IL TRIBUNALE
   Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  sciogliendo  la  riserva
assunta all'udienza del 15 settembre 2008;
   Ritenuto  in  fatto che con ricorso depositato il 16 novembre 2006
Di Roberto Maria ha convenuto qui in giudizio Poste Italiane S.p.A.;
     che  il  ricorrente ha esposto: di aver lavorato alle dipendenze
della  convenuta dal 28 ottobre 2003 al 15 gennaio 2004 con contratto
a  tempo determinato nel quale la clausola appositiva del termine era
stata  giustificata con la seguente espressione «ai sensi dell'art. 1
del d.lgs. n. 368/2001 per ragioni di carattere sostitutivo correlate
alla specifica esigenza di provvedere alla sostituzione del personale
inquadrato  nell'Area  Operativa  e  addetto  al servizio di recapito
presso  l'Ufficio  recapito  di  Pozzuoli,  assente  con diritto alla
conservazione  del posto di lavoro nel periodo dal 1° ottobre 2003 al
15 gennaio 2004»;
     che  il  ricorrente  ha  dedotto  la nullita' della clausola del
termine, per i seguenti motivi (in sintesi):
      a)  per violazione dell'art. 1, comma 2, del d.lgs n. 368/2001.
L'attore    sostiene   che   la   ragione   sostitutiva   addotta   a
giustificazione  dell'apposizione  della  clausola  non risponda alla
regola  di specificita' imposta dalla disposizione, non indicandovisi
quanti  e  quali  lavoratori fossero assenti, di quale qualifica, per
quale  durata,  e  alcun elemento atto ad individuare un nesso tra le
pretese  assenze e l'utilizzo a termine del lavoratore. Su tali basi,
l'esistenza della ragione sostitutiva non sarebbe verificabile;
      b)   per   insussistenza   della  ragione  addotta  (violazione
dell'art.  1, cpo. 1, del d.lgs. n. 368 cit.), specie con riguardo al
nesso  causale.  In realta' la convenuta avrebbe assunto da vari anni
tutto  l'anno  lavoratori  a termine in un numero pressoche' costante
per  far  fronte  ad  una  cronica  carenza  di personale nell'unita'
produttiva e/o per coprire le ordinarie necessita' di servizio;
     che  l'attore  ha concluso chiedendo: a) dichiararsi la nullita'
della  clausola  del termine; b) dichiararsi, di conseguenza, che tra
le parti era in corso un rapporto di lavoro a tempo indeterminato sin
dalla   data   dell'assunzione;   c)   condannarsi   la  convenuta  a
riammetterlo  nel  posto  di  lavoro;  d) condannarsi la convenuta al
pagamento  delle  retribuzioni  maturate  dalla  scadenza del termine
nullo;
     che Poste Italiane S.p.A. si e' costituita chiedendo respingersi
le avverse domande, per i seguenti motivi (in sintesi):
      a)  le  ragioni  sostitutive  addotte  in  contratto  sarebbero
sufficientemente specifiche, bastando l'indicazione delle mansioni di
adibizione  del  personale  assente  (addetto  al servizio recapito),
dell'ufficio   (UDR   di  Pozzuoli)  da  sostituire;  e  del  periodo
complessivo  delle assenze (coincidente con la durata del contratto).
L'indicazione   dei   nomi  delle  persone  da  sostitutire  e  delle
specifiche cause della sostituzione non sarebbero richiesti dall'art.
1,  comma  2,  del  d.lgs.  n. 368/2001,  come  invece  era  previsto
dall'art.  1,  comma  2,  lett.  b),  della legge n. 230/62, abrogato
dall'art. 11 del d.lgs. n. 368/2001;
      b)   le   ragioni   sostitutive   sarebbero  sussistenti,  come
basterebbero a provare le seguenti circostanze, dedotte ed invocate a
prova orale: i) l'attore avrebbe svolto mansioni di addetto al
      recapito,  in  sostituzione  di  addetti  assenti  con  diritto
alla conservazione del posto di
lavoro (anche qui, peraltro, in alcun altro modo individuati, ne' per
l'identita',  ne'  per il numero, ne' per la durata delle assenze ne'
per  le  relative  cause;  ii) nell'Ufficio Recapito di Pozzuoli, nel
periodo  dedotto  in  contratto,  il  numero  di  giornate di assenza
maturate  complessivamente  dal  personale stabile (n. 330) era stato
superiore   al  numero  di  giornate  lavorate  complessivamente  dal
personale a tempo determinato (n. 129);
     che  Poste  Italiane  ha  inoltre  dedotto:  che  le  contestate
violazioni  non  potrebbero  portare  alla conversione del rapporto a
tempo  indeterminato; che le retribuzioni spetterebbero solo a titolo
risarcitorio  dalla  data  della messa in mora, con detraibilita' dal
risarcimento dell'aliunde perceptum e percipiendum;
     che  sono stati escussi due testimoni, all'esito di che e' stata
fissata udienza di discussione;
     che  nelle  more,  e'  entrato  in  vigore  l'art.  21  del d.l.
