IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza sciogliendo la riserva assunta all'udienza del 15 settembre 2008; Ritenuto in fatto che con ricorso depositato il 16 novembre 2006 Di Roberto Maria ha convenuto qui in giudizio Poste Italiane S.p.A.; che il ricorrente ha esposto: di aver lavorato alle dipendenze della convenuta dal 28 ottobre 2003 al 15 gennaio 2004 con contratto a tempo determinato nel quale la clausola appositiva del termine era stata giustificata con la seguente espressione «ai sensi dell'art. 1 del d.lgs. n. 368/2001 per ragioni di carattere sostitutivo correlate alla specifica esigenza di provvedere alla sostituzione del personale inquadrato nell'Area Operativa e addetto al servizio di recapito presso l'Ufficio recapito di Pozzuoli, assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro nel periodo dal 1° ottobre 2003 al 15 gennaio 2004»; che il ricorrente ha dedotto la nullita' della clausola del termine, per i seguenti motivi (in sintesi): a) per violazione dell'art. 1, comma 2, del d.lgs n. 368/2001. L'attore sostiene che la ragione sostitutiva addotta a giustificazione dell'apposizione della clausola non risponda alla regola di specificita' imposta dalla disposizione, non indicandovisi quanti e quali lavoratori fossero assenti, di quale qualifica, per quale durata, e alcun elemento atto ad individuare un nesso tra le pretese assenze e l'utilizzo a termine del lavoratore. Su tali basi, l'esistenza della ragione sostitutiva non sarebbe verificabile; b) per insussistenza della ragione addotta (violazione dell'art. 1, cpo. 1, del d.lgs. n. 368 cit.), specie con riguardo al nesso causale. In realta' la convenuta avrebbe assunto da vari anni tutto l'anno lavoratori a termine in un numero pressoche' costante per far fronte ad una cronica carenza di personale nell'unita' produttiva e/o per coprire le ordinarie necessita' di servizio; che l'attore ha concluso chiedendo: a) dichiararsi la nullita' della clausola del termine; b) dichiararsi, di conseguenza, che tra le parti era in corso un rapporto di lavoro a tempo indeterminato sin dalla data dell'assunzione; c) condannarsi la convenuta a riammetterlo nel posto di lavoro; d) condannarsi la convenuta al pagamento delle retribuzioni maturate dalla scadenza del termine nullo; che Poste Italiane S.p.A. si e' costituita chiedendo respingersi le avverse domande, per i seguenti motivi (in sintesi): a) le ragioni sostitutive addotte in contratto sarebbero sufficientemente specifiche, bastando l'indicazione delle mansioni di adibizione del personale assente (addetto al servizio recapito), dell'ufficio (UDR di Pozzuoli) da sostituire; e del periodo complessivo delle assenze (coincidente con la durata del contratto). L'indicazione dei nomi delle persone da sostitutire e delle specifiche cause della sostituzione non sarebbero richiesti dall'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 368/2001, come invece era previsto dall'art. 1, comma 2, lett. b), della legge n. 230/62, abrogato dall'art. 11 del d.lgs. n. 368/2001; b) le ragioni sostitutive sarebbero sussistenti, come basterebbero a provare le seguenti circostanze, dedotte ed invocate a prova orale: i) l'attore avrebbe svolto mansioni di addetto al recapito, in sostituzione di addetti assenti con diritto alla conservazione del posto di lavoro (anche qui, peraltro, in alcun altro modo individuati, ne' per l'identita', ne' per il numero, ne' per la durata delle assenze ne' per le relative cause; ii) nell'Ufficio Recapito di Pozzuoli, nel periodo dedotto in contratto, il numero di giornate di assenza maturate complessivamente dal personale stabile (n. 330) era stato superiore al numero di giornate lavorate complessivamente dal personale a tempo determinato (n. 129); che Poste Italiane ha inoltre dedotto: che le contestate violazioni non potrebbero portare alla conversione del rapporto a tempo indeterminato; che le retribuzioni spetterebbero solo a titolo risarcitorio dalla data della messa in mora, con detraibilita' dal risarcimento dell'aliunde perceptum e percipiendum; che sono stati escussi due testimoni, all'esito di che e' stata fissata udienza di discussione; che nelle more, e' entrato in vigore l'art. 21 del d.l. n. 112/2008, che, come convertito in legge n. 133/2008, ha introdotto, nel d.lgs. n. 368/2001, dopo l'art. 4, un