Sentenza 
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'articolo  12,  comma
1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico  delle
disposizioni concernenti  la  disciplina  dell'immigrazione  e  norme
sulla condizione dello  straniero),  come  sostituito  dall'art.  11,
comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla  normativa
in materia di immigrazione e di asilo), promosso con ordinanza del 17
marzo 2008 dal G.U.P. del Tribunale di Torino nel procedimento penale
a carico di M.I., iscritta al n. 253 del registro  ordinanze  2008  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, 1ª  serie
speciale, dell'anno 2008. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    Udito nella Camera di consiglio del 3 dicembre  2008  il  giudice
relatore Maria Rita Saulle. 
                          Ritenuto in fatto 
    1. -  Con  ordinanza  emessa  il  17  marzo  2008,   il   Giudice
dell'udienza preliminare del Tribunale di  Torino  ha  sollevato,  in
riferimento agli artt. 25 e 35,  quarto  comma,  della  Costituzione,
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 12, comma  1,  del
decreto legislativo  25  luglio  1998,  n.  286  (Testo  unico  delle
disposizioni concernenti  la  disciplina  dell'immigrazione  e  norme
sulla condizione dello  straniero),  come  sostituito  dall'art.  11,
comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla  normativa
in materia di immigrazione e di asilo), nella parte in cui  sottopone
a pena chiunque compia «atti diretti a procurare l'ingresso  illegale
in altro Stato del quale la persona non e' cittadina o non ha  titolo
di residenza permanente». 
    Il rimettente - investito della richiesta di rinvio a giudizio di
una  persona  imputata,  in  concorso  con  altre,   del   reato   di
favoreggiamento della migrazione clandestina previsto  dall'art.  12,
comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 - premette che nella condotta del
giudicabile dovrebbe ravvisarsi, in realta', il meno grave delitto di
cui alla seconda parte del comma 1 del medesimo articolo. 
    Alla stregua delle risultanze processuali, difatti, l'imputato si
sarebbe limitato a favorire, una tantum, l'emigrazione clandestina di
alcuni conoscenti verso  l'Inghilterra,  prendendo  contatto  con  un
gruppo di «passeurs» ed accompagnando indi gli interessati nel  luogo
convenuto affinche' potessero salire clandestinamente  su  un  treno.
Inoltre non risulta che lo stesso abbia percepito  denaro  in  cambio
dell'aiuto prestato. Quanto alle persone  favorite,  esse  non  erano
state, a loro volta, identificate e si sapeva soltanto  che  la  loro
prima   destinazione   sarebbe   dovuta   essere   l'Inghilterra   in
considerazione del mezzo di trasporto utilizzato. 
    Mancherebbero, dunque,  i  presupposti  per  la  configurabilita'
della fattispecie  «qualificata»  di  favoreggiamento,  prevista  dal
comma 3 dell'art. 12 del d.lgs. n. 286  del  1998:  fattispecie,  che
avrebbe natura di reato autonomo e non di circostanza aggravante  del
delitto delineato dal comma 1. Trattandosi di  aiuto  all'emigrazione
prestato individualmente, in modo occasionale e senza fine di  lucro,
esso integrerebbe il reato di  favoreggiamento  «semplice»  descritto
dal citato comma 1, che - nel testo sostituito dall'art. 11, comma 1,
della legge n. 189 del 2002 (applicabile  nella  specie,  essendo  il
fatto del marzo 2003) - punisce chi compie «atti diretti a  procurare
l'ingresso illegale in altro  Stato  del  quale  la  persona  non  e'
cittadina o non ha titolo di residenza permanente». 