n. 112/2008,   che,   come   convertito   in  legge  n. 133/2008,  ha
introdotto, nel d.lgs. n. 368/2001, dopo l'art. 4, un art. 4-bis, che
recita  che  «Con  riferimento  ai soli giudizi in corso alla data di
entrata  in  vigore  della  presente  disposizione,  e fatte salve le
sentenze   passate   in   giudicato,  in  caso  di  violazione  delle
disposizioni  di  cui  agli  artt.  1, 2, e 4, il datore di lavoro e'
tenuto  unicamente  ad  indennizzare  il  prestatore  di  lavoro  con
un'indennita'  di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo
di  sei  mensilita'  dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto
riguardo  ai  criteri  di  cui all'art. 8 della legge 15 luglio 1966,
n. 604, e successive modificazioni»;
     che  in sede di discussione orale, la difesa di parte ricorrente
ha  chiesto  giudicarsi  rilevante  e non manifestamente infondata la
questione  di  legittimita' costituzionale di detta disposizione, per
violazione degli artt. 3, 4, 10, 24, 35 e 75 della Costituzione;
   Ritenuto in diritto:
     che la disciplina legislativa previgente l'entrata in vigore del
d.lgs.   n. 368/2001  consentiva  l'apposizione  della  clausola  del
termine per ragioni sostitutive di personale assente con diritto alla
conservazione del posto di lavoro, alla condizione che fosse indicato
il  nome  del  lavoratore sostituito e della causa della sostituzione
(art. 1, comma 2, lettera b), legge n. 230/1962);
     che  tale  disposizione  e'  stata  abrogata, con tutta la legge
n. 230, dall'art. 11 del d.lgs. n. 368/2001;
     che  in  detto  decreto  si  contempla ancora la possibilita' di
assumere   a  termine  «a  fronte  di  ragioni  di  carattere…
.sostitutivo»,  ma  non si richiede piu', almeno sul piano letterale,
che sia indicato il nome del lavoratore sostituito ne' la causa della
sostituzione (art. 1, comma 1);
     che l'onere di specificazione delle ragioni imposto dall'art. l,
comma   2   del   decreto  non  sembra  imporre  indirettamente  tali
specificazioni,  sul  mero  piano  dell'esegesi «ordinaria» (traibile
dall'art.  12  delle  preleggi),  non  parendo possibile escludere «a
priori»,  in  base  al dato letterale, ed in un contesto storico e di
politica  legislativa  improntato  ormai  da  anni ad una tendenza di
progressiva  flessibilizzazione  della  materia,  che  la ragione del
termine  possa  risiedere (come in sostanza assume la difesa di Poste
Italiane)  nell'esigenza  di  supplire  mediante  personale assunto a
termine  ad esigenze sostitutive indeterminate ma pronosticate, in un
determinato  ambito  aziendale,  tra  gli  addetti ad una determinata
mansione,  riguardo  ai  quali  si  preveda, in un determinato ambito
temporale,  un  certo  numero  di  giornate complessive di assenza (e
cio',  a  prescindere  da ogni valutazione in ordine alla sufficienza
della giustificazione quale offerta e provata nel caso di specie);
     che  in  tale  senso depone, tra l'altro, lo stesso passaggio da
una  regola  che  prevedeva quell'onere di specificazione, ad una ben
piu' generica che non lo prevede piu';
     che  in  tal  senso,  e  se cio' e' vero, la disposizione di cui
all'art.  1,  comma  1,  del  d.lgs.  n. 368/2001  appare  segnare un
indubbio arretramento della tutela del lavoratore, per quanto attiene
ai  presupposti  per  la  legittima  apposizione  della  clausola del
termine,  rispetto  alla  disciplina  previgente,  almeno  per quanto
attiene alle esigenze sostitutive;
     che  l'arretramento  appare  peraltro investire l'intero art. 1,
comma  1,  posto  che,  quale  lettura  si dia della disposizione, il
riferimento   affatto  generico  a  «ragioni  di  carattere  tecnico,
produttivo, organizzativo o sostitutivo» consente certo l'apposizione
della  clausola  in  casi nei quali essa non poteva ritenersi ammessa
alla  stregua  della disciplina previgente, che pure aveva riguardo a
tali ragioni di rango, per cosi' dire, «obiettivo», siccome afferenti
alle  esigenze  aziendali  (almeno  per  quanto  attiene alle ipotesi
previste  direttamente  dalla  legge),  ma  limitava  la possibilita'
dell'apposizione della clausola a fattispecie ben piu' definite;
     che  a  tale  evidenza  non sembra potersi opporre che l'art. 23
della  legge  n. 56/1987,  pure  abrogato  dall'art.  11  del  d.lgs.
