  indubbi  vantaggi  che la detenzione domiciliare
comporta  per  il  condannato,  tra  i  quali  il  fatto che il tempo
trascorso in esecuzione della misura si consideri pena espiata. Oggi,
a   seguito   della   novella  di  cui  alla  legge  n. 165/1998,  la
giurisprudenza  e'  orientata  ad  affermare  che  il  legislatore ha
modificato  profondamente  l'istituto  della  detenzione domiciliare,
facendolo  divenire,  con  l'introduzione  del comma 1-ter (oltre che
1-bis),  una  delle  misure  alternative piu' duttili e piu' idonee a
soddisfare  le  contrapposte  esigenze del rispetto dei diritti della
persona  e  di  sicurezza della societa' (v. sentenza Cass., sez. I ,
n. 20480   del   2001).   Tale  misura,  si  afferma,  «configura  la
polifunzionalita'   del  regime  detentivo,  mirato,  per  un  verso,
all'esigenza   di  effettivita'  dell'espiazione  della  pena  e  del
necessario  controllo  cui  vanno sottoposti i soggetti pericolosi e,
per altro verso, ad una sua esecuzione mediante forme compatibili con
il senso di umanita'» (v. sentenza Cass., sez. I , n. 6952 del 2000).
   Riguardo   ai   criteri   di   scelta   tra  i  due  benefici,  la
giurisprudenza  della  Corte  di  legittimita'  ha  precisato  che il
Tribunale  di  sorveglianza  deve  fare una duplice verifica, dovendo
prima  verificare  la  sussistenza  delle  condizioni richieste dalla
legge   per   il  differimento  e  poi  disporre,  eventualmente,  la
detenzione    domiciliare    in    alternativa    alla    sospensione
dell'esecuzione  della  pena  quando  ricorrano  esigenze  di  tutela
collettiva  (sempre  da  tenere  presenti in tema di esecuzione della
pena)  che  rendano  piu'  adeguata  l'esecuzione della pena in forma
alternativa piuttosto che la sospensione dell'esecuzione (Cass., sez.
I,   sentenza  n. 656  del  2000);  piu'  di  recente,  la  Corte  di
legittimita' ha anche rilevato che la detenzione domiciliare, al pari
delle  altre misure alternative alla detenzione, ha come finalita' il
reinserimento  sociale  del  condannato, mentre il differimento della
pena  previsto  dall'art.  146  e 147 c.p., anteriore all'ordinamento
penitenziario  vigente,  ha finalita' diverse dall'individuazione del
trattamento piu' opportuno nei confronti del condannato, mirando solo
ad evitare che l'esecuzione della pena avvenga in spregio del diritto
alla  salute  e  del senso di umanita'. Alla luce di tali principi, a
fronte di una richiesta il giudice deve valutare se le condizioni del
condannato  siano compatibili con le finalita' rieducative della pena
e  con  le possibilita' concrete di reinserimento sociale conseguenti
alla   rieducazione.   Qualora,   all'esito   di   tale  valutazione,
l'espiazione  della pena appaia contraria al senso di umanita' per le
eccessive  sofferenze  da  essa  derivanti  ovvero  appaia  priva  di
significato   rieducativo   in   conseguenza  dell'impossibilita'  di
proiettare  in futuro gli effetti della sanzione sul condannato, deve
trovare  applicazione  l'istituto  del  differimento (sentenza Cass.,
sez. I, n. 45758 del 14 novembre 2007, dep. il 6 dicembre 2007).
   Facendo  applicazione di tali principi, non puo' non rilevarsi che
le  condizioni  di  vita  individuali  e  sociali della condannata, i
plurimi precedenti giudiziari e di polizia, e le conseguenti esigenze
di  sicurezza  sociale,  nonche'  il  reiterato abuso dei benefici da
ultimo  concessi  in via interinale dal Magistrato di sorveglianza di
Roma  in  data  13  novembre 2007 e del Magistrato di sorveglianza di
Salerno   in   data  21  marzo  2008  per  perseverare  nel  crimine,
indurrebbero   a   ritenere   piu'  adeguata  al  contenimento  della
pericolosita'  sociale  l'esecuzione  della pena, quantomeno in forma
alternativa.
   Nel caso di specie, pero', difetta il requisito minimo necessario,
ovvero   un  luogo  idoneo  all'esecuzione  della  misura.  Trattasi,
infatti,   di   condannata   senza   fissa   dimora,  che  si  sposta
frequentemente  da  un capo all'altro della penisola, che non risulta
aver soggiornato per un tempo apprezzabile in un determinato luogo, e
che , inoltre, esplicitamente invitata dal Magistrato di sorveglianza
di   Venezia   ad  indicare  un  luogo  idoneo  all'esecuzione  della
detenzione  domiciliare,  ha  volutamente  dato  indicazioni  vaghe e
risultate  non  veritiere;  neppure  davanti  a  questo  Tribunale di
sorveglianza  l'interessata  e  il  suo  difensore  di  fiducia hanno
indicato  un  qualsivoglia  riferimento idoneo all'applicazione della
detenzione domiciliare.
   Deve  anche rilevarsi che non appare in alcun modo formulabile una
favorevole  prognosi di corretta gestione della misura, che e' misura
a  contenuto  prescrittivo, e postula, per realizzare la funzione che
le  e'  propria,  la volonta' adesiva di chi vi e' sottoposto (in tal
senso  riguardo  agli  arresti  domiciliari  v. Corte cost., sentenza
n. 439/1995). Il grado di inaffidabilita' piu' volte dimostrato dalla
condannata  (che  anche  di  recente,  come innanzi esposto, e' evasa
dalla  detenzione domiciliare concessale in ragione della particolare
situazione  familiare  dal  Magistrato  di  sorveglianza di Roma e in
passato si e' allontanata dalle comunita' per minori in cui era stata
collocata),  unitamente all'assoluta indifferenza alle norme penali e
del  vivere  sociale  evidenziata,  non  consentono  in alcun modo di
ritenere  che  la  n. Si  atterrebbe alle prescrizioni minime tipiche
della detenzione domiciliare.
