LA CORTE MILITARE DI APPELLO Ha emesso la seguente ordinanza nel procedimento a carico di: Chierchia Michele nato a Gragnano (Napoli) il 4 novembre 1979 (atto 600 p.l.s.A), ivi residente in via Mandrio n. 8, C.le Magg. Sc. EI, libero, in seguito all'appello proposto dal p.m. in data 7 novembre 2007 avverso la sentenza n. 37/07 emessa il 5 ottobre 2007 dal G.u.p. presso il Tribunale militare di Verona con la quale per il reato di «Diserzione aggravata e truffa militare pluriaggravata, in continuazione» (artt. 81 cpv. c.p.; 148 n. 2, 234 c.c. 1 e 2, 47 n. 2 c.p.m.p.) veniva dichiarato non luogo a procedere in ordine al reato di truffa militare plunagg. cont., nonche' per il reato di diserzione aggr. cont. relativo ai periodi di assenza dal 22 maggio 2006 al 7 agosto 2006, dal 29 agosto 2006 al 31 agosto 2006, dal 28 dicembre 2006 al 9 gennaio 2007, perche' risulta che i fatti non sussistono. La Corte, riunita in camera di consiglio nell'udienza del 19 maggio 2008, nel procedimento penale a carico di Chierchia Michele, nato il 4 novembre 1979 a Gragnano (NA), imputato del reato di «diserzione aggravata e truffa militare pluriaggravata, in continuazione» (artt. 81 cpv. c.p.; 148 n. 2, 234 commi 1 e 2, 47 n. 2 c.p.m.p.), ha pronunciato la seguente ordinanza. Sentito il pubblico ministero, che ha sollevato, depositando memoria scritta, la questione di legittimita' costituzionale, per violazione degli articoli 3, primo comma, e 111, secondo comma della Costituzione, della norma contenuta nell'articolo 428 del codice di procedura penale, quale modificata dall'articolo 4 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui ha soppresso il diritto del pubblico ministero di proporre appello avverso la sentenza di non luogo a procedere; Sentito il difensore dell'imputato, che ha chiesto la declaratoria di inammissibilita' dell'appello ed in subordine ha dichiarato di rimettersi alla decisione della Corte; Osserva in fatto ed in diritto Rilevanza della questione di legittimita' costituzionale. Il presente giudizio di gravame trae origine dall'appello tempestivamente presentato dalla Procura militare di Verona avverso la sentenza, emessa in data 5 ottobre 2007 e depositata il successivo 20 ottobre dello stesso anno, con la quale il G.u.p. presso il Tribunale militare di Verona ha dichiarato il non luogo a procedere nei confronti di Chierchia Michele, imputato del reato di «diserzione aggravata e truffa militare pluriaggravata, in continuazione», con la formula del fatto non sussiste. Nel contesto dell'atto di appello, provvisto di tutti gli intrinseci requisiti di ammissibilita', viene sollevata la questione di legittimita' costituzionale della norma, per violazione degli articoli 3, primo comma, e 111, secondo comma e 112 della Costituzione, contenuta nell'articolo 428 del codice di rito penale, la quale, nella formulazione conseguente all'entrata in vigore della legge 20 febbraio 2006 - e segnatamente dell'articolo 4 - , ha previsto il ricorso per cassazione come unico rimedio contro la sentenza di non luogo a procedere, cosi' inderogabilmente escludendo la proponibilita', prima consentita, dell'appello avanti al giudice di secondo grado. In conformita' a quanto disposto dal codice di rito questa Corte, ove non condividesse le censure di illegittimita' costituzionale prospettate dai rappresentanti dell'accusa, sia negli atti di gravame che nella presente udienza, avrebbe a disposizione la seguente alternativa: o dichiarare la inammissibilita' dell'impugnazione, in quanto presentata contro provvedimento non appellabile; oppure convertire l'appello in ricorso per cassazione e trasmettere gli atti al giudice competente al suo esame. Di conseguenza appare evidente la rilevanza della prospettata questione di legittimita' costituzionale, in ragione del fatto che la possibilita' di trattare il procedimento nell'ambito del presente giudizio di appello e' preclusa proprio della nuova formulazione dell'articolo 428, di cui entrambi i rappresentanti della pubblica accusa hanno denunciato il contrasto con gli articoli 3, comma 2, e 111, comma 2, e 112 della Costituzione. Non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale. Ritiene la Corte che siano da condividere i rilievi e le osservazioni contenuti negli atti di appello e ribaditi nella memoria presentata dal rappresentante della procura generale nel presente giudizio camerale, a sostegno del prospettato dubbio di legittimita' costituzionale in ordine alla nuova formulazione dell'articolo 428 c.p.p. In particolare e' da condividersi l'assunto che la nuova norma