n. 368/2001,  consentiva,  secondo  il  diritto vivente ormai invalso
(per  tutte,  Cass.  4588/2006)  alla  contrattazione  collettiva  di
prevedere  ipotesi  anche indeterminate e non necessariamente neppure
ancorate  a  ragioni  obiettive  (nel  senso di attinenti ad esigenze
aziendali), bensi' anche a ragioni inerenti la persona del lavoratore
(cd.  ragioni  soggettive),  posto,  da  un  lato,  che  e' difficile
immaginare  una  regola di governo delle esigenze oggettive aziendali
atte  a  legittimare  l'apposizione  della  clausola piu' generica di
quella posta dall'art. 1, comma 1 cit.; dall'altro, che appare dubbio
(ed  appare  anzi  da  escludere)  che  l'impossibilita', conseguente
all'intervenuta  abrogazione  anche  dell'art. 23 cit. da parte dello
stesso art. 11 del d.lgs. n. 368 cit., di giustificare la apposizione
della  clausola  in  base alla condizione del lavoratore (che sia, ad
esempio,  disoccupato  di  lungo  periodo,  per dare un esempio della
casistica  che si era prodotta in materia) costituisca un avanzamento
del livello di tutela del lavoratore sul punto;
     che  con  il  d.lgs.  n. 368/2001  il  Governo  Italiano ha dato
attuazione alla legge delega n. 422/2000, e, per essa, alla Direttiva
1999/70/CE;
     che  la direttiva comunitaria non appare dettare alcun principio
o  obiettivo,  ne'  alcuna  regola,  cui  gli  Stati  membri  debbano
conformarsi  per  garantire  ai  lavoratori  a  tempo  determinato un
livello  di  tutela  minimo,  per  quanto  attiene ai presupposti per
l'apposizione  della  clausola  del  termine ad un singolo contratto;
ossia   non   appare   dettare   alcun  criterio  in  base  al  quale
l'apposizione della clausola ad un contratto singolo possa giudicarsi
«abusiva»,  per  non  trovare  ragione  in  circostanze  obiettive  o
soggettive  di sorta, che debbano ricorrere onde evitare che essa sia
«imposta»  al  lavoratore  dalla  parte  datoriale  piu'  forte quale
condizione  dell'assunzione,  al solo fine di consentire al datore di
beneficiare  della  precarieta' del rapporto, per i vantaggi che essa
obiettivamente  in  se'  determina  in  capo  ad  esso, specie per le
mansioni  in ordine alle quali non sussiste un interesse datoriale ad
un particolare affinamento della professionalita' del lavoratore, sia
sul   piano   economico   (non   maturazione   di   benefici   legati
all'anzianita'),  sia su quello dei rapporti personali (condizione di
soggezione).   La   direttiva  pone  solo,  fissandone  le  linee  di
perseguimento,  due  obiettivi:  la  garanzia  del  principio  di non
discriminazione  e la prevenzione degli abusi derivanti dall'utilizzo
in successione di contratti o rapporti a tempo determinato;
     che   solo   nella  parte  non  propriamente  normativa  (il  7°
considerando)   compare   l'affermazione   che   «l'utilizzazione  di
contratti  a tempo determinato basata su ragioni oggettive e' un modo
di prevenire gli abusi»;
     che  peraltro,  ed  a  prescindere  dalla  posizione «logistica»
dell'affermazione  e  del  suo contenuto sostanzialmente valutativo e
non «normativo», l'uso del plurale (utilizzazione di contratti) ed il
collegamento  esegetico  con la clausola 5, punto 1, lettera a) della
Direttiva, in una con l'assenza, nella medesima, di alcuna regola che
ancori  a ragioni di sorta la possibilita' di apporre la clausola del
termine  ad  un  singolo contratto, suggeriscono che la necessita' di
"ragioni  obiettive"  si  riferisca esclusivamente alla materia della
reiterazione;
     che nessuna concreta disposizione precettiva appare traibile dai
considerando 6 e 8, che, da un lato, confermano la «normalita'» della
forma  a tempo indeterminato del rapporto di lavoro, che la direttiva
vede con favore, perche' «contribuiscono alla qualita' della vita dei
lavoratori  interessati e a migliorarne il rendimento»; ma dall'altro
non  guardano con disfavore ai rapporti a termine, che «rappresentano
una  caratteristica  dell'impiego  in  alcuni settori, occupazioni ed
attivita' atta a soddisfare sia i datori di lavoro che i lavoratori».
Anche  detti  «considerando»  non  appaiono peraltro dettare regole o
principi  di  sorta,  ma esprimere valutazioni di merito di carattere
socio-lavorativo;
     che  neppure  la necessita' che l'apposizione della clausola del
termine  sia  giustificata  da pur generiche ragioni oggettive appare
traibile  dalla  clausola  n. 3,  punto  1  della  direttiva, che nel
recitare  «Ai  fini  del  presente accordo, il termine ''lavoratore a
tempo determinato'' indica una persona con un contratto o un rapporto
di  lavoro  definiti  direttamente  fra  il  datore  di  lavoro  e il
lavoratore  e  il cui termine e' determinato da condizioni oggettive,
quali  il  raggiungimento  di  una certa data, il completamento di un
compito specifico o il verificarsi di un evento specifico» non fa che
definire il lavoratore a termine come lavoratore che ha instaurato un
rapporto  individuale  di  lavoro  rispetto  al  quale le «condizioni
oggettive»  non  appaiono  essere  che  le  circostanze obiettive che
individuano, direttamente o indirettamente, quando il rapporto verra'
a cessare, ossia il termine in quanto tale.