   Pur  in assenza di situazioni personali che precludano l'efficacia
rieducativa  della  pena o che rendano contraria al senso di umanita'
l'esecuzione   penale  in  forma  alternativa,  questo  Tribunale  di
sorveglianza non puo', pertanto, che applicare il richiesto beneficio
del differimento.
   Una    diversa    interpretazione   non   appare   ragionevolmente
sostenibile,  senza  inammissibili  forzature  del dato normativo; il
tenore  testuale  dell'art. 146, comma 1, n. 1), c.p., nella parte in
cui   dispone  «l'esecuzione  e'  differita»  anziche'  «puo'  essere
differita», non lascia dubbi interpretativi. Puo', al piu', rilevarsi
che  con  la  previsione  contenuta  nel comma 1-ter dell'art. 47-ter
c.p.,  che  introduce  una disciplina differenziata rispetto a quella
generale,  anche  in  relazione  ai  limiti  edittali, il legislatore
sembra voler richiamare l'attenzione sulla necessita' di contemperare
le  esigenze  di tutela delle condizioni del condannato con quelle di
tutela  della  collettivita', rimettendo al Tribunale di sorveglianza
la   scelta   dello   strumento   piu'   idoneo   a  perseguire  tale
contemperamento,   si'   da   far   ipotizzare   che  l'istituto  del
differimento  obbligatorio  abbia  perso  tale  carattere, risultando
rimessa  la sua adozione alla valutazione discrezionale del Tribunale
di  sorveglianza. Tuttavia tale argomento, a fronte del dato testuale
inequivocabile  e  dell'assenza  di  una normativa di raccordo tra la
previsione  del  codice  penale  e la normativa penitenziaria, appare
insufficiente   a   reputare   consentito   il  diniego  «secco»  del
differimento, nell'ipotesi disciplinata dall'art. 146, comma 1, n. 1)
c.p.
   Ritiene,  tuttavia,  questo  Collegio  che  la disposizione, cosi'
formulata   e   intesa,   attribuisca  al  sistema  una  connotazione
criticabile  sotto il profilo della razionalita' e costituzionalita',
e  che,  pertanto,  debba  essere  sollevata  d'ufficio  questione di
legittimita'  costituzionale della norma, per contrasto con gli artt.
3,  27, terzo comma, e 30 Cost., ravvisandosene la rilevanza e la non
manifesta  infondatezza.  Lo  scrutinio  di costituzionalita' e' gia'
stato  richiesto  da  questo  tribunale di sorveglianza con ordinanza
n. 715/08 datata 13 maggio 2008 in relazione alla disposizione di cui
comma 1, n. 2), dell'art. 146 c.p., mentre nel caso di specie i dubbi
di  legittimita' costituzionale riguardano la previsione del comma 1,
n. 1 ), della stessa norma, applicabile nel caso in esame.
   La  questione  e'  rilevante  ai fini della pronuncia sull'odierna
istanza,  essendo  ineliminabile l'applicazione della norma nell'iter
logico-giuridico   che   questo  Tribunale  deve  percorrere  per  la
decisione   conclusiva   dell'odierno   procedimento,  in  quanto  il
provvedimento interinale del Magistrato di sorveglianza di Venezia e'
destinato  a  produrre  effetti  fino alla decisione di questo organo
collegiale, al quale compete la decisione in via definitiva in ordine
al  differimento della pena, istituto del quale risultano sussistenti
i  presupposti  (in  tal senso, per la rilevanza di analoga questione
nonostante  l'intervenuta  scarcerazione  provvisoria  da  parte  del
Magistrato di sorveglianza, v. Corte cost. sentenza n. 70 del 1994).
   In  punto  di  non  manifesta  infondatezza,  va  premesso  che e'
indiscutibile  la scelta del legislatore di tutelare anche nella fase
dell'esecuzione   penale  le  particolari  esigenze  delle  donne  in
gravidanza  o madri di figli in tenera eta'; sicuramente e fortemente
condiviso  da  questo  Collegio  e'  il  principio  secondo  il quale
tendenzialmente  in un paese democratico la detenzione delle donne in
gravidanza  e  delle  madri  che  accudiscono  figli  in  tenera eta'
dovrebbe  essere prevista solo «in ultima istanza» (come raccomandato
agli Stati membri di recente nella risoluzione del Parlamento europeo
del 13 marzo 2008 sulla particolare situazione delle donne detenute e
l'impatto  della  carcerazione  dei  genitori  sulla  vita  sociale e
familiare,  al  punto  14).  Non  sfugge , inoltre, al Collegio, come
ricordato   dalla   Corte   Costituzionale,  che  «l'alternativa  tra
l'immediata  esecuzione della pena o la sua temporanea inesigibilita'
a  causa  di  situazioni  soggettive  che  il  legislatore ritiene di
qualificare  come  incompatibili  con  la  carcerazione, non comporta
soluzioni    univoche    sul    piano    costituzionale,    dovendosi
necessariamente  ammettere  spazi  di  valutazione  normativa che ben
possono  contemperare  l'obbligatorieta' della pena con le specifiche
situazioni  di  chi vi deve essere sottoposto». Conferma l'assenza di
soluzioni  «a  rime  obbligate»  la  circostanza  che nel progetto di
riforma  al  codice penale predisposto dalla Commissione nominata con
d.m.  23 novembre 2001 il differimento dell'esecuzione della pena per
gravidanza  e  puerperio  non  sia  previsto,  mentre  e' prevista la
concessione  (facoltativa) della conversione della pena detentiva con
altra  misura  in caso di condannata incinta o madre di prole di eta'
inferiore  ad  anni dieci (v. art. 81 n. 6 del progetto ); il disegno
di  legge  delega  predisposto dall'ultima Commissione di riforma del
codice  penale  istituita  con  d.m.  31  luglio  2006,  invece,  nel
prevedere  nuovamente  l'istituto  del differimento, non lo qualifica
come obbligatorio.