art. 4-bis, che recita che «Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione, e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni di cui agli artt. 1, 2, e 4, il datore di lavoro e' tenuto unicamente ad indennizzare il prestatore di lavoro con un'indennita' di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri di cui all'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni»; che in sede di discussione orale, la difesa di parte ricorrente ha chiesto giudicarsi rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale di detta disposizione, per violazione degli artt. 3, 4, 10, 24, 35 e 75 della Costituzione; Ritenuto in diritto: che la disciplina legislativa previgente l'entrata in vigore del d.lgs. n. 368/2001 consentiva l'apposizione della clausola del termine per ragioni sostitutive di personale assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro, alla condizione che fosse indicato il nome del lavoratore sostituito e della causa della sostituzione (art. 1, comma 2, lettera b), legge n. 230/1962); che tale disposizione e' stata abrogata, con tutta la legge n. 230, dall'art. 11 del d.lgs. n. 368/2001; che in detto decreto si contempla ancora la possibilita' di assumere a termine «a fronte di ragioni di carattere… .sostitutivo», ma non si richiede piu', almeno sul piano letterale, che sia indicato il nome del lavoratore sostituito ne' la causa della sostituzione (art. 1, comma 1); che l'onere di specificazione delle ragioni imposto dall'art. l, comma 2 del decreto non sembra imporre indirettamente tali specificazioni, sul mero piano dell'esegesi «ordinaria» (traibile dall'art. 12 delle preleggi), non parendo possibile escludere «a priori», in base al dato letterale, ed in un contesto storico e di politica legislativa improntato ormai da anni ad una tendenza di progressiva flessibilizzazione della materia, che la ragione del termine possa risiedere (come in sostanza assume la difesa di Poste Italiane) nell'esigenza di supplire mediante personale assunto a termine ad esigenze sostitutive indeterminate ma pronosticate, in un determinato ambito aziendale, tra gli addetti ad una determinata mansione, riguardo ai quali si preveda, in un determinato ambito temporale, un certo numero di giornate complessive di assenza (e cio', a prescindere da ogni valutazione in ordine alla sufficienza della giustificazione quale offerta e provata nel caso di specie); che in tale senso depone, tra l'altro, lo stesso passaggio da una regola che prevedeva quell'onere di specificazione, ad una ben piu' generica che non lo prevede piu'; che in tal senso, e se cio' e' vero, la disposizione di cui all'art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 368/2001 appare segnare un indubbio arretramento della tutela del lavoratore, per quanto attiene ai presupposti per la legittima apposizione della clausola del termine, rispetto alla disciplina previgente, almeno per quanto attiene alle esigenze sostitutive; che l'arretramento appare peraltro investire l'intero art. 1, comma 1, posto che, quale lettura si dia della disposizione, il riferimento affatto generico a «ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo» consente certo l'apposizione della clausola in casi nei quali essa non poteva ritenersi ammessa alla stregua della disciplina previgente, che pure aveva riguardo a tali ragioni di rango, per cosi' dire, «obiettivo», siccome afferenti alle esigenze aziendali (almeno per quanto attiene alle ipotesi previste direttamente dalla legge), ma limitava la possibilita' dell'apposizione della clausola a fattispecie ben piu' definite; che a tale evidenza non sembra potersi opporre che l'art. 23 della legge n. 56/1987, pure abrogato dall'art. 11 del d.lgs. n. 368/2001, consentiva, secondo il diritto vivente ormai invalso (per tutte, Cass. 4588/2006) alla contrattazione collettiva di prevedere ipotesi anche indeterminate e non necessariamente neppure ancorate a ragioni obiettive (nel senso di attinenti ad esigenze aziendali), bensi' anche a ragioni inerenti la persona del lavoratore (cd. ragioni soggettive), posto, da un lato, che e' difficile immaginare una regola di governo delle esigenze oggettive aziendali atte a legittimare l'apposizione della clausola piu' generica di quella posta dall'art. 1, comma 1 cit.; dall'altro, che appare dubbio (ed appare anzi