    Avuto riguardo, poi, all'ordinanza  n.  445  del  2004,  con  cui
questa Corte - gia' investita della  questione  di  costituzionalita'
nel medesimo giudizio principale - ha disposto la restituzione  degli
atti al rimettente per ius superveniens, il  giudice  a  quo  rimarca
come la rilevanza del quesito non sia venuta meno per  effetto  della
sopravvenuta modifica dell'art.  12  del  d.lgs.  n.  286  del  1998,
operata dall'art. 1-ter del decreto-legge 14 settembre 2004,  n.  241
(Disposizioni urgenti in materia di  immigrazione),  convertito,  con
modificazioni, nella legge 12 novembre 2004, n. 271. A seguito  della
novella, la commissione del fatto da parte di «tre o piu' persone  in
concorso tra loro o utilizzando servizi internazionali  di  trasporto
ovvero documenti contraffatti  o  alterati  o  comunque  illegalmente
ottenuti»  non  costituisce  piu' -  come  in  precedenza -  elemento
costitutivo della fattispecie di cui al  comma  3  dell'art.  12,  ma
circostanza aggravante riferibile ad entrambe le  ipotesi  criminose:
tanto, cioe', al favoreggiamento  «semplice»  (comma  1),  quanto  al
favoreggiamento «a scopo di profitto» (comma 3). La  struttura  della
norma incriminatrice applicabile nel caso di specie (quella del comma
1)  sarebbe  rimasta,  dunque,   inalterata:   cio'   a   prescindere
dall'avvenuto inasprimento della pena edittale,  comunque  inoperante
nel giudizio a quo, trattandosi di  modifica  sfavorevole  successiva
alla commissione del reato. 
    Quanto  alla  non  manifesta  infondatezza  della  questione,  il
rimettente osserva che  l'incriminazione  del  favoreggiamento  della
migrazione  illegale  verso  l'estero -  non  contemplata  nel  testo
originario dell'art. 12 - e' stata introdotta dalla legge n. 189  del
2002, in aggiunta  a  quella  per  favoreggiamento  dell'immigrazione
illegale in Italia, al  fine  di  colmare  un  vuoto  normativo,  che
impediva di reprimere, ex se, l'attivita' di «gestione» del  traffico
dei migranti clandestini nel territorio nazionale, nel  caso  in  cui
questa non  comportasse  il  favoreggiamento  dell'ingresso  o  della
permanenza illegale degli stranieri in Italia. 
    Tale attivita' - di «gestione» del  traffico  dei  migranti -  e'
stata, di contro, ritenuta meritevole  di  sanzione  penale,  perche'
potenzialmente pericolosa per l'ordine  pubblico  ed  espressiva  del
fenomeno dello sfruttamento della migrazione clandestina. 
    A tale scopo, la seconda parte del comma 1 dell'art. 12  delinea,
peraltro, un reato «a soglia di  tutela  anticipata»  e  «a  condotta
libera», connotato - secondo il rimettente -  da  un  unico  elemento
«tipizzante»,  ossia  dal   requisito   di   «illiceita'   speciale»,
costituito dalla «illegalita» dell'ingresso nello Stato estero.  Solo
tale «illegalita» renderebbe, infatti, antigiuridica una condotta che
altrimenti si risolverebbe nella mera agevolazione dell'esercizio  di
un «diritto della persona», quale quello di emigrare  dal  territorio
italiano verso altri Stati. 
    A differenza, tuttavia, di quanto avviene per il  favoreggiamento
dell'immigrazione, rispetto al  favoreggiamento  dell'emigrazione  il
carattere della «illegalita» andrebbe stabilito  facendo  riferimento
non gia' alle disposizioni del  d.lgs.  n.  286  del  1998,  ma  alla
normativa del Paese estero di destinazione del migrante, ammesso  che
tale Paese sia individuabile con certezza: circostanza, quest'ultima,
per nulla «scontata», stante la struttura della norma incriminatrice,
la  quale  punisce  anche  i  semplici  «atti  diretti»  a  procurare
l'ingresso  in   altro   Stato,   indipendentemente   dal   risultato
conseguibile. 
    La norma  suddetta  potrebbe  definirsi  come  norma  penale  «in
bianco», il cui precetto si ricava mediante il rinvio  ad  una  legge
straniera: e cio' in violazione tanto della riserva di legge  sancita
dall'art.  25  Cost.,  quanto  del  principio   di   tassativita'   e
determinatezza delle norme incriminatrici. 