   Il  legislatore  ordinario,  pero',  nell'esercizio del suo potere
discrezionale   di   dettare   norme   che   incidono   su  interessi
costituzionalmente rilevanti tra loro in rapporto di concorrenza o di
confliggenza, incontra limiti di ordine costituzionale.
   Con   riferimento   alla   normativa   penitenziaria,   la   Corte
costituzionale  ha  precisato  che  «eguaglianza  di fronte alla pena
significa  proporzione  della medesima alle personali responsabilita'
ed  alle  esigenze di risposta che ne conseguono (sentenze n. 349 del
1993  e n. 299 del 1992), e che per l'attuazione di tali principi, ed
in funzione della risocializzazione del reo, e' necessario assicurare
progressivita'  trattamentale  e  flessibilita'  della pena (sentenze
n. 445  del  1997  e  306  del  1993)  e, conseguentemente, un potere
discrezionale alla magistratura di sorveglianza nella concessione dei
benefici penitenziari» (sentenza n. 504 del 1995 e n. 255 del 2006).
   Con  sentenza  n. 306  del  1993, ancora, la Corte ha affermato il
principio   secondo   cui,   nell'ambito   delle   finalita'  che  la
Costituzione  assegna  alla pena (quella di prevenzione generale e di
difesa   sociale,  con  i  connessi  caratteri  di  retributivita'  e
afflittivita',  e  quella  di prevenzione speciale e di rieducazione,
che  tendenzialmente comportano una certa flessibilita' della pena in
funzione dell'obiettivo di risocializzazione del reo), il legislatore
ordinario   puo'   -   nei   limiti   della   ragionevolezza   -  far
tendenzialmente  prevalere,  di  volta  in  volta,  l'una  o  l'altra
finalita', ma a patto che nessuna di esse risulti obliterata.
   Conformemente  a  tali  principi,  ai quali e' improntato tutto il
settore  dell'esecuzione  penale,  la  concessione  di ogni beneficio
penitenziario  deve  essere  preceduta,  oltre  che dall'accertamento
della  sussistenza  dei  requisiti  di legittimita' di volta in volta
prescritti  dalla  legge,  anche  da  una valutazione del giudice sul
raggiungimento  da  parte  del  condannato di uno stadio del percorso
rieducativo  adeguato  al  beneficio  richiesto,  e sulla conseguente
idoneita'  rieducativa  di  quest'ultimo,  nonche'  sull'idoneita'  a
prevenire  il  pericolo  di  recidiva.  Nelle  proprie  decisioni, il
giudice   di   sorveglianza  deve  aver  riguardo  ai  risultati  del
trattamento  individualizzato,  o, in caso di assenza di trattamento,
al  comportamento  tenuto  in  liberta',  e verificare la sussistenza
delle  condizioni  per  un adeguato reinserimento sociale, al fine di
garantire la proporzionalita' e l'individualizzazione del trattamento
sanzionatorio,  oltre  che  l'ineludibile finalita' rieducativa della
pena.
   Come  innanzi accennato, il differimento secondo la giurisprudenza
non  ha  finalita'  rieducativa,  ma  tende  solo  ad  evitare che in
presenza di determinate situazioni l'esecuzione della pena avvenga in
spregio  del diritto alla salute e del senso di umanita'; la potesta'
punitiva  dello Stato nella fase dell'esecuzione della pena incontra,
per  vero,  un limite invalicabile in quelle situazioni in cui per le
condizioni  personali  del reo l'esecuzione dalla pena contrasterebbe
con  il  senso  di  umanita'  o  non  potrebbe avere alcuna efficacia
rieducativa  (cfr.  Cass.,  sentenza  1138  del  26  aprile 1994). In
assenza di tali estreme condizioni, tuttavia, non appare giustificata
la   compromissione   delle   finalita'  della  pena  previste  dalla
Costituzione,  in  quanto, pur essendo istituto anteriore all'entrata
in   vigore   della   Carta  costituzionale,  l'istituto  del  rinvio
dell'esecuzione  deve essere interpretato alla luce di tali principi.
Pur  non  rientrando, inoltre, tra i benefici premiali, difettando la
natura  premiate,  trattasi  pur  sempre  di  un beneficio che pur se
previsto  dal  codice  penale all'interno di un capo (il secondo) di'
contenuto  assai vario ed eterogeneo, ha una concreta incidenza nella
vicenda  esecutiva  e penitenziaria, e' demandato alla competenza del
giudice  di  sorveglianza  e pertanto deve soggiacere, salvi i limiti
anzidetti,   ai   principi   vigenti  in  materia  penitenziaria,  in
particolare al principio del finalismo rieducativo della pena.
   Nel  caso  di specie, il beneficio del differimento provvisorio si
e'  gia'  rivelato non adeguato, sia sotto il profilo rieducativo sia
sul  piano  della  prevenzione  speciale,  e cosi' pure la detenzione
domiciliare,  apertamente violata, ma nonostante l'abuso dei benefici
gia'  concessi  questo  Tribunale  di sorveglianza non puo' negare il
differimento,  salvo  optare  per una nuova concessione di una misura
che con certezza non troverebbe regolare esecuzione.