sui limiti oggettivi alla impugnabilita' della sentenza di non luogo a procedere sia in contrasto con le seguenti disposizioni della Carta costituzionale: a) il comma 1 dell'art. 3, istitutivo del principio di eguaglianza e costituente - sub specie di parametro di «ragionevolezza» - il termine di raffronto fondamentale ai fini della valutazione della legittimita' costituzionale del suddetto art. 428; b) il comma 2 dell'art. 111 (introdotto ex art. 1 della legge cost. 23 novembre 1999, n. 2), contenente la norma secondo cui «Ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parita', davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata»; c) l'articolo 112, che prescrive la regola per cui, nel nostro ordinamento «Il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale». Sul contrasto con l'articolo 3 della Costituzione. il contrasto con l'articolo 3 della Costituzione si evidenzia sotto una duplice prospettiva: innanzitutto sotto forma di irragionevolezza della disciplina, in quanto essa si innesta su di un quadro normativo che, grazie alle fondamentali sentenze della Corte costituzionale n. 26 e 320 del 2007 (vedi nota 1) , garantisce al pubblico ministero il potere di proporre appello avverso le sentenze di assoluzione pronunciate sia in esito ad un dibattimento che a conclusione di un rito abbreviato. Di conseguenza la preclusione disposta dalla norma di cui all'articolo 428 viene a perdere ogni ragionevolezza e fondamento giustificativo, posto che nega al rappresentante della pubblica accusa, nella fondamentale fase in cui viene formulata la domanda di giudizio, il potere di richiedere quel completo riesame di merito che viene allo stesso riconosciuto nelle ulteriori fasi del processo. Ritiene questo Giudice, in particolare, che la norma in esame costituisca un elemento di forte turbativa ed incoerenza nel contesto della complessiva disciplina del potere di appello, in quanto priva il rappresentante della pubblica accusa della possibilita' di segnalare e far correggere gli eventuali vizi della sentenza di non luogo a procedere e trasforma quest'ultima in una sostanziale pietra tombale, che preclude ogni ulteriore confronto dialettico sul merito dell'accusa e rende possibile il solo rimedio del ricorso per cassazione, i cui peculiari connotati non consentono una adeguata disamina della totalita' dei vizi che possono inficiare il merito della decisione. Il novellato art. 428 c.p.p., nella parte in cui consente il solo rimedio del ricorso per cassazione e non prevede piu' l'appello del p.m. contro la sentenza di non luogo a procedere del GUP, contrasta anzitutto con il parametro dell'art. 3, primo comma, Cost., che, secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, funge da limite alla discrezionalita' del Legislatore, facendo si' che le scelte di questi, per quanto tendenzialmente del tutto libere nei fini, siano sindacabili sotto il profilo della ragionevolezza (cfr., ex multis, Corte cost., 20 luglio 1994, n. 324). Nel caso di specie non risulta soddisfatto proprio il requisito della ragionevolezza, per la determinante ragione che si impedisce al pubblico ministero di coltivare l'esercizio dell'azione penale nell'ambito della sequenza procedimentale che ancora si frappone al giudizio dibattimentale e gli si impone di esperire un mezzo di impugnativa (il ricorso per cassazione) che, oltre a quanto si osservera' in seguito, non appare fisiologicamente coerente con il tipo di valutazione che deve sovrintendere alla decisione di rinvio a giudizio ed appare poco adatto a contrastare efficacemente la sentenza con la quale il giudice a quo si sia espresso in ordine all'insostenibilita' dell'accusa in giudizio. In tal modo si compromette la possibilita' che il pubblico ministero chieda ad un ulteriore giudice di esaminare le risultanze processuali nella totalita' del loro significato e della loro consistenza e si opera una non ragionevole discriminazione tra quanto previsto per i procedimenti che richiedono l'udienza preliminare e quanto previsto per i diversi procedimenti a citazione diretta, dove la domanda di giudizio del pubblico ministero trova l'immediato riscontro della fissazione della udienza dibattimentale, non e' minimamente esposta al rischio di essere prematuramente bloccata nei suoi atti di concreto e doveroso esercizio ed e' altresi' garantita, nell'attuale contesto normativo e grazie alle sentenze della Corte costituzionale n. 26 e 320 del 2007, dalla possibilita' di un appello avverso la decisione conclusiva del giudizio di primo grado. L'intera sequenza di rimedi impugnatori