    Ad avviso del rimettente,  la  carenza  di  determinatezza  della
fattispecie criminosa de qua non  potrebbe  essere  «sanata»  neppure
valorizzando  le  modalita'  concrete  della  condotta,   e,   cioe',
ritenendo  che  la  norma  punisca  l'agevolazione  a   lasciare   il
territorio nazionale  con  modalita'  «clandestine».  Tale  soluzione
interpretativa porterebbe, difatti, ad una «pericolosa confusione  di
piani», posto che l'emigrazione in condizione di «illegalita» - vista
nell'ottica della legge italiana, e dunque, in  pratica,  riferita  a
chi si  trova  in  Italia  come  clandestino -  non  e'  destinata  a
sfociare, sempre e comunque,  in  una  situazione  di  clandestinita'
rispetto a qualunque Paese straniero:  cio'  in  quanto  il  migrante
potrebbe appartenere ad una delle categorie di persone cui  lo  Stato
di destinazione consente l'acquisizione di  un  titolo  di  residenza
permanente (minori, richiedenti asilo, coniugi o parenti di cittadini
del  Paese  estero  di  destinazione).  Cosi'  intesa,   dunque,   la
fattispecie criminosa - che si configura come  reato  a  consumazione
anticipata - finirebbe per colpire una «illegalita»  solo  futura  ed
eventuale. 
    Lo status di clandestino in Italia comporterebbe che non  vengano
utilizzati, ove necessari, documenti validi per l'espatrio: sicche' -
nell'anzidetta prospettiva ermeneutica - qualsiasi  atto  diretto  ad
agevolare  l'emigrazione  di  chi  non  si  trovi  regolarmente   sul
territorio  italiano  risulterebbe  passibile  di  sanzione   penale,
persino ove miri a permettere al soggetto favorito di  rientrare  nel
Paese d'origine senza doversi «autodenunciare» come clandestino,  ove
il rimpatrio non possa avvenire  se  non  attraversando  altri  Stati
esteri. 
    Proprio   per   evitare   tale   risultato   «paradossale»,    la
giurisprudenza di legittimita' sarebbe stata «costretta» - secondo il
rimettente - a  «singolari  oscillazioni»  nelle  prime  applicazioni
della nuova disciplina. In talune  pronunce,  infatti,  la  Corte  di
cassazione ha escluso la configurabilita' del reato quando l'ingresso
nello Stato straniero, oggetto di agevolazione, abbia carattere  solo
momentaneo o provvisorio. In altre decisioni, al contrario, la stessa
Corte ha ritenuto irrilevante che detto  ingresso  fosse  finalizzato
all'attraversamento del territorio dello Stato estero per raggiungere
il  Paese  d'origine:  e  cio'  in  base  alla  considerazione   che,
diversamente opinando, l'integrazione del reato per il favoreggiatore
verrebbe a dipendere dalle «dichiarazioni di  intenti»  del  soggetto
favorito, senza che vi  sia  modo  di  controllare  ne'  la  serieta'
dell'intenzione dichiarata, ne' la sua effettiva realizzazione. 
    A parere del giudice a quo, la  giurisprudenza  piu'  recente  si
sarebbe peraltro  orientata -  tanto  in  rapporto  alla  fattispecie
«semplice» di cui al comma 1 dell'art. 12, che a quella «qualificata»
del comma 3 - proprio nel senso di far dipendere la  configurabilita'
del reato dalle «dichiarazioni di intenti» del migrante circa la  sua
destinazione finale e dal «tasso di affidabilita» di queste ultime. 
    Le operazioni ermeneutiche ora ricordate renderebbero,  peraltro,
ancor  piu'  evidente  la  denunciata  lesione   del   principio   di
determinatezza, rivelando come la norma censurata sia suscettibile di
generare «pericolosi divari interpretativi»,  legati  non  gia'  alla
valutazione della condotta  del  soggetto  agente,  ma  alla  vicenda
concreta del  soggetto  favorito;  situazione,  questa,  da  ritenere
«inaccettabile» sul piano del rispetto del  principio  costituzionale
in parola. 
    Sempre per il giudice a quo, la norma impugnata  si  porrebbe  in
contrasto con l'art. 35, quarto comma,  Cost.,  che  riconosce,  come
diritto della persona, la liberta' di emigrazione. Se pure,  infatti,
il precetto  costituzionale  contiene  una  «riserva  di  legge»,  la
compressione dell'anzidetto diritto - compressione  che  verrebbe  di
fatto  attuata,  allorche'  si   punisce   l'agevolatore -   dovrebbe
ritenersi consentita solo  in  presenza  di  condizioni  eccezionali,
collegate a situazioni di  pericolosita'  o  ad  esigenze  di  tutela
dell'ordine pubblico, non ravvisabili in  rapporto  alla  fattispecie
oggetto di censura. 
