Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento, iscritto al
n. 40/2008  reg. ricorsi, in esso riunito il procedimento n. 41/2008,
aventi  ad  oggetto  le  istanze di dichiarazione di fallimento della
societa' «I 4 Caini S.r.l.», rispettivamente proposte da Anna Palumbo
e  da Vincenzo Fioretti, entrambi rapp. ti e difesi dall'avv. Antonio
Feluca  presso il cui studio elett. te domiciliano in Napoli alla via
Ponte di Tappia n. 82.
                          Premesso in fatto
   1.   -   Con  ricorso  depositato  il  18  gennaio  2008  (ricorso
contrassegnato con il n. 40/2008 di registro) Anna Palumbo ha chiesto
che  il  tribunale di Napoli dichiarasse il fallimento della societa'
«I   4   Caini  S.r.l.»,  evidenziando  di  essere  creditrice  della
complessiva somma di € 3.670,53 in ragione di decreto ingiuntivo
n. 3454  emesso  in  data 14 novembre 2005 dal giudice del lavoro del
Tribunale   di  Napoli  e  di  non  aver  potuto  realizzare  nemmeno
coattivamente   il   predetto   credito   stante   l'esito   negativo
dell'intrapreso pignoramento mobiliare giusta verbale del 27 dicembre
2006.
   L'istante  ha  pure  posto  in  rilievo «che ai sensi dell'art. 1,
d.lgs.  9  gennaio  2006,  n. 5, dalla visura storica aggiornata al 3
gennaio  2008  la  societa'  I  4 Caini S.r.l. ha un capitale sociale
deliberato,  sottoscritto  e  versato  di  €  51.480,00»  e  che
«dall'ultimo bilancio di esercizio depositato dalla societa' nel 2004
e    relativo   all'esercizio   2003   risultano   debiti   esigibili
nell'esercizio  per  un  totale  di  €  98.103,00 che, in uno al
credito per cui si procede, soddisfa il requisito di cui all'art. 15,
ultimo  comma,  legge  fallimentare, come recentemente modificata dal
d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169».
   Con  decreto  del  30  gennaio/1°  febbraio  2008  il tribunale ha
disposto   la  convocazione  della  ricorrente  e  del  debitore  per
l'udienza  del  23 aprile 2008 ore 11,30, disponendo «che il debitore
depositi  in cancelleria i bilanci relativi agli ultimi tre esercizi,
nonche'  situazione  patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata
ad  un  data  non anteriore di oltre due mesi rispetto a quella della
fissata  comparizione», invitando, altresi', «la parte piu' diligente
a  depositare  in  cancelleria:  1) la visura aggiornata dei protesti
eventualmente  pubblicati  a carico del debitore, eseguita attraverso
il  sistema  informativo centralizzato di Roma; 2) la certificazione,
anche  negativa, delle procedure esecutive, mobiliari ed immobiliari,
pendenti  a  carico  del  debitore  rilasciata  dalla cancelleria del
tribunale  o  dei  tribunali  nel  cui circondario sono - ovvero sono
state nel biennio anteriore al deposito del ricorso - ubicate la sede
legale e/o le eventuali sedi secondarie .............. del debitore».
   Infine, sempre con il citato decreto di convocazione, il tribunale
ha mandato la cancelleria «di provvedere con urgenza 1) ad acquisire,
se  non  gia'  agli atti, copia degli ultimi tre bilanci di esercizio
depositati  presso il competente registro delle imprese dal debitore,
ove questa sia una societa' di capitali ........» ed a «2) richiedere
-  eventualmente  anche a mezzo della Polizia Tributaria, all'Agenzia
per la riscossione competente del luogo ove il debitore ha, ovvero ha
avuto  nel  biennio anteriore al deposito del ricorso, la sede legale
informazioni  circa  il  titolare,  la natura, l'ammontare, l'anno di
riferimento  e  la scadenza dei crediti iscritti a ruolo a carico del
debitore».
   2.  -  Con  distinto  ricorso,  pure depositato il 18 gennaio 2008
(ricorso  contrassegnato  con  il  n. 41/2008  di registro), Vincenzo
Fioretti  ha  chiesto  che  il  Tribunale  di  Napoli  dichiarasse il
fallimento  della societa' «I 4 Caini S.r.l.», evidenziando di essere
creditore  della  complessiva somma di € 18.446,03 in ragione di
decreto  ingiuntivo  n. 2903  emesso in data 28/29 settembre 2005 dal
giudice   del   lavoro  del  Tribunale  di  Napoli,  ponendo  a  base
dell'iniziativa i medesimi argomenti del ricorso che precede.
   Il  tribunale,  con  decreto  del  30 gennaio/1° febbraio 2008, ha
disposto  la  convocazione  del  debitore per l'udienza del 23 aprile
2008,  chiedendo  alle  parti  ed  alla  cancelleria di acquisire gli
elementi informativi sopra indicati.
   3.  - All'udienza del 23 aprile 2008 la societa' I Caini non si e'
costituta,  nonostante  la regolare notifica dei ricorsi intervenuta,
ai sensi degli artt. 145, terzo comma e 149 c.p.c., giusta relate del
18 febbraio 2008.
   Il  tribunale  ha  disposto  la riunione del ricorso n. 41/2008 al
procedimento n. 40/2008.
   La  difesa  dei  ricorrenti  ha  posto  in  rilievo  l'intervenuto
deposito di altro ricorso di fallimento proposto da Scognamiglio Ciro
nei confronti della medesima societa' «I 4 Caini».
