LA CORTE MILITARE D'APPELLO 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza nell'udienza camerale del 16
luglio 2008 celebrata in seguito all'appello proposto  dal  difensore
contro  la  sentenza  pronunciata  dal  G.u.p.  presso  il  Tribunale
militare della Spezia in data  18  dicembre  2007  nei  confronti  di
Pelagatti Andrea, nato a Parma il 12 maggio 1966, imputato del  reato
continuato di peculato  militare  e  truffa  militare  pluriaggravata
(artt. 81 cpv. c.p.; 215, 234, commi 1 e 2 e 47, n. 2 c.p.m.p.), come
in atti. 
    1. - Con sentenza pronunciata all'esito di giudizio abbreviato  e
relativa anche ad altre imputazioni, il G.u.p.  presso  il  Tribunale
militare della  Spezia  dichiarava  il  magg.  (allora  cap.)  E.  I.
Pelagatti Andrea,  in  atti  meglio  generalizzato,  responsabile  di
quattro episodi di peculato militare (art. 215 c.p.m.p.) per  essersi
appropriato delle energie lavorative di militari in  servizio  presso
il suo reparto utilizzandoli, tra il 25 maggio ed il 29 giugno  2004,
per effettuare taluni lavori di pulizia nell'alloggio  ASC  (Alloggio
di Servizio Collettivo)  avuto  in  concessione  dall'amministrazione
militare. 
    Avverso i capi della sentenza portanti la condanna  dell'imputato
proponeva appello il difensore. 
    Nel gravame si contesta,  tra  l'altro,  la  configurabilita'  in
astratto  del  peculato  di  energie  lavorative   affermandosi,   al
riguardo, che «la giurisprudenza della suprema Corte  ha  piu'  volte
escluso la possibilita' di ricondurre 1'appropriazione  di  ''energie
lavorative'' all'ipotesi di peculato ravvisando, in genere,  in  tale
condotta gli estremi del reato di abuso di ufficio (Cass. pen.,  sez.
VI, 13 maggio 1998, n. 8494; sez. VI,  27  gennaio  1994,  n.  6094),
quanto sopra sulla base dell'obiettiva  impossibilita'  di  concepire
sotto il profilo civilistico la ''detenzione'' della persona umana  e
conseguentemente la sottrazione delle relative ''energie lavorative''
». 
    Con  riferimento  a   tale   doglianza,   si   chiede   nell'atto
d'impugnazione, seppure in via subordinata rispetto  alla  principale
richiesta di assoluzione nel merito perche' il fatto non  sussiste  o
l'imputato non  l'ha  commesso,  che  la  Corte  militare  d'appello,
ravvisati gli estremi del reato di abuso di ufficio di  cui  all'art.
323 c.p., dichiari, sul punto, il proprio difetto di giurisdizione. 
    All'odierna udienza, celebrata in camera di  consiglio  ai  sensi
dell'art. 443, comma 4 c.p.p.,  il  pubblico  ministero  ha  concluso
chiedendo  la  conferma  dell'appellata  sentenza;  il  difensore  ha
chiesto l'accogliniento dei motivi di appello. 
    2. - La Corte condivide l'argomento difensivo secondo cui non  e'
configurabile il peculato di energie lavorative. 
