IL TRIBUNALE 
    All'udienza del 4  novembre  2008,  ha  pronunciato  la  seguente
ordinanza nella causa civile di primo grado, iscritta  al  n.  200596
R.G. degli Affari Civili Contenziosi, dell'anno 2007 e  vertente  tra
Manzo Sabrina, elettivamente domiciliata in Roma, via  Asiago  n.  2,
nello studio degli avvocati Carlo d'Inzillo e Matteo Adduci,  che  la
rappresentano  e  difendono  per  procura  a   margine   al   ricorso
introduttivo, ricorrente e RAI-Radiotelevisione Italiana S.p.A. (gia'
R.A.I. - Radiotelevisione Italiana S.p.A.),  in  persona  del  legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata  in  Roma,  via
Ezio n. 19, nello studio dell'avv. Marina La Ricca che la rappresenta
e difende con l'avv. Pierluigi Lax per procura in  calce  alla  copia
notificata del ricorso, resistente. 
    Il tribunale, sciogliendo la riserva assunta  all'udienza  del  4
novembre 2008, letti gli atti e la documentazione  depositata  espone
quanto segue. 
    Con ricorso depositato in data 11  gennaio  2007,  Manzo  Sabrina
conveniva in giudizio davanti al Tribunale di  Roma  in  funzione  di
giudice  del  lavoro  la  RAI  -  Radiotelevisione  Italiana   S.p.A.
esponendo di avere lavorato alle  dipendenze  della  resistente,  nel
periodo compreso tra  il  1996  ed  il  2006,  con  la  qualifica  di
assistente ai programmi e di programmista regista, in forza di dodici
contratti di lavoro subordinato a  tempo  determinato,  stipulati  in
occasione delle trasmissioni televisive specificate al punto  2)  del
ricorso, svolgendo le  mansioni  descritte  analiticamente  nell'atto
introduttivo. 
    Ha dedotto che i  contratti  in  questione  furono  espressamente
disciplinati, di volta  in  volta,  dalla  legge  n.  230/1962  (come
modificata dalla legge n. 266/1977), dalla legge  n.  56/1987  e,  da
ultimo, dal decreto legislativo n. 368/2001, ma che per nessuna delle
trasmissioni   sopra   indicate   ricorrevano   le   condizioni   per
l'apposizione del termine, difettando  in  particolare  il  requisito
della «specificita»  del  programma  e  che  trattavasi  comunque  di
assunzioni effettuate al fine di sopperire a carenze di  personale  e
quindi con l'intento di eludere le disposizioni di legge. 
    Cio' Premesso, chiedeva che venisse dichiarata  la  nullita'  del
termine  apposto  ai  singoli  contratti   di   lavoro,   dichiarando
conseguentemente che fra le parti era intercorso un unico ed unitario
rapporto di  lavoro  subordinato  a  tempo  indeterminato  sin  dalla
stipula del primo contratto ed ordinando il ripristino  del  rapporto
di lavoro e/o la reintegrazione di esso lavoratore nel proprio  posto
di lavoro, con la condanna della societa' al pagamento  di  tutte  le
retribuzioni  e  contribuzioni  maturate  dalla  scadenza   di   ogni
contratto all'inizio del  successivo  e  dalla  scadenza  dell'ultimo
contratto in poi. 
    Instauratosi il contraddittorio, la RAI contestava  ed  impugnava
estensivamente quanto ex adverso dedotto ed allegato, concludendo per
il rigetto del ricorso perche' infondato in fatto ed in diritto. 
    Nel corso del presente giudizio e' entrato in  vigore  l'art.  21
del d.l. n. 112/2008, convertito nella  legge  n.  133/2008,  che  ha
introdotto  nel  decreto  legislativo  n.   368/2001   l'art.   4-bis
intitolato: «Disposizione transitoria concernente l'indennizzo per la
violazione delle norme in materia  di  apposizione  e  diproroga  del
termine» che stabilisce «1. Con riferimento ai soli giudizi in  corso
alla data di entrata in vigore della presente disposizione,  e  fatte
salve le sentenze passate in giudicato, in caso di  violazione  delle
disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, il datore  di  lavoro  e'
tenuto  unicamente  a  indennizzare  il  prestatore  di  lavoro   con
un'indennita' di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un  massimo
di sei mensilita' dell'ultima retribuzione globale  di  fatto,  avuto
riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della  legge  15  luglio
1966, n. 604, e successive modificazioni». 