sopra indicata viene del tutto paralizzata nel caso di procedimenti che richiedano l'udienza preliminare; di quei procedimenti, cioe', che concernono i reati piu' gravi ed in relazione ai quali appare ancora di certo piu' acuta e pressante la esigenza di un riesame del merito della imputazione, per evitare che gli errori compiuti nella verifica della domanda di giudizio producano conseguenze irreversibili e impediscano la piena attuazione del diritto positivo e l'adeguato riscontro degli interessi della comunita' e della persona offesa. Sul contrasto con i principi della ragionevole durata dei procedimenti e della parita' delle parti. Ritiene la Corte che la nuova disciplina sia in contrasto anche con la norma costituzionale che impone di predisporre quanto necessario ad assicurare la ragionevole durata del procedimenti (art. 111, secondo comma, Cost.) e garantire pari possibilita' operative alle parti processuali, in ragione degli obiettivi coessenziali al rispettivo ruolo e in considerazione delle specifiche caratteristiche delle singole fasi processuali. La proponibilita' avverso la sentenza di non luogo a procedere del solo ricorso per cassazione, infatti, non consente al pubblico ministero (il quale non condivida la decisione del g.u.p. di bloccare l'esercizio dell'azione penale) di tutelare, efficacemente e in tempi congrui, la funzione del processo penale, che, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, e' strumento destinato all'accertamento giudiziale dei fatti di reato e delle relative responsabilita' (cfr. Corte cost., 2 novembre 1998, n. 361). Va sul punto condiviso il rilievo del p.g.m., contenuto nella memoria scritta presentata alla presente udienza, secondo cui la violazione dell'art. 111, secondo comma, Cost., ascrivibile alla nuova formulazione dell'art. 428 c.p.p., e' duplice, palesandosi sia come vulnus arrecato al principio di parita', coram iudice, delle parti (pubblica e privata) del processo; sia come vulnus arrecato al principio di ragionevole durata dei tempi di svolgimento del processo medesimo. Invero, e' difficile non ammettere che nei procedimenti in cui e' prevista l'udienza preliminare - ossia nella totalita' dei casi, per quanto riguarda gli organi della giurisdizione militare (davanti a cui non trovano applicazione le disposizioni del Libro VIII del codice di rito sul procedimento davanti al Tribunale in composizione monocratica) -, si verifichi, a causa del riformato art. 428 c.p.p., un ingiustificato ed irragionevole «sbilanciamento» delle parti in relazione alle conseguenze del provvedimento conclusivo. Infatti, mentre per l'imputato il piu' sfavorevole degli esiti e' rappresentato dal rinvio a giudizio davanti al suo giudice naturale, ossia un atto meramente interlocutorio, per l'accusa l'eventuale pronuncia ex art. 425 c.p.p. comporta il pressoche' definitivo «affossamento» delle ragioni pubblicistiche sottese all'esercizio dell'azione penale; esercizio -si badi - non intrapreso dal requirente sulla base di una scelta discrezionale, il cui fallimento possa essere in certa misura ascritto a sua «imprudenza» professionale, ma adottato in ossequio a un preciso dovere costituzionalmente imposto. Le condizioni paritarie, di cui parla il secondo comma dell'art. 111 della Carta fondamentale, infatti, non possono non significare anche ragionevole parita' di posizioni davanti al provvedimento conclusivo della fase, da valutare in un ottica prospettica e dando il giusto significato alla non impugnabilita' del rinvio a giudizio, che e' misura di carattere interlocutorio e non preclude in alcun modo che l'imputato possa far valere in seguito le sue doglianze sul merito del provvedimento che concluda il processo di primo grado. Inoltre vale la pena di rilevare, per inciso, che l'inappellabilita' delle sentenze di non luogo a procedere incide negativamente anche sulla sfera giuridica dell'imputato, posto che nell'attuale sistema normativo non e' consentito al pubblico ministero di appellare le suddette sentenze neanche nell'interesse del soggetto sottoposto a processo penale. E cio' determina un'ulteriore incongruita' del sistema, alla luce di quanto statuito dalla recente sentenza della Corte costituzionale n. 85 del 2008 Con la sentenza n. 85 del 2008, (vedi nota 2) unitario, ma abbraccia ipotesi marcatamente eterogenee, quanto all'attitudine lesiva degli interessi morali e giuridici del prosciolto. A fianco di decisioni ampiamente liberatorie - quelle pronunciate con le formule "il fatto non sussiste'' e l'"imputato non lo ha commesso'' - detta categoria