IL TRIBUNALE 
    A scioglimento della riserva assunta all'udienza del 19 settembre
2008, rileva quanto segue. 
    Con ricorso depositato in data 22 settembre 2007 Pompilio  Franco
ha  esposto  e  dedotto  di  aver  lavorato  alle  dipendenze   della
Picenambiente S.p.A. sin dall'anno 2001  con  rapporti  di  lavoro  a
tempo determinato; 
        che il termine finale apposto ai contratti  stipulati  per  i
periodi 24 gennaio 2005 - 30 giugno 2005  e  5  dicembre  2005  -  31
agosto 2006 doveva considerarsi privo di effetto, a  norma  dell'art.
1, comma 2, decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, perche' non
erano  state  specificate  per  iscritto  le  ragioni  giustificative
dell'apposizione dell'elemento accidentale; 
        che anche la proroga fino al 31 ottobre  2005  del  contratto
stipulato per il periodo 24 gennaio 2005  -  30  giugno  2005  doveva
considerarsi priva di  effetto,  ai  sensi  dell'art.  4  del  citato
d.lgs., per difetto delle condizioni legittimanti; 
        che il rapporto di lavoro doveva  considerarsi  convertito  a
tempo indeterminato fin  dalla  data  della  stipula  del  primo  dei
suddetti contratti ed ancora in corso. 
    Tanto  premesso   il   ricorrente   chiedeva   la   condanna   di
Picenambiente al ripristino del rapporto di  lavoro  alle  condizioni
previste dal primo dei contratti, salvo l'esclusione del termine,  ed
al pagamento delle retribuzioni nel frattempo maturate. 
    Si costituiva la societa' convenuta, resistendo. 
    In particolare negava la inefficacia sia del termine  apposto  ai
contratti sia della proroga; e comunque si opponeva alla  conversione
a tempo indeterminato del rapporto invocando  la  applicabilita'  del
comma 1-bis dell'art.  21  del  d.l.  n.  112  del  2008,  nel  testo
convertito con modifiche dalla legge 6 agosto 2008, n. 133,  con  cui
dopo l'art. 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001,  n.  368,  e'
stato inserito l'art. 4-bis del seguente tenore: 
        «Con riferimento ai  soli  giudizi  in  corso  alla  data  di
entrata in vigore della  presente  disposizione,  e  fatte  salve  le
sentenze  passate  in  giudicato,  in  caso   di   violazione   delle
disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4 il  datore  di  lavoro  e'
tenuto unicamente a indennizzare il prestatore con una indennita'  di
importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilita'
dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai  criteri
indicati nell'art. 8 della legge 15 luglio 1966 n. 604  e  successive
modificazioni». 
    A fronte della invocazione della applicabilita' di tale norma, il
ricorrente ha insistito nell'accoglimento della propria domanda. 
    Tanto premesso, va rilevato d'ufficio che appare rilevante e  non
manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
della citata disposizione. 
    Quanto alla rilevanza, e' da evidenziare che entrambi i contratti
in esame sono privi di idonea indicazione delle ragioni specifiche  e
concrete della apposizione del termine. Anche la  proroga  del  primo
contratto e' mancante di  ragioni  oggettive  e  specifiche  indicate
nell'atto. 
    Applicando la legge vigente al momento  della  instaurazione  del
rapporto  e  della  introduzione  del  giudizio  (vedi,   giusta   la
consolidata giurisprudenza di merito  e  Cass.  21  maggio  2008,  n.
12985, il combinato disposto degli articoli  1  e  4  del  d.lgs.  n.
368/2001  e  dell'art.  1419,  secondo  comma  c.c.),   si   dovrebbe
dichiarare la conversione  del  primo  dei  contratti  a  termine  in
contratto  a  tempo  indeterminato  e  condannare  il  convenuto   al
ripristino del rapporto. 
    La entrata  in  vigore  della  legge  sopravvenuta  preclude  una
pronuncia di tal fatta. 
    Difatti l'art. 4-bis, di chiara ed univoca lettura, prevede  che,
limitatamente ai giudizi  in  corso,  in  caso  di  violazione  degli
obblighi previsti dagli artt. 1, 2 e 4 del d.lgs. n. 368 del 2001, il
datore e' tenuto solo a  corrispondere  un  indennizzo  monetario  in
favore  del  lavoratore  e  non  gia'  alla   conversione   a   tempo
indeterminato del rapporto od ad altre sanzioni. 
    E' stato sostenuto che la norma possa e debba essere disapplicata
direttamente dal giudice della  controversia  in  cui  se  ne  chiede
l'applicazione poiche' contrastante con l'ordinamento comunitario  ed
in particolare con la clausola 8  punto  3  dell'accordo  quadro  sul
lavoro a tempo determinato  («clausola  di  non  regresso»)  concluso
dall'Unice, dal Ceep e  dal  Ces  siccome  recepito  dalla  direttiva
1999/70/CE. 