   Cio'  appare,  oltre  che  dal tenore testuale della disposizione,
reso   palese   all'annovero,  tra  le  «condizioni  oggettive»,  del
«raggiungimento  di  una  certa  data», che non e' certo una ragione,
bensi'  puramente e semplicemente il giorno convenuto per la scadenza
del   rapporto,  che  lo  individua  direttamente;  mentre  le  altre
«condizioni»   (il   completamento  di  un  compito  specifico  e  il
verificarsi  di  un  evento specifico) lo individuano indirettamente.
D'altronde,  anche  il  «verificarsi  di  un  evento  specifico»  non
esprime,  in  se',  alcuna «ragione» dell'apposizione del termine. Ed
ancora la direttiva dice che il termine e' «determinato da condizioni
oggettive»  e  non  «giustificato  da  ragioni  oggettive»,  con cio'
rendendo  palese,  ad  avviso  del giudicante, che la disposizione si
limita  ad  individuare  la  nozione  di  termine  rilevante  per  la
fattispecie  (noi  diremmo  che  il  dies  e' certus an e puo' essere
certus   (raggiungimento   di  una  certa  data)  o  incertus  quando
(completamento  di  un  compito  specifico o verificarsi di un evento
specifico»);
     che  al  giudicante  e'  noto che la Corte costituzionale (Sent.
n. 41/2000)  e  la  S.C.  di  cassazione (Sent. n. 12985/2008) hanno,
seppur  incidentalmente,  rilevato  nelle «disposizioni» in esame una
portata   afferente   la  materia  della  necessita'  di  presupposti
legittimativi   dell'apposizione   della  clausola  del  termine.  Il
giudicante Ritiene di aver spiegato i motivi per cui ritiene che tale
posizione meriti di essere rimeditata;
     che  la clausola 8 della direttiva prevede, al comma 1, che «Gli
Stati  membri  e/o  le  Parti  Sociali possono mantenere o introdurre
disposizioni piu' favorevoli per i lavoratori di quelle stabilite nel
presente  accordo»;  ed  al comma 3, che «L'applicazione del presente
accordo non costituisce motivo valido per ridurre il livello generale
di  tutela  offerto  ai  lavoratori  nell'ambito coperto dall'accordo
stesso»;
     che  pertanto appare del pari evidente che, anche a ritenere che
la  direttiva  richieda  che  il  termine  del  singolo contratto sia
giustificato da ragioni obiettive, cosi' come del tutto genericamente
(in  ogni  caso)  indicate, non rientra tra gli scopi della direttiva
quello  di  allineare  al  livello  di tutela individuato da siffatti
presunti  principi,  la disciplina degli Stati membri che, attraverso
la previsione di presupposti di legittimita' piu' specifici, dettasse
gia'  una  disciplina  piu'  favorevole  al  lavoratore, con riguardo
all'interesse  di  questi  alla  migliore qualita' della vita ed alle
maggiori  opportunita'  di  accrescimento  del bagaglio professionale
offerte  dal  rapporto  a tempo indeterminato. La direttiva mirerebbe
infatti comunque solo ad offrire una tutela minima;
     che   la  legge  delega  n. 422/2000  delegava  il  Governo  «ad
emanare…..i  decreti  legislativi  recanti le norme occorrenti
per dare attuazione alle direttive comprese negli elenchi di cui agli
allegati  A  e B» (tra le quali la Direttiva 99/70 CE): art. 1, comma
1;  e  prevedeva,  all'art.  2,  comma  1,  lettera f) che «I decreti
legislativi  assicureranno  in  ogni caso che, nelle materie trattate
dalle  direttive  da  attuare,  la disciplina disposta sia pienamente
conforme  alle  prescrizioni  delle  direttive medesime, tenuto anche
conto  delle  eventuali  modificazioni  intervenute  fino  al momento
dell'esercizio della delega»;
     che  nella  legge  delega  non  appare  desumibile dunque, ed in
genere,  alcun  altro  mandato  al  Governo,  che  di  dare  puntuale
attuazione alla direttiva comunitaria in questione;
     che  la  direttiva,  per  quanto  si e' premesso, non poneva, ad
avviso del giudicante, alcuna regola o obiettivo riguardo alla tutela
dei   lavoratori  sul  piano  della  necessita'  di  presupposti  per
l'apposizione   della   clausola   del  termine,  sicche'  il  d.lgs.