   Il  tribunale  ha  provveduto  ad  acquisire «i dati dell'Anagrafe
tributaria  concernenti  la  societa'  fallenda  incaricando per tale
accertamento  la cancelleria e sospendendo temporaneamente l'udienza.
Alle ore 12,20, viene riaperto il verbale, il tribunale si riserva».
                         Osserva in diritto
   1. - Il procedimento in oggetto, instaurato dai ricorsi depositati
il  18  gennaio  2008,  va trattato e definito secondo la disciplina,
sostanziale  e  processuale,  della legge fallimentare introdotta dal
decreto  legislativo 12  settembre 2007, n. 169, entrata in vigore il
1° gennaio 2008.
   2.  -  I  ricorrenti  hanno  compiutamente  dimostrato  di  essere
creditori  della  societa'  «I  4  Caini  S.r.l.»,  per il rispettivo
importo di € 3.670,53 (pretesa rivendicata da Anna Palumbo) e di
€ 18.446,03 (pretesa rivendicata da Vincenzo
   Fioretti),  come  risulta dai relativi atti di precetto notificati
il 6 maggio e l'11 dicembre 2006, che richiamano i menzionati decreti
ingiuntivi,  concessi  con  formula  di  provvisoria  esecutivita' (e
quello  ottenuto  da  Vincenzo  Fioretti  pure  munito  di decreto di
esecutorieta'  ai  sensi  dell'art.  647 c.p.c.), nei confronti della
societa' I 4 Caini S.r.l.
   3.   -   La  debitrice  va,  altresi',  considerata  in  stato  di
insolvenza, come gia' risulta dal protratto inadempimento dei crediti
sopra   indicati,   nonche'  dall'esito  negativo  del  tentativo  di
pignoramento  mobiliare, da entrambi i ricorrenti eseguito in data 27
dicembre  2006,  dai  cui  contenuti  emerge  l'irreperibilita' della
societa' presso la sede legale.
   Va  aggiunto,  al  riguardo, che dalla documentazione acquisita di
ufficio  dal tribunale in virtu' dei poteri conferitigli dall'art. 15
della  legge  fallimentare  (cfr.,  in particolare, quanto recapitato
dall'Agenzia  della  riscossione  competente per territorio), risulta
l'esistenza  di  ulteriori  debiti  scaduti  per  complessivi  €
151.672,67  per  le  specifiche  causali  riportate in ciascuna delle
cartelle indicate.
   Ebbene,  la  complessiva  entita'  dei descritti debiti, in uno al
trasferimento  di  azienda  intervenuto  in data 5 ottobre 2005 (cfr.
visura camerale in atti), consente, in assenza di contrarie evidenze,
di  ritenere  sussistente  la condizione di insolvenza c.d. rilevante
della societa' «I 4 Caini S.r.l.», risultando, da un lato, il mancato
pagamento  delle  plurime obbligazioni sopra menzionate riconduciblle
ad  una  obiettiva ed irreversibile incapacita' economica-finanziaria
della societa' e, per altro verso, superato il limite di cui all'art.
15  de1 r.d. n. 267/1942, come modificato dal d.lgs. n. 169/2007 (non
si  fa  luogo a dichiarazione di fallimento se l'ammontare dei debiti
scaduti  e  non pagati risultanti dall'istruttoria prefallimentare e'
complessivamente  inferiore  ad  €  30.000,00)  al  di sotto del
quale,  anche  in  presenza  di un accertato stato di insolvenza, non
potrebbe comunque dichiararsi il fallimento dell'imprenditore.
   4.  -  A  mente dell'art. 1 del r.d. n. 267/1942, quale risultante
dalle modifiche apportate dal gia' richiamato d.lgs. n. 169/2007, «1.
Sono  soggetti  alle  disposizioni  sul  fallimento  e sul concordato
preventivo gli imprenditori che esercitano una attivita' commerciale,
esclusi gli enti pubblici. 2. Non sono soggetti alle disposizioni sul
fallimento  e  sul  concordato  preventivo gli imprenditori di cui al
primo  comma,  i  quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti
requisiti:  a)  aver  avuto,  nei tre esercizi antecedenti la data di
deposito  della istanza di fallimento o dall'inizio dell'attivita' se
di  durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo
annuo  non  superiore  ad  euro  trecentomila; b) aver realizzato, in
qualunque  modo  risulti,  nei  tre  esercizi  antecedenti la data di
deposito  dell'istanza  di fallimento o dall'inizio dell'attivita' se
di  durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo
non  superiore  ad euro duecentomila; c) avere un ammontare di debiti
anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila».
   Nella  fattispecie  in  rassegna  la  societa' debitrice non si e'
costituita  e,  dunque,  non  ha  dimostrato nulla di quanto previsto
dalla citata disposizione.
   Peraltro,  gli  accertamenti  disposti di ufficio dal tribunale ai
sensi  dell'art.  15, commi 4 e 6, l.f. hanno consentito di acquisire
soltanto i dati Irpeg ed IVA degli anni di imposta 2003, 2002 e 2001,
che,  a  tacer d'altro, si riferiscono a periodi estranei dall'ambito
di  osservazione  prescritto  dall'art.  1  l.f.,  che richiama i tre
esercizi  precedenti  l'anno  di  deposito del ricorso e, dunque, nel
caso di specie gli anni 2007, 2006 e 2005.