    2. -  E'  intervenuto  nel  giudizio  di   costituzionalita'   il
Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia
dichiarata manifestamente infondata. 
    Quanto all'asserita violazione  dell'art.  25  Cost.,  la  difesa
erariale assume che il  requisito  di  illegalita'  dell'emigrazione,
richiesto dalla  disposizione  denunciata,  troverebbe,  in  realta',
«piena e puntuale disciplina» nella normativa regolamentare -  comune
ai Paesi interessati - concernente il «visto uniforme», istituito, ai
fini della circolazione delle  persone  nel  territorio  dell'insieme
delle Parti contraenti, dalla Convenzione  del  19  giugno  1990,  di
applicazione dell'Accordo di Schengen del 14 giugno 1985,  ratificata
e resa esecutiva in Italia con la legge 30 settembre 1993, n. 388. 
    Un problema di costituzionalita' della norma - sotto  il  profilo
del rinvio «in bianco» a discipline straniere, in ipotesi ignote agli
organi giurisdizionali,  oltre  che  ai  destinatari  delle  stesse -
potrebbe porsi,  secondo  l'Avvocatura  generale  dello  Stato,  solo
rispetto ai Paesi non appartenenti all'«Area Schengen» e per i  quali
manchino, altresi', convenzioni o accordi internazionali  ratificati,
relativi all'ingresso di cittadini degli Stati  contraenti:  ipotesi,
queste, che non verrebbero peraltro in rilievo nel giudizio a quo. 
    Quanto, poi, alla pretesa  compromissione  dell'art.  35,  quarto
comma,  Cost.,   sarebbe   sufficiente   osservare   che   la   norma
incriminatrice in esame concerne la tematica dell'immigrazione, e non
quella dell'emigrazione, avendo riguardo ad ipotesi nelle  quali  «lo
Stato italiano funga da tramite, o da ponte»,  rispetto  «a  fenomeni
migratori da e per Stati esteri». 
                       Considerato in diritto 
    1. - Il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di  Torino
dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 12, comma  1,  del
decreto legislativo  25  luglio  1998,  n.  286  (Testo  unico  delle
disposizioni concernenti  la  disciplina  dell'immigrazione  e  norme
sulla condizione dello  straniero),  come  sostituito  dall'art.  11,
comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla  normativa
in materia di immigrazione e di asilo), nella parte  in  cui  punisce
chi «compie atti diretti a procurare  l'ingresso  illegale  in  altro
Stato del quale la persona non  e'  cittadina  o  non  ha  titolo  di
residenza permanente». 
    La disposizione censurata violerebbe, in primo luogo,  l'art.  25
della Costituzione, in rapporto tanto al principio della  riserva  di
legge  in  materia  penale  che  a  quello   della   tassativita'   e
determinatezza  delle  norme   incriminatrici.   Essa   delineerebbe,
difatti, un reato «a condotta libera», avente, quale  unico  elemento
«tipizzante», il requisito  di  «illiceita'  speciale»  rappresentato
dalla illegalita' dell'ingresso in altro Stato del soggetto favorito:
illegalita', che dovrebbe essere peraltro stabilita, non in base alla
legge italiana, ma alla normativa dello Stato estero di  destinazione
del migrante da questa richiamata, spesso neppure  individuabile  con
certezza, stante la configurazione della fattispecie come  delitto  a
consumazione anticipata, che punisce  i  semplici  «atti  diretti»  a
procurare l'emigrazione, a prescindere  dall'eventuale  conseguimento
dell'obiettivo. 
    La norma impugnata lederebbe, altresi', l'art. 35, quarto  comma,
Cost., in quanto limiterebbe il diritto all'emigrazione a prescindere
da esigenze  di  tutela  dell'ordine  pubblico  o  da  situazioni  di
pericolosita':  esigenze  e  situazioni,  in  presenza  delle   quali
soltanto la compressione  del  suddetto  diritto  potrebbe  ritenersi
consentita. 
    2. - La questione non e' fondata. 
