Ordinanza
nei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale del combinato disposto
dell'art.  428  del  codice  di  procedura  penale,  come  sostituito
dall'art.  4 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice
di procedura penale, in materia di inappellabilita' delle sentenze di
proscioglimento), e dell'art. 10 della medesima legge n. 46 del 2006,
promossi  con  ordinanze dell'11 aprile 2006 dalla Corte d'appello di
Torino;  del 5 e del 19 maggio 2006 dalla Corte d'appello di Brescia;
del  4  luglio 2006 dalla Corte d'appello di Roma; del 28 giugno 2006
dalla  Corte  d'appello  di  Messina;  del 15 maggio 2007 dalla Corte
d'appello  di  Brescia;  dell'11 giugno 2007 dalla Corte d'appello di
Salerno  e  del  5  novembre  2007  dalla  Corte d'appello di Ancona,
rispettivamente iscritte ai nn. 73, 131, 135, 140, 305, 714 e 761 del
registro  ordinanze  2007  e  al  n. 61 del registro ordinanze 2008 e
pubblicate  nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 10, 13, 18,
41  e  46,  prima  serie  speciale,  dell'anno 2007 e n. 12, 1ª serie
speciale, dell'anno 2008.
   Udito  nella  Camera  di  consiglio del 5 novembre 2008 il giudice
relatore Paolo Maria Napolitano.
   Ritenuto  che  la Corte d'appello di Torino, con ordinanza dell'11
aprile 2006 (r.o. n. 73 del 2007), la Corte d'appello di Brescia, con
due ordinanze di identico tenore, rispettivamente del 5 maggio 2006 e
del  19  maggio  2006  (r.o.  nn.  131  e  135 del 2007), e con altra
ordinanza  del  15  maggio  2007  (r.o.  n. 714  del  2007), la Corte
d'appello  di  Roma, con ordinanza del 4 luglio 2006 (r.o. n. 140 del
2007),  la  Corte  d'appello  di Messina, con ordinanza del 28 giugno
2006  (r.o.  n. 305  del  2007),  la  Corte d'appello di Salerno, con
ordinanza  dell'11  giugno  2007  (r.o.  n. 761  del  2007), la Corte
d'appello  di  Ancona,  con ordinanza del 5 novembre 2007 (r.o. n. 61
del  2008),  hanno  sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e
112  della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale del
combinato  disposto  degli artt. 4 e 10 della legge 20 febbraio 2006,
n. 46  (Modifiche  al  codice  di  procedura  penale  in  materia  di
inappellabilita'  delle  sentenze di proscioglimento), nella parte in
cui prevede l'applicabilita' ai procedimenti in corso alla data della
sua  entrata in vigore della nuova disciplina che, modificando l'art.
428 del codice di procedura penale, preclude in ogni caso al pubblico
ministero  di  appellare  le sentenze di non luogo a procedere emesse
all'esito dell'udienza preliminare, stabilendo altresi' che l'appello
proposto  dal  pubblico  ministero,  prima  della  data di entrata in
vigore  della  legge,  avverso  una di dette sentenze, sia dichiarato
inammissibile;
     che,   ai   fini  della  rilevanza  della  questione,  le  Corti
rimettenti  precisano  di  essere  investite  di appelli proposti dal
pubblico  ministero  in  sede  o  dal procuratore generale competente
avverso   sentenze   di   non  luogo  a  procedere  emesse  all'esito
dell'udienza  preliminare  e  di  doverli dichiarare inammissibili in
applicazione delle norme censurate;
     che,  nel  merito,  la  Corte  d'appello  di  Torino,  la  Corte
d'appello  di  Brescia  e la Corte d'appello di Salerno ritengono che
l'eliminazione   dell'appello   del  pubblico  ministero  avverso  le
sentenze  di  non  luogo  a  procedere  emesse all'esito dell'udienza
preliminare  ad  opera  dell'art.  4  della  novella  del 2006 sia in
contrasto  con  il  principio del contraddittorio e di parita' tra le
parti  di  cui  all'art.  111,  secondo  comma,  Cost., principio che
esplica  la  sua  efficacia  per  l'intero iter processuale fino alla
sentenza  definitiva,  in  quanto sottrae ad una sola delle parti (il
pubblico  ministero)  lo  strumento  processuale  indirizzato a veder
affermata la propria pretesa;
     che  il principio del contraddittorio delle parti, in condizioni
di  parita',  davanti  a giudice terzo ed imparziale, di cui all'art.
111,  secondo  comma,  Cost.  non  puo' intendersi limitato alla fase
anteriore  alla pronuncia del giudice, giacche' il termine «processo»
indica  l'intero  iter attraverso il quale si attua la giurisdizione,
fino alla pronuncia definitiva;
     che,  pertanto,  a parere dei sopra indicati collegi rimettenti,
il principio della parita' delle parti deve comprendere anche la fase
dell'appello  e,  nell'ambito  di essa, il suo momento introduttivo e
fondante,  ossia  la  definizione  dei  casi  in  cui  e'  consentito
appellare;
     che,  secondo la Corte d'appello di Roma e la Corte d'appello di
Ancona,  le  disposizioni censurate si pongono in contrasto anche con
il  principio  della  ragionevole durata del processo di cui all'art.