   Lo  sviluppo  istruttorio  ha,  poi,  consentito, di accertare che
l'ultimo  bilancio  depositato  dalla  societa' «i 4 Caini S.r.l.» e'
quello  relativo  all'esercizio sociale chiusosi il 31 dicembre 2003,
ancora   una   volta  temporalmente  fuori  dall'ambito  di  indagine
rilevante.
   Dunque, a voler dar seguito alla formulazione del riportato art. 1
l.f.,  il  tribunale,  preso  atto  della mancata dimostrazione degli
elementi  di  cui  alla  citata  disposizione  ad opera del debitore,
disposti   i   possibili  accertamenti  di  ufficio,  nella  ritenuta
insolvenza  de  «I 4 Caini S.r.l.», dovrebbe dichiarare il fallimento
di detta societa'.
   Senonche',  il  Collegio  dubita della legittimita' costituzionale
del   secondo  comma  della  menzionata  disposizione,  apparendo  in
contrasto, con gli artt. 3 e 76 della Costituzione.
   La  questione,  che  assume rilevanza nel caso concreto per quanto
sopra   osservato,   si   esamina  separatamente  in  relazione  alle
menzionate disposizioni della Costituzione.
   5.  -  La  non  manifesta infondatezza della ritenuta contrarieta'
dell'art.  1,  secondo  comma  l.f.  in  relazione  all'art.  3 della
Costituzione.
   L'assoggettamento  di  un  imprenditore commerciale alla procedura
fallimentare ha normativamente sempre richiesto (e richiede) non solo
la  sua  insolvenza,  ma  anche  la  sua qualita' di imprenditore non
piccolo  (cfr.  art.  1,  primo  comma,  r.d.  16 marzo 1942, n. 267,
ovviamente prima della novella del 9 gennaio 2006 e, soprattutto, del
12  settembre 2007 ed art. 2221 c.c.)  o - se si vuole - adoperando i
criteri   introdotti   dal   legislatore   delegato  il  possesso  di
determinati requisiti dimensionali.
   Il  regio  decreto  del  16  marzo  1942 escludeva, infatti, dalle
disposizioni  sul  fallimento  i  piccoli  imprenditori, chiarendo al
secondo comma dell'art. 1 quali soggetti fossero da considerare tali.
   Dopo  la  pronuncia  del  22  dicembre  1989,  n. 570  della Corte
costituzionale,  con  cui  e'  stato dichiarata l'incostituzionalita'
dell'art.  1,  secondo  comma,  del r.d. n. 267/1942, come modificato
dalla  legge  20  ottobre 1952, n. 1375, nella parte in cui prevedeva
che  «quando  e'  mancato  l'accertamento  ai  fini  dell'imposta  di
ricchezza   mobile,   sono   considerati   piccoli  imprenditori  gli
imprenditori  esercenti  un'attivita'  commerciale  nella cui azienda
risulta  investito  un  capitale non superiore a lire novecentomila»,
non  e'  certo  venuto meno il principio di esclusione dal fallimento
dei   piccoli  imprenditori,  ma  solo  l'applicazione  del  criterio
contemplato dalla citata disposizione.
   Giova  muovere proprio dai contenuti di tale limpida pronuncia del
giudice  delle leggi per comprendere i criteri che devono ispirare ed
a   cui   deve  uniformarsi  la  norma  che  detta  le  regole  della
sottoposizione  alle  disposizioni  sul fallimento degli imprenditori
commerciali.
   La  Corte  ha  precisato che «... le categorie di piccolo, medio e
grande imprenditore, ed insolvente civile, nell'ordinamento economico
e  giuridico  hanno  posizioni nettamente differenziate. A fondare la
distinzione,  specie  ai  fini  dell'assoggettabilita'  o  meno  alla
procedura  fallimentare,  occorre  un criterio assolutamente idoneo e
sicuro.  I  limiti devono essere stabiliti in relazione all'attivita'
svolta,   all'organizzazione   dei   mezzi  impiegati,  alla  entita'
dell'impresa   ed   alle   ripercussioni   che  il  dissesto  produce
nell'economia generale. La insussistenza di validi presupposti per la
diversificazione   delle   situazioni   soggettive  che  si  volevano
diversamente  e  distintamente disciplinate, crea anche disparita' di
trattamento,  tanto  piu'  che,  altre  norme  (artt. 2083 e 2221 del
codice  civile)  pongono  piu' validi criteri di distinzione. Imprese
molto  modeste  incorrono nelle procedure fallimentari e vengono meno
le  finalita'  del fallimento. L'esiguo patrimonio attivo del fallito
puo'  rimanere  assorbito  interamente  dalle  spese  della complessa
procedura  e a volte risulta persino insufficiente a coprire le spese
anticipate dall'erario. Il fallimento finisce con l'essere un rimedio
processuale  impeditivo  della  tutela  dei  creditori  e un mezzo di
difesa insufficiente ...».
   La  chiarezza  e  la  lucidita'  dei principi esposti esonerano da
ulteriori   argomenti   per   ritenere   che  l'assoggettabilita'  al
fallimento  deve  potersi  fondare  su  di «un criterio assolutamente
idoneo  e  sicuro»,  e  cioe' su elementi oggettivi che tengano conto
dell'«attivita'  svolta»  e dell'«organizzazione dei mezzi impiegati»
dall'imprenditore,  dell'entita' dell'impresa» da questi esercitata e
delle  «ripercussioni  che  il  (suo)  dissesto produce nell'economia
generale»,  evitando  che  «imprese  molto  modeste incorr(a)no nelle
procedure   fallimentari»   e  che  vengano  meno  le  finalita'  del
fallimento o, peggio, che questo si trasformi, nei fatti, addirittura
in «un rimedio processuale impeditivo della tutela dei creditori».
