IL COLLEGIO ARBITRALE Costituitosi il 25 maggio 2006, in virtu' della clausola compromissoria di cui all'art. 28 della Convenzione di concessione rep. n. 4 del 31 luglio 1981, riunito in conferenza personale nella sede del Collegio arbitrale in Napoli ha pronunziato la seguente ordinanza per la risoluzione della controversia insorta tra il Consorzio CPR2, con sede in Pozzuoli (Napoli) alla via Campana n. 268, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato a difeso dagli avvocati prof. Vincenzo Spagnuolo Vigorita, prof. Bruno Capponi e Domenico Di Falco, e presso il primo elettivamente domiciliato in Napoli alla via Posillipo n. 394 e la Curia Arcivescovile di Napoli, con sede in Napoli al largo Donnaregina n. 22, in persona del legale rappresentante pro tempore rappresentata e difesa dagli avvocati prof. Aristide Police e Ivan Del Giudice, e presso il secondo elettivamente domiciliata in Napoli alla via Scarlatti n. 211/e. F a t t o 1. - Con atto introduttivo di arbitrato, notificato alla Curia Arcivescovile di Napoli in data 9 marzo 2006, il Consorzio CPR2, dichiarava che con convenzione del 31 luglio 1981, rep. 4 e successivi atti aggiuntivi del 7 febbraio 1985, rep. n. 46 e del 15 gennaio 1986, rep. n. 82, il Sindaco di Napoli - Commissario straordinario di Governo - aveva affidato in concessione la realizzazione dei lavori di costruzione di alloggi ed opere di urbanizzazione primaria e secondaria del comparto 7 in San Pietro a Patierno. Precisava che, nell'ambito del rapporto concessorio, rientrava la realizzazione di un intervento per la realizzazione di una Chiesa in via Caloria, in ordine al quale, nel corso dell'esecuzione, veniva redatta perizia di variante che prorogava il termine di consegna dei lavori di 150 giorni; termine ulteriormente prorogato per la necessita' di ottenere i nullaosta per l'agibilita' e le fognature. Dopo l'ultimazione dei lavori, al Consorzio veniva affidata la realizzazione di ulteriori lavorazioni. Nelle more dell'esecuzione dei lavori, l'opera (nello stato in cui si trovava) veniva trasferita, con ordinanza del 27 marzo 1996 n. 12827, alla Curia Arcivescovile Napoli, secondo quanto disposto dal decreto ministeriale 4 novembre 1994 adottato in virtu' dell'art. 2, legge 23 dicembre 1993 n. 559, con il quale erano stati individuati dal Ministero del bilancio e della programmazione economica gli enti ai quali trasferire le opere realizzate nel quadro del programma straordinario di edilizia residenziale a Napoli, di cui al titolo VIII della legge n. 219/1981. I lavori, in attesa del perfezionamento del trasferimento, venivano interrotti fino all'aprile 1997 e ultimati nel luglio dello stesso anno. Nel gennaio del 1998 l'opera veniva definitivamente consegnata alla Curia. Con il citato atto introduttivo d'arbitrato il Consorzio CPR2 chiedeva alla Curia Arcivescovile di Napoli, in ragione del mancato collaudo dell'opera, i maggiori oneri derivanti dal servizio di guardiania ed i maggiori oneri derivanti dalla manutenzione dell'opera. Con lo stesso atto il Consorzio CPR2 nominava proprio arbitro l'avv. Raffaele Ferola ed invitava la Curia Arcivescovile di Napoli a procedere alla nomina del proprio arbitro. 2. - La Curia Arcivescovile di Napoli, con atto del 16 maggio 2006, nominava proprio arbitro il prof. avv. Mario Rosario Spasiano e designava altresi' i propri difensori. Gli arbitri, con verbale del 25 maggio 2006, designavano terzo arbitro, con funzioni di Presidente del Collegio, l'avv. Gherardo Marone che accettava. Nella stessa data si costituiva il Collegio arbitrale, fissando la propria sede in Napoli alla via Cesario Console n. 3, nello studio dell'avv. Gherardo Marone e veniva designato quale segretario del Collegio l'avv. Francesco Marone. 3. - Il Co1legio fissava i termini per lo svolgimento del giudizio e, rilevata ex officio la necessita' di valutare, ai fini della procedibilita' dell'arbitrato, l'applicabilita' nella fattispecie dell'art. 1, comma 2-quater, decreto-legge 7 febbraio 2003, n. 15, convertito dalla legge 8 aprile 2003, n. 62, invitava le parti a dedurre sul punto in occasione della costituzione in giudizio. Con memoria depositata in data 26 giugno 2006 la difesa della parte attrice ha eccepito la illegittimita' costituzionale della norma di cui all'art. 3, comma 2, del decreto-legge 11 giugno 1998 n. 180 convertito dalla legge 3 agosto 1998 n. 267, la cui vigenza e' ribadita dall'espresso richiamo contenuto nell'art. 1, comma 2-quater del decreto-legge 7 febbraio 2003 n. 15, convertito dalla legge 8 aprile 2003 n. 62. Si tratta della norma alla stregua della quale «Le controversie relative all'esecuzione di opere pubbliche comprese in programmi di ricostruzione di territori colpiti da calamita' naturali non possono essere devolute a Collegi arbitrali». Con memoria di costituzione depositata in data 26 giugno 2006, la difesa della Curia, nel controdedurre alle eccezioni di controparte, si rimetteva al Collegio in ordine alla valutazione preliminare della questione di costituzionalita'. Il Collegio, sentite le parti all'udienza del 17 luglio 2006, sospendeva il giudizio e rimetteva alla Corte costituzionale - con ordinanza in data 11 novembre 2006, iscritta al n. 280 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, 1ª Serie speciale dell'anno 2007 - questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 2, decreto-legge 11 giugno 1998 n. 180 convertito dalla legge 3 agosto 1998 n. 267, dell'art. 8 lett. d) del decreto legislativo 20 settembre 1999 n. 354 e dell'art. 1, comma 2-quarter, decreto-legge 7 febbraio 2003 n. 15 convertito dalla legge 8 aprile 2003 n. 62, per contrasto con gli articoli 3, 24, 25, 41, 42, 97 e 117 della Costituzione. La questione e' stata esaminata dalla Corte costituzionale all'udienza pubblica dell'11 dicembre 2007, con relazione del giudice Amirante e con l'intervento degli avvocati Vincenzo Spagnuolo Vigorita e Massimo Luciani per il Consorzio CPR2 e dell'avvocato dello Stato Marco Corsini per il Presidente del Consiglio dei ministri. La Corte costituzionale, con ordinanza n. 29 del 21 febbraio 2008, ha disposto la restituzione degli atti al Collegio arbitrale remittente poiche' «successivamente alla proposizione delle questioni ed alla discussione di esse in pubblica udienza, e' stata approvata la legge 24 dicembre 2007, n. 244 (disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2008), la quale all'art. 3, commi da 19 a 22 - ancorche' soltanto dal 1° agosto 2008, per effetto dell'art. 15 del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248 (proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia finanziaria) - ha introdotto il divieto del giudizio arbitrale per tutte le controversie scaturenti da appalti pubblici». Di conseguenza «rispetto alle questioni come proposte e come discusse e' mutato il quadro normativo, sicche' e' necessario che il remittente ne riesamini i termini». Il Collegio ha comunicato alle parti l'ordinanza della Corte e, ricevutane istanza di prosecuzione del giudizio, ha fissato la Camera di consiglio del 2 aprile 2008 per l'audizione dei difensori ai quali ha assegnato termine per il deposito di eventuali note. La difesa del Consorzio ha depositato ampie note illustrative. La questione di costituzionalita' proposta deve, quindi, essere riesaminata sia sotto il profilo della rilevanza che della non manifesta infondatezza. D i r i t t o 1. - Sulla rilevanza della questione di legittimita' costituzionale. Lo ius superveniens che impone di riesaminare i termini della questione e' costituito dalle disposizioni di cui ai commi da 19 a 22 dell'art. 3 della legge 24 dicembre 2007, n. 244, che hanno introdotto nell'ordinamento un generale divieto di inserire clausole compromissorie nei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi o forniture. In ordine alla rilevanza della questione e' sufficiente, pero', notare che il comma 21 del citato art. 3 individua quale momento di passaggio alla nuova disciplina legislativa la data del 30 settembre 2007 facendo salvi, cosi', tutti i Collegi arbitrali costituiti prima di quella data. Cio' e' sufficiente ad escludere l'applicazione di tale norma al presente giudizio perche', come indicato in epigrafe, il Collegio arbitrale si e' costituito il 25 marzo 2006 (e, quindi, in data anteriore a quella di applicazione della nuova disciplina). Con la ulteriore precisazione che, come specificato anche dalla Corte costituzionale nell'ordinanza 29 del 2008, l'efficacia della disciplina di cui all'art. 3, commi da 19 a 22, legg e n. 244/2007, e' stata sospesa fino al 1° luglio 2008 per effetto dell'art. 15 del decreto-legge 31 dicembre 2007 n. 248 convertito dalla legge 28 febbraio 2008 n. 31 «al fine di consentire la devoluzione delle competenze alle sezioni specializzate di cui all'art. 1 del decreto legislativo 27 giugno 2003 n. 168», ed oggi ulteriormente sospesa, dall'art. 8 del decreto-legge 30 giugno 2008 n. 113, «fino alla data di entrata in vigore delle disposizioni di legge di attuazione della devoluzione delle competenze ivi previste». Anzi l'ultimo rinvio disposto con il decreto-legge n. 113/2008 fa ritenere che quel divieto (di inserire clausole compromissorie) piu' non sussiste essendo prevista la sospensione sine die dell'efficacia della norma che impone il divieto. Ed e', comunque, questione diversa perche' quest'ultima disposizione prevede un divieto di sottoscrivere clausole compromissorie mentre la norma rilevante nel presente giudizio, e che ha dato luogo alla questione di legittimita', attiene alla diversa questione del divieto di risoluzione delle controversie mediante giudizio arbitrale nonostante il contratto abbia previsto la relativa clausola compromissoria quando l'ordinamento ne facultava le parti. In ordine alla rilevanza la normativa sopravvenuta non introduce elementi atti a modificare le valutazioni svolte nella precedente ordinanza di rimessione. Il decreto-legge 6 novembre 1998 n. 180 convertito dalla legge 3 agosto 1998 n. 267, al secondo comma dell'art. 3 prevede che «le controversie relative all'esecuzione di opere pubbliche comprese in programmi di ricostruzione di territori colpiti da calamita' naturali non possono essere devolute a collegi arbitrali». Successivamente e' intervenuto il decreto legislativo 20 settembre 1999, n. 354 recante disposizioni sulla definitiva chiusura del programma di ricostruzione di cui al titolo VIII della legge n. 219/1981. In particolare l'art. 8 del citato decreto legislativo n. 354/1999 non lascia adito a dubbi circa l'applicabilita' della norma di cui all'art. 3, comma 2, decreto-legge n. 180/1998 anche alle opere pubbliche di cui al titolo VIII della legge n. 219/1981, laddove dispone che il commissario straordinario liquidatore ai fini della transazione considera «I giudizi ordinari o arbitrali in corso o le istanze di accesso ad arbitrato notificate prima della data di entrata in vigore del decreto-legge 11 giugno 1998 n. 180». Il combinato disposto dell'art. 3, comma 2, del decreto-legge n. 180/1998 e della lett. d) dell'art. 8 del decreto legislativo n. 354/1999 non lascia spazio interpretativo e cioe' non puo' che essere letto nel senso che anche le controversie relative alla esecuzione di opere pubbliche inerenti gli interventi di cui al titolo VIlI della legge n. 219/1981, pur non direttamente collegati a calamita naturali, non possono essere devolute a Collegi arbitrali. In seguito l'art. 7, comma 1, lett. v), della legge 1° agosto 2002, n. 166, ha aggiunto il comma 4-bis all'art. 32 della legge 11 febbraio 1994, n. 109, alla stregua del quale «Sono abrogate tutte le disposizioni che, in contrasto con i precedenti commi, prevedono limitazioni ai mezzi di risoluzione delle controversie nella materia dei lavori pubblici come definita dall'art. 2». Da questa disposizione, contenente una generale clausola abrogativa di tutte le norme di limitazione dei mezzi di risoluzione delle controversie nella materia delle opere pubbliche, discenderebbe l'abrogazione tacita anche dell'art. 3, comma 2, decreto-legge n. 180/1998, poiche' non e' revocabile in dubbio che essa indichi una espressa limitazione dei mezzi di risoluzione delle controversie in materia di lavori pubblici, escludendo la possibilita' di devolvere ad arbitri le liti eventualmente nascenti dall'esecuzione di opere di ricostruzione successive a calamita' naturali. Tuttavia, il decreto-legge 7 febbraio 2003, n. 15, convertito dalla legge 8 aprile 2003, n. 62, ha stabilito, con l'art. 1, comma 2-quater, che «alle controversie derivanti dall'esecuzione di opere pubbliche inerenti programmi di ricostruzione dei territori colpiti da calamita' naturali, ivi compresi gli interventi derivanti dall'applicazione della legge 14 maggio 1981, n. 219, e successive modificazioni, continua ad applicarsi il disposto di cui all'art. 3, comma 2, del decreto-legge 11 giugno 1998 n. 180 convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 1998, n. 267». Di conseguenza, tralasciando i problemi inerenti la reviviscenza degli atti normativi, che non assumono rilievo ai fini del presente