   Risulta,  cosi',  violato  il  principio  della proporzionalita' e
individualizzazione   del  trattamento  sanzionatorio,  ma  anche  il
principio  della  progressivita' trattamentale, in base al quale «nel
caso  di  abuso  dei  benefici gia' concessi o di altre irregolarita'
comportamentali   deve   conseguire   una  regressione  nel  percorso
trattamentale»  (cosi'  come,  all'inverso, «il maturarsi di positive
esperienze non potra' non generare un ulteriore passaggio nella scala
degli  istituti di risocializzazione»; v. sul punto Corte cost. sent.
n. 445/1997  con  riferimento ai permessi premio). L'importanza della
progressivita' trattamentale e' stata piu' volte ribadita dalla Corte
costituzionale,  che  ha  affermato che tale principio rappresenta il
«fulcro  attorno  al  quale si e' dipanata la propria giurisprudenza,
doverosamente  attenta a rimarcare l'esigenza che ciascun istituto si
modelli  e  viva  nel  concreto come strumento dinamicamente volto ad
assecondare   la   funzione   rieducativa  della  pena»;  espressione
normativa  della  biunivoca  correlazione  che  deve  necessariamente
stabilirsi  tra  la  progressione  (o  regressione)  nel  trattamento
rieducativo  e  la  risposta  conseguente sul piano dell'accesso agli
istituti di risocializzazione e' la norma di cui al comma 2 dell'art.
58-quater  o.p.,  che  prevede,  in  caso  di  revoca  di  una misura
alternativa  alla  detenzione, il divieto di concessione dei benefici
previsti  dal  comma  1  della norma per un periodo di tre anni dalla
data  del  provvedimento  di  revoca.  Nel caso in esame, alla revoca
della  detenzione  domiciliare provvisoria non puo', pero' conseguire
il  diniego  di  concessione  del  differimento,  non  compreso nella
previsione  del  comma  1  dell'art.  58-quater  o.p,  ma  puo'  solo
conseguire  la  concessione  di un beneficio ben piu' ampio di quello
rivelatosi  inadeguato,  senza  che  possa  essere  tenuta  in alcuna
considerazione  l'impossibilita'  di formulare una prognosi di futura
astensione  da  comportamenti  di  tipo  deviante, tenuto conto della
reiterazione  di  condotte  criminose  e  della dimostrata adesione a
modelli  di vita incentrati su attivita' illecite, in quanto la norma
non consente, sulla base di tale giudizio prognostico, il rigetto del
beneficio.  Solo  in relazione alle situazioni legittimanti un rinvio
facoltativo  dell'esecuzione  il comma 4 dell'art. 147 c.p.( aggiunto
dalla legge n. 40/2001) dispone che il provvedimento «non puo' essere
adottato  o  se  e'  adottato  e'  revocato  se  sussiste il concreto
pericolo  della  commissione  di  delitti»;  anche  tale disposizione
conferma  la diversa scelta del legislatore in ordine al differimento
obbligatorio,   riguardo   al   quale   non   e'  consentito  analogo
apprezzamento del giudice.
   Generalmente  si  afferma, riguardo all'istituto del differimento,
che le finalita' della pena possono essere procrastinate e rimodulate
a  seguito  di  una  esecuzione differita; nel caso di specie, pero',
puo'  ragionevolmente  affermarsi  che  allo  scadere del termine del
differimento (ovvero tra circa un anno e mezzo, periodo nel corso del
quale  verosimilmente  la  n. continuera'  a perseverare nel crimine)
l'esecuzione  non potra' agevolmente essere ripristinata, considerata
l'abilita'  dimostrata  dalla  condannata nel rendersi irreperibile e
nel  fare  uso  di  numerose  false  generalita'.  Tenuto conto della
giovane  eta',  e  delle  abitudini  di  vita  dei  nomadi, alla data
dell'inizio  di una nuova esecuzione la n. potrebbe essere nuovamente
incinta  e  cosi'  via per chissa' quanto tempo ancora. Conferma tale
assunto  la  circostanza  che la condannata risulta avere ottenuto il
differimento dell'esecuzione in data 22 luglio 2005 con ordinanza del
Tribunale per i minorenni di Torino in ordine alla pena di mesi dieci
di  reclusione  inflitta  con sentenza del G.u.p. presso il Tribunale
per  i minorenni di Torino in data 20 maggio 2005 e alla data odierna
risulta ancora ineseguita la relativa pena (v. cartelle giuridiche in
atti  e  casellario).  Dalla  documentazione  acquisita, inoltre, non
risultano  espiate  le  pene  inflitte con le altre numerose condanne
risultanti dal casellario.
   Come   emerge  dall'esame  dei  dati  statistici,  e  come  questo
tribunale  di  sorveglianza  ha avuto modo di verificare direttamente
nel  corso  dei  numerosi  procedimenti  iscritti  sulle  istanze  di
differimento avanzate da donne nomadi ristrette nelle Casa reclusione
donne  di  Venezia  (istituto dotato di nido), la strumentalizzazione
dell'istituto  del  differimento (che da extrema ratio in alcuni casi
diventa  la  regola) ha di fatto creato una sorta di immunita' per le
donne  nomadi in eta' fertile che possono dedicarsi indisturbate alle
loro  attivita'  illecite  potendo confidare sul trattamento previsto
dall'art.  146  c.p.  per  le donne in stato di gravidanza o madri di
figli in tenera eta'; considerato che generalmente si tratta di donne
che  iniziano a procreare precocemente, appena adolescenti, e che per
le  abitudini  di  vita non conoscono il fenomeno del controllo delle
nascite, e' di tutta evidenza l'imponenza del fenomeno e le pressanti
esigenze di tutela della collettivita' che ne conseguono. Piu' che un
temporaneo  differimento (che potrebbe non compromettere le finalita'
della   pena)   si   finisce   per  avere  un  differimento  a  tempo
indeterminato,   per   giunta   lasciato  alla  libera  scelta  delle
interessate,  le quali non indicando intenzionalmente un domicilio, o
dimostrando   una   sicura   inaffidabilita'   incompatibile  con  la
detenzione   domiciliare,   o   sottraendosi   all'esecuzione   della
detenzione  domiciliare  gia' concessa (tutte ipotesi sussistenti nel
caso  in  esame),  possono lucrare, quale alternativa inevitabile, il
differimento  della  pena.  A  cio' si aggiunga che il legislatore ha
inasprito  con  l'introduzione  dell'art. 624-bis c.p. ad opera della
legge 26 marzo 2001, n. 128 il trattamento sanzionatorio dei furti in
abitazione,   reati   diventati  di  grave  allarme  sociale  poiche'
comportano  un  serio turbamento della vita che si svolge tra le mura
domestiche,  oltre  ad  arrecare  un  danno  patrimoniale;  con  tale
inasprimento, il legislatore ha riconosciuto la particolare rilevanza
degli  interessi  lesi dal delitto, e pertanto l'ordinamento non puo'
poi  lasciare  di  fatto  impunite  le  «professioniste» dei furti in
abitazione, come l'odierna istante.