   Ebbene,  alla  stregua  di  tali  principi  enunciati  dalla Corte
costituzionale,  vincolanti anche per il legislatore, si ritiene vada
interpretata  anche  la  direttiva  dell'estensione  dell'area di non
fallibilita' impartita dal legislatore delegante al Governo.
   Per  la verita', in questa prospettiva si era posto l'art. 1 della
legge  14  maggio 2005, n. 80 che, al comma quinto, aveva delegato al
Governo  «l'adozione,  con  l'osservanza  dei  principi e dei criteri
direttivi  di  cui  al sesto comma, di uno o piu' decreti legislativi
recanti   la   riforma  organica  della  disciplina  delle  procedure
concorsuali  di  cui  al  r.d.  16 marzo 1942, n. 267», prevedendo al
menzionato  sesto  comma  che, nell'esercizio della citata delega, il
Governo  si  sarebbe  dovuto  attenere,  per quanto piu' direttamente
interessa,   a  quello  di  «semplificare  la  disciplina  attraverso
l'estensione dei soggetti esonerati dall'applicabilita' dell'istituto
e  l'accelerazione  delle  procedure applicabili alle controversie in
materia».
   E'  del tutto evidente che la finalita' del legislatore delegante,
ispirata  all'esigenza  di  un  recupero  di competitivita' del Paese
anche  sotto  il  profilo  in  questione,  sia  stata quella di porre
rimedio  al risultato, assai frequente nella pratica applicazione, di
fallimenti  dichiarati  che  si chiudevano con la realizzazione di un
attivo  spesso  non  sufficiente  a  coprire  nemmeno  le spese della
procedura,  e, dunque, con un bilancio negativo per i creditori e per
l'intera collettivita'.
   Si  comprendono,  allora, le ragioni poste a fondamento del d.lgs.
n. 5 del 2006, emanato in attuazione della predetta delega ed entrato
in  vigore  il  16  luglio 2006, il quale, pur mantenendo il richiamo
alla  categoria  dei  piccoli  imprenditori  quali  soggetti esentati
dall'assoggettabilita'  al fallimento, abbia poi indicato i parametri
finalizzati a consentire l'individuazione dei soggetti da qualificare
tali,  agli  effetti  delle  disposizioni  della  legge fallimentare,
stabilendo   che   «ai   fini  del  primo  comma,  non  sono  piccoli
imprenditori   gli   esercenti   un'attivita'  commerciale  in  forma
individuale  o  collettiva  che,  anche  alternativamente:  a)  hanno
effettuato  investimenti  nell'azienda  per  un  capitale  di  valore
superiore a euro trecentomila; b) hanno realizzato, in qualunque modo
risulti,  ricavi  lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o
dall'inizio  dell'attivita'  se di durata inferiore, per un ammontare
complessivo annuo superiore a euro duecentomila».
   La  relazione  illustrativa  al  predetto  articolo  chiariva  che
«l'ampliamento  dei  soggetti  esonerati  e'  stato  inteso  in senso
quantitativo   e  non  meramente  qualitativo»,  individuando  tra  i
possibili  criteri di riferimento idonei ad implementare il requisito
dimensionale  quelli  che,  «in  via assolutamente alternativa tra di
loro  rispecchiano  in  maniera  piu' congrua l'effettiva consistenza
delle dimensioni effettivamente assunte dall'impresa insolvente e del
patrimonio aziendale».
   Va  da  se'  che,  coerentemente  all'impianto  costituzionalmente
orientato  derivante dalla predetta pronuncia del giudice delle leggi
e  dalle  intenzioni  del legislatore delegante di restringere l'area
della  fallibilita',  la  prima  stesura  della  riforma  della legge
fallimentare non abbia previsto nulla in merito alla ripartizione del
corrispondente onere probatorio, prevedendo, invece, che il requisito
dei  ricavi  potesse essere preso in considerazione in qualunque modo
esso risultasse.
   Non  puo',  tuttavia,  essere  taciuto,  al riguardo, il contrasto
registratosi  nella  giurisprudenza  di  merito  ed  in dottrina sino
all'intervento  del d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, tra la tesi che
poneva  a carico del fallendo l'onere di provare la sussistenza delle
circostanze  che  lo  esonerano  dal  fallimento, considerando in tal
guisa  l'esenzione  come  fatto  impeditivo,  e  l'orientamento  che,
invece,  costruiva  tale esonero non come eccezione alla regola della
fallibilita',   ma   quale   criterio  di  delimitazione  dell'ambito
soggettivo   di   applicazione   delle   procedure  concorsuali,  con
conseguente  onere  del  ricorrente  di  dimostrare la sussistenza di
tutti  i  presupposti  oggettivi  e  soggettivi  della procedura, ivi
compreso il carattere non piccolo dell'impresa o il superamento delle
soglie della non fallibilita'.