da escludere) che l'impossibilita', conseguente all'intervenuta abrogazione anche dell'art. 23 cit. da parte dello stesso art. 11 del d.lgs. n. 368 cit., di giustificare la apposizione della clausola in base alla condizione del lavoratore (che sia, ad esempio, disoccupato di lungo periodo, per dare un esempio della casistica che si era prodotta in materia) costituisca un avanzamento del livello di tutela del lavoratore sul punto; che con il d.lgs. n. 368/2001 il Governo Italiano ha dato attuazione alla legge delega n. 422/2000, e, per essa, alla Direttiva 1999/70/CE; che la direttiva comunitaria non appare dettare alcun principio o obiettivo, ne' alcuna regola, cui gli Stati membri debbano conformarsi per garantire ai lavoratori a tempo determinato un livello di tutela minimo, per quanto attiene ai presupposti per l'apposizione della clausola del termine ad un singolo contratto; ossia non appare dettare alcun criterio in base al quale l'apposizione della clausola ad un contratto singolo possa giudicarsi «abusiva», per non trovare ragione in circostanze obiettive o soggettive di sorta, che debbano ricorrere onde evitare che essa sia «imposta» al lavoratore dalla parte datoriale piu' forte quale condizione dell'assunzione, al solo fine di consentire al datore di beneficiare della precarieta' del rapporto, per i vantaggi che essa obiettivamente in se' determina in capo ad esso, specie per le mansioni in ordine alle quali non sussiste un interesse datoriale ad un particolare affinamento della professionalita' del lavoratore, sia sul piano economico (non maturazione di benefici legati all'anzianita'), sia su quello dei rapporti personali (condizione di soggezione). La direttiva pone solo, fissandone le linee di perseguimento, due obiettivi: la garanzia del principio di non discriminazione e la prevenzione degli abusi derivanti dall'utilizzo in successione di contratti o rapporti a tempo determinato; che solo nella parte non propriamente normativa (il 7° considerando) compare l'affermazione che «l'utilizzazione di contratti a tempo determinato basata su ragioni oggettive e' un modo di prevenire gli abusi»; che peraltro, ed a prescindere dalla posizione «logistica» dell'affermazione e del suo contenuto sostanzialmente valutativo e non «normativo», l'uso del plurale (utilizzazione di contratti) ed il collegamento esegetico con la clausola 5, punto 1, lettera a) della Direttiva, in una con l'assenza, nella medesima, di alcuna regola che ancori a ragioni di sorta la possibilita' di apporre la clausola del termine ad un singolo contratto, suggeriscono che la necessita' di "ragioni obiettive" si riferisca esclusivamente alla materia della reiterazione; che nessuna concreta disposizione precettiva appare traibile dai considerando 6 e 8, che, da un lato, confermano la «normalita'» della forma a tempo indeterminato del rapporto di lavoro, che la direttiva vede con favore, perche' «contribuiscono alla qualita' della vita dei lavoratori interessati e a migliorarne il rendimento»; ma dall'altro non guardano con disfavore ai rapporti a termine, che «rappresentano una caratteristica dell'impiego in alcuni settori, occupazioni ed attivita' atta a soddisfare sia i datori di lavoro che i lavoratori». Anche detti «considerando» non appaiono peraltro dettare regole o principi di sorta, ma esprimere valutazioni di merito di carattere socio-lavorativo; che neppure la necessita' che l'apposizione della clausola del termine sia giustificata da pur generiche ragioni oggettive appare traibile dalla clausola n. 3, punto 1 della direttiva, che nel recitare «Ai fini del presente accordo, il termine ''lavoratore a tempo determinato'' indica una persona con un contratto o un rapporto di lavoro definiti direttamente fra il datore di lavoro e il lavoratore e il cui termine e' determinato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico» non fa che definire il lavoratore a termine come lavoratore che ha instaurato un rapporto individuale di lavoro rispetto al quale le «condizioni oggettive» non appaiono essere che le circostanze obiettive che individuano, direttamente o indirettamente, quando il rapporto verra' a cessare, ossia il termine in quanto tale. Cio' appare, oltre che dal tenore testuale della disposizione, reso palese all'annovero, tra le «condizioni oggettive», del «raggiungimento