comprende, difatti, sentenze che, pur non applicando una pena, comportano - in diverse forme e gradazioni - un sostanziale riconoscimento della responsabilita' dell'imputato o, comunque, l'attribuzione del fatto all'imputato medesimo. Paradigmatiche le fattispecie oggetto dei giudizi a quibus: dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione (nel regime anteriore alla legge 5 dicembre 2005, n. 251), conseguente al riconoscimento di circostanze attenuanti; proscioglimento per cause di non punibilita' legate a condotte o accadimenti post factum; proscioglimento per concessione del perdono giudiziale; quest'ultimo, in particolare, si traduce - per conmiunis opinio - in una vera e propria affermazione di colpevolezza, non seguita dall'irrogazione della pena (peraltro con effetti preclusivi della reiterazione del beneficio: art. 169, quarto comma, cod. pen.).». che ha ripristinato la facolta' per l'imputato di appellare quelle sentenze di proscioglimento dibattimentale le quali, pur non applicando una pena, comportino - in diverse forme e gradazioni - un sostanziale riconoscimento della responsabilita' dell'imputato o, comunque, l'attribuzione del fatto all'imputato medesimo (in particolare, il proscioglimento per cause di non punibilita' legate a condotte o accadimenti post factum). L'anomalia eliminata dalla sentenza di cui sopra, infatti, continua a contrassegnare le sentenze di non luogo a procedere, tendenzialmente assoggettate ad uno statuto unitario ed indifferenziato di inappellabilita' e che possono essere emesse anche per la sussistenza di cause sopravvenute di non punibilita' o per la sussistenza di cause di estinzione del reato (sono, infatti, precluse solo nella marginale ipotesi in cui dalle medesime consegua la applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca). La sostanziale inadeguatezza del nuovo strumento di impugnazione ( ricorso per cassazione), infine, emerge non appena si consideri che esso, ancorche' contemplato dal sistema previgente, non aveva quasi mai ricevuto applicazione, in quanto poco congeniale alla quasi generalita' delle censure che venivano mosse alla sentenze di non luogo a procedere e che vedevano nell'appello il tipico e naturale strumento di impiego e reazione. Divenuta regola quella che era l'eccezione, non ci si puo' esimere dall'interrogarsi circa la congruita' costituzionale del mezzo rispetto al fine, che - come prima - non puo' che essere quello di ottenere che venga rimosso il non condiviso ostacolo all'esercizio dell'azione penale rappresentato dal proscioglimento del g.u.p. ed ottenere che la res iudicanda sia sottoposta all'esame del giudice del dibattimento. Il novellato testo dell'art. 428 c.p.p., inoltre, pur riconoscendo la facolta' di ricorrere per cassazione anche al Procuratore della Repubblica [comma 1, lett. a)] e alla persona offesa costituita parte civile (comma 2, seconda parte), tace sui provvedimenti assumibili da parte della Corte suprema, limitandosi a precisare che questa «decide (...) in camera di consiglio con le forme previste dall'art. 127» (comma 3). Nel silenzio della legge, non sembra vi sia spazio per spingersi oltre quelli che, nel sistema quo ante, venivano ritenuti i soli possibili esiti del giudizio di cassazione: il rigetto dell'impugnazione, con la consequenziale conferma tout-court della decisione; la rettifica della formula terminativa in ipotesi di proscioglimento pronunciato dal g.u.p. con una causale diversa da quella emergente dalla motivazione (cfr. Cass. pen., sez. I, 13 dicembre 4991, Sassola, in Mass. Cass. Pen., 1992, fasc. 1, 77); l'annullamento della sentenza impugnata. Unanime era, prima dell'entrata in vigore della legge n. 46 del 2006, l'opinione che escludeva la possibilita' per la Corte suprema di emettere decreto ai sensi dell'art. 429 c.p.p.; ma altrettanto deve ritenersi oggi, dal momento che appare francamente insostenibile l'ipotesi che il giudice di legittimita' possa disporre il rinvio a giudizio, provvedendo contestualmente alla formazione del fascicolo per il dibattimento: oltre tutto, tale ultima incombenza va svolta dal giudice «nel contraddittorio delle parti», e cio' mal si attaglia al rito camerale «puro» ex art. 127 c.p.p. stabilito per il giudizio di cassazione. Quindi, tralasciando qui l'eventualita' di un «ritocco» della causale del proscioglimento, l'unico esito configurabile in caso di condivisione delle ragioni dell'impugnazione del p.m. da parte del supremo Collegio e' quello di un annullamento con rinvio al giudice a quo: il quale, pur cambiato nella persona, potra' pur