   Sta   di   fatto   che   le   argomentazioni  svolte  dalla  Corte
costituzionale  nella citata pronuncia del 22 dicembre 1989, n. 570 e
l'orientamento  della  Corte  di  cassazione  (cfr. Cass., 3 febbraio
1990,  n. 744)  davano  forza  all'idea  secondo la quale non potesse
dichiararsi  il  fallimento  qualora  non fossero stati, in qualunque
modo  e  dunque  anche  al  di fuori delle prove offerte dalle parti,
acquisiti  elementi  sufficienti  a negare la sua qualita' di piccolo
imprenditore,  cosi' come autorevole dottrina considerava addirittura
inconcepibile  un onere probatorio principale del debitore, quando lo
stesso  non  fosse  il richiedente, essendo la domanda o l'iniziativa
proposta contro di lui ed ogni onere spettando, quindi, al ricorrente
ed  al  tribunale, con l'aggiunta che neppure la qualifica di piccolo
imprenditore commerciale poteva essere oggetto di un onere probatorio
principale del debitore.
   In  effetti,  appare fuori luogo richiamare nella predetta materia
il  rigore  dei  criteri  di  cui all'art. 2697 c.c. per la dirimente
considerazione  secondo  cui  l'oggetto  della verifica coinvolta nel
ricorso  di fallimento, essendo riferita ad uno status e coinvolgendo
interessi   pubblici   non  appartiene  alla  categoria  dei  diritti
disponibili e nessuna delle «due parti in causa» (il ricorrente ed il
resistente o debitore) ha un diritto soggettivo alla dichiarazione di
fallimento,  la  quale puo' intervenire solo se risultano soddisfatte
le obiettive condizioni di accesso alla procedura concorsuale.
   Il  che  significa che non puo' postularsi un onere del ricorrente
di  provare  la sussistenza di tali condizioni (ovvero il superamento
di  una  o  piu'  soglie  da parte del debitore), cosi' come non puo'
sussistere  un onere dell'imprenditore di provare la sua «piccolezza»
ovvero  di  dimostrare  di  non  avere  superato  le predette soglie,
dovendo,  invece,  solo  accertarsi  con  il contributivo assertivo e
probatorio  delle  parti  e  con  l'utilizzo dei poteri officiosi del
giudice   se   l'imprenditore   resti  o  meno  sotto  le  soglie  di
fallibilita'.
   Senonche',  il  legislatore  delegato  con  il decreto legislativo
correttivo  n. 169  del 2007, ha riformulato completamente il secondo
com  ma  dell'art.  1 l.fall., stabilendo che «Non sono soggetti alle
disposizioni   sul   fallimento   e  sul  concordato  preventivo  gli
imprenditori  di  cui  al  comma  1,  i  quali dimostrino il possesso
congiunto dei … requisiti» di cui alle seguenti lettere a), b)
e c).
   La  relazione  illustrativa  del  decreto  legislativo n. 169/2007
cosi'  spiega la correzione: «… Le modifiche tengono conto del
fatto che l'eccessiva riduzione dell'area della fallibilita' venutasi
a  determinare a seguito della novella del 2006 spesso ha impedito di
assoggettare  al  fallimento  ed  alle  conseguenti  sanzioni  penali
imprenditori   di   rilevanti   dimensioni  con  elevati  livelli  di
indebitamento,  danneggiando,  in  tal modo, sia i numerosi creditori
insoddisfatti,  che  il  sistema  economico  in generale. ... Piu' in
dettaglio,  va  evidenziato  il  fatto che, per delimitare l'area dei
soggetti  esonerati  dal  fallimento,  non  viene  piu' utilizzata la
nozione  di  piccolo  imprenditore  commerciale,  ma vengono indicati
direttamente  una  serie  di  requisiti  dimensionali massimi che gli
imprenditori   commerciali   (resta   quindi  fermo  l'esonero  dalle
procedure  concorsuali  di tutti gli imprenditori agricoli, piccoli e
medio   grandi)   devono  possedere  congiuntamente  per  non  essere
assoggettati  alle  disposizioni  sul  fallimento  e  sul  concordato
preventivo.  In  questo  modo, si superano i contrasti interpretativi
sorti  in  ordine  all'individuazione  dei  criteri di qualificazione
delle  nozioni  di piccolo imprenditore (art. 2083 del cod. civ.), da
una  parte, e di imprenditore non piccolo (art. 1, l.f.), dall'altra:
concetti  entrambi  contemplati dall'art. 1 della legge fallimentare,
come  modificato  dal  decreto  legislativo  n. 5  del  2006.  ... Di
notevole  importanza,  poiche' supera i gravi problemi interpretativi
emersi  in  materia  di  distribuzione  dell'onere  della  prova  del
presupposto  soggettivo  del  fallimento,  e' la disposizione volta a
precisare  che  grava  sul  debitore  l'onere di fornire la prova dei
requisiti  di  non  fallibilita',  intesi come fatti impeditivi della
dichiarazione   di  fallimento.  E'  quindi  onere  dell'imprenditore
fallendo dimostrare di non aver superato (nel periodo di riferimento)
alcuno  dei tre parametri dimensionali previsti dalla norma in esame.
Si  evita,  cosi',  di  «premiare»  con  la  non  fallibilita' quegli
imprenditori  che  scelgono  di non difendersi in sede di istruttoria
prefallimentare  o  che  non  depositino  la documentazione contabile
dalla   quale   sarebbe  possibile  rilevare  i  dati  necessari  per
verificare  la  sussistenza dei parametri dimensionali. In tale modo,
qualora  gli  elementi  probatori,  dedotti  dalle  parti o acquisiti
d'ufficio, non siano sufficienti a fornire la prova della sussistenza
dei   requisiti   di  non  fallibilita',  l'imprenditore,  permanendo
l'incertezza  sulla  sussistenza  o  meno dei requisiti soggettivi di
esenzione   dal   fallimento,   resta   assoggettato  alla  procedura
fallimentare ...».