giudizio in quanto introdotto dopo l'entrata in vigore del decreto-legge n. 15/2003, deve concludersi che la norma che vieta di devolvere ad arbitri le controversie di cui al titolo VIII della legge n. 219/1981 e ancora vigente nell'ordinamento. Vi e', dunque, un insuperabile impedimento (anche interpretativo) a che il Collegio addivenga alla decisione della controversia di cui all'atto di accesso notificato il 9 marzo 2006 dal Consorzio CPR2; questa, infatti, rientra tra quelle aventi titolo ex lege n. 219/1981 ed e', pertanto, evidente che la normativa della cui legittimita' si dubita debba trovare applicazione nel giudizio devoluto a questo Collegio arbitrale, risultando impeditiva della pronuncia sulle richieste avanzate nell'atto di accesso. Ne' la norma sopravvenuta puo' valere a superare i dubbi di costituzionalita' della norma oggi all'esame del Collegio arbitrale perche' deve considerarsi irrilevante in questo giudizio sia ratione temporis sia perche' riguarda questione diversa rispetto alla norma della cui costituzionalita' in questa ordinanza si dubita. La norma sopravvenuta riguarda, infatti, il divieto di inserimento di clausola compromissoria nei contratti con la p.a. e l'obbligo di declinatoria in relazione ai contratti stipulati contenenti clausola compromissoria declinabile. La norma che qui si esamina riguarda, invece, la diversa questione del divieto di procedere alla costituzione del Collegio arbitrale nonostante l'esistenza in contratto di una clausola compromissoria non declinabile che, all'epoca della sottoscrizione del contratto stesso, poteva essere pacificamente inserita. Cosicche' anche qualora dovesse cessare 1a sospensione disposta sine die dall'art. 8 del decreto-legge 30 giugno 2008 n. 113 rimarrebbero procedibili in arbitrato, in via generale, le controversie relative a contratti di appalto di oo.pp. contenenti clausole non declinabili, con la sola eccezione di quelle relative ad appalti originati da calamita' naturali. Permane, dunque, anche alla luce della normativa sopravvenuta il trattamento differenziato che ha dato luogo al sospetto di incostituzionalita', che di seguito si ripropone. 2. - Sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale. Anche nell'esaminare la sussistenza della condizione di ammissibilita' della non manifesta infondatezza della questione e' necessario rivalutarne i termini alla luce della normativa sopravvenuta, come indicato dalla Corte costituzionale nell'ordinanza che restituisce gli atti. Il generale divieto di arbitrato, introdotto dalla legge n. 244/2007, vale a modificare in parte i termini della questione, ma non a negare i dubbi di legittimita' costituzionale della disciplina normativa che impedisce di pronunciarsi con lodo sulle richieste avanzate nell'atto di accesso. E' necessario, quindi, esplicitare le ragioni per le quali si ritiene ancora sussistente la non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 2-quater, del decreto-legge 7 febbraio 2003, n. 15, convertito dalla legge 8 aprile 2003, n. 62, dell'art. 3, comma 2, del decreto-legge 11 giugno 1998, n. 180, convertito dalla legge 3 agosto 1998, n. 267 e dell'art. 8, lett. d), del decreto legislativo 20 settembre 1999, n. 354, per violazione degli articoli 3, 5, 24, 25, 41, 42, 97, 117 e 120 della Costituzione. 2.1. - Contrasto con l'art. 3 della Costituzione. Irragionevolezza. E' noto al Collegio che la Corte costituzionale ha gia' affrontato la questione, risolvendola nel senso della infondatezza dei denunciati vizi di legittimita' costituzionale, con la sentenza 28 novembre 2001 n. 376 e con le ordinanze 13 gennaio 2003 n. 11 e 26 marzo 2003 n. 122. Con particolare riferimento alla assenta violazione dell'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della ragionevolezza, la Corte, dopo aver ribadito che la discrezionalita' del legislatore incontra il solo limite della manifesta irragionevolezza, ha precisato che nella fattispecie quel limite non poteva ritenersi superato «considerato il rilevante interesse pubblico di cui risulta permeata la materia relativa alle opere di ricostruzione dei territori colpiti da calamita' naturali, anche in ragione dell'elevato valore delle relative controversie e della conseguente entita' dei costi che il ricorso ad arbitrato comporterebbe per le pubbliche amministrazioni interessate» (Corte costituzionale, 28 novembre 2001, n. 376). Si tratta di affermazioni certamente condivisibili, ma che non spiegano in che modo l'esclusione della compromettibilita' in arbitri delle controversie eventualmente nascenti dai contratti stipulati per la ricostruzione possa connettersi alla presenza di interessi pubblici sottesi alla realizzazione di opere successive ad una calamita' naturale. La Corte costituzionale non ha potuto affrontare con completezza la questione perche', naturalmente, ha dovuto limitarsi ad uno scrutinio interno al thema decidendum definito con le ordinanze di rimessione, che invero non sembrano aver colto pienamente la misura del vizio di ragionevolezza che affligge la norma denunciata. Il punto nodale della questione appare essere l'esistenza di un legame tra l'esigenza posta alla base della determinazione di procedere all'appalto di un'opera pubblica e la disciplina dell'arbitrato, ovvero, piu' chiaramente, se la ragione contingente, sottesa alla decisione di realizzare un'opera, possa giustificare un'eccezione alla regola generale della possibilita' di devolvere ad arbitri eventuali controversie derivanti da un contratto di appalto. Sembra, invero, che la liberta' delle parti di deferire ad arbitri eventuali controversie non possa essere in alcun modo condizionata da ragioni congiunturali (calamita' naturale) che abbiano portato alla decisione dell'amministrazione di realizzare l'opera pubblica. La compatibilita' della norma denunciata con il principio di ragionevolezza va, quindi, verificata in termini parzialmente diversi. E la norma impugnata, esaminata sotto diverso angolo visuale, risulta viziata da irragionevolezza, poiche' individua una disciplina speciale per una determinata categoria di ipotesi che pero', a ben vedere, non si differenzia dalle altre sotto il profilo della compatibilita' con la ratio sottesa alla disciplina generale dell'arbitrato. Piu' precisamente si individua una sottocategoria di arbitrati, caratterizzati dal fatto di riguardare contratti pubblici aventi ad oggetto la realizzazione di opere pubbliche originate da una calamita' naturale. Dunque l'elemento di discrimine, all'interno della materia opere pubbliche, tra le