n. 368/2001,  nell'abrogare,  all'art.  11,  la previgente disciplina
nazionale in materia (ed in particolare, per stare al caso di specie,
all'art.  1, comma 2, lettera b) della legge n. 230/1962) appare aver
operato in assenza di delega, e quindi in violazione degli artt. 76 e
77 della Costituzione;
     che  la  nuova  disciplina  dell'apposizione  della clausola del
termine,  quale  introdotta  con l'art. 1, comma 1, del d.lgs. detto,
appare  affetta  dal  medesimo  vizio;  che  peraltro  (e  lo si dice
incidentalmente) anche a ritenere che la direttiva richiedesse che la
clausola   di   apposizione   del   termine  fosse  in  qualche  modo
giustificata  da  ragioni oggettive, appare evidente che la normativa
italiana  non  richiedeva, sul punto, alcun adeguamento, posto che le
causali  di  cui  alla  legge  n. 230/1962  ed  alle  leggi  speciali
successivamente   intervenute   in   materia   e   rimaste   abrogate
contemplavano  ipotesi  basate  o  comunque  riconducibili  a ragioni
obiettive,  tanto  piu'  se  intese nel senso del tutto vago, fino al
punto   di   essere   soddisfatto  «a  priori»  (come  nel  caso  del
«raggiungimento di una certa data»), traibile dalla clausola 3, punto
1 della direttiva;
     in  particolare,  l'abrogato  art.  1, comma 2, lettera b) della
legge  n. 230/1962  soddisfaceva  senz'altro  la  presunta necessita'
comunitaria che la clausola appositiva del termine fosse giustificata
da ragioni obiettive;
     che   in   aggiunta,   l'arretramento   del  livello  di  tutela
precedentemente  offerto  dalla  normativa  italiana  ai lavoratori a
termine   con   riguardo  ai  presupposti  per  l'applicazione  della
clausola,  mediante  la  abrogazione  del  precedente  regime  (legge
n. 230/1962; leggi speciali che qui si omettono per brevita'; art. 23
della  legge  n. 56/1987)  improntato  in  larga  parte su previsioni
specifiche  e  tassative,  e  la  sua  sostituzione  con una clausola
elastica;  arretramento  che  peraltro,  a  stare  al  caso di specie
(esigenze  di  sostituzione  di  personale  assente  con diritto alla
conservazione al posto di lavoro) appare di palmare evidenza, sia sul
piano  sostanziale  (non  e'  piu'  necessario  che  il  contrattista
sostituisca   un  lavoratore  preindividuato)  sia  sul  piano  delle
garanzie   di  trasparenza  della  causale  di  utilizzo,  appare  in
conflitto  con la clausola 8, punto 3, della direttiva, che stabiliva
che  l'applicazione  dell'accordo  non  costituiva  motivo valido per
ridurre   il   livello  generale  di  tutela  offerto  ai  lavoratori
nell'ambito dell'accordo stesso (c.d. clausola di non regresso);
     e'  ben  noto  al  giudicante  che la Corte di giustizia europea
nella   c.d.  sentenza  Mangold  (22  novembre  2005 -  C/144/04)  ha
giudicato  che  la  direttiva  in  questione  non vieta come tale una
reformatio in peius della protezione offerta ai lavoratori a termine,
a   condizione   che  essa  non  sia  in  alcun  modo  collegata  con
l'applicazione di questa;
     pur  tuttavia, ed anzi proprio per questo, non si vede come tale
reformatio  in  peius  possa  dirsi  in  questo  caso «in alcun modo»
collegata  con  l'applicazione dell'accordo quadro e della direttiva,
se   si   considera   che   essa  e'  stata  realizzata  proprio  nel
provvedimento  destinato  specificamente  a  dare  applicazione  alla
direttiva, e dichiaratamente allo scopo di darvi applicazione;
     merita  aggiungere  che nelle Conclusioni espresse dall'Avvocato
generale  sul  caso Mangold si suggeriva espressamente che non poteva
ritenersi  consentito  agli  Stati  membri  intervenire  in peius nel
sistema   di  tutele  previste  per  i  lavoratori  a  termine  dando
l'impressione  che  cio'  fosse  imposto  dalla  necessita'  di  dare
attuazione  alla direttiva comunitaria, tanto da suggerire, altresi',
che gli Stati membri che avessero cosi' operato dovessero fornire, al
riguardo,  una  giustificazione. Tale ultima indicazione non e' stata
recepita  dalla  sentenza Mangold, ma l'interpretazione offerta dalla
sentenza  alla  cd.  clausola di non regresso accredita la fondatezza
del primo suggerimento dell'Avvocato generale;
     che  sotto il profilo in questione l'art. 1, comma 1 e l'art. 11
del   d.lgs.   n. 368/2001   appaiono   viziati   da   illegittimita'
costituzionale   anche  in  rapporto  all'art.  117,  comma  1  della
Costituzione,  per  violazione dei vincoli derivanti dall'ordinamento
comunitario,  in  forza  del principio di cd. illegittimita' derivata
ormai  accreditato  dai  Consessi  superiori  (per  tutte Cort. cost.