    Tutto cio' premesso in fatto, rileva il tribunale  che  l'art.  1
del d.lgs. n. 368/2001, applicabile  pacificamente  alla  fattispecie
oggi in esame, per due dei dodici contratti intervenuti tra le parti,
nel testo ratione temporis applicabile prescrive al primo comma (oggi
art. 1 n. 1 per effetto delle modifiche  introdotte  dalla  legge  24
dicembre 2007 n. 247) che «E' consentita l'apposizione di un  termine
alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte  di  ragioni
di carattere tecnico, produttivo, organizzativo  o  sostitutivo».  Al
secondo comma (oggi n. 2) poi prevede che «L'apposizione del  termine
e' priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da
atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di  cui  al  comma
1». Per semplicita' espositiva  si  continuera'  a  fare  riferimento
nella motivazione all'articolazione in commi vigente  all'atto  della
stipula del contratto e come citata dalle parti nelle loro difese. 
    Il Tribunale di Roma  si  e'  gia'  occupato  della  legittimita'
dell'apposizione del termine in fattispecie  analoghe  nonche'  degli
effetti conseguenti, ritenendo che il legislatore,  nel  recepire  la
direttiva 1999/70/CE e ridisegnare la disciplina del lavoro  a  tempo
determinato, ha introdotto una clausola molto ampia di legittimazione
del contratto a termine, che per la sua generalita' viene a  superare
l'impostazione della normativa antecedente in vigenza della quale  le
assunzioni a termine erano consentite salvo che in ipotesi tassative. 
    Tuttavia, con la previsione  contenuta  nel  richiamato  comma  2
della medesima norma, il legislatore, a  fronte  dell'ampiezza  delle
possibilita' nelle quali econsentito concludere un contratto a  tempo
determinato, di cui alla clausola generale dettata  nel  primo  comma
dell'art. 1 e  alla  maggiore  autonomia  concessa  alle  parti,  ha,
tuttavia, espressamente stabilito un onere di  «specificazione»,  per
iscritto, delle ragioni a carico del datore di lavoro. 
    In conseguenza il tribunale ha tratto il convincimento che per la
stipulazione di un valido contratto a termine, le ragioni di  cui  al
comma 1 non possono essere tautologicamente ripetute o  semplicemente
determinate senza precisione, con una giustificazione che si  risolva
sostanzialmente in una letterale riproposizione delle cause di cui al
primo  comma;  in  tali  casi  sarebbe,  infatti,  eluso  l'onere  di
specificazione di cui al comma 2. Ed ha ritenuto necessario,  perche'
possa dirsi assolto l'onere  di  specificazione,  che  dalle  ipotesi
generali indicate dal legislatore, in via astratta, nella prima parte
della norma (ragioni di carattere tecnico, produttivo,  organizzativo
o sostitutivo), si passi alla determinazione delle esigenze che,  nel
caso concreto, legittimano e motivano il ricorso ad una assunzione  a
termine, cosi' da rendere controllabile da parte del giudice la reale
sussistenza delle stesse. 
    Trattandosi di una specificazione necessaria, ai sensi di  legge,
nell'ambito del testo negoziale, e' stata affermata la sussistenza di
un elemento essenziale e di un requisito necessario della fattispecie
delineata dal legislatore per  la  valida  apposizione  del  termine.
Conseguentemente, qualora dette ragioni non siano  state  specificate
(o siano state insufficientemente o tautologicamente esplicitate) nel
testo contrattuale ne ha  tratto  la  conseguenza  della  invalidita'
della clausola contenente il termine per carenza di un  suo  elemento
essenziale di carattere formale. 
    Nei casi in cui, invece,  le  ragioni  delle  parti  siano  state
formalmente e sufficientemente  specificate  nello  scritto,  ma  sia
risultato accertato, in seguito all'istruttoria, l'insussistenza  dei
fatti posti a fondamento delle stesse (e quindi delle stesse esigenze
dichiarate),  la  clausola  contenente   il   termine   deve   essere
considerata  ilegittima  per   l'assenza   del   presupposto   legale
necessario per la sua validita',  cioe'  per  il  difetto,  nel  caso
concreto,  delle   ragioni   «di   carattere   tecnico,   produttivo,
organizzativo o sostitutivo» di cui al comma 1 cit. 