controversie che possono essere devolute ad arbitri e quelle che, invece, vi sono sottratte e' costituito dalla circostanza che il contratto, all'interno del quale si e' inserita la clausola compromissoria, sia stato originato dalla necessita' di appaltare lavori pubblici a seguito di un evento calamitoso o, viceversa, da qualsiasi altra esigenza ritenuta meritevole dalla p.a. in quanto comunque rispondente ad un pubblico interesse. Ma la ragione per la quale un'amministrazione decide di realizzare un'opera pubblica e' assolutamente irrilevante, considerato che la disciplina non differisce in termini di modalita' di affidamento, di esecuzione dei lavori e di determinazione del contenuto delle obbligazioni contrattuali da cui possono sorgere controversie. Peraltro la circostanza che le opere siano collegate ad una calamita' naturale neanche influisce sulla tutela del pubblico interesse stante l'autonomia, persino l'indipendenza, di quest'ultimo rispetto alla causa che ha originato la decisione di realizzare l'opera stessa. Qualsiasi eventuale ritardo, sospensione dei lavori, riserve, penali che potranno dar luogo ad un contenzioso tra l'appaltatore e l'amministrazione, nulla avra' a che vedere rispetto alla congiuntura in cui si inquadra l'opera realizzanda, ne' alla finalita' con essa perseguita. La distinzione e' manifestamente irragionevole, poiche' disciplina in modo diseguale fattispecie del tutto analoghe, ne', ai fini in questione, sembrano in qualche modo rilevare il valore economico delle controversie ed il costo di funzionamento del Collegio arbitrale. E' evidente, da un lato, che il costo di un'opera pubblica e' assolutamente slegato dalla ragione per la quale si e' deciso di realizzare quell'opera (la messa in sicurezza di una strada danneggiata da un'alluvione costa certamente molto meno della realizzazione di molte altre rilevanti opere che nulla hanno a che vedere con eventi calamitosi). Sussistono opere pubbliche di valore economico ingentissimo che prescindono dal prodursi di eventi calamitosi e che non per questo sono sottratte all'accesso a procedure arbitrali, con ricorso all'applicazione delle tariffe professionali, anch'esse in nulla condizionate dalla circostanza che la controversia da risolvere riguardi opere connesse a calamita' naturali piuttosto che a qualunque altra ragione di interesse pubblico. Ma vi e' di piu': il Legislatore, nella sua opera di bilanciamento dei valori che venivano in rilievo, sembra non aver tenuto assolutamente conto dei vantaggi, anche economici, derivanti dalla devoluzione ad arbitri delle controversie. E' vero che le parti devono far fronte alle spese di funzionamento del Collegio arbitrale, ma e' altrettanto vero che il codice di procedura civile assegna un termine perentorio di 240 giorni agli arbitri per definire la controversia, il che vuol dire che una lite devoluta ad arbitri si chiude necessariamente in un tempo brevissimo, restando comune, quanto ai tempi, la fase della impugnativa in secondo grado. Di contro il tempo medio di risoluzione di una controversia civile, mediante la giustizia ordinaria, e' di circa dieci anni. Ed il fatto che vi sia una cosi' evidente sproporzione nei tempi di definizione della controversia non puo' che avere anche riflessi di natura economica per la pubblica amministrazione, non fosse altro per gli interessi e la rivalutazione monetaria che maturano nel caso di soccombenza e che il piu' delle volte conducono ad un incremento notevolissimo della spesa rispetto alla sorta capitale dovuta. Il maggior costo delle procedure arbitrali rispetto al ricorso alla giustizia ordinaria va valutato dunque non in astratto, ma deve costituire il frutto di una piu' ampia e complessiva valutazione di ordine economico, considerando peraltro, nella stessa prospettiva, che l'eccessiva durata del processo civile, come noto, costituisce talora di per se' causa di fallimento per le imprese, impossibilitate a reggere l'elevatissimo costo derivante dall'esposizione bancaria alla quale le stesse sono costrette a ricorrere anche a causa dei lunghissimi tempi d'attesa necessari alle definizione delle controversie. Anche questo dato, profondamente negativo sotto il profilo socio-economico, costituisce un elemento di valutazione che oggettivamente induce a riconsiderare l'astratta pretesa di eccessiva onerosita' delle procedure arbitrali. Ma l'irragionevolezza della norma che si assume viziata e' ancor piu' evidente se organicamente letta nel quadro delle norme dettate dal decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163. La lettera d) del comma 34 dell'art. 253 del citato decreto legislativo stabilisce: «Sono abrogate tutte le disposizioni che, in contrasto con la disciplina del presente codice, prevedono limitazioni ai mezzi di risoluzione delle controversie nella materia dei contratti pubblici e relativi a lavori, servizi e forniture o contemplano arbitrati obbligatori. E' salvo il disposto dell'art. 3, comma 2, del decreto-legge 11 giugno 1998 n. 180, convertito dalla legge 8 agosto 1998 n. 267 e dell'art. 1, comma 2-quater, del decreto legge 7 febbraio 2003 n. 15, convertito dalla legge 8 aprile 2003 n. 62». E il comma 1 dell'art. 241 prevede: «Le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall'esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell'accordo bonario previsto dall'art. 240, possono essere deferite ad arbitri». Si tratta di disposizioni irrilevanti in questo giudizio, poiche' inapplicabili ex art. 253, comma 1, decreto legislativo n. 163/2006, come sostituito dall'art. 1-octies decreto-legge n. 173/2006 convertito dalla legge n. 228/2006, ma che tuttavia sono utili per comprendere appieno la irragionevolezza della distinzione operata dal legislatore. E' evidente che le citate norme del nuovo codice dei contratti pubblici fanno applicazione di un principio generale di massima liberta' di scelta dei mezzi di risoluzione delle controversie inerenti l'esecuzione dei contratti pubblici. Ed in questo quadro risulta assolutamente ingiustificata la sottrazione a questa regola generale delle sole controversie inerenti le opere pubbliche connesse a calamita' naturali. Va rilevato che, pur non essendo le citate norme del codice dei contratti pubblici rilevanti in questo giudizio, codesta Corte costituzionale, qualora accogliesse la questione di legittimita' costituzionale sollevata dovrebbe dichiarare incostituzionale in parte qua, in applicazione dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953, l'art. 253, comma 34, lett. d), seconda parte, del decreto legislativo n.163/2006. 