    3. - Quanto  alla  dedotta  violazione  dell'art.  25  Cost.,  il
rimettente muove da un presupposto in se' corretto: e, cioe', che  la
disposizione sottoposta a scrutinio postuli valutazioni giuridiche da
operare alla stregua di norme extranazionali. 
    Appare, in effetti, indubitabile che - al di la' del  preliminare
riferimento, contenuto nell'art. 12, comma 1, del d.lgs. n.  286  del
1998, alla «violazione delle disposizioni del presente testo unico» -
l'illegalita' dell'ingresso  in  altro  Stato  vada  verificata  alla
stregua della disciplina dello Stato  in  cui  il  soggetto  favorito
intende recarsi e non gia' della normativa interna. 
    La conclusione  e'  puntualmente  confermata  dalle  disposizioni
comunitarie   e   dalle   convenzioni   internazionali   alle   quali
l'incriminazione del favoreggiamento dell'emigrazione illegale  verso
l'estero si presenta connessa, in quanto fonti  di  obblighi  per  lo
Stato italiano di repressione del  fenomeno  considerato.  Cosi',  in
particolare, l'art. 1,  paragrafo  1,  lettera  a),  della  direttiva
2002/90/CE del 28 novembre 2002  (Direttiva  del  Consiglio  volta  a
definire  il  favoreggiamento  dell'ingresso,  del  transito  e   del
soggiorno illegali)  stabilisce -  sulla  falsariga,  in  parte  qua,
dell'art. 27, paragrafo 1,  della  Convenzione  di  Schengen  del  19
giugno 1990 (abrogato dall'art. 5 della citata direttiva) -  che  gli
Stati membri debbano adottare «sanzioni appropriate» nei confronti di
chiunque intenzionalmente aiuti una persona, che non sia cittadino di
uno Stato membro, ad entrare o a transitare  nel  territorio  di  uno
Stato membro  «in  violazione  della  legislazione  di  detto  Stato»
relativa all'ingresso o al transito degli stranieri. 
    Analogamente, l'art. 3, lettera b),  del  Protocollo  addizionale
alla Convenzione delle Nazioni Unite contro  il  crimine  organizzato
transnazionale  al  fine  di  combattere  il  traffico  illecito  dei
migranti  per   via   terrestre,   marittima   ed   aerea,   adottata
dall'Assemblea generale  il  15  novembre  2000,  ratificata  e  resa
esecutiva con legge 16 marzo 2006, n. 146, prevede che per  «ingresso
illegale» di una persona in uno Stato parte, di cui la persona stessa
non e' cittadina o residente permanente - il cui favoreggiamento  gli
Stati parte si impegnano a prevedere come reato,  nei  casi  indicati
dall'art. 6 - debba intendersi «il varcare i confini senza soddisfare
i  requisiti  necessari  per  l'ingresso  legale   nello   Stato   di
accoglienza». 
    Puo' aggiungersi che, nella  norma  incriminatrice  sottoposta  a
scrutinio, il riferimento alla normativa estera e' insito anche negli
elementi negativi della fattispecie, per i  quali  lo  straniero  non
deve essere cittadino dello  Stato  di  destinazione,  ne'  avere  un
«titolo di residenza permanente» in tale Stato: giacche'  anche  tali
condizioni  debbono  essere  accertate  alla  luce  della  disciplina
straniera. 
    4. - Prendendo le mosse dalla considerazione  ora  ricordata,  il
rimettente  deduce  la  violazione  di  due  principi,  riconducibili
entrambi al disposto  dell'art.  25,  secondo  comma,  Cost.,  ma  di
valenza ben diversa: da un lato, quello della  riserva  di  legge  in
materia penale (che attiene al sistema delle fonti); dall'altro lato,
quello di determinazione della  norma  incriminatrice  (che  attiene,
invece, alle modalita' di descrizione del fatto incriminato). 
    Con  riguardo  al  primo  dei  due  principi,  si  deve  peraltro
osservare che la riserva di legge in materia penale non  esclude  che
il legislatore possa inserire nella descrizione del fatto incriminato
il riferimento ad elementi «esterni» al  precetto  penale  aventi  il
carattere della «normativita» - i cosiddetti elementi  normativi  del
fatto - postulando, quindi, una integrazione «eteronoma» della  norma
incriminatrice.  Siffatta  integrazione  e'  sovente   insita   nelle
cosiddette clausole di illiceita' speciale, le quali - come nel  caso
in esame - subordinino la reazione  punitiva  al  carattere  abusivo,
indebito o illegale di una determinata condotta. 