    Tale clausola cosi' recita: «L'applicazione del presente  accordo
non costituisce un motivo valido per ridurre il livello  generale  di
tutela  offerto  ai  lavoratori  nell'ambito   coperto   dall'accordo
stesso». 
    E' vero che sorge il dubbio della sussistenza del contrasto. 
    Difatti la Corte di Giustizia  della  Comunita'  europea  con  la
sentenza  22  novembre  2005,  «Mangold»,  in  causa  n.  144/04,  ha
precisato che: 
        «51. L'espressione "applicazione" utilizzata senza  ulteriori
precisazioni nella  clausola  8,  punto  3  dell'accordo  quadro  non
riguarda la sola iniziale trasposizione della direttiva 1999/70 e, in
particolare, del suo allegato contenente 1'accordo quadro,  ma  copre
ogni misura nazionale intesa a garantire che  l'obiettivo  da  questa
perseguito  possa  essere  raggiunto,   comprese   le   misure   che,
successivamente alla trasposizione propriamente detta,  completano  o
modificano le norme nazionali gia' adottate. 
        52. Per contro  una  reformatio  in  peius  della  protezione
offerta ai lavoratori nel settore dei contratti a  tempo  determinato
non e', in quanto tale, vietata dall'accordo quadro quando non e'  in
alcun modo collegata con l'applicazione di questo». 
        prima della applicazione in Italia  della  direttiva  1999/70
l'art. 1, legge n.  230  del  1962  prevedeva  che  alla  illegittima
apposizione del termine conseguiva  la  conversione  in  contratto  a
tempo indeterminato; 
        la direttiva citata e l'accordo quadro allegato non prevedono
solo il divieto di discriminazione dei lavoratori a tempo determinato
e le misure di prevenzione contro gli abusi  derivanti  dall'utilizzo
di successivi rapporti a tempo determinato ne' si disinteressano  del
primo  ed  unico  contratto  successivo  ma  stabiliscono,  anche,  i
principi generali e i requisiti minimi relativi  al  lavoro  a  tempo
determinato (ossia di ogni contratto a tempo determinato  successivo)
con   l'obiettivo,   peraltro,    di    proteggere    i    lavoratori
dall'instabilita'  dell'impiego  (vedi  Corte  di   Giustizia   delle
Comunita' europee, sentenza 4 luglio  2006  «Adeneler»  in  causa  n.
212/04,  in  particolare  i  punti  da  58  a  75;  vedi  anche,   in
motivazione, Cass. 21 maggio 2008, n. 12985); 
        e' pertanto sostenibile che la  disciplina  della  protezione
offerta ai lavoratori a tempo determinato in materia di rimedi contro
la illegittima apposizione del termine rientri nell'ambito o comunque
sia in qualche modo collegata all'accordo quadro; 
        ne consegue che la reformatio in peius  di  detta  disciplina
puo' concretare la violazione dell'accordo medesimo. 
    L'opinione della disapplicazione della norma interna ad opera del
giudice della controversia non puo' pero', nel caso di specie, essere
seguita. 
    Difatti, a parte ogni altra  considerazione,  la  presente  causa
verte tra soggetti  privati,  per  cui  deve  trovare  attuazione  il
consolidato orientamento della giurisprudenza comunitaria  (vedi,  da
ultimo, la sentenza 5 ottobre  2004,  «Pfeiffer»,  cause  riunite  da
C-397/01 a C-403/01, punti 107-109;  a  tale  principio  non  deroga,
nonostante quanto potrebbe apparire ad una lettura  superficiale,  la
sentenza «Mangold» gia' citata) secondo cui, giusta  l'art.  249  Tce
(gia' art. 189), una direttiva vincola solo lo Stato cui  e'  diretta
con la conseguenza che, anche se self - executing, non  puo'  di  per
se' creare obblighi a carico di un singolo e quindi non puo'  trovare
diretta applicazione nell'ambito di una  controversia  cui  sono  del
tutto estranei gli Stati membri (c.d. inefficacia  orizzontale  della
direttiva). 
    Quanto alla  non  manifesta  infondatezza,  e'  da  anzitutto  da
ritenere che sorge il dubbio  del  contrasto  con  gli  articoli  11,
secondo periodo, e 117, primo comma della Costituzione in riferimento
alla clausola 8, punto 3, della direttiva Cee 1990/70. 