2.1.1. - Segue: contrasto con l'art. 3 della Costituzione sotto il profilo della ragionevolezza. Contrasto con gli articoli 5 e 120 della Costituzione. Violazione del principio di unita' giuridica dell'ordinamento. Sotto ulteriore profilo, va rilevato che le norme denunciate - attribuendo un regime normativo differenziato ad appalti oggettivamente e soggettivamente identici - ne individuano l'illegittima ratio nella genesi remota della necessita' di provvedere (all'esecuzione dell'opera), facendo cosi' coincidere tale causa remota con un criterio di localizzazione territoriale. In tal modo si determina una discriminazione di tipo territoriale non solo rispetto al piu' ampio ambito comunitario - ove e' consentito che la disciplina degli appalti si differenzi da quella generale solo per particolari oggetti o determinati soggetti aggiudicatori, senza alcun «privilegio» di tipo territoriale - ma anche nel piu' ristretto territorio nazionale, laddove le imprese operanti nei luoghi colpiti da calamita' naturali, anche per lavori connessi a finalita' di sviluppo e non certo di ricostruzione (si pensi all'ampliamento dell'originario titolo VIII legge n. 219/1981 con le previsioni di cui agli articoli 5-bis e 5-ter, legge n. 456/1981, che concernono grandi infrastrutture), si trovano a subire un trattamento ingiustificatamente differenziato rispetto a quelle operanti in altri distretti del Paese, per di piu' in un sistema che considera giudice naturale della esecuzione degli appalti il giudice onorario. Quest'ultima affermazione sembrerebbe smentita dall'entrata in vigore delle norme della finanziaria 2008 che hanno introdotto il generale divieto di arbitrato. Ma in realta' lo stesso legislatore, evidentemente consapevole della necessita' di mantenere un alto livello di specializzazione del giudice chiamato a conoscere della esecuzione degli appalti, ha sospeso l'efficacia di quelle norme (con il piu' volte citato art. 15 del decreto-legge n. 348/2007 e, poi, con l'art. 8 del decreto-legge n. 113/2008) «al fine di consentire la devoluzione delle competenze alle sezioni specializzate di cui all'art. 1 del decreto legislativo 27 giugno 2003 n. 168». Si e', dunque, in presenza non gia' della semplice abrogazione delle norme che disciplinano la compromissione in arbitri delle liti inerenti l'esecuzione dei contratti pubblici e del conseguente, pieno, dispiegarsi del principio del giudice naturale precostituito per legge, ovvero dell'applicazione dei normali criteri della competenza per territorio, ma del passaggio dal giudice onorario a sezioni specializzate del giudice ordinario. Tuttavia, non puo' negarsi che la normativa sopravvenuta modifichi in parte i termini della questione, quantomeno sotto il profilo della ragionevolezza delle scelte legislative. Si affrontera' in prosieguo la questione della eventuale illegittimita' del generale divieto di arbitrato ma, sotto il profilo della ragionevolezza delle norme oggetto della presente questione, lo ius superveniens, lungi dal fugare i dubbi di legittimita' sembra, invece, confermarli, poiche' altro e' escludere in termini generali la possibilita' di introdurre clausole compromissorie nei contratti pubblici altro e' sottrarre a quella possibilita' soltanto una classe di ipotesi per le quali, come detto, non sembrano rinvenibili differenze tali da giustificare un trattamento legislativo differenziato. 2.2. - Contrasto con gli art. 24, 41 e 42 della Costituzione. La norma oggetto della questione di legittimita' costituzionale che si solleva in questa sede risulta essere in contrasto anche con il principio della liberta' dell'iniziativa economica privata di cui agli articoli 41 e 42 della Costituzione, limitando irragionevolmente l'autonomia privata. E' vero che la liberta' di iniziativa economica non e' un diritto assoluto, ma puo' e deve essere condizionata per orientare finalisticamente l'intrapresa economica all'utilita' sociale, ma le limitazioni debbono essere, oltre che ragionevoli, collegabili ad un pubblico interesse prevalente. Piu' chiaramente, l'autonomia privata e' libera fintantoche' non vi sia una finalita' sociale il cui perseguimento richieda di limitarla. La regola generale e' dunque quella della massima ampiezza dell'autonomia privata, e le limitazioni ne rappresentano l'eccezione. Con specifico riferimento alla questione che qui interessa, la regola generale e' dunque quella della possibilita' di derogare alla giurisdizione comune per affidarsi ad arbitri privati. Non vi e' dubbio che anche questa regola possa subire eccezioni, ma esse devono essere connesse ad un interesse pubblico che nella fattispecie non appare riscontrabile, di tal che' la limitazione dell'autonomia privata appare nella specie arbitraria. E la questione non sembra doversi leggere nell'ottica della legittima distinzione di situazioni identiche ratione temporis. Il problema non e' se il legislatore possa o meno disciplinare in modo diverso una situazione in diversi momenti storici, individuando quindi, inevitabilmente, una differenziazione di disciplina per rapporti giuridici identici a seconda del momento in cui questi sono sorti; si tratta evidentemente delle normali regole di successione delle norme nel tempo, informate al principio del tempus regit actum. Nella fattispecie non si tratta del semplice avvicendarsi di due discipline legislative, ma della sottrazione alla regola generale secondo cui e' possibile deferire ad arbitri le controversie nascenti dai contratti pubblici relativi a lavori, di una classe di ipotesi che nulla hanno di diverso rispetto alle altre e che rappresentano, quindi, una arbitraria ed irragionevole compressione dell'autonomia privata. E cio' sia detto non senza considerare che l'utilita' sociale idonea a costituire limite all'autonomia privata deve necessariamente consistere (non in un interesse contingente dello Stato-apparato ma) in un beneficio di ordine generale della collettivita': vi e' dunque un'antinomia di fondo nel considerare utilita' sociale cio' che determina sperequazioni di tipo soggettivo e territoriale. Osservate dal punto di vista della limitazione dell'autonomia privata sembrano parimenti censurabili le norme della legge finanziaria 2008 che hanno previsto in termini generali il divieto di compromissione in arbitri per i contratti pubblici. All'art. 24 della Costituzione vanno ricondotte le facolta' inerenti l'esercizio del diritto di difesa, tra le quali la scelta di agire in giudizio; all'art. 41 e' legata la tutela dell'autonomia