di una certa data», che non e' certo una ragione, bensi' puramente e semplicemente il giorno convenuto per la scadenza del rapporto, che lo individua direttamente; mentre le altre «condizioni» (il completamento di un compito specifico e il verificarsi di un evento specifico) lo individuano indirettamente. D'altronde, anche il «verificarsi di un evento specifico» non esprime, in se', alcuna «ragione» dell'apposizione del termine. Ed ancora la direttiva dice che il termine e' «determinato da condizioni oggettive» e non «giustificato da ragioni oggettive», con cio' rendendo palese, ad avviso del giudicante, che la disposizione si limita ad individuare la nozione di termine rilevante per la fattispecie (noi diremmo che il dies e' certus an e puo' essere certus (raggiungimento di una certa data) o incertus quando (completamento di un compito specifico o verificarsi di un evento specifico»); che al giudicante e' noto che la Corte costituzionale (Sent. n. 41/2000) e la S.C. di cassazione (Sent. n. 12985/2008) hanno, seppur incidentalmente, rilevato nelle «disposizioni» in esame una portata afferente la materia della necessita' di presupposti legittimativi dell'apposizione della clausola del termine. Il giudicante Ritiene di aver spiegato i motivi per cui ritiene che tale posizione meriti di essere rimeditata; che la clausola 8 della direttiva prevede, al comma 1, che «Gli Stati membri e/o le Parti Sociali possono mantenere o introdurre disposizioni piu' favorevoli per i lavoratori di quelle stabilite nel presente accordo»; ed al comma 3, che «L'applicazione del presente accordo non costituisce motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell'ambito coperto dall'accordo stesso»; che pertanto appare del pari evidente che, anche a ritenere che la direttiva richieda che il termine del singolo contratto sia giustificato da ragioni obiettive, cosi' come del tutto genericamente (in ogni caso) indicate, non rientra tra gli scopi della direttiva quello di allineare al livello di tutela individuato da siffatti presunti principi, la disciplina degli Stati membri che, attraverso la previsione di presupposti di legittimita' piu' specifici, dettasse gia' una disciplina piu' favorevole al lavoratore, con riguardo all'interesse di questi alla migliore qualita' della vita ed alle maggiori opportunita' di accrescimento del bagaglio professionale offerte dal rapporto a tempo indeterminato. La direttiva mirerebbe infatti comunque solo ad offrire una tutela minima; che la legge delega n. 422/2000 delegava il Governo «ad emanare…..i decreti legislativi recanti le norme occorrenti per dare attuazione alle direttive comprese negli elenchi di cui agli allegati A e B» (tra le quali la Direttiva 99/70 CE): art. 1, comma 1; e prevedeva, all'art. 2, comma 1, lettera f) che «I decreti legislativi assicureranno in ogni caso che, nelle materie trattate dalle direttive da attuare, la disciplina disposta sia pienamente conforme alle prescrizioni delle direttive medesime, tenuto anche conto delle eventuali modificazioni intervenute fino al momento dell'esercizio della delega»; che nella legge delega non appare desumibile dunque, ed in genere, alcun altro mandato al Governo, che di dare puntuale attuazione alla direttiva comunitaria in questione; che la direttiva, per quanto si e' premesso, non poneva, ad avviso del giudicante, alcuna regola o obiettivo riguardo alla tutela dei lavoratori sul piano della necessita' di presupposti per l'apposizione della clausola del termine, sicche' il d.lgs. n. 368/2001, nell'abrogare, all'art. 11, la previgente disciplina nazionale in materia (ed in particolare, per stare al caso di specie, all'art. 1, comma 2, lettera b) della legge n. 230/1962) appare aver operato in assenza di delega, e quindi in violazione degli artt. 76 e 77 della Costituzione; che la nuova disciplina dell'apposizione della clausola del termine, quale introdotta con l'art. 1, comma 1, del d.lgs. detto, appare affetta dal medesimo vizio; che peraltro (e lo si dice incidentalmente) anche a ritenere che la direttiva richiedesse che la clausola di apposizione del termine fosse in qualche modo giustificata da ragioni oggettive, appare evidente che la normativa italiana non richiedeva, sul punto, alcun adeguamento, posto che le causali di cui alla legge n. 230/1962 ed alle leggi