    E' ben  vero  che  un  indirizzo  di  legittimita',  recentemente
riaffermato (Cass., sez. VI, 18 gennaio 2001, n. 352, ud. 7  novembre
2000), sostiene che il reato di peculato possa essere integrato anche
dall'appropriazione di energie lavorative, ma questo Collegio ritiene
di aderire all'orientamento contrario, in sintesi osservando che: 
        le energie umane non sono una  cosa  mobile  suscettibile  di
possesso ne' e' ammissibile il possesso della persona che le produce; 
        se si ammettesse il peculato di energie lavorative,  dovrebbe
coerentemente  ma  paradossalmente  ammettersi   che   il   personale
dipendente, qualora prestasse con  piena  consapevolezza  la  propria
indebita attivita', sarebbe concorrente nel reato di  peculato  della
propria attivita' (e lo stesso paradossale risultato si  avrebbe  nei
confronti   del   peculatore,    qualora    anch'egli    partecipasse
materialmente ai lavori per i quali  fosse  utilizzato  il  personale
dipendente); 
        il fatto che la fattispecie di peculato non  possa  avere  ad
oggetto le energie  lavorative  e'  indirettamente  dimostrato  dalla
circostanza che, nell'ambito dei lavori parlamentari sulla  legge  di
riforma dei reati contro la p.a., in  almeno  due  disegni  di  legge
venne  espressamente  prevista  la  fattispecie   di   peculato   per
sfruttamento di energie  lavorative  o  di  servizi,  che  non  venne
accolta nel testo definitivo della legge n. 86/1990; 
        si rinvengono nell'ordinamento  specifiche  disposizioni  che
vietano   l'utilizzazione   di   prestazioni    lavorative    altrui,
disposizioni  che  risulterebbero  ultronee  se  tale  tipologia   di
condotte fosse sussumibile  nelle  norme  incriminatici  di  peculato
comune o militare (si fa riferimento  all'art.  78,  della  legge  10
aprile 1981, n. 121, di riforma della Polizia di  Stato  ed  all'art.
136 c.p.m.p. che punisce l'abuso nel lavoro delle officine o di altri
laboratori militari); 
        poiche' il principio  di  legalita'  che  permea  il  diritto
penale non consente che l'individuazione del bene giuridico  tutelato
rifluisca sull'ambito di applicazione  di  una  norma  incriminatrice
ampliandolo oltre i limiti di tipicita' del  fatto  desumibili  dalla
testuale formulazione della norma stessa, non pare  condivisibile  la
tesi  che  ammette  la  configurabilita'  del  peculato  di   energie
lavorative sul rilievo che l'offensivita' del reato di  peculato  non
e' limitata all'interesse patrimoniale della pubblica amministrazione
ma ricomprende anche la violazione  dei  principi  costituzionali  di
buon andamento e  di  imparzialita'  della  pubblica  amministrazione
sanciti dall'art. 97 Costituzione. 
    3. - Escluso che le condotte ascritte all'imputato  a  titolo  di
peculato militare  possano  essere  ricondotte  a  tale  fattispecie,
ritiene il Collegio che esse non siano penalmente  irrilevanti,  come
in via principale sostiene il difensore, ma  integrino  il  reato  di
abuso di ufficio p. e p. dall'art. 323 c.p., cosi' come,  del  resto,
prospettato, seppure subordinatamente, dallo stesso appellante. 
    Sul punto si osserva, in estrema sintesi, che: a) l'imputato,  in
ragione del suo ufficio, aveva militari alle proprie  dipendenze  (v.
elenco allegato sub e) alla nota del 7 aprile 2005 del comandante  di
corpo), tra i quali quelli che,  secondo  l'accusa,  sarebbero  stati
utilizzati per i lavori nell'alloggio; b)  e'  innegabile  la  natura
pubblicistica di un'attivita'  di  disposizione  di  personale  della
pubblica amministrazione mediante, oltretutto, la  movimentazione  di
automezzi di servizio e la formazione  di  atti  pubblici  (fogli  di
marcia) che quella movimentazione registrino; c) la giurisprudenza ha
precisato che « il militare che svolge funzioni  amministrative  puo'
essere equiparato, in relazione ai poteri con  i  quali  in  concreto
svolge tale pubblica funzione, ad  un  pubblico  ufficiale  o  ad  un
incaricato di pubblico servizio» (Cass., sez. I,  sent.  8088  del  7
luglio 2000, ud. 12 giugno 2000); d)  l'utilizzazione  per  finalita'
private di personale militare dipendente contrasta con l'art. 4 della
legge 11 luglio 1978, n. 382 e con  i  doveri  propri  del  superiore
militare  enucleati  dal  Regolamento  di  disciplina  militare;   e)
l'utilizzazione di personale militare, evitando di rivolgersi ad  una
ditta privata, ha comunque comportato un vantaggio  patrimoniale  per
l'imputato, al di la' dell'entita' dei lavori effettivamente  svolti;
f) a prescindere dal profilo  economico  concernente  la  sottrazione
delle energie  lavorative,  l'amministrazione  militare  ha  comunque
subito un danno ingiusto  dal  perturbamento  del  corretto  rapporto
gerarchico. 