contrattuale. E l'arbitrato e' giudizio privato, frutto dell'esercizio dell'autonomia contrattuale. Dal combinato disposto degli articoli 24 e 41 Cost. si ricava la tutela della giustizia arbitrale, frutto dell'autonomia contrattuale delle parti, dall'incontro delle cui volonta' deriva la scelta di attivare il reciproco diritto di agire in giudizio, anziche' dinanzi al giudice ordinario, dinanzi a quello onorario. Codesta Corte costituzionale, con la sentenza n. 127 del 1977, ha dichiarato la illegittimita' costituzionale delle norme che prevedevano la obbligatorieta' dell'arbitrato, proprio perche' l'ha considerata una impropria limitazione dell'autonomia privata, ovvero perche' la scelta di sottoscrivere la clausola compromissoria deve essere frutto dell'autonomia contrattuale delle parti e non puo' essere un obbligo legislativo. Ragionando a contrario le medesime considerazioni valgono a fondare la illegittimita' delle disposizioni dei commi da 19 a 22 dell'art. 3 della legge n. 244/2007, poiche' se l'istituto non puo' essere obbligatorio perche' espressione dell'autonomia privata (Corte costituzionale sentenza n. 127/1977), esso per specularita' non potra' essere escluso nella sua interezza dal nostro ordinamento. Piu' precisamente, se si afferma (giustamente) che nella materia dei lavori pubblici l'arbitrato e' esplicazione piena e manifesta dell'autonomia privata dei contraenti - cioe' sia del soggetto privato come della pubblica amministrazione che agisce iure privaiorum - si deve convenire logicamente che esso non puo' essere espulso da tale sfera con il divieto assoluto. Non si puo' sfuggire all'equazione: l'arbitrato per lavori pubblici imposto con decisione autoritativa e' incostituzionale; ma se negato in assoluto incorre ovviamente nella stessa censura di illegittimita' costituzionale. 2.2.1. - Segue. Violazione dell'art. 117, primo comma, della Costituzione per contrasto con gli articoli 1e 6 della C.E.D.U., cosi' come interpretati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. La Convenzione europea dei diritti dell'uomo non contempla disposizioni specificamente dedicate alla tutela dell'autonomia privata, ma la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha ancorato quella tutela agli articoli 1 e 6 della C.E.D.U., disciplinanti rispettivamente il diritto di proprieta' ed il diritto ad un tribunale. E codesta Corte costituzionale ha recentemente chiarito, con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007, che le disposizioni della C.E.D.U., nell'interpretazione che di esse e' fornita dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo costituiscono parametro di legittimita' costituzionale, in rapporto all'art. 117, primo comma della Costituzione. Dunque se il divieto di improprie limitazioni dell'autonomia privata e' rinvenibile tra i principi della C.E.D.U., questo costituisce norma interposta che comporta la illegittimita' costituzionale delle leggi con esso contrastanti per indiretta violazione del primo comma dell'art. 117 della Costituzione. E la giurisprudenza di Strasburgo seppure non rinvenendo nel testo della C.E.D.U. una tutela diretta della liberta' di iniziativa economica privata e, quindi, dell'autonomia contrattuale, ha fatto, comunque, discendere l'obbligo per gli Stati contraenti di non introdurre limitazioni all'autonomia contrattuale se non laddove queste siano strettamente connesse alla tutela di un interesse generale (si vedano, in particolare, le decisioni Tre Traktorer Aktiebolag c/Svezia e Buffalo S.r.l. c/ Italia). E, nella specie, non pare potersi negare che il generico divieto di sottoscrivere clausole compromissorie nei contratti inerenti lavori, servizi e forniture non risponde a nessun interesse generale, ma sembra soltanto un improprio rimedio ad un aspetto patologico, peraltro tutto da dimostrare, degli arbitrati. Non e', invece, comprensibile quale sia nella specie l'interesse pubblico per il cui perseguimento e' necessario limitare l'autonomia contrattuale impedendo di devolvere le controversie sull'esecuzione di un contratto pubblico al giudice onorario. D'altra parte, come si e' gia' detto, lo stesso legislatore, evidentemente consapevole della necessita' di un giudice specializzato per l'esecuzione dei contratti pubblici, da un lato ha introdotto il generale divieto di arbitrato (legge n. 244/2007) e, dall'altro, ha sospeso l'efficacia di quelle norme limitative dell'autonomia contrattuale (decreto-legge n. 348/2007 e decreto-legge n. 113/08) in attesa della creazione di sezioni specializzate del giudice ordinario, cosi' smentendo la ratio della norma di divieto che sembrava quella di devolvere ai normali criteri di individuazione del giudice naturale le controversie inerenti l'esecuzione dei contratti pubblici. Con riferimento ai vizi denunciati ai punti 2.2. e 2.2.1. sia consentito osservare che parrebbe ricorrere una ipotesi di illegittimita' costituzionale consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953, dei commi da 19 a 22 dell'art. 3 della legge n. 244/2007. 2.3. - Ulteriore contrasto con gli articoli 41 e 42 e con gli articoli 3, 24, 25 e 97 della Costituzione. Il Collegio rileva un ulteriore motivo di illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 2, decreto-legge 11 giugno 1998, n. 180, nella parte in cui esclude dall'applicazione della norma di cui al primo periodo soltanto «Le controversie per le quali sia stata gia' notificata la domanda di arbitrato alla data di entrata in vigore del presente decreto» e non tutte quelle relative a contratti gia' stipulati, contenenti clausola compromissoria. Una tale previsione, determinando la nullita' retroattiva di tutte le clausole compromissorie precedentemente stipulate, viola l'art. 41 della Costituzione in combinato disposto con gli articoli 24 e 25. Una tale conclusione discende dalle seguenti considerazioni. Per consolidato orientamento della Corte costituzionale, sopratutto in ordine al divieto di istituzione di arbitrati obbligatori, il fenomeno arbitrale trova il proprio riconoscimento costituzionale nell'art. 41, trattandosi di una delle modalita' di manifestazione dell'autonomia privata. Allo stesso tempo non e' dubbio che, attraverso il giudizio arbitrale, le parti esercitano il loro diritto di azione, costituzionalmente tutelato ex art. 24, tanto che - come chiarito dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 376/2001 - il giudizio degli arbitri e' potenzialmente fungibile con quello degli organi della giurisdizione. L'affermazione della Corte costituzionale