speciali successivamente intervenute in materia e rimaste abrogate contemplavano ipotesi basate o comunque riconducibili a ragioni obiettive, tanto piu' se intese nel senso del tutto vago, fino al punto di essere soddisfatto «a priori» (come nel caso del «raggiungimento di una certa data»), traibile dalla clausola 3, punto 1 della direttiva; in particolare, l'abrogato art. 1, comma 2, lettera b) della legge n. 230/1962 soddisfaceva senz'altro la presunta necessita' comunitaria che la clausola appositiva del termine fosse giustificata da ragioni obiettive; che in aggiunta, l'arretramento del livello di tutela precedentemente offerto dalla normativa italiana ai lavoratori a termine con riguardo ai presupposti per l'applicazione della clausola, mediante la abrogazione del precedente regime (legge n. 230/1962; leggi speciali che qui si omettono per brevita'; art. 23 della legge n. 56/1987) improntato in larga parte su previsioni specifiche e tassative, e la sua sostituzione con una clausola elastica; arretramento che peraltro, a stare al caso di specie (esigenze di sostituzione di personale assente con diritto alla conservazione al posto di lavoro) appare di palmare evidenza, sia sul piano sostanziale (non e' piu' necessario che il contrattista sostituisca un lavoratore preindividuato) sia sul piano delle garanzie di trasparenza della causale di utilizzo, appare in conflitto con la clausola 8, punto 3, della direttiva, che stabiliva che l'applicazione dell'accordo non costituiva motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell'ambito dell'accordo stesso (c.d. clausola di non regresso); e' ben noto al giudicante che la Corte di giustizia europea nella c.d. sentenza Mangold (22 novembre 2005 - C/144/04) ha giudicato che la direttiva in questione non vieta come tale una reformatio in peius della protezione offerta ai lavoratori a termine, a condizione che essa non sia in alcun modo collegata con l'applicazione di questa; pur tuttavia, ed anzi proprio per questo, non si vede come tale reformatio in peius possa dirsi in questo caso «in alcun modo» collegata con l'applicazione dell'accordo quadro e della direttiva, se si considera che essa e' stata realizzata proprio nel provvedimento destinato specificamente a dare applicazione alla direttiva, e dichiaratamente allo scopo di darvi applicazione; merita aggiungere che nelle Conclusioni espresse dall'Avvocato generale sul caso Mangold si suggeriva espressamente che non poteva ritenersi consentito agli Stati membri intervenire in peius nel sistema di tutele previste per i lavoratori a termine dando l'impressione che cio' fosse imposto dalla necessita' di dare attuazione alla direttiva comunitaria, tanto da suggerire, altresi', che gli Stati membri che avessero cosi' operato dovessero fornire, al riguardo, una giustificazione. Tale ultima indicazione non e' stata recepita dalla sentenza Mangold, ma l'interpretazione offerta dalla sentenza alla cd. clausola di non regresso accredita la fondatezza del primo suggerimento dell'Avvocato generale; che sotto il profilo in questione l'art. 1, comma 1 e l'art. 11 del d.lgs. n. 368/2001 appaiono viziati da illegittimita' costituzionale anche in rapporto all'art. 117, comma 1 della Costituzione, per violazione dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario, in forza del principio di cd. illegittimita' derivata ormai accreditato dai Consessi superiori (per tutte Cort. cost. n. 349/2007); che la questione di legittimita' costituzionale come sopra prospettata appare rilevante in causa sotto piu' profili, ed in particolare i seguenti: a) dalla declaratoria di illegittimita' costituzionale delle disposizioni in esame deriverebbe che la fattispecie ricadrebbe nell'ambito di applicazione dell'art. l, comma 2, lettera b) della legge n. 230/1962, che risulterebbe violato, perche' il contratto non contiene l'indicazione del lavoratore sostituito e della causa della sostituzione; b) lo stesso art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 368/2001 rimarrebbe presumibilmente immune da censure di legittimita' costituzionale (secondo il principio dell'interpretazione adeguatrice) solo a condizione che la specificazione della ragione rispondesse alla regola posta dalla legge 230; cosa che al giudicante appare perfettamente possibile (onde si astiene dal sollevare