    4. - Una volta ritenuto che i fatti qualificati dal  G.u.p.  come
peculato p. e p. dall'art. 215 c.p.m.p. integrino, invece,  il  reato
di abuso di ufficio di cui all'art. 323 c.p., questa  Corte  dovrebbe
conseguentemente dichiarare, ai  sensi  dell'art.  103,  terzo  comma
della Costituzione (che  notoriamente  limita  la  giurisdizione  dei
tribunali militari in tempo  di  pace  soltanto  «ai  reati  militari
commessi da appartenenti alle Forze Armate»), la propria  carenza  di
giurisdizione ed ordinare la trasmissione degli  atti  al  competente
ufficio   dell'Autorita'   giudiziaria    ordinaria    (segnatamente,
Procuratore della Repubblica di Firenze) dovendosi rilevare  che,  in
base alla definizione formale di  reato  militare  secondo  l'attuale
formulazione dell'art. 37 c.p.m.p., nella parte speciale del c.p.m.p.
non e' previsto il reato di abuso di ufficio. 
    Questo giudice dubita, pero', della  legittimita'  costituzionale
del citato art. 37 c.p.m.p. proprio nella parte in cui non  qualifica
come reato militare la fattispecie  di  abuso  di  ufficio  p.  e  p.
dall'art. 323 c.p. se commessa dall'appartenente  alle  Forze  Armate
con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti allo  stato  di
militare. 
    E'  ben  vero  che  con  sentenza  n.  298  del  1995  la   Corte
costituzionale  ha  gia'  affrontato  la  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 37, comma 1 c.p.m.p., sollevata perche', per
l'appunto,  tale  norma  non  consente  ai  tribunali   militari   la
cognizione di reati previsti dalla legge penale comune, tra i  quali,
specificamente, l'abuso di ufficio, allorche' siano lesivi di beni  e
interessi propri dell'organizzazione militare. 
    In quell'occasione  il  giudice  delle  leggi,  pur  riconoscendo
«pertinente l'Osservazione, contenuta nelle ordinanze di  rimessione,
circa la mancata tipizzazione, nei termini  del  reato  militare,  di
alcuni  fatti  apparentemente  omogenei  rispetto   a   quelli   gia'
incriminati  dal  codice  penale   militare   di   pace»,   dichiaro'
inammissibile la questione rilevando che, in forza del  principio  di
stretta legalita', «spetta al legislatore sia la creazione  di  nuove
figure di reato,  sia  la  sottrazione  di  alcune  fattispecie  alla
disciplina comune per  ricondurle  in  una  disciplina  speciale  che
tuteli piu' congruamente gli interessi coinvolti». 
    Ciononostante, questo Collegio ritiene che sopravvenute modifiche
al  quadro  legislativo  ordinario  e  costituzionale  comportino  la
prospettazione in termini diversi della possibile incostituzionalita'
dell'art. 37, comma 1 c.p.m.p., in relazione agli artt. 3 e 111 della
Costituzione, nella parte in cui  non  prevede  come  reato  militare
l'abuso di ufficio p. e p. dall'art. 323 c.p. 