sempre adottare una diversa decisione liberatoria, a sua volta ricorribile per cassazione secondo una sequenza che potrebbe - in teoria - prolungarsi quasi all'infinito. Ma se grave e' la ferita cagionata all'interesse della parte-accusa - che pero' e' sempre interesse dell'ordinamento e mai del singolo p.m., che ha l'obbligo, ex art. 112 Cost., di esercitare l'azione penale - non meno grave e clamoroso e' il pregiudizio che subisce la regola, anch'essa costituzionalmente garantita (art. 111, comma 2, seconda parte) della «ragionevole durata» del processo. Non a caso, proprio con riferimento alla modifica dell'art. 428 c.p.p., nel messaggio del 20 gennaio 2006, con cui il Capo ha rinviato alle Camere il disegno di legge originario sulla inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento (poi trasformato nella legge che, in parte qua, in questa sede si contesta sotto il profilo della legittimita' costituzionale), si legge: «Un altro problema (...) e' quello che deriva dall'articolo 4 della legge, che modifica l'articolo 428 del codice di procedura penate, trasferendo dalla Corte d'appello alla Corte di cassazione l'impugnazione della sentenza di non luogo a procedere. Ne derivera' non soltanto un ulteriore aumento di lavoro per la Corte di cassazione, ma anche, in caso di mancata conferma della sentenza di non luogo a procedere, una regressione del procedimento, che ne allunghera' inevitabilmente i tempi di definizione». Sicche' appare scontata ed inevitabile la conclusione che la nuova disciplina comprometta il principio della ragionevole durata del processo e che cio' faccia in difetto di qualsivoglia ragione giustificativa. Ne deriva, di conseguenza, il ragionevole dubbio sulla costituzionalita' della medesima, posto che al principio della ragionevole durata del processo arrecano un indubbio vulnus «le norme procedurali che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorrette da alcuna logica esistenza, non essendo in altro modo definibile la durata ragionevole del processo se non in funzione della ragionevolezza degli adempimenti che ne scandiscono il corso e ne determinano i tempi» (Corte Cost., sentenza n. 148 del 12 aprile 2005 (4 aprile 2005). Sul contrasto con il principio di obbligatorieta' dell'azione penale. L'esclusione dell'appello del p.m. avverso le sentenze di non luogo a procedere appare, infine, contrastare anche con il canone costituzionale sulla obbligatorieta' dell'azione penale. La giurisprudenza costituzionale, infatti, ha esplicitamente riconosciuto nel potere di impugnazione del p.m. una delle espressioni dell'obbligo di esercizio dell'azione penale consacrato nell'articolo 112 Cost. ed affermato che non puo' ammettersi che la normativa ordinaria sia congegnata in modo tale da vanificare il complessivo assolvimento delle funzioni di accusa (Sentenze Corte cost. n. 177/71 e 98/94). L'importante principio affermato nelle citate sentenze, inoltre, non risulta essere stato completamente neutralizzato dalle successive decisioni con le quali il Giudice delle leggi ha espresso il convincimento che non vi sia una diretta e generale correlazione tra potere di impugnazione del p.m. e poteri inerenti all'esercizio dell'azione penale (cfr. Corte cost., ordinanze nn. 421/2001, 347/2002 e 165/2003). Le argomentazioni contenute in queste ultime decisioni, infatti, riguardano il diverso scenario in cui l'azione penale era gia' stata positivamente esercitata ed aveva altresi' messo capo ad una pronuncia favorevole alle ragioni dell'accusa, posto che si trattava di verificare se e quanta ragionevolezza fosse insita nella norma che impediva al p.m. di proporre appello, principale e incidentale, contro le sentenze di condanna emesse a conclusione del giudizio abbreviato; cioe' nel contesto di un rito che perseguiva evidenti obiettivi di semplificazione processuale ed in relazione ai quali poteva considerarsi appagante un epilogo comunque coincidente con le essenziali finalita' perseguite dalla pubblica accusa. Nel caso di specie, per contro, si registra la previsione di un limite oggettivo che concerne in misura diretta ed immediata proprio fatto di esercizio dell'azione penale, che non ha realizzato il divisato obiettivo del giudizio dibattimentale ed in relazione al quale si preclude la possibilita' dell'appello. Alla luce del principio di obbligatorieta' dell'azione penale, in altri termini, non si vede con quale coerenza «costituzionale» si possa, per legge ordinaria, interdire al P.M. di richiedere al superiore giudice di merito una diversa valutazione in ordine alla non