n. 349/2007);
     che  la  questione  di  legittimita'  costituzionale  come sopra
prospettata  appare  rilevante  in  causa  sotto  piu' profili, ed in
particolare i seguenti:
      a)  dalla  declaratoria  di illegittimita' costituzionale delle
disposizioni  in  esame  deriverebbe  che  la  fattispecie ricadrebbe
nell'ambito  di  applicazione  dell'art. l, comma 2, lettera b) della
legge n. 230/1962, che risulterebbe violato, perche' il contratto non
contiene  l'indicazione del lavoratore sostituito e della causa della
sostituzione;
      b) lo stesso art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 368/2001 rimarrebbe
presumibilmente  immune  da  censure  di  legittimita' costituzionale
(secondo   il  principio  dell'interpretazione  adeguatrice)  solo  a
condizione  che  la  specificazione  della  ragione  rispondesse alla
regola   posta  dalla  legge  230;  cosa  che  al  giudicante  appare
perfettamente  possibile  (onde  si  astiene dal sollevare anche tale
questione);
      c)  le conseguenze della eventuale violazione della regola che,
in caso di accoglimento della questione, avrebbe imposto al datore di
individuare in contratto il nome del lavoratore sostituito e la causa
della   sostituzione  non  sarebbero  riconducibili  alla  violazione
dell'art.  1  del  d.lgs. n. 368/2001, che risulterebbe annullato, ma
alla  violazione  dell'art.  l,  comma  2,  lettera  b)  della  legge
n. 230/1962,  che e' estranea all'ambito di applicazione dell'art. 21
del  d.l.  n. 112/2008  come convertito in legge n. 133/2008, sicche'
tale  ultima  disposizione non potrebbe comunque trovare applicazione
nel caso di specie;
     che  inoltre,  ed  eventualmente  in  subordine, appare altresi'
rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita'
costituzionale  di  tale  ultima  disposizione,  in  primo luogo, con
riguardo agli artt. 3 e 117, comma 1 della Costituzione;
     sotto   il  primo  profilo,  va  premesso  che,  ad  avviso  del
giudicante,  la  nullita'  della  clausola  del  termine (qual'appare
indubbiamente  integrata  dalla  violazione  dell'art.  1  del d.lgs.
n. 368/2001,  trattandosi  di  disposizione  imperativa),  secondo  i
principi  generali  -  artt.  1419,  comma  2 e art. 1339 c.c. -, che
dovrebbero   trovare   applicazione,   in   assenza  di  disposizioni
specifiche,  se  non  fosse  in vigore la disposizione qui impugnata,
comporta le seguenti conseguenze:
      a)  non  dovrebbe  estendersi  all'intero  contratto (soluzione
condivisa  dalla preponderante dottrina e giurisprudenza di merito, e
di recente convalidata da Cass. 12985/2008, alla cui motivazione, del
tutto esauriente sul punto, si fa rinvio);
      b)   secondo   i   surrichiamati   principi   generali,   dalla
sopravvivenza  giuridica del rapporto dovrebbe derivare la permanenza
nel  tempo  dei  suoi  effetti  obbligatori,  tra  i  quali quello di
retribuire;  potendo  semmai discettarsi se sia conforme al principio
generale  di  buona fede che il lavoratore possa vantare tale diritto
finche'   non   abbia   rivendicato  la  riattivazione  fattuale  del
sinallagma, in un contesto nel quale per solito questo e' cessato per
il  mutuo convincimento della cessazione de iure del medesimo; ovvero
se  possa  trovare  applicazione  l'art. 1460 c.c. in un contesto nel
quale, se e' vero che il lavoratore non e' stato retribuito, e' anche
vero che non ha offerto la controprestazione;
      c)  deve  tuttavia darsi atto che il c.d. diritto vivente si e'
consolidato,  a  partire  da  Cass.  SU n. 14381/2002, nel senso che,
poiche'  il  rapporto  di  lavoro  sarebbe  retto  da  una  sorta  di
sinallagmaticita'  esecutiva per cui il diritto alla retribuzione non
sorge  -  salvi  i  casi  per  i quali la legge espressamente prevede
altrimenti - se non quando il prestatore effettivamente lavora, dalla
mera  persistenza  giuridica  del  rapporto  (in forza della quale il
prestatore  ha  pur  diritto  ad  essere  riammesso  in servizio) non
discenderebbe   il  diritto  alla  retribuzione,  ma  il  diritto  al
risarcimento del danno (parametrato alle retribuzioni), e dal momento
in  cui  il  prestatore abbia messo in mora il datore, offrendogli le
proprie  prestazioni; e con le limitazioni generali della materia del
risarcimento (detraibilita' dell'aliunde perceptum et percipiendum);
      d)  in  tale contesto il diritto vivente e' nel senso che dalla
nullita'   della   clausola   del  termine  discendono,  dal  momento
dell'offerta     della    prestazione,    conseguenze    risarcitorie
sostanzialmente   analoghe   a  quelle  previste,  per  il  caso  del
licenziamento  illegittimo,  dall'art. 18 della legge n. 300/1970. In
ogni   caso   la  tutela  del  lavoratore  quanto  all'interesse  del
ripristino  del sinallagma e' - con la predetta limitazione - «reale»
-  nel  senso  che e' simile a quella del lavoratore illegittimamente
licenziato nell'ambito della tutela cosi' solitamente denominata -;
     l'art.  4-bis del d.lgs. n. 368/2001, quale introdotto dal comma
1-bis dell'art. 21 della legge n. 133/2008, il cui tenore testuale e'
stato  gia'  sopra  riportato,  sostituisce  alla tutela risarcitoria
reale  pur in qualche modo offerta dal diritto vivente previgente (ed
in  qualche  modo  gia'  attenuata  rispetto a quelle che appaiono le
regole  traibili  dai  principi  generali)  con  una  tutela di rango
inferiore,  di  consistenza indennitaria, che esclude la prosecuzione
giuridica del rapporto e lo stesso diritto al ripristino fattuale del
sinallagma,   e   sostanzialmente  strutturata,  mediante  il  rinvio
all'art.   8   della  legge  n. 604/66  e  s.m.,  sulla  c.d.  tutela
obbligatoria prevista, nel caso del licenziamento illegittimo, per le
piccole imprese;
     la  disposizione  qui  censurata  opera  tale  modifica  in modo
retroattivo,  in  quanto  esteso  ai  giudizi  in  corso alla data di
entrata  in  vigore  della  novella  (tra i quali il presente); e nel
contempo  non  valido per l'avvenire, ed in particolare per i giudizi
che fossero instaurati dopo l'entrata in vigore della disposizione.