    Osserva  in   proposito   il   tribunale   che   questa   opzione
interpretativa raccoglie le indicazioni dell'Accordo quadro  allegato
alla  direttiva  1999/70  CE,  della  quale  il  d.lgs.  n.  368/2001
costituisce attuazione, che, nella clausola  3  delle  «definizioni»,
afferma: «ai fini del presente accordo, il termine lavoratore a tempo
determinato indica una persona con un  contratto  o  un  rapporto  di
lavoro definiti direttamente fra il datore di lavoro e il  lavoratore
e il cui termine e' determinato da  condizioni  oggettive,  quali  il
raggiungimento di una certa data,  il  completamento  di  un  compito
specifico o il verificarsi di un evento specifico». 
    L'assenza  di  quelle  condizioni  obiettive  che   siano   state
specificate e  formalmente  dichiarate  dalle  parti  come  «ragioni»
giustificative del termine, determina, in conclusione,  l'invalidita'
della relativa clausola, come del resto sancisce  l'art.  1  comma  1
cit. che vuole consentita l'apposizione di un termine alla durata del
contratto solo a fronte delle ragioni nello stesso elencate. 
    In altri termini, il requisito formale di cui al comma 2  citato,
e' assolto quando siano  inseriti  nel  testo  contrattuale  elementi
sufficienti per il controllo sulla reale  sussistenza  delle  ragioni
menzionate  e  per  consentire  al  lavoratore  di  averne   contezza
effettiva e, in caso di contrasto, al giudice di verificarne la reale
consistenza e di individuare le reali esigenze alle quali  il  datore
di lavoro ha inteso sopperire con la  stipulazione  del  contratto  a
tempo determinato. 
    Il legislatore - consentendo una maggiore autonomia  delle  parti
rispetto al passato, con la previsione, in  via  astratta  (in  luogo
delle ipotesi tassative), della amplissima e  generale  casistica  di
cui  all'art.  1,  comma  1 -  ha  posto   il   suddetto   onere   di
specificazione al fine di evitare che la  clausola  del  termine  sia
utilizzata anche laddove  non  ricorrano  reali  esigenze  aziendali,
vincolando, quindi, tale  liberta'  alla  effettiva  esistenza  delle
ragioni giustificatrici. 
    Allo stato e per quanto e' dato delibare ai fini dell'esame della
questione di conformita' a Costituzione, la clausola  oppositiva  del
termine di scadenza al contratto di lavoro dedotto  in  giudizio  non
sembra contenere quegli elementi di specificazione che,  come  si  e'
detto, ne legittimano l'apposizione. 
    Sicche', a prescindere dalla efficacia di una pattuizione di  tal
genere,  accedendo  alla  proposta  interpretazione  della  normativa
applicabile al  caso  concreto,  conseguenza  della  declaratoria  di
nullita' del termine, prima dell'entrata in vigore della legge n. 133
del 2008, sarebbe stata il ripristino del rapporto. 
    Questo tribunale in altre  decisioni  ha  gia'  statuito  che  la
nullita' della clausola non travolge l'intero  contratto  prevalendo,
in una prospettiva interpretativa delle norme  conforme  ai  principi
dettati dalla direttiva comunitaria, il  principio  di  conservazione
degli atti e, dunque, la persistenza di un rapporto di lavoro a tempo
indeterminato tra le parti. Nella stessa direzione si e'  pronunciata
di recente la suprema Corte che ha affermato che l'art. 1 del  d.lgs.
n.  368  del  2001,  anche  anteriormente  alla  modifica  introdotta
dall'art. 39 della legge n. 247 del 2007, ha confermato il  principio
generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato e' normalmente
a  tempo  indeterminato,  costituendo   l'apposizione   del   termine
un'ipotesi derogatoria  pur  nel  sistema,  del  tutto  nuovo,  della
previsione di una clausola generale  legittimante  l'apposizione  del
termine «per ragioni di carattere tecnico, produttivo,  organizzativo
o sostitutivo». Pertanto, in  caso  di  insussistenza  delle  ragioni
giustificative del termine,  e  pur  in  assenza  di  una  norma  che
sanzioni espressamente la mancanza delle dette ragioni,  in  base  ai
principi generali in materia di nullita' parziale del contratto e  di
eterointegrazione della disciplina contrattuale, nonche' alla stregua
dell'interpretazione dello stesso art. 1 citato nel quadro  delineato
dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE (recepita  con  il  richiamato
decreto),  e  nel  sistema  generale  dei  profili  sanzionatori  nel
rapporto di lavoro subordinato, tracciato dalla Corte  cost.  n.  210
del 1992 e n. 283 del 2005, all'illegittimita' del  termine  ed  alla
nullita'  della  clausola  di  apposizione  dello   stesso   consegue
l'invalidita' parziale relativa alla sola clausola e l'instaurarsi di
un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e cio' anche nel caso  in
cui tra le parti sia intercorso un unico contratto  a  termine  (cfr.