superfluita' del dibattimento. E cio' soprattutto ove si consideri che la preclusione all'appello concerne una sentenza di carattere processuale, emessa nell'ambito di un giudizio essenzialmente cartolare ed in cui non ha avuto modo di esplicarsi il principio del contraddittorio nella formazione della prova. E' convincimento della Corte, pertanto, che la disciplina predisposta dal nuovo articolo 428 comporti un «salto» logico-giuridico che non trova giustificazione nel vigente assetto dei valori costituzionali. Viene rimossa, infatti, la ragionevole disciplina apprestata dal pregresso testo dell'articolo 428 c.p.p., caratterizzata dall'obbligo dell'esercizio dell'azione penale e dalla facolta' di coltivare tale obbligo pur dopo la pronuncia di non luogo a procedere del g.u.p., richiedendo alla Corte d'appello il rinvio a giudizio; ed al suo posto se ne introduce una che altera la intrinseca coerenza della complessiva normativa e sottrae all'organo di accusa uno dei fondamentali presidi di puntuale ed integrale attuazione dell'obbligo di esercitare l'azione penale, impedendogli di richiedere al giudice superiore - di merito - la rimozione del pregiudizio arrecato all'atto di esercizio dell'azione penale e la emissione di una decisione conforme alla pretesa punitiva e di diretta ed immediata estrinsecazione della medesima. (1) Con la sentenza n. 26 del 2007, la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima - per contrasto con il principio di parita' delle parti - la rimozione del potere di appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento pronunciate nel giudizio ordinario (rimozione sancita dall'art. 1 della legge n. 46 del 2006, tramite sostituzione dell'art. 593 cod. proc. pen.): rilevando come l'asimmetria di poteri fra parte pubblica e imputato che ne conseguiva - per il suo carattere radicale, generalizzato e unilaterale - non potesse trovare adeguata giustificazione nelle rationes che, alla stregua dei lavori parlamentari, si collocano alla radice della riforma (vale a dire: l'assenta impossibilita' di considerare colpevole «al di la' di ogni ragionevole dubbio» l'imputato prosciolto in primo grado; l'esigenza di dare attuazione alle previsioni di determinati atti internazionali; l'opportunita' di evitare che la sentenza di proscioglimento, emessa da un giudice che - come quello di primo grado - ha assistito alla formazione della prova nel contraddittorio fra le parti, venga ribaltata da altro giudice che - come quello di appello - basa invece la sua decisione su una prova prevalentemente scritta).Con la sentenza n. 320 del 2007, la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 2 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui, modificando l'art. 443, comma 1, cod. proc. pen., esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio abbreviato. Nella motivazione della sentenza la Corte ha osservato che «vale evidentemente, anche in rapporto alla norma oggi censurata, quanto preliminarmente osservato dalla citata sentenza n. 26 del 2007: e, cioe', che al di sotto dell'assimilazione formale delle parti - "l'imputato e il pubblico ministero non possono proporre appello contro le sentenze di proscioglimento'' (cosi' il novellato art. 443, comma 1, cod. proc. pen.) - detta norma racchiude "una dissimmetria radicale''». A differenza dell'imputato - il quale resta abilitato ad appellare le sentenze che affermino la sua responsabilita' - il pubblico ministero viene, infatti, totalmente privato del simmetrico potere di proporre doglianze di merito avverso la pronuncia che disattenda in modo integrale la pretesa punitiva. Menomazione, questa, che non puo' ritenersi compensata dall'ampliamento dei motivi del ricorso per cassazione, parallelamente operato - peraltro a favore di entrambe le parti - dall'art. 8 della stessa legge n. 46 del 2006 (modificativo dell'art. 606, comma 1, cod. proc. pen.): giacche' - quale che sia l'effettiva portata dei nuovi e piu' ampi casi del ricorso - il rimedio non attinge comunque alla pienezza del riesame di merito, consentito dall'appello. (2) la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 del codice di procedura penale, esclude che l'imputato possa appellare contro le sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, fatta eccezione per le ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova e' decisiva. Nel corpo della motivazione si e' rilevato che «la categoria delle sentenze di proscioglimento - che la riforma assoggetta ad un regime uniforme, quanto alla sottrazione all'appello dell'imputato - non costituisce un genus