   Orbene,  va  subito  preso  atto  che l'eliminazione, da parte del
menzionato   decreto   correttivo,   della   categoria   del  piccolo
imprenditore  esclude ogni possibilita' di recuperare operativita' al
disposto   dell'art.   2221   c.c.,   da   ritenersi,   in   effetti,
implicitamente  abrogato  in virtu' dell'ingresso dell'impresa - come
suol dirsi - «sotto soglia».
   Va  pure  preso  atto  della non sindacabile scelta legislativa di
ampliare,  rispetto  alla  prospettiva  coltivata  dal  primo decreto
legislativo del 9 gennaio 2006, l'ambito dei soggetti sottoposti alle
disposizioni  sul  fallimento,  non essendovi dubbi sul rilevo che il
possesso  congiunto  degli  elementi  ora  richiesti  per  non essere
sottoposti a fallimento (ed i primi due, attivo patrimoniale e ricavi
lordi,   necessariamente   ricorrenti   per  ciascuno  dei  tre  anni
considerati)    ha    comportato    un'estensione   dell'area   della
fallibilita'.
   Si prende, altresi', atto del rovesciamento di logica e di criteri
operati  dal legislatore delegato con il d.lgs. n. 169 del 2007 nella
parte  in cui ha previsto il fallimento dell'imprenditore commerciale
insolvente  che «non dimostri» di non essere compreso nell'area della
non  fallibilita' definita dalle lett. a), b) e c) del secondo comma,
dell'art. 1 l. fall.
   Solo  che tale ultima previsione non appare rispettosa dell'art. 3
della   Costituzione,   sembrando  in  violazione  del  principio  di
ragionevolezza.
   Essa, infatti, ha sostanzialmente disatteso le indicazioni fornite
dalla  Corte  costituzionale con la menzionata sentenza n. 570/89 non
essendo  il  predetto  criterio  della  mancata  dimostrazione  delle
circostanze  sopra  indicate,  ad  opera  di chi subisce l'iniziativa
fallimentare,  riferibile  ad  un «un criterio assolutamente idoneo e
sicuro»  e, dunque, ad un «criterio oggettivo» per il semplice rilevo
che  esso  non  dipende  dall'accertamento dei predetti requisiti, ma
dall'omessa  dimostrazione  di  essi,  restando cosi' affidato ad una
incontrollabile variabile meramente soggettiva.
   Invero,  l'addossare  al  debitore  l'onere  di provare la sua non
assoggettabilita'  a  fallimento  puo'  far concretamente dipendere -
come nel caso di specie - il fallimento da un comportamento, peraltro
nemmeno  necessariamente  colpevole,  del medesimo debitore e cio' in
termini   del   tutto   estranei   alla   natura   ed  all'importanza
dell'attivita'  economica  e dei mezzi impiegati nell'impresa e senza
alcun  rapporto  con  le ripercussioni del dissesto dell'imprenditore
sul sistema economico.
   In  realta',  appare  del tutto incoerente stabilire dei requisiti
dimensionali,  ancorati  a  dati  oggettivi, come pure ha previsto il
decreto   correttivo,  per  poi  affidarli  alla  disponibilita'  del
soggetto cui si riferiscono.
   Tale  soluzione  potrebbe avere giuridico senso se la fallibilita'
potesse  ricondursi  ad  un  diritto  disponibile,  ma  cosi' non e',
ostandovi  il  superiore  interesse  pubblico, che si concretizza nei
criteri  selettivi  utilizzati dal legislatore per individuare l'area
di  sottoponibilita'  dell'imprenditore  insolvente alle disposizioni
sul fallimento.
   Il  legislatore delegato sembra chiarire nella riportata relazione
illustrativa  che  il  criterio in esame piu' che una regola di prova
debba essere intesa come regola di giudizio.
   Non ignora il Collegio che una regola di giudizio sia immanente in
ogni  tipo  di processo, ma, non puo' dubitarsi che essa debba essere
ragionevole.
   Ebbene,  il  criterio  di  cui si discute non appare tale per piu'
ordini di ragioni.
   Intanto,   la  regola  in  questione  sembra  operare  in  termini
assolutamente   irragionevoli   poiche'  non  solo  fa  dipendere  il
fallimento  da un comportamento, consapevole o meno, di una parte, ma
addirittura   lo  affida  alla  disponibilita'  di  un  soggetto,  il
debitore,   che  potrebbe  avere  un  interesse  contrario  a  quello
pubblico.
   L'immanenza  nel  fallimento di interessi pubblicistici pare fuori
discussione,  essendo  sufficiente  porre  in  evidenza  la  predetta
legittimazione  del  p.m.  ai  sensi  dell'art  7  l.f., la natura di
pubblico   ufficiale   del   curatore  a  mente  dell'art.  30  l.f.,
l'incidenza  che il fallimento produce nei confronti di una comunita'
indifferenziata  di  soggetti  che  all'esito  del  fallimento  della
propria  controparte vedono modificati i propri diritti, come risulta
dalla  disciplina  dei  rapporti pendenti ai sensi dell'art. 72 l.f.,
senza  tralasciare  di  considerare la predetta pronuncia del giudice
delle  leggi del 22 dicembre 1989, n. 570, ed e' resa manifesta nella
normativa individuazione dell'area della non fallibilita' in presenza
delle  circostanze di cui alle lettere a), b) e c) della disposizione
in commento.