    5.  -  Quanto  alla  lesione  del  principio  costituzionale   di
ragionevolezza sancito dall'art. 3 della Carta, osserva  innanzitutto
questo giudice che con l'art 2, lett. c) e i) della legge 31  gennaio
2002 n. 6, di conversione del decreto-legge 1° dicembre 2001, n. 421,
recante «Disposizioni urgenti  per  la  partecipazione  di  personale
militare all'operazione multinazionale denominata Enduring  Freedom»,
il legislatore ha modificato l'art. 47 c.p.m.g.: 
        integrando la rubrica con le parole «Reato militare  ai  fini
del codice penale militare di guerra»; 
        aggiungendo i commi 2, 3 e 4 in base ai quali,  ai  fini  del
codice  penale  militare  di  guerra,  «costituisce  altresi'   reato
militare ...  ogni  altra  violazione  della  legge  penale  commessa
dall'appartenente alle Forze armate con abuso dei poteri o violazione
dei doveri inerenti allo stato di militare, o in  luogo  militare,  e
prevista come delitto contro: 1) la personalita' dello Stato;  2)  la
pubblica amministrazione; 3) 1'amministrazione  della  giustizia;  4)
1'ordine pubblico; 5) l'incolumita' pubblica; 6) la fede pubblica; 7)
la moralita' pubblica e il buon costume; 8) la persona  »  (comma  2)
nonche'  «  ogni  altra  violazione  della  legge   penale   commessa
dall'appartenente alle Forze armate in luogo militare o a  causa  del
servizio   militare,   in   offesa   del    servizio    militare    o
dell'amministrazione militare o di altro militare o  di  appartenente
alla popolazione civile che si  trova  nei  territori  di  operazioni
all'estero» (comma 3) e, infine, «ogni altra violazione  della  legge
penale, prevista quale delitto in materia di  controlli  delle  armi,
munizioni ed esplosivi e di produzione, uso e  traffico  illecito  di
sostanze stupefacenti o psicotrope, commessa  dall'appartenente  alle
Forze armate in luogo militare» (comma 4). 
    Con la modifica dell'art. 47 c.p.m.g.,  percio',  il  legislatore
espressamente qualifica come «reati  militari»  le  violazioni  della
legge penale comune e di talune leggi penali speciali che  siano,  in
concreto, direttamente lesive di interessi militari. 
    E' evidente il diverso modus operandi rispetto all'abrogato  art.
264 c.p.m.p. che, com'e' noto, nella sua  formulazione  originaria  -
poi sostituita dall'art. 8, legge 23 marzo 1956, n.  167,  con  altra
avente tutt'altro oggetto - costituiva un  meccanismo  esclusivamente
processuale  che,  prevedendo  i  cosiddetti  «reati  militarizzati»,
assicurava la giurisdizione dei tribunali militari sui reati previsti
dalle  leggi  di  reclutamento  e  su  numerosi   reati   del   c.p.,
specificamente elencati, se commessi (in certe ipotesi, anche se  gli
autori fossero stati estranei alle forze armate) in situazioni e  con
modalita' tali da concretizzare la lesione di interessi militari (per
esempio, se il fatto era stato realizzato in danno di altri  militari
o dell'amministrazione militare oppure con abuso  della  qualita'  di
militare oppure in luoghi d'interesse militare). 
    La novella dell'art. 47 c.p.m.g., invece, si muove  in  un'ottica
di diritto sostanziale e, mediante il modello di tecnica  legislativa
seguito, per  esempio,  dall'art.  56  c.p.  a  proposito  del  reato
tentato, ha creato «ai fini del codice  penale  militare  di  guerra»
tante nuove ed autonome figure  di  reato  militare  quante  sono  le
singole fattispecie oggetto  di  richiamo,  tipizzandole  con  quegli
elementi  oggettivi  o  soggettivi   che,   nella   valutazione   del
legislatore, connotano la lesivita' di interessi militari. 
    Ai fini del c.p.m.g., dunque, il reato di abuso di ufficio  p.  e
p.   dall'art.   323   c.p.   e'   reato   militare,   se    commesso
dall'appartenente alle Forze armate con abuso dei poteri o violazione
dei doveri inerenti allo stato di militare. 