   Puo'  affermarsi,  pertanto,  che  nel  caso  di  specie  tutte le
finalita' che la Costituzione assegna alla pena risultano obliterate,
con   conseguente   violazione  del  principio  sancito  dalla  Corte
costituzionale con sentenza n. 306 del 1993. Totalmente svilita e' la
finalita'  di prevenzione generale e di difesa sociale - finalita' la
cui  realizzazione dipende, come e' noto, non soltanto dalla minaccia
legale  della  sanzione  penale,  ma  anche  e  soprattutto dalla sua
concreta  esecuzione  -  giacche' la rigida e prevedibile sospensione
del  momento  esecutivo  esclude  che la pena irrogata possa svolgere
alcuna  funzione  di intimidazione e dissuasione rispetto a possibili
futuri  comportamenti  criminosi,  sia  nei  confronti  del  concreto
destinatario  di  essa, sia nei confronti degli altri soggetti che si
trovano  nella  medesima situazione. Del tutto vanificato e' anche il
profilo  retributivo-affittivo  della pena posto che la rinuncia alla
relativa  esecuzione  (di  fatto a tempo indeterminato per le ragioni
esposte) lascia sostanzialmente impunito il reato commesso. Come gia'
evidenziato,  infine,  risultano obliterate del tutto le finalita' di
prevenzione  speciale  e  di  rieducazione  della  pena, che appaiono
riferibili al caso concreto.
   La  magistratura  di  sorveglianza  deve, infatti, in presenza dei
presupposti  previsti  dall'art.  146,  comma  1  n. 1)  e  2), c.p.,
sospendere  l'esecuzione  della  pena detentiva, in base ad un rigido
automatismo,  che  non puo' essere temperato da alcuna valutazione di
merito  volta  ad  assicurare  il perseguimento delle finalita' della
pena  e  l'individualizzazione e proporzionalita' del trattamento, in
relazione  alle  concrete  necessita' specialpreventive, neducative e
risocializzatrici del caso; alle situazioni regolamentate dalla norma
puo'  essere, di fatto, riconducibile una varieta' e molteplicita' di
situazioni  personologiche  e  criminologiche, tra loro profondamente
differenti,  meritevoli di diverso trattamento, che non puo', invece,
essere assicurato.
   E'   del   tutto  evidente,  pertanto,  che  la  generalizzata  ed
automatica  applicazione  del  trattamento  di  favore previsto dalla
disposizione   censurata,  nell'assegnare  un  identico  beneficio  a
condannati  che  presentino fra loro differenti stadi del percorso di
risocializzazione   e   diversi   gradi   di  pericolosita'  sociale,
compromette,  ad  un tempo, non soltanto il principio di uguaglianza,
finendo  per  omologare  fra  loro,  senza  alcuna  plausibile ratio,
situazioni  diverse,  ma  anche  la stessa funzione rieducativa della
pena,  posto  che  il  riconoscimento di un beneficio che non risulti
correlato   alla  positiva  evoluzione  nel  trattamento  compromette
inevitabilmente    l'essenza   stessa   della   progressivita',   che
costituisce il tratto saliente dell'iter riabilitativo. L'automatismo
che  si  rinviene  nella  norma  denunciata e' poi in contrasto con i
principi  di  proporzionalita'  e individualizzazione della pena come
precisati dalla richiamata giurisprudenza.
   Ne  consegue  il  contrasto  della  norma censurata con l'art. 27,
terzo comma, Cost., oltre che con l'art. 3 Cost.
   La  norma  stessa appare in contrasto con l'art. 3 Cost. anche per
lesione del canone della ragionevolezza.
   In  via generale, il bilanciamento degli interessi coinvolti ed il
sacrificio  di  alcuni  di  essi, in favore di altri, soggiacciono al
limite  della  ragionevolezza  della scelta legislativa, nel senso di
una  non  arbitraria  e non ingiustificata composizione dei valori in
giuoco.
   Nel  giudizio  sulla  razionalita'  di  una disciplina non si deve
guardare  solo  alla  posizione  formale di chi ne e' destinatario ma
anche alla funzione e allo scopo cui essa e' preordinata (Corte cost.
sentenza n. 54 del 1968). Sotto tale profilo, sulla base dei principi
affermati dalla giurisprudenza di legittimita' puo' affermarsi che la
ratio  delle  norme  sul differimento obbligatorio e' la tutela della
salute  e  dell'umanita'  della  pena;  sicuramente  finalizzato alla
tutela  della  salute  della  donna  e  del nascituro e' il rinvio in
presenza  dello stato di gravidanza, mentre il differimento nel primo
anno   di   vita  del  bambino  puo'  essere  ricondotto,  oltre  che
all'esigenza  di  assicurare  il  senso di umanita' della pena, anche
alla  tutela  dell'interesse del minore ad un corretto sviluppo della
personalita',  e,  in  funzione  di  tale  interesse, alla tutela del
rapporto  che  in  tale periodo necessariamente si svolge tra madre e
figlio,  non  tanto  e  non solo per cio' che attiene ai bisogni piu'
propriamente  biologici,  ma  anche  in  riferimento alle esigenze di
carattere  relazionale  e  affettivo che sono collegate allo sviluppo
della personalita' del bambino (v. con riferimento ad altre norme che
prevedono benefici nel periodo immediatamente susseguente al parto v.
sentenza n. 376 del 2000 Corte costituzionale).