risulta oggi confermata dalla recente novella del codice di procedura civile che ha rivisto le norme riguardanti l'arbitrato (decreto legislativo 2 febbraio 2006 n. 40). Da un lato e' stato introdotto l'art. 824-bis che ha stabilito, con riferimento all'efficacia del lodo arbitrale, che esso dalla data della sua ultima sottoscrizione ha «gli effetti della sentenza pronunciata dall'autorita' giudiziaria»; dall'altro il nuovo testo dell'art. 829 del codice di procedura civile sembra avere ampliato le ipotesi di impugnazione del lodo. Ne risulta che alla fattispecie arbitrale non e' meccanicamente applicabile la giurisprudenza costituzionale in ordine alla possibilita', riconosciuta al legislatore, di disciplinare con effetti retroattivi i rapporti contrattuali pendenti, risultando coinvolte, nel caso dell'arbitrato, le forme attraverso le quali e' possibile ottenere la tutela della propria situazione soggettiva ed il «giudice» chiamato a riconoscere una tale tutela. In altri termini, al momento della sottoscrizione del compromesso, le parti (salvi i casi di incompromettibilita') hanno acquisito un diritto a che la definizione della lite avvenga nelle forme del giudizio arbitrale, precostituendosi cosi' l'organo destinato a definire ogni controversia che eventualmente dovesse insorgere tra le parti. La clausola compromissoria, infatti, assume una rilevanza specifica nell'economia dei rapporti tra le parti non potendosi in astratto escludere che in sua assenza le stesse sarebbero addivenute alle medesime pattuizioni contrattuali. Risulta cosi' chiaro come del tutto irragionevolmente il legislatore abbia ritenuto di fare salvi solo i procedimenti arbitrali nei quali era gia' stata notificata la domanda di arbitrato, e non quelli per i quali vi fosse stata la sottoscrizione della clausola compromissoria, attraverso la quale le parti avevano gia' concordato di devolvere ad un collegio arbitrale (sia pure concretamente da identificare) - e non ad un organo giurisdizionale statale - la decisione di future controversie eventualmente nascenti tra loro. La scelta di considerare la notificazione della domanda di arbitrato come elemento di riferimento in base al quale individuare i procedimenti arbitrali destinati a proseguire non tiene conto, in particolare, del fatto che nell'ambito del giudizio arbitrale la volonta' delle parti di attribuire la cognizione sulla lite in atto (o potenzialmente in atto) ad un organo privato si manifesta al momento del compromesso, dovendosi riconoscere alla notificazione della domanda arbitrale il diverso e piu' limitato ruolo di rappresentare il momento di produzione dei principali effetti sostanziali e processuali della domanda giudiziale. Ne' e' possibile giustificare l'operato del legislatore, che incide irragionevolmente sulla volonta' delle parti di scegliere le forme di tutela del proprio diritto con effetti retroattivi, richiamando l'istituto della perpetuatio iurisdictionis, nel senso che puntualmente sarebbe stato rispettato dalla legge nella parte in cui esclude dal divieto di devoluzione in arbitri le sole controversie per le quali sia gia' stata notificata la domanda di arbitrato. Ed infatti, l'istituto della perpetuatio costituisce espressione di un principio di diritto intertemporale, in forza del quale la validita' ed efficacia degli atti del processo deve essere considerata alla stregua della legge vigente al momento in cui l'atto e' stato compiuto. Ne consegue che, una volta che sia legittimamente espressa la volonta' delle parti di affidare la decisione ad un giudice privato, sulla base della legge vigente al momento della formazione dell'atto, non appare consentita una successiva sottrazione di «competenza» all'organo arbitrale, e cio' proprio in applicazione dello stesso canone della perpetuatio. A cio' si aggiunga come al momento della proposizione della domanda arbitrale «il giudice» chiamato a decidere la controversia non si sia ancora costituito, potendosi concretamente riconoscere investito della questione solo al momento della sua accettazione. Questa non irrilevante differenza tra giustizia statale (nella quale vi e' un giudice che e' costituito preventivamente all'insorgere della lite, e al quale le parti si rivolgono attraverso la proposizione della domanda) e giustizia privata (caratterizzata dal fatto che solo dopo la notificazione della domanda si compone concretamente l'organo decidente), lungi dall'attribuire alla notificazione della domanda il significato di momento a partire dal quale si consolida la giurisdizione arbitrale, deve condurre a riconoscere come all'atto della stipula del compromesso o della clausola compromissoria si sia realizzata la precostituzione del giudice. In questo momento, infatti, nasce il diritto delle parti a veder decisa la lite dagli arbitri, si precostituisce il loro affidamento a che la tutela processuale delle loro situazioni soggettive sia legittimamente sottratta all'imperio statale, si esprime la loro autonomia privata, costituzionalmente garantita, e che non puo' essere irragionevolmente soppressa con effetti retroattivi. Peraltro, la denunciata irragionevolezza della norma che individua come momento di passaggio tra la vecchia e la nuova disciplina quello della proposizione della domanda arbitrale, diviene ancor piu' manifesta se si assume quale tertium comparationis il decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40, che ha modificato il codice di procedura civile. Esso, infatti, ha differenziato l'entrata in vigore delle nuove disposizioni sulla base della natura, sostanziale o procedurale, delle stesse. Piu' specificamente le modifiche introdotte nel Capo I del Titolo VIII del codice di procedura civile, che disciplina la convenzione d'arbitrato, producono effetti soltanto per le clausole compromissorie sottoscritte dopo l'entrata in vigore del decreto, mentre le norme riguardanti lo svolgimento della procedura si applicano a tutti gli arbitrati per i quali la domanda sia stata proposta successivamente all'entrata in vigore della riforma. E' evidente che queste disposizioni sono rispettose della ratio complessiva dell'istituto arbitrale, riconoscendo la sottoscrizione della clausola compromissoria come momento iniziale del rapporto e dunque come momento in cui sorge il diritto delle parti a far decidere la controversia da arbitri. In quest'ottica, la norma censurata, se paragonata a quelle del decreto legislativo n. 40/2006, integra una evidente disparita' di trattamento nei confronti di tutti coloro i quali avevano sottoscritto