    A questo punto non puo' non osservarsi che la nuova  formulazione
dell'art. 47 c.p.m.g.  non  e'  stata  introdotta  per  estendere  la
giurisdizione militare in tempo di guerra (l'art. 232, comma 1, n.  2
c.p.m.g. gia' stabiliva, in  effetti,  la  cognizione  dei  tribunali
militari di guerra per i reati preveduti dalla  legge  penale  comune
commessi da militari nei territori in stato di guerra  o  considerati
tali), bensi' per ampliare la giurisdizione dei tribunali militari in
tempo di pace nel caso di corpi di spedizione per operazioni militari
all'estero. 
    Questi ultimi, infatti ed ai sensi  dell'art.  9  c.p.m.g.,  sono
soggetti alla legge penale militare di guerra «ancorche' in tempo  di
pace»,  al  punto  che  occorre  un'espressa  deroga  normativa   per
escludere nei loro confronti l'applicazione del c.p.m.g. (ed  e'  ben
noto che nelle missioni in Iraq ed in  Afghanistan  la  legge  penale
militare di guerra ha trovato applicazione fin quando il legislatore,
con l'art. 2, comma 26, legge 4 agosto 2006, n. 247 e  con  l'art.  5
del  decreto-legge  28  agosto  2006,   n.   253,   convertito,   con
modificazioni, dalla legge 20 ottobre 2006, n. 270, ha stabilito  che
anche per il personale impegnato in  quelle  missioni  all'estero  si
applichi, come  per  le  altre  missioni  attualmente  in  corso,  il
c.p.m.p.). 
    Si perviene cosi' alla conclusione che i tribunali militari hanno
in tempo di pace cognizione sul reato militare di abuso di ufficio di
cui all'art. 323 c.p. commesso, con abuso dei poteri o violazione dei
doveri inerenti allo stato di militare, dall'appartenente ai corpi di
spedizione all'estero cui sia applicabile il c.p.m.g. 
    Qui s'innesta,  a  parere  di  questo  Collegio,  il  dubbio  che
l'attuale sistema violi l'art. 3 della  Costituzione  per  manifesta,
intrinseca irragionevolezza della normativa. 
    Non si tratta di valutare  (come  invece  imponeva  la  questione
oggetto della citata sentenza 298/1995 della Corte costituzionale) se
il reato di cui all'art. 323 c.p. possa  costituire,  in  determinate
situazioni, reato militare: a cio' ha ora dato risposta positiva,  in
termini  sostanziali,  il  legislatore  con  la  nuova   formulazione
dell'art. 47 c.p.m.g. 
    Si tratta, invece, di valutare se sia ragionevole che gli  organi
della  giustizia  militare,  per  effetto  dell'attuale  formulazione
dell'art. 37 c.p.m.p., non abbiano in tempo di pace la cognizione per
cosi' dire  «ordinaria»  del  reato  di  abuso  di  ufficio  commesso
dall'appartenente alle Forze armate con abuso dei poteri o violazione
dei doveri inerenti allo stato di militare  pur  mantenendola  per  i
fatti realizzati da appartenenti ai corpi  di  spedizione  all'estero
cui sia applicabile il c.p.m.g. 
    Il dubbio di costituzionalita' di questo  giudice  si  fonda  sul
rilievo che nella parte speciale  del  c.p.m.p.  sono  gia'  previsti
reati militari  il  cui  fatto  tipico,  in  quanto  coinvolgente  la
violazione di doveri di correttezza e di imparzialita'  del  militare
avente funzioni amministrative, potrebbe anche integrare il reato  di
abuso di ufficio. 
    Cio' si verifica - se come nel presente giudizio - e'  contestato
il peculato militare ma puo'  riscontrarsi,  per  esempio,  nel  gia'
citato reato di abuso nel lavoro delle officine o di altri laboratori
militari (art. 136 c.p.m.p.) oppure nell'abuso nell'imbarco di  merci
o passeggeri (art. 135 c.p.m.p.), nella minaccia a un  inferiore  per
costringerlo a fare un atto contrario  ai  propri  doveri  (art.  146
c.p.m.p.) e finanche nella stessa violata  consegna  aggravata  (art.