   Se  questa  e' la ratio dell'istituto del differimento, che incide
su  altri interessi pure costituzionalmente rilevanti, deve ritenersi
che la norma sia espressiva di un giudizio di valore risultante dalla
ponderazione    di    due    interessi    in    conflitto,   entrambi
costituzionalmente  rilevanti. Caratteristica dei valori (o principi)
costituzionali     soggetti    a    bilanciamento,    e'    la    non
predeterminabilita'  in  assoluto,  una  volta  per  tutte,  dei loro
rapporti reciproci di sovra o sottordinazione. La prevalenza dell'uno
sull'altro,  quando il bilanciamento non sia rimesso caso per caso al
giudice,  ma  sia  operato  dalla  legge  nella  forma  di  una norma
astratta,  deve essere collegata a determinate condizioni tipiche. In
assenza  di tali condizioni l'esito della valutazione comparativa non
puo'  essere  il  medesimo.  Percio',  una  norma di questo tipo, per
essere  costituzionalmente  legittima,  non deve escludere, in ordine
all'interesse     postergato,    la    possibilita'    della    prova
dell'inesistenza, nel caso concreto, delle condizioni che, secondo il
bilanciamento  sotteso  alla norma stessa, giustificano la precedenza
attribuita  all'interesse  antagonistico  (v.  in  tal senso sentenza
Corte cost. 1° aprile 1992, n. 149).
   In applicazione di analogo principio, con riferimento all'istituto
del  differimento  della pena nei confronti dei condannati affetti da
AIDS,  la  Corte  costituzionale  con  sentenza  n. 438  del  1995 ha
ritenuto  non  conforme  al  canone  della ragionevolezza l'art. 146,
primo comma n. 3), c.p., nella parte in cui non consente di accertare
in  concreto  se  ai  fini'  dell'esecuzione  della pena le effettive
condizioni  di  salute  del condannato siano compatibili con lo stato
detentivo,    poiche'    intanto   si   puo'   ritenere   ragionevole
l'allontanamento  dal  carcere in quanto la relativa permanenza negli
istituti  cagioni  un  pregiudizio  alla  salute del soggetto e degli
altri   detenuti,   posto   che   altrimenti   risulterebbero   senza
giustificazione  compromessi  altri  beni  riconosciuti  come primari
dalla Carta fondamentale.
   Nel  caso  di  specie,  la  restrizione  in carcere nel periodo di
gestazione  non ha cagionato alcun concreto pregiudizio alla N., come
emerge  dal  certificato del sanitario della Casa reclusione donne di
Venezia  datato  27  maggio  2008.  Nel carcere femminile di Venezia,
inoltre,  la  detenuta godeva dell'assistenza sanitaria assicurata in
istituto.
   Per   converso,   come   evidenziato,   nei  periodi  di  liberta'
conseguenti  ai  benefici ottenuti, la n. non ne ha fatto uso al fine
di dedicarsi alla cura dei figli in tenera eta', ma piu' volte (anche
in  occasione  delle  precedenti  gravidanze)  e'  stata denunciata e
arrestata  in  flagranza  mentre  era  dedita al furto, lontana dagli
accampamenti  dove  i figli erano verosimilmente affidati a parenti o
altri   componenti   del   gruppo,  ed  ha  tenuto  un  atteggiamento
irresponsabile,  perseverando nel proprio stile di vita antinormativo
e  inadatto  sia ad una gestante che ad una madre di figlio in tenera
eta'. Come emerge dagli studi sociologici in materia, spesso le donne
nomadi  sono  indotte  o  addirittura  costrette  al delitto dai loro
uomini,   e   per  dedicarsi  a  tale  attivita'  lasciano  i  minori
nell'accampamento affidandoli a parenti o a terzi, salvo portarli con
se'  in  alcune delle imprese criminose, al fine di ottenere, in caso
di arresto, un benevolo trattamento cautelare.
   Come   ricordato   dalla  Corte  costituzionale  nella  menzionata
sentenza  n. 438  del  1995,  «il  rinvio  dell'esecuzione della pena
detentiva  si e' sempre saldamente attestato intorno a un presupposto
unificante,  vale  a  dire  le  particolari  condizioni di salute del
condannato   e   la   ritenuta  inconciliabilita'  delle  stesse  con
l'altrettanto  peculiare  regime  carcerario.  Illuminanti , a questo
proposito,  sono  alcuni  passaggi  della  Relazione ministeriale sul
progetto  del  codice  penale  ove,  appunto, si giustifica il rinvio
obbligatorio  dell'esecuzione della pena nel caso della donna incinta
che  abbia  partorito da meno di sei mesi, proprio con le difficolta'
di  assistenza  negli  stabilimenti  carcerari  che quelle condizioni
personali necessariamente richiedono».
   La  concreta  realta'  delle  istituzioni carcerarie e', tuttavia,
profondamente  mutata  rispetto  all'epoca  di  entrata in vigore del
codice   penale,  sulla  scia  dei  principi  affermati  dalla  Carta
costituzionale  in  materia  di  esecuzione penale, e dell'incessante
processo di riforma dell'ordinamento penitenziario che ne e' seguito.