Cass. n. 12985/2008). 
    Queste, in conclusione, nel  caso  concreto  sarebbero  state  le
conseguenze  della  eventuale  declaratoria  di  illegittimita'   del
contratto, conseguenze oggi  precluse  per  effetto  dell'entrata  in
vigore dell'art. 21-bis del decreto-legge n. 112/2008, convertito con
modificazioni nella legge n. 133/2008 che ha introdotto  nel  decreto
legislativo n. 368/2001 l'art. 4-bis. 
    Non solo, quindi, sarebbe esclusa la possibilita' di ripristinare
il  rapporto  di  lavoro,  ma  l'indennita'   riconoscibile   sarebbe
necessariamente  limitata  nel  minimo  a  2,5  e  nel  massimo  a  6
mensilita'. 
    Il tribunale ritiene che non si possa  dubitare  della  rilevanza
della questione di legittimita' costituzionale del piu' volte  citato
art. dell'art. 21, comma 1-bis della legge n. 133/2008, sulla  scorta
di quanto osservato con riferimento alla vicenda dedotta in giudizio,
e della non manifesta infondatezza della  questione  di  legittimita'
costituzionale per contrasto con gli artt. 3, 24, primo  comma,  111,
primo comma e 117, primo comma, della Costituzione,  nel  significato
che  assumono  anche  per  effetto  delle   proclamazioni   contenute
nell'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo, e  negli
artt. 20 e  47  della  Carta  dei  diritti  fondamentali  dell'Unione
europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, alle  quali  la  Corte
costituzionale ha indubbiamente assegnato il valore di  parametro  di
riferimento  nel  giudizio  di  costituzionalita'  (v.  Corte   cost.
135/2002), implicitamente riconoscendo che i diritti  e  le  liberta'
fondamentali  derivanti  dalle  fonti  di  convenzioni   e   trattati
sovranazionali,  affiancandosi  quali  valori-diritti  alla  dignita'
delle persone, compongono un quadro di proclamazioni assimilabili  al
livello costituzionale. 
Contrasto con l'art. 3 della Costituzione. 
    Va considerato che tutti i poteri pubblici, anche quelli di rango
costituzionale, possono e devono essere esercitati unicamente per  il
perseguimento dei fini in relazione ai quali il potere e' attribuito.
E'questo  il  connotato  dei  poteri  costituzionali  delle   moderne
democrazie poiche' si tratta di poteri discrezionali  ma  non  liberi
nei  fini,   secondo   la   definizione   di   accreditata   dottrina
costituzionalista. Ne consegue che gli organi cui  sono  affidate  le
massime funzioni nelle quali si esprime la sovranita' dello Stato non
possono espletare le potesta' loro attribuite per  scopi  diversi  da
quelli cui le funzioni stesse  sono  finalizzate,  tantomeno  in  via
strumentale  per  ledere   diritti   e   principi   stabiliti   dalla
Costituzione. 
    Tale finalita' e' vietata dalla nostra Costituzione. 
    In particolare, il potere legislativo, subordinato com'e' al pari
degli altri  poteri  costituzionali  all'impero  delle  norme  e  dei
principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, incontra  nel
suo  esplicarsi,  il  limite   della   legalita'   costituito   dalla
ragionevolezza dell'intervento legislativo (cfr. Corte cost. 7 luglio
1964 n. 72 e Corte cost. 15 luglio 1991 n. 346). 
    Tanto  premesso  il   tribunale   osserva   che   attraverso   la
disposizione denunciata e' stata introdotta, per i contratti regolati
dal decreto legislativo n. 368/2001, rispetto ai quali  sia  pendente
un  giudizio  circa  la  legittimita'  del   termine   apposto,   una
regolamentazione  diversa  rispetto  a   quella   in   via   generale
applicabile ai  contratti  a  termine,  secondo  quanto  generalmente
affermato  in  materia  dalla   giurisprudenza   di   merito   e   di
legittimita'. 