111,  secondo comma, Cost., in quanto, essendo ammissibile il ricorso
per  cassazione,  potrebbe  verificarsi «una regressione del processo
stesso alla fase dell'udienza preliminare - a seguito di annullamento
della Corte di Cassazione - con una inevitabile dilatazione dei tempi
di  definizione  del  processo  anche  per  l'inevitabile aggravio di
lavoro per la medesima Corte di Cassazione»;
     che,  viceversa,  secondo  la  Corte  d'appello  di Brescia, nei
confronti  delle  sentenze  di non doversi procedere emesse all'esito
dell'udienza  preliminare  troverebbe  applicazione esclusivamente il
primo  comma  dell'art.  10  della  legge n. 46 del 2006, che prevede
l'operativita' della nuova disciplina anche nei procedimenti in corso
alla  data  di  entrata  in  vigore  della medesima legge, mentre non
sarebbero   applicabili   i   commi   successivi,  che  prevedono  la
possibilita' del ricorso per cassazione, poiche' il termine «sentenza
di   proscioglimento»   sarebbe   collegato   alla   sua   originaria
appellabilita',  tanto dal pubblico ministero che dall'imputato, cosa
che  non  si  verifica  con  riferimento alla sentenza di non doversi
procedere;
     che,  pertanto,  non  essendo ammesso il ricorso per cassazione,
risulterebbe violato l'art. 111, settimo comma, Cost. che prevede che
contro  tutte le sentenze e' sempre ammesso ricorso in Cassazione per
violazione di legge;
     che, secondo tutte le Corti rimettenti, ad eccezione della Corte
d'appello  di  Messina,  la  modifica  dell'art.  428 cod. proc. pen.
risulterebbe  contraria al principio di ragionevolezza, in quanto non
giustificata  ne'  da esigenze connesse alla corretta amministrazione
della  giustizia,  ne'  da  concreti, benefici effetti giuridici, ne'
dalla  rinunzia all'istruzione dibattimentale e, infine, perche' atta
a vanificare gli appelli gia' proposti e a rendere di fatto il potere
del  pubblico ministero inidoneo all'assolvimento del compito che gli
assegna l'art. 112 Cost.;
     che,  secondo  la  Corte  d'appello di Brescia (ordinanza del 15
maggio  2007),  sarebbe  violato  anche  l'art.  24 Cost., poiche' la
limitazione  del  potere  di  appello  in capo all'organo dell'accusa
verrebbe  irragionevolmente  a  comprimere  la  tutela dell'interesse
delle  vittime del reato, diverso dal ristoro patrimoniale, in quanto
l'esercizio  dell'azione  penale da parte del pubblico ministero vale
ad  offrire  alle  vittime  dei  reati  l'essenziale  tutela del loro
legittimo  interesse  ad  ottenere  giustizia,  a  prescindere  dalle
possibilita'  che  dette  vittime  in concreto abbiano di accedere al
processo nelle forme dell'azione civile ivi direttamente intrapresa;
     che le Corti d'appello di Brescia, Messina e Salerno, evocano, a
parametro  della  questione  di  costituzionalita',  anche l'art. 112
Cost.,  assumendo  il  contrasto  della  disciplina  censurata con il
principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale sul presupposto che
tale  principio,  espressione  dell'interesse  punitivo  dello Stato,
implichi,   logicamente   e   coerentemente,   anche   il  potere  di
impugnazione;
     che, secondo la Corte d'appello di Messina, l'orientamento della
Corte  costituzionale  che  esclude la riconducibilita' del potere di
appello  all'obbligo di esercizio dell'azione penale andrebbe rivisto
alla  luce  dell'art.  74  del  regio  decreto 30 gennaio 1941, n. 12
(Ordinamento  giudiziario),  che  testualmente  recita  «il  pubblico
ministero  inizia ed esercita l'azione penale», disposizione, questa,
da  ritenere  indicativa  di  una precisa volonta' del legislatore di
distinguere il momento iniziale dall'esercizio successivo dell'azione
penale,  ricomprendendo  in  questo secondo momento l'intero iter del
processo;
     che,  secondo  la  Corte d'appello di Salerno, tale orientamento
della  giurisprudenza costituzionale si riferirebbe alla impugnazione
di  provvedimenti  emessi a cognizione piena, cioe' ai casi in cui, a
seguito  di  regolare  giudizio, vi e' stata da parte del giudice una
decisione  nel  merito  in ordine alla responsabilita' dell'imputato,
mentre   nel  caso  della  sentenza  di  non  luogo  a  procedere  la
valutazione  del  giudice  e' solo sulla idoneita' o meno delle prove
raccolte a sostenere l'accusa in giudizio.