    Gli elementi e le clausole in questione, per altro verso, possono
implicare non soltanto un richiamo di  altre  disposizioni  di  legge
statale (interna) o di atti equiparati, ovvero di fonti diverse,  pur
sempre interne, quali leggi regionali (le quali, peraltro come  tali,
non possono essere fonti di diritto penale: ad  esempio,  in  materia
urbanistica), regolamenti o altri atti di normazione  secondaria,  ma
anche, eventualmente, di norme di ordinamenti stranieri. 
    Ovviamente, tale integrazione «eteronoma» del precetto penale non
e' senza limiti.  Con  particolare  riferimento  ai  casi  nei  quali
l'elemento di «riempimento» del precetto  e'  fornito  da  una  fonte
(interna) di rango secondario o da un  provvedimento  dell'autorita',
la  giurisprudenza  di  questa  Corte  e',  in  effetti,   da   tempo
consolidata nel senso che la violazione del  principio  di  legalita'
deve essere esclusa ove  si  rinvenga  nella  legge  una  sufficiente
specificazione dei presupposti, dei caratteri, del  contenuto  e  dei
limiti  dei  provvedimenti  dell'autorita'  non   legislativa,   alla
trasgressione dei quali deve seguire la pena (ex  plurimis,  sentenze
n. 292 del 2002, n. 333 del 1991 e n. 282 del 1990). 
    Rispetto alla ipotesi che qui  interessa -  nella  quale  e'  una
normativa extranazionale a concorrere all'identificazione e a fornire
la base  di  valutazione  della  condotta  penalmente  repressa -  le
conclusioni cui si perviene implicano che ai fini del rispetto  della
riserva di legge in materia  penale,  da  un  lato,  deve  essere  il
legislatore nazionale ad  individuare,  e  in  termini  di  immediata
percepibilita', il «nucleo di disvalore» della condotta  incriminata,
che giustifica la reazione  punitiva;  e,  dall'altro  lato,  debbono
risultare adeguatamente identificate le norme straniere  chiamate  ad
integrare il precetto. 
    Tali  condizioni  debbono  ritenersi  rispettate  nel  caso   che
interessa. Per un verso, infatti, e' chiaro quale tipo  di  attivita'
il   legislatore   nazionale   intenda   reprimere   (favoreggiamento
dell'ingresso contra ius di un soggetto in altro Stato); per un altro
verso,  risulta  adeguata  l'identificazione  della   disciplina   di
riferimento, tenuto conto anche del fatto  che  l'ingresso  in  altro
Stato e'  attivita'  istituzionalmente  oggetto  di  regolamentazione
normativa. 
    Ritenere il contrario, significherebbe d'altronde escludere  ogni
possibilita' di intervento del legislatore penale nella lotta  contro
un fenomeno quale il favoreggiamento dell'emigrazione  illegale,  che
pure forma  oggetto -  come  in  precedenza  ricordato -  di  precisi
obblighi di cooperazione internazionale, per i plurimi interessi  che
esso lede o pone in pericolo e per il rilevante allarme  sociale  che
esso genera: e  cio'  in  quanto,  stante  il  carattere  tipicamente
transazionale  del  fenomeno  stesso,  non   appaiono   configurabili
ragionevoli alternative a quella adottata, in parte qua, dalla  norma
sottoposta a scrutinio. 
    5. - Quanto, poi, alla asserita compromissione del  principio  di
determinatezza - al  quale  si  riferiscono,  in  effetti,  in  larga
prevalenza le censure del giudice a quo - questa Corte ha avuto  modo
di affermare come esso risponda a due fondamentali obiettivi: per  un
verso, quello di evitare che, in contrasto  con  il  principio  della
divisione dei poteri e con la riserva assoluta di  legge  in  materia
penale, il giudice assuma un ruolo creativo, individuando,  in  luogo
del legislatore, i confini tra il lecito e l'illecito; e,  per  altro
verso, quello di garantire la libera autodeterminazione  individuale,
permettendo al destinatario della norma penale di apprezzare a priori
le conseguenze giuridico-penali della propria condotta  (sentenza  n.