anche tale questione); c) le conseguenze della eventuale violazione della regola che, in caso di accoglimento della questione, avrebbe imposto al datore di individuare in contratto il nome del lavoratore sostituito e la causa della sostituzione non sarebbero riconducibili alla violazione dell'art. 1 del d.lgs. n. 368/2001, che risulterebbe annullato, ma alla violazione dell'art. l, comma 2, lettera b) della legge n. 230/1962, che e' estranea all'ambito di applicazione dell'art. 21 del d.l. n. 112/2008 come convertito in legge n. 133/2008, sicche' tale ultima disposizione non potrebbe comunque trovare applicazione nel caso di specie; che inoltre, ed eventualmente in subordine, appare altresi' rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale di tale ultima disposizione, in primo luogo, con riguardo agli artt. 3 e 117, comma 1 della Costituzione; sotto il primo profilo, va premesso che, ad avviso del giudicante, la nullita' della clausola del termine (qual'appare indubbiamente integrata dalla violazione dell'art. 1 del d.lgs. n. 368/2001, trattandosi di disposizione imperativa), secondo i principi generali - artt. 1419, comma 2 e art. 1339 c.c. -, che dovrebbero trovare applicazione, in assenza di disposizioni specifiche, se non fosse in vigore la disposizione qui impugnata, comporta le seguenti conseguenze: a) non dovrebbe estendersi all'intero contratto (soluzione condivisa dalla preponderante dottrina e giurisprudenza di merito, e di recente convalidata da Cass. 12985/2008, alla cui motivazione, del tutto esauriente sul punto, si fa rinvio); b) secondo i surrichiamati principi generali, dalla sopravvivenza giuridica del rapporto dovrebbe derivare la permanenza nel tempo dei suoi effetti obbligatori, tra i quali quello di retribuire; potendo semmai discettarsi se sia conforme al principio generale di buona fede che il lavoratore possa vantare tale diritto finche' non abbia rivendicato la riattivazione fattuale del sinallagma, in un contesto nel quale per solito questo e' cessato per il mutuo convincimento della cessazione de iure del medesimo; ovvero se possa trovare applicazione l'art. 1460 c.c. in un contesto nel quale, se e' vero che il lavoratore non e' stato retribuito, e' anche vero che non ha offerto la controprestazione; c) deve tuttavia darsi atto che il c.d. diritto vivente si e' consolidato, a partire da Cass. SU n. 14381/2002, nel senso che, poiche' il rapporto di lavoro sarebbe retto da una sorta di sinallagmaticita' esecutiva per cui il diritto alla retribuzione non sorge - salvi i casi per i quali la legge espressamente prevede altrimenti - se non quando il prestatore effettivamente lavora, dalla mera persistenza giuridica del rapporto (in forza della quale il prestatore ha pur diritto ad essere riammesso in servizio) non discenderebbe il diritto alla retribuzione, ma il diritto al risarcimento del danno (parametrato alle retribuzioni), e dal momento in cui il prestatore abbia messo in mora il datore, offrendogli le proprie prestazioni; e con le limitazioni generali della materia del risarcimento (detraibilita' dell'aliunde perceptum et percipiendum); d) in tale contesto il diritto vivente e' nel senso che dalla nullita' della clausola del termine discendono, dal momento dell'offerta della prestazione, conseguenze risarcitorie sostanzialmente analoghe a quelle previste, per il caso del licenziamento illegittimo, dall'art. 18 della legge n. 300/1970. In ogni caso la tutela del lavoratore quanto all'interesse del ripristino del sinallagma e' - con la predetta limitazione - «reale» - nel senso che e' simile a quella del lavoratore illegittimamente licenziato nell'ambito della tutela cosi' solitamente denominata -; l'art. 4-bis del d.lgs. n. 368/2001, quale introdotto dal comma 1-bis dell'art. 21 della legge n. 133/2008, il cui tenore testuale e' stato gia' sopra riportato, sostituisce alla tutela risarcitoria reale pur in qualche modo offerta dal diritto vivente previgente (ed in qualche modo gia' attenuata rispetto a quelle che appaiono le regole traibili dai principi generali) con una tutela di rango inferiore, di consistenza indennitaria, che esclude la prosecuzione giuridica del rapporto e lo stesso diritto al ripristino fattuale del sinallagma, e sostanzialmente strutturata, mediante il rinvio all'art. 8 della legge n. 604/66 e