   In  tale  direzione  il  discrimine tra la fallibilita' o meno non
puo' essere consegnata ad un criterio soggettivo e non puo' variare a
seconda  che il soggetto decida o meno di costituirsi, non puo' cioe'
dipendere  ne'  dalla  scelta  del  debitore, ne' dal caso, apparendo
irrazionale   tale   diversita'  di  trattamento  in  relazione  alla
necessaria  verifica  di  elementi oggettivi in base ai quali poter o
meno dichiarare il fallimento.
   Il   predetto   criterio,  invece,  non  solo  non  impedisce,  ma
addirittura puo' favorire dichiarazioni di fallimenti di soggetti che
non  hanno  i  requisiti  dimensionali contemplati, aprendo procedure
concorsuali  oltre  che  inutili, anche dannose per gli interessi dei
soggetti coinvolti e per la collettivita', tanto piu' se si considera
che  nulla  sembra precludere al debitore che non si sia costituito o
che,  pur  essendosi  costituito,  non  si sia difeso sullo specifico
punto  della  sua estraneita' all'area degli imprenditori commerciali
insolventi  fallibili delineata dal secondo comma dell'art. 1 l.fall.
nel  procedimento  di  primo  grado,  di  proporre  reclamo, ai sensi
dell'art.  18  l.fall.,  avverso  la  sentenza  dichiarativa  del suo
fallimento  e  di  dimostrare in quella sede di essere in possesso di
tutti  i  requisiti di cui alle lettere a), b) e c) del secondo comma
del predetto art. 1.
   Difficile,   poi,   sarebbe   conciliare   il   predetto  criterio
nell'ipotesi in cui sia il debitore a chiedere il proprio fallimento.
   Sembra  sul  punto  di  poter  escludere, sul piano della coerenza
logica  prima  che  giuridica,  che  debba applicarsi alla lettera la
nuova  formulazione del secondo comma dell'art. 1 l.fall., ed esigere
che  il  debitore  che  chieda  il proprio fallimento dimostri di non
essere  fallibile, non avendo evidentemente alcun interesse a fornire
una siffatta prova.
   Meno  che  mai  puo'  secondarsi  l'idea secondo la quale l'omessa
dimostrazione  di  cui  sopra  da  parte  del  debitore istante possa
condurre  tout  court (al pari di quanto dovrebbe accadere secondo la
norma  in commento nel caso in cui l'iniziativa sia adottata da altri
legittimati ed il debitore non dimostri alcunche') all'apertura della
procedura  concorsuale  poiche'  cio'  finirebbe  con  il  sancire la
categoria  del  fallimento «a richiesta del debitore», che non sembra
proprio contemplato nell'attuale assetto normativo.
   In  coerenza  con  la  ratio  della  disposizione  e con l'art. 14
l.fall.  va,  invece,  ritenuto  che, in tale evenienza, sul debitore
ricorrente  incomba  l'onere  di  dimostrare  non  gia'  la  sua  non
assoggettabilita',  ma  la sua sottoponibilita' alle disposizioni sul
fallimento,  il  che  conferma  l'irragionevolezza  del  criterio del
secondo  comma  dell'art.  1  l.fall.,  la  cui operativita' non puo'
variare  a  seconda  del  soggetto  istante,  meno che mai in base al
principio  di  cui all'art. 2697 c.c. e quello, ad esso correlato, di
vicinanza   della   prova,   i   quali,   oltre   a  non  aver  rango
costituzionale, devono, peraltro, ritenersi impropriamente richiamati
allorche',  come  nel  caso  del procedimento per la dichiarazione di
fallimento,  non  siano  in  gioco  diritti  di  cui le parti possano
disporre.
   Le  riflessioni che precedono non sembrano superabili considerando
la valutazione comparativa che si intuisce essere stata effettata dal
legislatore tra l'esigenza di assicurate tutela al diritto di credito
e  quella  di evitare al contempo l'apertura di procedure concorsuali
economicamente improduttive.
   La  soluzione  offerta,  infatti,  per  le ragioni sopra espresse,
riposa su di un criterio che appare non razionale e sembra inidoneo a
garantire  il  rispetto  delle  esigenze  che  si intendono tutelare,
finendo,  al  postutto,  solo con l'evitare «di "premiare" con la non
fallibilita'  quegli  imprenditori  che scelgono di non difendersi in
sede   di   istruttoria  prefallimentare  o  che  non  depositino  la
documentazione  contabile  dalla  quale  sarebbe possibile rilevare i
dati   necessari   per   verificare   la  sussistenza  dei  parametri
dimensionali» (cosi' la relazione illustrativa al d.lgs. 12 settembre
2007  n. 169  sub  art.  1 l.f.), ridando, in tal modo spazio, ad una
prospettiva meramente sanzionatoria del fallimento che il legislatore
delegante  aveva  abbandonato,  come  pure  chiarito  dalla relazione
illustrativa  al  d.lgs.  9  gennaio  2006,  n. 9,  e  che  appare in
contrasto  con  i principi affermati dalla Corte costituzionale nella
piu' volte citata pronuncia del 1989 n. 570.