L'assistenza  alla  detenuta  in  stato di gestazione non rappresenta
piu', generalmente, un problema nella realta' degli istituti di pena,
tenuto  anche  conto della possibilita' di ricorrere al trasferimento
esterno  ex  art.  11 o.p., e inoltre la carcerazione puo' comportare
rischi  per la gestazione di gran lunga inferiori rispetto allo stato
di  liberta'  nei  casi  in cui, come in quello in esame, lo stato di
liberta'  non  si  accompagni  ad  uno  stile di vita, anche sotto il
profilo  igienico-sanitario,  oltre  che  delle abitudini quotidiane,
adeguato  alla  particolare  situazione.  A  cio' si aggiunga che nel
concedere  il beneficio del differimento il Tribunale di sorveglianza
non   puo'   imporre  alcuna  prescrizione  finalizzata  alla  tutela
dell'interesse  del  nascituro,  posto  che  secondo  la  consolidata
giurisprudenza  l'imposizione  di obblighi accessori e' incompatibile
con  la  concessione  del  beneficio (Cass., sez. I, 2 dicembre 1992,
n. 4591).
   In  alcuni  casi,  pertanto,  non  puo' a priori escludersi che in
alcuni istituti di pena siano assicurati alla gestante e al nascituro
un'assistenza   piu'  adeguata  da  punto  di  vista  sanitario,  non
assicurata   in  alcuni  gruppi  familiari  inseriti  in  culture  di
microcriminalita' prive di riferimenti abitativi stabili.
   E'  proprio  la  rigida  presunzione  stabilita dal legislatore ad
apparire  priva  di  adeguato  fondamento e tale da rendere dubbia la
razionalita'  di  una  norma  dalla cui concreta applicazione possono
generarsi  ingiustificate  compromissioni di altri interessi tutelati
dall'ordinamento.  Le  ipotesi  del  differimento obbligatorio per la
donna incinta o madre di figlio di eta' inferiore ad anni uno sono le
sole,  tra quelle previste dall'art. 146 c.p., a non ammettere alcuna
verifica in concreto sulla sussistenza di una effettiva situazione di
pregiudizio  agli  interessi  che  la  norma  tende  a  tutelare o di
contrarieta'  dell'esecuzione  penale  al senso di umanita' (verifica
prevista,  invece,  nelle  ipotesi  dei  condannati affetti da AIDS o
altra  malattia  particolarmente  grave),  ed  inoltre  che hanno una
difforme  regolamentazione  in sede cautelare e in sede esecutiva. La
possibilita' di verificare la sussistenza di una effettiva situazione
di pregiudizio allo stato di gestazione conseguente alla carcerazione
o  di  contrarieta'  dell'esecuzione  penale  al  senso  di  umanita'
(verifica  che  andrebbe  effettuata  caso per caso in relazione alle
strutture  disponibili  ,  alla  personalita' della condannata e alle
condizioni di vita della famiglia) consentirebbe, invece, un'adeguata
composizione  degli  interessi  configgenti  e  la salvaguardia della
ratio  dell'istituto  del  differimento,  le  cui  finalita', invece,
vengono in casi come quello in esame completamente snaturate.
   La  disposizione  impugnata  deve ritenersi non conforme al canone
della ragionevolezza nella parte in cui non consente, quando vi siano
significative   esigenze   di   sicurezza  sociale  e  la  detenzione
domiciliare  non sia adeguata a prevenire il pericolo di recidiva, di
accertare  in  concreto  se  ai  fini  dell'esecuzione  della pena la
carcerazione  comporti  un  effettivo  pregiudizio,  tale  da rendere
contraria   al  senso  di  umanita'  l'esecuzione  penale,  e  se  la
scarcerazione  «secca»  sia  effettivamente  idonea  ad assicurare la
tutela  degli  interessi ai quali il beneficio e' preordinato. Da qui
il  contrasto  della norma denunciata con l'art. 3 Cost., ravvisabile
non   solo  sotto  il  profilo  della  violazione  del  canone  della
ragionevolezza, per le ragioni evidenziate, ma anche sotto il profilo
della  razionale  uniformita' del trattamento normativo, in quanto in
presenza delle medesime condizioni (stato di gestazione e presenza di
un  figlio  in  tenera  eta') e' consentito solo nella fase cautelare
disporre  la  carcerazione,  sia  pure  ove  sussistano  esigenze  di
eccezionale  rilevanza.  Non e' senza rilievo il fatto che l'art. 275
c.p.p. sia stato rimaneggiato con la legge 26 marzo 2001, n. 128, una
legge  dunque  posteriore  alla  legge  8  marzo  2001,  n. 40 che ha
modificato  l'art.  146  c.p. estendendo il differimento obbligatorio
fino  ad  un  anno  di  vita del bambino. Sino a prova del contrario,
pertanto, l'interprete e' portato a ritenere che il legislatore abbia
consapevolmente    tenuto   distinta   la   disciplina   del   rinvio
dell'esecuzione   della   pena   rispetto  a  quella  della  custodia
cautelare.
   E'  pacifico che le misure cautelari si distinguano dalla pena per
natura  e finalita' , si' da non apparire irragionevole, in astratto,
una  difforme  disciplina  (v.  in  tal  senso  Corte  cost. sentenza
n. 25/1979);  come affermato dalla giurisprudenza di legittimita' (v.
sentenza  Cass.  n. 43014  del  2001) scopo della misura cautelare e'
quello  di  assicurare  una o piu' delle esigenze di cui alle lettere
a),  b) e c) del primo comma dell'art. 274 c.p. Si tratta, dunque, di
una  finalita'  da un lato contingente in quanto legata all'evolversi
di una fase procedimentale, dall'altro strumentale, in quanto posta a
garanzia delle indagini e del processo, oltre che della collettivita'
quando sussista il pericolo della commissione di altri reati. In tale
ottica,  il  legislatore  si e' posto il problema di un bilanciamento
tra le esigenze di' cautela e le esigenze di tutela della salute o di
altre situazioni personali dell'indagato, contemperando tali esigenze
con la previsione dei limiti alla custodia cautelare in carcere nelle
ipotesi previste dall'art. 275, comma 4, c.p.p.