s.m., sulla c.d. tutela obbligatoria prevista, nel caso del licenziamento illegittimo, per le piccole imprese; la disposizione qui censurata opera tale modifica in modo retroattivo, in quanto esteso ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore della novella (tra i quali il presente); e nel contempo non valido per l'avvenire, ed in particolare per i giudizi che fossero instaurati dopo l'entrata in vigore della disposizione. Tale regime normativo appare censurabile ai sensi dell'art. 3 della Costituzione sotto diversi profili. Il primo, e piu' appariscente, attiene alla violazione del principio di uguaglianza insita nel fatto di disporre una tutela attenuata, a parita' di tutte le altre condizioni, a carico di un lavoratore, per il mero fatto, che appare palesemente inidoneo a giustificare una discriminazione, di avere gia' un giudizio in corso. Un lavoratore che avesse stipulato un identico contratto la cui clausola appositiva del termine fosse nulla (o altrimenti invalida) per i medesimi motivi, e che avesse proposto il ricorso il giorno dopo l'entrata in vigore della novella o in qualunque momento successivo, godrebbe della "tutela forte" sopra delineata; e cio' sebbene il fatto di aver tardato ad agire in giudizio non possa certo ascriversi a ragione di maggior merito. Non piu' giustificata appare peraltro la discriminazione operata nei confronti dei lavoratori in questione, rispetto a quelli (e notoriamente ve ne sono almeno a centinaia) che hanno giudizi in corso nei quali vengono in considerazione le conseguenze della invalidita' della clausola del termine, che peraltro sia retta, ratione temporis, dal sistema normativo previgente di cui alla legge n. 230/1962 e altre leggi speciali; ovvero che addirittura non li abbiano ancora instaurati. Si puo' solo ipotizzare che il Legislatore abbia ritenuto opportuno, in una contingenza caratterizzata da un fenomeno di massiccia impugnazione di clausole del termine, specie nei confronti di Poste Italiane S.p.A., arginare parzialmente e provvisoriamente gli effetti economici e le conseguenze sul piano occupazionale dell'accoglimento dei ricorsi, limitando i risarcimenti ed escludendo la possibilita' del ripristino. Tuttavia il criterio di selezione delle fattispecie alle quali dovrebbe trovare applicazione la nuova e attenuata tutela appare francamente del tutto irragionevole, e produttivo di sperequazioni che appaiono prive di qualsiasi ragionevole giustificazione. La disposizione censurata appare peraltro viziata anche in rapporto all'art. 117, primo comma della Costituzione, in rapporto agli obblighi assunti dallo Stato italiano con la legge n. 848/1955, con la quale e' stata resa esecutiva la Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Liberta' Fondamentali del 4 novembre 1950. L'art. 6 della Convenzione, nel porre la garanzia del «giusto processo», e' stata infatti interpretata dalla Corte Europea di Strasburgo (causa Scordino/Italia n. 36813/1997 e precedenti da essa richiamati) nel senso che gli Stati aderenti alla Convenzione hanno l'obbligo di non esercitare un ingerenza normativa finalizzata ad ottenere una determinata soluzione delle controversie in corso, salvo che l'intervento retroattivo sia giustificato da motivi imperiosi di carattere generale; specie quando l'intervento avvenga in una causa nella quale lo Stato sia parte. Che la violazione di tale regola determini un vulnus all'art. 117, primo comma della Costituzione e' stato gia' riconosciuto dal Giudice delle Leggi quantomeno nella sentenza n. 349/2007; ed e' stato recentemente opinato, in altra fattispecie, dalla S.C. di cassazione nell'ordinanza di rimessione n. 22260/2008. Nella specie la disposizione censurata trova applicazione a tutte le ipotesi di violazione delle disposizioni di cui agli artt. 1, 2 e 4 del d.lgs. n. 368/2001. Poiche', peraltro, un intervento di ambito temporale cosi' contingente (vale per i giudizi in corso, ma non vale per i giudizi futuri) non sembra poter trovare altra motivazione che nella presunta esigenza di una contingente attenuazione delle conseguenze dell'accoglimento di ricorsi fondati sulla violazione degli artt. 1, 2 o 4 del d.lgs. n. 368/2001, sul presupposto che tali conseguenze siano attualmente e provvisoriamente insopportabili per le imprese che le subiscono; poiche' per quanto