   Non  pare,  allora, manifestamente infondato ritenere che la norma
in  questione  sia  contraria al principio di ragionevolezza, essendo
foriera  di irrazionali disparita' di trattamento nella parte in cui,
stabilendo  che  «Non  sono soggetti alle disposizioni sul fallimento
gli  imprenditori  di  cui al comma 1, i quali dimostrino il possesso
congiunto  dei ...  requisiti»  di cui alle seguenti lettere a), b) e
c), prevede che sia dichiarato il fallimento del debitore nel caso in
cui, all'esito del procedimento, residui incertezza sulla sussistenza
o  meno  dei  requisiti  di cui alle predette lettere a), b) e c) del
secondo  comma  dell'art. 1 l.f., come risultante dal correttivo alla
novella del d.lgs. del 9 gennaio 2006, n. 5, introdotto dal d.lgs. 12
settembre 2007, n. 169.
   6.  -  La  non  manifesta infondatezza della ritenuta contrarieta'
dell'art.  1,  secondo  comma  l.f.  in  relazione all'art. 76, comma
primo, della Costituzione.
   La  distribuzione  dell'onere probatorio disegnata dal legislatore
delegato   con   il   d.lgs.   n. 169/2007  suscita,  poi,  dubbi  di
costituzionalita'   anche   per   violazione   dell'art.   76,  primo
comma, Costituzione sotto il profilo dell'eccesso di delega in quanto
potenzialmente  idonea  a  contraddire, di fatto e nella sua concreta
applicazione,   la   direttiva   della   legge   delega   concernente
l'estensione del novero dei soggetti esclusi dal fallimento.
   Si  e'  gia'  osservato  come  il  principio posto del legislatore
delegante fosse quello di restringere l'area della fallibilita'.
   La prima stesura della novella aveva, a tal proposito, indicato in
positivo  dei  parametri  oggettivi, avendo ben chiara la lezione del
giudice  delle  leggi  (cfr.  art.  1 della relazione illustrativa al
decreto del 9 gennaio 2006, n. 5).
   Orbene,  la  regola  introdotta  dal  correttivo  del  2007 sembra
prescindere   e,  comunque,  pare  contraria  alla  citata  finalita'
indicata dal legislatore delegante.
   Ha  previsto,  infatti,  questa  volta  in negativo, dei requisiti
dimensionali   oggettivi   per  la  non  fallibilita',  evidentemente
considerando  al  di  sotto  di  tali  limiti  l'area  di esonero, ma
assegnando  al  debitore  l'onere della relativa dimostrazione, cosi'
finendo per ritenerli elementi dai quali poter prescindere.
   Omettendo   ogni  considerazione  sulla  cd.  prova  negativa,  va
osservato che tale regola sembra porsi irragionevolmente in contrasto
con  la  direttiva  della  riduzione  dell'area  della  fallibilita',
declinando  l'esenzione dell'imprenditore dal fallimento non tanto su
verificabili  parametri  oggettivi, ma sulla dimostrazione della loro
sussistenza,  cosi'  legittimando  la  dichiarazione di fallimento di
debitori sol perche' non provano di possederli, mettendo fuori gioco,
quindi,  proprio  i  limiti dimensionali dell'impresa che servivano a
delimitare  l'area  della  fallibilita' secondo quanto disposto dalla
legge delega.
   Risulta, allora, evidente, a prescindere da ancora prematuri e non
rilevanti,  ai  fini  de  quibus,  dati  statistici,  che in siffatti
termini  l'area  della  fallibilita'  si  sia,  nei  fatti ed in modo
incontrollabile,   estesa  contrariamente  alle  intenzioni  ed  alle
direttive del legislatore delegato.
   Non   puo',  infatti,  certamente  negarsi  che  in  tale  assetto
normativo  sia destinato a fallire, se non prova di non aver superato
i  parametri  di cui all'art. 1 l.f., anche il piccolo imprenditore o
quello   sotto   soglia,   cosi'   finendo   con  l'ampliare  secondo
incontrollabili   variabili,   disancorate   da  qualsiasi  parametro
obiettivo,  l'ambito di sottoposizione alla procedura fallimentare in
una  sorta di presunzione di fallibilita' fino a prova contraria, che
non  pare, francamente, risultare consentanea agli obiettivi indicati
del legislatore delegante.
   Anche  sotto  tale  profilo,  dunque,  pare  lecito dubitare della
legittimita'  costituzionale  dell'art.  1, comma secondo, l.f. nella
parte in cui, stabilendo che «Non sono soggetti alle disposizioni sul
fallimento ... gli imprenditori di cui al comma 1, i quali dimostrino
il possesso congiunto dei ... requisiti» di cui alle seguenti lettere
a),  b)  e  c), prevede che sia dichiarato il fallimento del debitore
nel caso in cui, all'esito del procedimento, residui incertezza sulla
sussistenza  o meno dei requisiti di cui alle predette lettere a), b)
e  c)  del  secondo  comma  dell'art.  1  l.f.,  come  risultante dal
correttivo  alla  novella  del  d.lgs.  del  9  gennaio  2006,  n. 5,
introdotto dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169.
   8. - Alla stregua delle considerazioni svolte va, allora, disposta
la  sospensione  del  presente  giudizio e la trasmissione degli atti
alla   Corte   costituzionale  per  la  decisione  sulle  evidenziate
questioni   pregiudiziali  di  legittimita'  costituzionale,  siccome
ritenute rilevanti e non manifestamente infondate.
   Alla  cancelleria vanno affidati gli adempimenti di competenza, ai
sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87.