120, comma 2 c.p.m.p.), reato di cui la Corte di cassazione,  seppure
prima della legge n. 234/1997  di  riforma  dell'art.  323  c.p.,  ha
affermato il carattere speciale ed assorbente rispetto  a  quello  di
abuso di ufficio evidenziando come «la specificita'  delle  attivita'
militari, nell'ambito  di  quelle  poste  in  essere  dalla  pubblica
amministrazione, risalta con evidenza nei ''doveri di  servizio"  che
si caratterizzano  per  la  tassativita'  e  l'inderogabilita'  delle
prescrizioni dirette all'assolvimento dei compiti  istituzionali.  In
essi   le   prescrizioni   prefigurano   le   prestazioni    ritenute
indispensabili e l'azione offensiva assume, rispetto  alla  norma  di
cui all'art. 323 cod. pen. , una maggiore intensita'  ed  espressione
specifica per la violazione della disciplina militare»  (Cass.,  sez.
VI, sent. 6628 del 9 luglio 1997, ud. 1 aprile 1997). 
    In sostanza, in piu' situazioni gli organi di giustizia  militare
giudicano in tempo di pace di  un  «fatto»  che  e'  anche  abuso  di
ufficio e il reato di  cui  all'art.  323  c.p.,  avente  «permanente
carattere sussidiario anche dopo la riforma effettuata con  legge  16
luglio 1997, n. 234» (Cass., sez. VI, sent. 9387 del 22 luglio  1999,
ud.  28  aprile  1999)  e'  recessivo  in  virtu'  del  principio  di
specialita' oltre che per effetto della clausola di riserva  espressa
«Salvo che il fatto non costituisca un piu'  grave  reato»  contenuta
nell'art. 323 c.p. 
    Se, pero', il «fatto» di abuso di ufficio (ovviamente, sempre  se
commesso dal militare con abuso dei poteri o  violazione  dei  doveri
inerenti al suo stato) si presenta nella sua  forma  per  cosi'  dire
generica, gli organi di giustizia militare perdono, in base  all'art.
37 c.p.m.p., la loro giurisdizione a meno che quello  stesso  «fatto»
non sia  stato  commesso  dall'appartenente  a  corpi  di  spedizione
all'estero cui sia applicabile il c.p.m.g. 
    Si tratta, a parere del Collegio, di una ripartizione  totalmente
irragionevole  che  ribalta  la  logica  stessa  del   principio   di
specialita', per cui, in definitiva, il citato art.  37  c.p.m.p.  si
prospetta in contrasto con l'art. 3 della Costituzione nella parte in
cui non prevede, come reato militare, il reato di abuso di ufficio di
cui all'art. 323 c.p. commesso dall'appartenente  alle  Forze  armate
con abuso dei poteri o violazione  dei  doveri  inerenti  allo  stato
militare. 
    6. - Ritiene peraltro questo giudice che  la  mancata  previsione
del reato di abuso di  ufficio  come  reato  militare,  ove  commesso
dall'appartenente alle Forze armate con abuso dei poteri o violazione
dei  doveri  inerenti  allo  stato  militare,  concretizzi  anche  la
violazione dell'art. 111, secondo comma della  Costituzione,  laddove
la norma costituzionale, in evidente collegamento  con  il  principio
stabilito dall'art. 6, comma 1 della Convenzione per la  salvaguardia
dei  diritti  dell'uomo,  stabilisce  che  la  legge  «assicura»   la
ragionevole durata del processo. 
    La lamentata mancanza, infatti, comporta che il giudice militare,
competente, in tempo di pace, a giudicare  del  fatto  «abusivo»  che
abbia caratteristiche aggiuntive e specializzanti rispetto  a  quello
tipizzato dall'art. 323 c.p. (nel caso  in  esame,  per  esempio,  il
fatto e' contestato all'imputato a titolo di peculato militare),  non
possa procedere, ai sensi dell'art. 521, comma 1 c.p.p., alla diversa
definizione giuridica del fatto  nell'ambito  della  residuale  norma
incriminatrice di abuso di ufficio qualora, come  nella  fattispecie,
si ritenga  che  difettino  gli  elementi  specializzanti  ipotizzati
dall'accusa. 