    Per effetto dell'entrata in vigore della legge n. 133  del  2008,
infatti, ove  sia  pendente  un  giudizio  (e  salvi  dunque  solo  i
giudicati) la tutela accordata  ai  contratti  a  tempo  determinato,
stipulati nella vigenza del decreto legislativo n. 368 del 2001 e che
siano illegittimi in quanto stipulati in violazione dell'art. 1, 2  e
4  del  decreto  stesso,  e'  limitata  al  solo  pagamento  di   una
«indennita' di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di
sei mensilita'  dell'ultima  retribuzione  globale  di  fatto,  avuto
riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15  luglio  1966
n. 604 e successive modificazioni.» 
    La norma censurata non contiene alcun riferimento all'obbligo per
il datore  di  lavoro,  pur  previsto  dall'art.  8  della  legge  n.
604/1966, di procedere al  pagamento  dell'indennizzo  solo  ove  non
provveda nel termine di  tre  giorni  a  riassumerlo,  ma  limita  il
richiamo ai soli criteri  da  seguire  per  l'esatta  quantificazione
dell'indennita'. 
    Cosi' facendo il legislatore  ha  ridotto  la  tutela  accordata,
avendo riguardo al solo discrimine temporale della  attuale  pendenza
di un giudizio. 
    Per tutti quei contratti  a  termine  stipulati  nel  regime  del
decreto legislativo n. 368/2001 il  cui  ricorso  introduttivo  della
lite sia stato depositato successivamente all'entrata in vigore della
legge 133/2008 (che ex art. 1 ultimo comma e' entrata  in  vigore  il
giorno successivo a quello della  sua  pubblicazione  nella  Gazzetta
Ufficiale e, dunque - per essere stata pubblicata  nel  s.o.  n.  196
alla Gazzetta Ufficiale n. 195 del 21 agosto 2008 - a partire dal  22
agosto 2008) le conseguenze restano  quelle  gia'  previste  e  sopra
diffusamente riportate (ripristino del rapporto  e  risarcimento  del
danno). 
    Il  discrimine  per  individuare  la  normativa  applicabile  e',
dunque, del tutto casualmente ancorato al  fatto  che  il  lavoratore
avesse o meno iniziato un giudizio. Ritiene allora  questo  tribunale
che non vi  sia  alcun  elemento  per  ritenere  che  la  scelta  del
legislatore sia stata determinata da un meditato  ripensamento  delle
tutele da accordare, in generale, ai contratti a tempo determinato. 
    Il tribunale e' a conoscenza dei principi affermati  dal  giudice
delle leggi il quale in piu' occasioni ha precisato che ben  puo'  il
legislatore applicare alla stessa categoria di soggetti,  trattamenti
differenziati in momenti diversi nel tempo. La  Corte  costituzionale
ha, infatti,  ancora  di'  recente,  ribadito  che  tale  scelta  non
contrasta di per se'  con  il  principio  di  eguaglianza  posto  che
proprio il fluire del tempo costituisce un  elemento  diversificatore
delle situazioni giuridiche. La demarcazione temporale consegue, come
effetto naturale, alla generalita' delle leggi e non comporta, di per
se', una lesione del principio  di  parita'  di  trattamento  sancito
dall'art.  3  della  Costituzione  (v.  Corte  cost.  n.  234/2007  e
ordinanze n. 342/2006, n. 216/2005 e n. 121/2003). 
    Tuttavia la legge in  esame  non  rappresenta  una  rimeditazione
complessiva  degli  effetti  con  riferimento  alla  generalita'  dei
soggetti, canone di eguaglianza  che  deve  permanere  ove  il  tempo
determini una modifica della disciplina, ma, piuttosto,  contiene  la
previsione, di una sorta  di  moratoria  delle  conseguenze  generali
rispetto ad un contenzioso  temporalmente  definito  (cause  pendenti
alla data del 22 agosto 2008), ma certo non esaurito per il futuro. 
    Non dubita il tribunale che il legislatore  abbia  il  potere  di
dettare norme aventi contenuto concreto  e  particolare  dalle  quali
possano derivare effetti nei riguardi dei procedimenti giudiziari  in
corso ovvero sui provvedimenti giurisdizionali. Non  e'  ravvisabile,
in via generale, un'illegittima invasione  da  parte  della  funzione
legislativa nell'ambito riservato  dalla  Costituzione  all'autorita'
giudiziaria, posto che la norma di diritto sostanziale che regola una
situazione anche pregressa, senza violare il giudicato,  non  sottrae
al giudice alcuna controversia, ma gli fornisce, appunto,  la  regola
di diritto che egli deve applicare. Ma  con  la  norma  in  esame  il
legislatore non ha regolato diversamente - come bene avrebbe potuto -
gli effetti rispetto a tutti i contratti stipulati da una certa  data
in poi, ma ha scelto, ad avviso di questo tribunale, in  maniera  del
tutto irragionevole, di limitarne gli effetti alle sole  controversie
pendenti. 