    Difatti si sono gia' esaminati i motivi del dubbio del  contrasto
fra l'art. 4-bis; d.lgs. n. 368/2001 e la clausola di  non  regresso;
la circostanza che la direttiva comunitaria 1990/70 non possa trovare
diretta applicazione nel presente giudizio non esclude che il giudice
della causa debba fare tutto cio' che gli e' possibile  per  ottenere
il risultato perseguito dalla direttiva medesima e  cosi'  assicurare
il rispetto del diritto comunitario (vedi  la  gia'  citata  sentenza
«Pfeiffer» della Corte di Giustizia, punti da 110 a l19); 
        a  tal  fine  e'   ipotizzabile   il   ricorso   alla   Corte
costituzionale  affinche'  dichiari  illegittima  la  norma   interna
perche' contrastante con le disposizioni della Carta che sottopongono
la potesta' legislativa dello Stato al rispetto dei vincoli derivanti
dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi  internazionali,  cosi'
come espressi nella specie dalla suddetta clausola di  non  regresso,
in  modo  da  far  operare  questa  norma  comunitaria  da  parametro
interposto di costituzionalita'; 
        d'altra parte la Corte  costituzionale  gia'  in  passato  ha
esaminato  nel  merito  questioni  di  legittimita'   sollevate   per
contrasto fra norma  comunitaria  non  direttamente  applicabile  dal
giudice della controversia e l'art. 11 della Costituzione  (vedi,  ad
esempio, sent. 13 giugno  2000,  n.  190)  e,  piu'  recentemente,  a
seguito  delle  modifiche   dell'art.   117,   primo   comma,   della
Costituzione, ha avuto modo di assumere  a  parametro  interposto  di
costituzionalita' norme Cedu (vedi sent. 24 ottobre 2007, n. 42). 
    Sotto  un  secondo  profilo  la  norma  sopravvenuta  appare   in
contrasto con il canone di  ragionevolezza  desumibile  dall'art.  3,
primo comma della Costituzione. 
    Trattasi, difatti, di disposizione retroattiva che interviene nei
rapporti di diritto privato sacrificando arbitrariamente  il  diritto
del lavoratore assunto illegittimamente a tempo determinato a  godere
della  tutela  garantita  dalla   legge   vigente   all'epoca   della
instaurazione del rapporto, e favorendo nel contempo il datore che ha
dato luogo alla illegittimita'. 
    Vero e' che, secondo la consolidata  giurisprudenza  del  giudice
delle leggi (vedi, tra le tante, la sentenza 7 luglio 2006, n.  274),
il  divieto  di   retroattivita'   della   legge,   pur   costituendo
fondamentale  valore  di  civilta'  giuridica  e  principio  generale
dell'ordinamento, cui il  legislatore  deve  in  linea  di  principio
attenersi, non e' stato elevato a dignita' costituzionale,  salva  la
previsione dell'art.  25  Costituzione  relativo  alla  sola  materia
penale. Tuttavia, secondo la medesima giurisprudenza, il  legislatore
ordinario puo' emanare  norme  retroattive  in  materia  diversa  dal
penale solo quando  esse  trovino  giustificazione  sul  piano  della
ragionevolezza e non si pongano in  contrasto  con  altri  valori  ed
interessi  costituzionalmente  protetti,  cosi'   da   non   incidere
arbitrariamente sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi
precedenti. 
    Nella specie la norma in esame risulta priva di  giustificazione,
ossia non ispirata da preminenti ed eccezionali ragioni di  interesse
generale. 
    Inoltre essa pregiudica, oltre che legittimi affidamenti,  valori
ed interessi costituzionalmente protetti dell'art.  4,  primo  comma,
(«La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro  e
promuove le condizioni  che  rendano  effettivo  questo  diritto»)  e
dall'art. 35 primo comma («La Repubblica tutela il lavoro in tutte le
sue forme ed applicazioni»). 
    Infine, e sotto un terzo profilo, la norma  in  questione  sembra
collidere anche con il principio di uguaglianza garantito dall'art. 3
della Costituzione. 
    Con l'art. 4-bis si viene, difatti,  a  costituire  una  evidente
disparita'  di  trattamento  fra  i  lavoratori   assunti   a   tempo
determinato in violazione delle condizioni previste dagli artt. 1,  2
e 4 d.lgs. n. 368 del 2001 che abbiano avviato una controversia prima
del 23 agosto 2008 e non l'abbiano vista ancora definita con sentenza
passata in giudicato ed i lavoratori  che,  versando  nella  identica
situazione, abbiano promosso la controversia dalla suddetta  data  in
poi. Difatti solo  i  primi  possono  ambire  alla  prosecuzione  del
rapporto di lavoro nella forma del tempo indeterminato. 
    Anzi, a ben vedere, se lo stesso lavoratore di cui alla  presente
causa, invece di instaurare il giudizio prima della entrata in vigore
della norma di cui si dubita la legittimita', lo avesse  ritardato  a
dopo, si sarebbe trovato nelle condizioni  di  conseguire  la  tutela
piu' favorevole. 
    Anche detta disparita'  di  trattamento  risulta  priva  di  ogni
idonea giustificazione. 
    Per di  piu',  pure  la  individuazione  del  dato  temporale  di
esclusione della tutela piu' favorevole per il lavoratore non  sembra
rispondere ad alcuna esigenza apprezzabile.