327 del 2008). 
    In questa prospettiva,  l'inclusione  nella  formula  descrittiva
dell'illecito di clausole generali o concetti elastici  non  comporta
un vulnus del parametro costituzionale evocato quando la  descrizione
complessiva del fatto  incriminato  consenta  comunque  al  giudice -
avuto riguardo alle finalita' perseguite  dall'incriminazione  ed  al
piu' ampio  contesto  ordinamentale  in  cui  essa  si  colloca -  di
stabilire il significato di  tale  elemento,  mediante  un'operazione
interpretativa non esorbitante dall'ordinario compito a lui affidato;
e, correlativamente, permetta al destinatario della  norma  di  avere
una percezione sufficientemente  chiara  ed  immediata  del  relativo
valore precettivo (sentenza n. 5 del 2004). 
    Alla  luce  di  cio',  nell'ipotesi  in  esame  il  principio  di
determinatezza non puo' ritenersi compromesso. Quale sia la  condotta
repressa  dalla  norma   denunciata   e',   infatti,   immediatamente
percepibile: si intende colpire - indipendentemente dal conseguimento
dell'obiettivo - chi agevoli in qualunque modo  un'altra  persona  (a
prescindere dalla regolarita' o meno della sua presenza in Italia)  a
varcare i confini di altro Stato in violazione delle  norme  di  tale
Stato che regolano l'ingresso degli stranieri nel proprio territorio. 
    L'eventualita' - cui  accenna  il  rimettente -  che,  stante  la
configurazione  della  fattispecie  come   delitto   a   consumazione
anticipata, lo Stato di destinazione  del  migrante  clandestino  non
risulti individuabile con certezza, rappresenta  una  difficolta'  di
mero fatto nell'applicazione della norma. In effetti, ove persistesse
un insuperabile dubbio sulla identificazione di detto  Stato  e,  con
essa, sul carattere illegale o  meno  dell'emigrazione  favorita,  il
favoreggiatore dovrebbe essere evidentemente assolto. 
    Cosi'  pure,  del  tutto  ininfluente  sulla  determinatezza  del
precetto appare il contrasto di giurisprudenza - evocato dal  giudice
a quo - circa la configurabilita' o meno del reato nel  caso  in  cui
l'ingresso illegale in altro Stato abbia luogo per finalita' di  mero
transito, in vista del ritorno dello straniero nel Paese di  origine.
A prescindere dalla considerazione che, contrariamente  a  quanto  si
legge nell'ordinanza di rimessione, la giurisprudenza di legittimita'
piu' recente appare orientata  a  negare  rilievo  alla  destinazione
finale  dello  straniero,  vale   osservare   che,   anche   aderendo
all'orientamento di segno opposto, le difficolta' di riscontro  delle
dichiarazioni del migrante, circa il presunto intento di far  ritorno
in  patria,  costituiscono,  di  nuovo,  una  questione   di   ordine
probatorio e di mero fatto. 
    E' parimenti evidente,  sotto  altro  profilo,  come  i  problemi
connessi all'eventuale ignoranza  od  errore  del  favoreggiatore  in
ordine  ai  contenuti  della   normativa   straniera,   legati   alle
difficolta' di conoscenza della stessa,  trovino  esaustiva  risposta
nella disciplina dell'errore, a seconda dei  casi,  su  legge  penale
(art. 5 cod. pen., quale  risultante  a  seguito  della  sentenza  di
questa Corte n. 364 del 1988) o extrapenale (art.  47,  terzo  comma,
cod. pen.). 
    6. -  Insussistente  si  palesa,  da  ultimo,  anche  la  dedotta
violazione dell'art. 35, quarto comma, Cost. 
    La  liberta'  di  emigrazione  e'   riconosciuta   dal   precetto
costituzionale con salvezza degli  «obblighi  stabiliti  dalla  legge
nell'interesse generale», fra i quali possono farsi rientrare  quelli
di rispetto della legislazione del Paese di accoglienza,  nel  quadro
di accordi di cooperazione  internazionale  volti  a  contrastare  un
fenomeno certamente  rilevante  anche  ai  fini  della  tutela  della
sicurezza e dell'ordine pubblico  interno,  come  quello  dei  flussi
migratori clandestini in transito.