    Ne  risulta,  secondo  il  Collegio,  un  meccanismo  nel  quale,
irrazionalmente, il meno non sta nel piu' e per  effetto  del  quale,
conseguentemente,  si  verifica  un'irragionevole   regressione   del
processo alla fase  delle  indagini  preliminari  presso  il  giudice
ordinario, con evidente allungamento dei tempi. 
    E l'irragionevolezza appare a  questo  giudice  accentuata  dalla
circostanza che, per quanto detto in precedenza, in virtu'  dell'art.
47 c.p.m.g.  il  giudice  militare  potrebbe  effettuare  la  diversa
qualificazione, quand'anche in tempo di pace, se il fatto abusivo  da
derubricare fosse contestato ad un militare appartenente ad un  corpo
di spedizione all'estero cui fosse applicabile il c.p.m.g. 
    D'altra parte, ritiene il Collegio che l'effetto  dilatatore  dei
tempi del giudizio non possa essere giustificato  da  un  irrazionale
riparto  della  giurisdizione  perche'  anche  tale  riparto  rientra
nell'obbligo  che  grava  sugli  Stati  «di  organizzare  il  sistema
giudiziario in modo tale che i tribunali possano soddisfare  tutti  i
requisiti del processo giusto» (dec. 30 ottobre 2003 Corte eur.  dir.
uomo). 
    Per le suesposte ragioni, dunque, l'art. 37 c.p.m.p. si prospetta
in contrasto con l'art. 111 della Costituzione nella parte in cui non
prevede come reato militare, il reato di  abuso  di  ufficio  di  cui
all'art. 323 c.p. commesso dall'appartenente alle  Forze  armate  con
abuso  dei  poteri  o  violazione  dei  doveri  inerenti  allo  stato
militare. 
    7. - Ritiene da ultimo il Collegio che  l'eventuale  accoglimento
della  questione  di  costituzionalita'  dell'art.  37  c.p.m.p.  nei
termini suindicati non avrebbe effetti in malam partem nei  confronti
dell'imputato. 
    Sul piano sostanziale,  la  disciplina  dei  «reati  militari  in
generale» contenuta nei c.p.m.p.  e'  parzialmente  differenziata  ma
certamente non piu' rigorosa rispetto  a  quella  dei  reati  comuni,
soprattutto dopo che  con  la  sentenza  284  del  1995  della  Corte
costituzionale  si  e'  affermata  l'applicabilita'  anche  ai  reati
militari delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi. 
    Le norme di favore contenute nel c.p. sono, infatti,  applicabili
in virtu' dell'art. 16 c.p.; le circostanze che, ai  sensi  dell'art.
47 c.p.m.p., aggravano il reato militare sono ampiamente  compensate,
in  termini  di  valutazione  d'insieme  sulla  maggiore   o   minore
afflittivita'  della  normativa,  dalle  circostanze  che,  ai  sensi
dell'art.  48   c.p.m.p.,   attenuano   il   reato;   le   cause   di
giustificazione hanno una disciplina  ormai  pressoche'  analoga;  il
limite di  pena  in  relazione  al  quale  puo'  essere  concesso  il
beneficio della non menzione della condanna e'  elevato  a  tre  anni
(art. 70 c.p.m.p.). 
    Sul piano processuale, nel processo  penale  militare  e'  sempre
prevista l'udienza preliminare e tale passaggio, che costituisce  una
maggior  garanzia  per  l'imputato,  sarebbe  celebrato   anche   per
un'accusa di abuso di ufficio, diversamente  da  quanto  avviene  nel
processo ordinario. 
    8. - La questione prospettata risulta di evidente  rilevanza  nel
presente  processo  perche',  ove  fosse  accolta,   questo   giudice
manterrebbe  la   giurisdizione   sui   fatti   contestati,   benche'
derubricati in abuso di ufficio.