   Considerato  che  i  giudici  a quibus dubitano della legittimita'
costituzionale,  in  riferimento  agli  artt.  3, 24, 111 e 112 della
Costituzione,  dell'art.  428  del  codice  di procedura penale, come
sostituito dall'art. 4 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche
al  codice  di procedura penale, in materia di inappellabilita' delle
sentenze  di  proscioglimento),  in  combinato disposto con l'art. 10
della medesima legge;
     che, in particolare, il dubbio di costituzionalita' sottoposto a
questa   Corte   ha  per  oggetto  l'immediata  applicabilita'  della
disciplina  che  preclude  l'appello  da parte del pubblico ministero
delle  sentenze  di  non  doversi  procedere  pronunciate dal giudice
dell'udienza  preliminare  nei  procedimenti  in  corso  alla data di
entrata in vigore della legge medesima;
     che,  stante  l'identita'  delle  questioni proposte, i relativi
giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia;
     che  tutti  i  rimettenti sollevano la questione sul presupposto
che  le  norme  censurate  siano  applicabili  nei giudizi a quibus -
ancorche'  concernenti  appelli  avverso  sentenze  di  non  luogo  a
procedere proposti prima dell'entrata in vigore della legge n. 46 del
2006  -  in  forza  della disposizione transitoria di cui all'art. 10
della legge stessa;
     che i rimettenti, ad eccezione della Corte d'appello di Brescia,
danno  per  scontato  che  la  formula «sentenza di proscioglimento»,
impiegata nell'art. 10, comma 2, della legge n. 46 del 2006, abbracci
anche le sentenze di non luogo a procedere;
     che  la  Corte d'appello di Brescia, invece, ritiene applicabile
alle  sentenze di non doversi procedere emesse all'esito dell'udienza
preliminare il solo comma 1 dell'art. 10 della legge n. 46 del 2006 e
non  anche il regime transitorio disposto dai commi successivi, e che
pertanto  gli  appelli  gia'  proposti  avverso  tali sentenze vadano
dichiarati  inammissibili  senza che si possa proporre il ricorso per
cassazione;
     che  questa  Corte  -  dichiarando  manifestamente inammissibili
questioni  di  legittimita'  costituzionale  basate  su  un  identico
presupposto  interpretativo  (cfr.  ordinanza  n. 4  del  2008)  - ha
evidenziato   che  l'indirizzo  prevalente  nella  giurisprudenza  di
legittimita' e', invece, di segno opposto;
     che, al riguardo, una parte della giurisprudenza di legittimita'
ha  affermato  che  nella nozione di «sentenza di proscioglimento» di
cui  all'art. 10, comma 2, della legge n. 46 del 2006, non rientra la
sentenza  di non luogo a procedere pronunciata all'esito dell'udienza
preliminare,  la  quale,  pertanto,  non  e' soggetta alla disciplina
prevista da tale disposizione;
     che,  secondo  questo indirizzo interpretativo, alle sentenze di
non  luogo  a procedere pronunciate ai sensi dell'art. 425 cod. proc.
pen.,  all'esito  dell'udienza  preliminare,  e'  applicabile solo il
comma  1  del  citato  art. 10, che, nello stabilire che «la presente
legge  si applica anche ai procedimenti in corso alla data di entrata
in  vigore della medesima», si limiterebbe, di per se', a ribadire il
principio  tempus  regit  actum,  che  disciplina  in via generale la
successione di leggi nel settore processuale penale;
     che,  pertanto,  la disciplina transitoria di cui ai commi 2 e 3
dell'art.  10  della  legge n. 46 del 2006 si applicherebbe solo alle
sentenze  di proscioglimento e non a quelle di non doversi procedere,
in  quanto,  la  formula  «sentenza di proscioglimento» designerebbe,
nella  sua  accezione tecnica, la sentenza liberatoria pronunciata da
un  giudice chiamato a decidere sul merito: comprendendo, in specie -
come  si  desume  dall'intitolazione della sezione I, capo II, titolo
III,  del  libro  VII  del  codice  di  procedura  penale - le (sole)
sentenze «di non doversi procedere» e di «assoluzione»;
     che  la  prospettiva  interpretativa  ora  ricordata  - la quale
renderebbe  irrilevanti  le  questioni  nei giudizi a quibus - non e'
stata, peraltro, affatto presa in esame dai giudici rimettenti, anche
solo per negarne eventualmente la praticabilita';
     che  l'omesso  esame  della  soluzione  ermeneutica  in discorso
equivale  a  mancato  adempimento  dell'onere,  che grava sul giudice
rimettente,  di  verificare preventivamente se la norma censurata sia
suscettibile  di  interpretazioni  alternative,  atte  ad escludere i
dubbi  di  costituzionalita'  (ex plurimis, sentenza n. 192 del 2007;
ordinanza n. 32 del 2007);
     che  le  questioni  vanno  dichiarate,  pertanto, manifestamente
inammissibili.
   Visti  gli  artt.  26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.