questo giudice puo' constatare nella sua quotidiana esperienza giudiziaria, solo Poste Italiane S.p.A. e' attualmente «vittima» di un fenomeno di massiccia e pressoche' sistematica impugnazione di clausole del termine stipulate sulla base del d.lgs. n. 368/2001; poiche' in ogni caso Poste Italiane S.p.A. sta notoriamente subendo oggi un siffatto fenomeno; poiche' lo Stato Italiano e' attualmente, in buona sostanza, azionista unico o comunque largamente maggioritario di Poste Italiane S.p.A. (partecipata al 65% dal Ministero dell'economia e delle finanze ed al 35% da Cassa depositi e prestiti S.p.A., a sua volta partecipata al 70% dal medesimo Ministero); poiche', infine, una disposizione che vale solo per i giudizi in corso, non valendo neppure per l'avvenire, e' per definizione una disposizione che ha il solo scopo di ottenere una determinata soluzione di una controversia in corso; poiche', d'altronde, non e' necessario che tale sia il fine esclusivo della disposizione (Cass. ord. 22260/2008); appare lecito dubitare che il Legislatore abbia violato i surrichiamati principi in materia di "giusto processo", cosi' violando l'art. 117 della Costituzione. Ne' cio' basta. La disposizione qui censurata incide retroattivamente (sempre nell'ipotesi, che il giudicante ritiene di dover allo stato accreditare, che la clausola del termine sia nella specie da giudicare invalida), sopprimendolo, su un diritto (quello alla «tutela reale» quale sopra formulata) che era stato gia' acquisito al patrimonio della parte ricorrente. La Corte costituzionale ha piu' volte ricordato (v. es. sentenze nn. 390/1995, 211/1997, 416/1999) che la Carta fondamentale tutela, all'art. 3, primo comma (ma allo scopo potrebbe anche essere invocato l'art. 24, secondo comma) il diritto del cittadino a poter riporre affidamento nella sicurezza (certezza) giuridica, quale elemento essenziale di uno stato di diritto, che non puo' essere leso da disposizioni retroattive, che tramodino in un regolamento irrazionale di situazioni sostanziali fondate su leggi precedenti. La parte ricorrente ha agito in giudizio nell'ambito di un quadro normativo che le garantiva, in caso di accertata invalidita' della clausola del termine, la prosecuzione giuridica del rapporto ed in ogni caso il diritto al ripristino dello stesso, con conseguenze risarcitorie, in caso di violazione, idonee alla piena riparazione del danno subito; e non appare ravvisabile alcuna giustificazione razionale nel fatto che la legge lo abbia privato di tale diritto non solo in corso di causa, ma proprio e solo per il fatto di avere una causa in corso (che' se avesse tardato a proporla, il suo diritto sarebbe stato fatto salvo). Ma ancora, ed infine, la disposizione in esame appare in contrasto con gli artt. 101, 102, secondo comma e 104, primo comma della Costituzione, perche' un intervento della legislazione che, come nella specie, riguardi esclusivamente un certo tipo di giudizi in corso ad una certa data si palesa privo del carattere di astrattezza proprio della formazione legislativa, ed assume carattere provvedimentale generale (ha ad oggetto esclusivo un numero concretamente ancorche' indirettamente determinato di fattispecie) con riguardo a giudizi in corso, cosi' invadendo un ambito che deve ritenersi riservato al potere giudiziario. Ancora una volta la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare che non e' legittimo che la legge introduca disposizioni intenzionalmente dirette ad incidere su concrete fattispecie sub iudice (sentenze nn. 397/1994, 6/1994, 429/1993 ed altre); ed il fatto che la disposizione in questione valga solo per i giudizi in corso, escludendo anche quelli futuri, appare rendere del tutto evidente che nella specie la legge ha inteso intenzionalmente quanto esclusivamente incidere sulle sorti di fattispecie sub iudice, cosi' invadendo l'ambito riservato alla giurisdizione. La rilevanza di dette ultime questioni appare evidente: se la disposizione censurata fosse dichiarata costituzionalmente illegittima, ed il giudicante trovasse invalida nella specie (come comunque allo stato gli appare) la clausola appositiva del termine (la causa e' pronta per la decisione) essa non potrebbe trovare l'applicazione altrimenti necessaria nel presente giudizio, e dovrebbe applicarsi il diritto vivente previgente (o altro).