   Tale  regime  normativo  appare  censurabile  ai sensi dell'art. 3
della Costituzione sotto diversi profili.
   Il  primo,  e  piu'  appariscente,  attiene  alla  violazione  del
principio  di  uguaglianza  insita  nel  fatto di disporre una tutela
attenuata,  a  parita'  di  tutte le altre condizioni, a carico di un
lavoratore,  per  il  mero  fatto,  che appare palesemente inidoneo a
giustificare una discriminazione, di avere gia' un giudizio in corso.
   Un  lavoratore  che  avesse stipulato un identico contratto la cui
clausola  appositiva  del termine fosse nulla (o altrimenti invalida)
per  i  medesimi  motivi,  e che avesse proposto il ricorso il giorno
dopo  l'entrata  in  vigore  della  novella  o  in  qualunque momento
successivo,  godrebbe  della  "tutela  forte" sopra delineata; e cio'
sebbene il fatto di aver tardato ad agire in giudizio non possa certo
ascriversi a ragione di maggior merito.
   Non  piu'  giustificata appare peraltro la discriminazione operata
nei  confronti  dei  lavoratori  in  questione,  rispetto a quelli (e
notoriamente  ve  ne  sono  almeno  a centinaia) che hanno giudizi in
corso  nei  quali  vengono  in  considerazione  le  conseguenze della
invalidita'  della  clausola  del  termine,  che  peraltro sia retta,
ratione  temporis, dal sistema normativo previgente di cui alla legge
n. 230/1962  e  altre  leggi  speciali; ovvero che addirittura non li
abbiano ancora instaurati.
   Si   puo'  solo  ipotizzare  che  il  Legislatore  abbia  ritenuto
opportuno,  in  una  contingenza  caratterizzata  da  un  fenomeno di
massiccia  impugnazione di clausole del termine, specie nei confronti
di  Poste  Italiane  S.p.A., arginare parzialmente e provvisoriamente
gli  effetti  economici  e  le  conseguenze  sul  piano occupazionale
dell'accoglimento dei ricorsi, limitando i risarcimenti ed escludendo
la  possibilita'  del  ripristino.  Tuttavia il criterio di selezione
delle fattispecie alle quali dovrebbe trovare applicazione la nuova e
attenuata  tutela  appare  francamente  del  tutto  irragionevole,  e
produttivo   di   sperequazioni   che  appaiono  prive  di  qualsiasi
ragionevole giustificazione.
   La   disposizione  censurata  appare  peraltro  viziata  anche  in
rapporto  all'art.  117,  primo comma della Costituzione, in rapporto
agli  obblighi assunti dallo Stato italiano con la legge n. 848/1955,
con  la  quale  e' stata resa esecutiva la Convenzione Europea per la
Salvaguardia  dei Diritti dell'Uomo e delle Liberta' Fondamentali del
4 novembre 1950.
   L'art.  6  della  Convenzione,  nel  porre la garanzia del «giusto
processo»,  e'  stata  infatti  interpretata  dalla  Corte Europea di
Strasburgo  (causa Scordino/Italia n. 36813/1997 e precedenti da essa
richiamati)  nel  senso che gli Stati aderenti alla Convenzione hanno
l'obbligo  di  non  esercitare  un ingerenza normativa finalizzata ad
ottenere una determinata soluzione delle controversie in corso, salvo
che  l'intervento retroattivo sia giustificato da motivi imperiosi di
carattere  generale;  specie quando l'intervento avvenga in una causa
nella quale lo Stato sia parte.
   Che la violazione di tale regola determini un vulnus all'art. 117,
primo comma della Costituzione e' stato gia' riconosciuto dal Giudice
delle  Leggi  quantomeno  nella  sentenza  n. 349/2007;  ed  e' stato
recentemente  opinato, in altra fattispecie, dalla S.C. di cassazione
nell'ordinanza di rimessione n. 22260/2008.