   Nel  caso  di  specie,  pero'  (come  in  altri casi analoghi), le
esigenze  cautelari  di  eccezionale  rilevanza  di  volta  in  volta
ritenute  sussistenti  a  carico  della n. nelle menzionate ordinanze
custodiali   sono   rappresentate  dalle  esigenze  di  tutela  della
collettivita',  previste  dall'art.  274,  comma  1, lett. c); non si
tratta,  quindi,  di  esigenze  poste a garanzia delle indagini e del
processo,  tipiche  solo  delle  misure  cautelari  e  non della pena
(esigenze  che  potrebbero  giustificare una difforme disciplina), ma
delle esigenze di tutela della collettivita' alla cui salvaguardia e'
finalizzata  anche la pena, la cui composita funzione comprende anche
le  esigenze  di  prevenzione  e  di  tutela  della collettivita'. In
presenza  delle  medesime  esigenze  di  sicurezza  sociale  e  delle
medesime situazioni personali, l'ordinamento consente solo al Giudice
della  cautela  la salvaguardia delle prime, ove siano di eccezionale
rilevanza,  mentre  dopo il passaggio in giudicato le stesse esigenze
sono  postergate  e  nessuna  verifica  e'  consentita  al giudice di
sorveglianza  in  merito  all'eccezionalita'  delle stesse esigenze e
all'esistenza  effettiva  di pregiudizio per la madre e il nascituro.
Come  emerge dall'esposizione delle ultime vicende relative al titolo
esecutivo di cui si discute, la n. e' rimasta in carcere sottoposta a
custodia  cautelare  fino al passaggio in giudicato delle condanne di
cui  alla  sentenza  del Tribunale di Roma del 13 novembre 2007 e del
Tribunale  di  Venezia  in  data 4 aprile 2008, e fino a tale momento
l'ordinamento  ha consentito al giudice della cautela la salvaguardia
delle  esigenze  di  sicurezza sociale, mentre dopo l'irrevocabilita'
delle  sentenze  tali esigenze non possono avere alcuna rilevanza, se
non  ai fini della concessione della detenzione domiciliare, nel caso
di   specie  non  concedibile  per  la  certa  inaffidabilita'  della
condannata, gia' evasa dalla detenzione domiciliare, e l'intenzionale
mancata  comunicazione di un luogo in cui eseguire la misura; in caso
di   ulteriore  (e  irragionevole)  concessione  della  detenzione  .
domiciliare,   ne   conseguirebbe  verosimilmente  una  inarrestabile
sequenza  di  sottrazioni alla detenzione domiciliare e di ripristino
della stessa, che da un lato svilirebbe l'essenza stessa della misura
e  dall'altra lascerebbe di fatto integralmente sguarnite le esigenze
che  la misura e' invece destinata a salvaguardare (in tal senso, con
riferimento  agli  arresti domiciliari per i malati di AIDS, v. Corte
cost.  n. 439  del  1995). Appare irragionevole che in presenza delle
medesime  condizioni  e  delle  medesime esigenze da salvaguardare il
difforme  trattamento previsto dalla legge sia determinato da un dato
solo  formale  quale  il  passaggio  in giudicato della sentenza (che
determinata  la  trasformazione  giuridica  della  condanna in titolo
esecutivo),  indipendente  dal comportamento del reo. Con riferimento
ad  altra  ipotesi  di  differimento  obbligatorio  (per i condannati
affetti da AIDS) la Corte costituzionale ha, invece, reso omogenea la
disciplina  in  sede  cautelare ed esecutiva con le sentenze n. 438 e
439 del 1995.
   Ancora,   sotto   il   profilo  della  razionale  uniformita'  del
trattamento   normativo,   va   rilevato   che   in   altri   settori
l'ordinamento,  nel  prevedere  particolari  forme  di  tutela  della
maternita' e del minore nella fase immediatamente successiva al parto
non  oblitera  la  salvaguardia  delle esigenze di sicurezza sociale:
basti  pensare  al  divieto  di  espulsione  della  donna in stato di
gravidanza  o nei sei mesi successivi al parto previsto dall'art. 19,
d.lgs.   n. 286/1998   (divieto   esteso  all'espulsione  del  marito
convivente  della  donna  a  seguito della sentenza della Corte cost.
n. 376  del  27  luglio  2000), che trova un limite nelle esigenze di
tutela e sicurezza dello Stato.
   Deve, infine, rilevarsi che la particolare normativa di favore per
le  donne in stato di gravidanza e puerperio puo' indurre, come nella
pratica  gia'  avviene,  ad  una  strumentalizzazione a fini illeciti
della maternita' e del rapporto di filiazione, con conseguente scelta
della  procreazione al solo fine di ottenere l'impunita' di fatto dai
delitti   commessi;   ne  consegue  lo  snaturamento  della  funzione
dell'istituto, con lesione dell'art. 30 Cost.
   Per  le  esposte ragioni, ritiene questo Tribunale di sorveglianza
che  si imponga la sospensione del procedimento e la rimessione degli
atti   alla   Corte   costituzionale,   risultando  rilevante  e  non
manifestamente  infondata la questione di costituzionalita' dell'art.
146,  comma 1, n. 1), c.p., nella parte in cui in cui non consente al
Tribunale di sorveglianza di accertare in concreto se la tutela delle
esigenze   della   madre   e  del  nascituro  sia  incompatibile  con
l'esecuzione della pena in carcere, e, conseguentemente, di negare il
differimento  dell'esecuzione  della pena quando il beneficio non sia
ritenuto  adeguato alle finalita' previste dall'art. 27, terzo comma,
della  Costituzione  e  la  detenzione  domiciliare  non sia idonea a
prevenire il pericolo di recidiva.