una clausola compromissoria prima dell'entrata in vigore del decreto-legge n. 180/1998, che irragionevolmente, a differenza di quanto correttamente deciso in sede di riforma organica della disciplina dell'arbitrato, ha individuato come momento di separazione tra la vecchia e la nuova norma quello della proposizione della domanda. Con riferimento a questo vizio di legittimita' la normativa sopravvenuta aggiunge un ulteriore elemento a conferma della sussistenza del vizio di legittimita' pronunciato. Il comma 21 dell'art. 3 della legge n. 244/2007 stabilisce, infatti, che «relativamente ai contratti aventi ad oggetto lavori, forniture e servizi gia' sottoscritti dalle amministrazioni alla data di entrata in vigore della presente legge […] e' fatto obbligo ai soggetti di cui ai commi 19 e 20 di declinare la competenza arbitrale, ove tale facolta' sia prevista nelle clausole arbitrali inserite nei predetti contratti». Questa disposizione non puo' che interpretarsi nel senso che intanto le amministrazioni possono declinare, con riferimento ai contratti gia' sottoscritti, la competenza arbitrale, in quanto la clausola compromissoria preveda questa facolta'. Cio' vuol dire che per tutti i contratti contenenti clausole compromissorie che non prevedano la facolta' di declinare la competenza arbitrale, questa non puo' essere esclusa unilateralmente dall'amministrazione (cfr. in termini Autorita' di vigilanza sui contratti pubblici, nota 19 marzo 2008 prot. 14598). E' evidente che il legislatore ha ritenuto di non poter rendere nulle retroattivamente le clausole compromissorie gia' sottoscritte, conformemente ai principi costituzionali sopra illustrati, con i quali contrasta invece la disciplina, qui denunciata, relativa agli arbitrati per «calamita' naturali». 2.3.1. - Segue. Violazione dell'art. 117, primo comma, della Costituzione per contrasto con gli articoli 1 e 6 della C.E.D.U., cosi' come interpretati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. Anche sotto questo profilo la norma denunciata si pone in contrasto con i principi che la giurisprudenza di Strasburgo fa discendere dagli articoli 1 e 6 della C.E.D.U. Con la sentenza Scordino c/Italia la Corte europea, con riferimento al quadro normativo che disciplina i criteri di determinazione dell'indennita' di esproprio, ha chiarito che «l'applicazione con effetto retroattivo, anche ai giudizi pendenti, dei nuovi criteri di determinazione dell'indennita' di espropriazione introdotti con l'art. 5-bis della legge n. 359 dell'8 agosto 1992, ne ha ridotto in modo sostanziale l'entita' che gli espropriati potevano pretendere sulla base della legislazione vigente al momento della presentazione della domanda giudiziale [...]. Tutto cio' costituisce una ingerenza del potere legislativo sul funzionamento del potere giudiziario mirato ad influenzare la risoluzione di una lite di cui lo Stato convenuto e' parte processuale e costituisce violazione dell'equo processo garantito dall'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo». Si tratta di una decisione che sviluppa un'interpretazione gia' precedentemente tracciata dalla Corte (Stran Greek Refineries and Stratis Andreadis c/Grecia) e che, seppur inerente ad una fattispecie diversa da quella che ci occupa, individua un principio utile ai nostri fini. Ed infatti, se dall'art. 6 della C.E.D.U. discende il principio in base al quale lo Stato, nell'esercizio della funzione legislativa, non puo' intervenire ad influenzare un rapporto processuale di cui esso e' parte, il medesimo principio, letto alla luce dell'art. 1 C.E.D.U. che tutela il diritto di proprieta', puo' e deve senza dubbio adattarsi anche al rapporto contrattuale di cui sia parte lo Stato. Vuole dirsi, cioe', che pare ancorabile alla giurisprudenza di Strasburgo il principio secondo cui lo Stato non puo' intervenire ex post modificare le condizioni di un contratto che esso stesso ha precedentemente sottoscritto. D'altra parte, si tratta di una previsione lesiva dell'autonomia privata, poiche' modifica ex post le condizioni contrattuali. La tutela della liberta' di iniziativa economica privata comporta anche il rispetto dei principi di parita' di trattamento tra gli operatori, di non discriminazione e di trasparenza che ne costituiscono corollario. Questi principi impongono di tenere immutate le condizioni contrattuali rappresentate alle imprese concorrenti all'appalto ai fini dell'offerta, che deve essere necessariamente calibrata tenendo conto di tutti gli elementi che possono influire sul corrispettivo offerto o negoziato ovvero sulla valutazione dell'offerta nel suo complesso. Le informazioni contenute nei bandi devono, quindi, permettere agli imprenditori di valutare se gli appalti proposti presentino, per loro, interesse ed occorre dar loro una sufficiente conoscenza delle prestazioni da fornire e delle relative condizioni. Tra tali condizioni assume rilievo significativo, ai fini della predisposizione o negoziazione dell'offerta, la possibilita' o meno di deferimento agli arbitri delle controversie, in ragione della enorme divaricazione tra i tempi della giustizia onoraria e quelli della giustizia togata civile, gia' illustrata in precedenza; cosicche' l'invalidazione postuma della clausola compromissoria liberamente sottoscritta dalle parti determina un rilevante vulnus dei principi che devono governare la conclusione del contratto di appalto (o dell'equiparata concessione di sola costruzione, come nella specie). Le norme nazionali oggi all'esame del Collegio contrastano, quindi, con la normativa pattizia richiamata e con i principi generali che da quella normativa fa discendere la Corte di Strasburgo, nella misura in cui modificano le condizioni conosciute al tempo dello stipulato contratto, poiche', travolgendo anche le clausole compromissorie gia' sottoscritte, modificano unilateralmente il contratto per via legislativa e si pongono irrimediabilmente in contrasto con gli articoli 1 e 6 della C.E.D.U. Sotto ulteriore profilo, sembra al Collegio che le norme nazionali denunciate, nella parte in cui fanno salve solo le domande arbitrali anteatte e non tutti i contratti gia' stipulati contenenti clausola compromissoria, determinino una situazione cd. di «discriminazione a rovescio» (Corte cost., 30 dicembre 1997 n. 443) a danno degli operatori colpiti da tale divieto, che il rispetto dell'autonomia privata e dei principi che da essa discendono non consente; discriminazione, questa, di ordine soggettivo, da cui non appare disgiunta la discriminazione di tipo territoriale.