   Nella  specie la disposizione censurata trova applicazione a tutte
le  ipotesi di violazione delle disposizioni di cui agli artt. 1, 2 e
4  del d.lgs. n. 368/2001. Poiche', peraltro, un intervento di ambito
temporale cosi' contingente (vale per i giudizi in corso, ma non vale
per  i giudizi futuri) non sembra poter trovare altra motivazione che
nella   presunta  esigenza  di  una  contingente  attenuazione  delle
conseguenze  dell'accoglimento  di  ricorsi  fondati sulla violazione
degli artt. 1, 2 o 4 del d.lgs. n. 368/2001, sul presupposto che tali
conseguenze  siano  attualmente e provvisoriamente insopportabili per
le  imprese  che le subiscono; poiche' per quanto questo giudice puo'
constatare  nella  sua  quotidiana esperienza giudiziaria, solo Poste
Italiane  S.p.A. e' attualmente «vittima» di un fenomeno di massiccia
e   pressoche'  sistematica  impugnazione  di  clausole  del  termine
stipulate  sulla  base  del  d.lgs. n. 368/2001; poiche' in ogni caso
Poste  Italiane  S.p.A.  sta  notoriamente  subendo  oggi un siffatto
fenomeno;   poiche'  lo  Stato  Italiano  e'  attualmente,  in  buona
sostanza,  azionista  unico  o  comunque  largamente maggioritario di
Poste Italiane S.p.A. (partecipata al 65% dal Ministero dell'economia
e  delle finanze ed al 35% da Cassa depositi e prestiti S.p.A., a sua
volta  partecipata  al  70% dal medesimo Ministero); poiche', infine,
una  disposizione  che  vale solo per i giudizi in corso, non valendo
neppure per l'avvenire, e' per definizione una disposizione che ha il
solo  scopo di ottenere una determinata soluzione di una controversia
in corso; poiche', d'altronde, non e' necessario che tale sia il fine
esclusivo  della  disposizione (Cass. ord. 22260/2008); appare lecito
dubitare che il Legislatore abbia violato i surrichiamati principi in
materia  di  "giusto  processo",  cosi'  violando  l'art.  117  della
Costituzione.
   Ne' cio' basta.
   La  disposizione  qui  censurata  incide  retroattivamente (sempre
nell'ipotesi,   che   il  giudicante  ritiene  di  dover  allo  stato
accreditare,  che  la  clausola  del  termine  sia  nella  specie  da
giudicare  invalida),  sopprimendolo,  su  un  diritto  (quello  alla
«tutela reale» quale sopra formulata) che era stato gia' acquisito al
patrimonio  della  parte  ricorrente. La Corte costituzionale ha piu'
volte  ricordato  (v.  es. sentenze nn. 390/1995, 211/1997, 416/1999)
che  la  Carta  fondamentale tutela, all'art. 3, primo comma (ma allo
scopo  potrebbe  anche  essere  invocato l'art. 24, secondo comma) il
diritto  del  cittadino  a  poter riporre affidamento nella sicurezza
(certezza)  giuridica,  quale  elemento  essenziale  di  uno stato di
diritto,  che  non  puo' essere leso da disposizioni retroattive, che
tramodino  in  un  regolamento  irrazionale di situazioni sostanziali
fondate su leggi precedenti. La parte ricorrente ha agito in giudizio
nell'ambito  di  un  quadro  normativo  che  le garantiva, in caso di
accertata  invalidita'  della  clausola  del termine, la prosecuzione
giuridica del rapporto ed in ogni caso il diritto al ripristino dello
stesso,  con  conseguenze risarcitorie, in caso di violazione, idonee
alla  piena  riparazione  del  danno subito; e non appare ravvisabile
alcuna  giustificazione  razionale  nel  fatto  che la legge lo abbia
privato di tale diritto non solo in corso di causa, ma proprio e solo
per  il  fatto  di avere una causa in corso (che' se avesse tardato a
proporla, il suo diritto sarebbe stato fatto salvo).
   Ma ancora, ed infine, la disposizione in esame appare in contrasto
con  gli  artt.  101,  102,  secondo  comma  e 104, primo comma della
Costituzione,  perche'  un  intervento  della  legislazione che, come
nella  specie,  riguardi  esclusivamente  un certo tipo di giudizi in
corso  ad una certa data si palesa privo del carattere di astrattezza
proprio   della   formazione   legislativa,   ed   assume   carattere
provvedimentale   generale   (ha   ad  oggetto  esclusivo  un  numero
concretamente  ancorche'  indirettamente  determinato di fattispecie)
con  riguardo  a giudizi in corso, cosi' invadendo un ambito che deve
ritenersi  riservato al potere giudiziario. Ancora una volta la Corte
costituzionale ha avuto modo di affermare che non e' legittimo che la
legge  introduca disposizioni intenzionalmente dirette ad incidere su
concrete  fattispecie  sub  iudice  (sentenze  nn.  397/1994, 6/1994,
429/1993  ed  altre);  ed  il  fatto che la disposizione in questione
valga  solo  per  i giudizi in corso, escludendo anche quelli futuri,
appare rendere del tutto evidente che nella specie la legge ha inteso
intenzionalmente   quanto  esclusivamente  incidere  sulle  sorti  di
fattispecie  sub  iudice,  cosi'  invadendo  l'ambito  riservato alla
giurisdizione.
   La  rilevanza  di  dette  ultime  questioni appare evidente: se la
disposizione    censurata    fosse    dichiarata   costituzionalmente
illegittima,  ed  il  giudicante trovasse invalida nella specie (come
comunque  allo  stato  gli appare) la clausola appositiva del termine
(la  causa  e'  pronta  per  la  decisione) essa non potrebbe trovare
l'applicazione   altrimenti   necessaria  nel  presente  giudizio,  e
dovrebbe applicarsi il diritto vivente previgente (o altro).