    Non e' infatti ravvisabile alcuna giustificazione  razionale  nel
fatto che la disposizione modifichi la regola sostanziale rispetto ad
una categoria di soggetti,  riducendo  la  tutela  mentre  pendono  i
giudizi, proprio e solo per il fatto di avere una causa in corso. 
    Con l'aggravante che proprio per il modo in cui  interviene  «con
riferimento ai soli giudizi in corso», il comma  1-bis  dell'art.  21
della legge n. 133 del 2008 finisce  per  amplificare  ulteriormente,
anche sul piano dell'utilizzo degli strumenti processuali di tutela e
pertanto sul piano del diritto alla  difesa  e  dell'«equo  processo»
(artt. 3, 24 comma 1 e 111, primo comma,  117  Cost.),  gli  effetti,
gia' illustrati e per  loro  stessi  discriminatori,  dell'intervento
provvedimentale mirato alle applicazioni  del  sistema  sanzionatorio
relativo agli artt. 1, 2 e 4 del decreto legislativo n. 368 del 2001. 
Contrasto con gli artt. 24, primo comma,  111,  primo  comma  e  117,
primo comma della Costituzione. 
    Va premesso che, dal complessivo tenore delle norme richiamate  e
dall'interpretazione che delle stesse  ha  ripetutamente  offerto  la
Corte costituzionale, emerge con  evidenza  l'esistenza,  nel  nostro
ordinamento costituzionale, di  un  principio  immanente  del  giusto
processo,  che  proclamato  dall'art.  111,  primo  comma  Cost.,  si
manifesta  in  maniera  complessa  e  poliedrica  e  che  ha  stretta
correlazione con il diritto ad agire in giudizio a tutela dei  propri
diritti ed interessi (art. 24, primo comma Cost.), con il diritto  ad
avere regole giuste nel processo (art.  111,  primo  comma  Cost),  a
tutela del contraddittorio,  della  terzieta'  ed  imparzialita'  del
giudice (art. 111, secondo comma Cost.), con il diritto del cittadino
di vedere esercitato il potere legislativo da  parte  dello  Stato  e
delle regioni non solo nel rispetto della  Costituzione  italiana  ma
anche  dei  vincoli  dettati  dall'ordinamento  comunitario  e  dagli
obblighi internazionali (art. 117, primo comma Cost.). 
    L'art.  4-bis  del  decreto  legislativo  n.  368/2001  viola  il
principio costituzionale del giusto processo perche'  nel  corso  del
procedimento giudiziario modifica la tutela  sostanziale  accordabile
al diritto azionato senza che siano ravvisabili ragioni  oggettive  e
generali che sostengono tale scelta del legislatore. 
    Ritiene infatti il tribunale che nel caso in  esame  l'intervento
legislativo determini  un'alterazione  della  condizione  di  parita'
nell'esercizio  del  diritto  di  difesa  tra  la  parti  in   causa,
condizione che, al contrario, deve essere sempre assicurata. 
    Ed  infatti,  e'  evidente  che  il  legislatore  a  fronte   del
consistente contenzioso  pendente  in  tutti  gli  uffici  giudiziari
italiani e' intervenuto allo scopo di favorire una definizione  delle
controversie pendenti in termini di minor impatto  economico  per  le
parti datoriali, senza che tuttavia tale scelta risulti  sorretta  da
quelle imperiose ragioni d'interesse generale, che,  ad  esempio,  la
Corte europea di Strasburgo richiede come condizione per superare  il
divieto d'ingerenza (in tal senso si legga l'ordinanza della Cass. n.
22260/2008 relativamente all'art. 1, comma 218, legge n. 266 /2005). 
    Ed,  infatti,  nessuna  traccia  di  cio'  e'  riscontrabile  nel
procedimento legislativo che ha  condotto  all'approvazione  di  tale
disposizione.  E'sintomatico,  anzi,  che  la   norma   (inizialmente
limitata ai contenzioso Poste Italiane) sia stata  in  corso  d'opera
estesa a tutti i contratti a tempo determinato, proprio per rimediare
ad  una  evidente  violazione,  quanto  meno,   dell'art.   3   della
Costituzione. 
    Ma anche  nel  testo  approvato,  ed  oggi  esaminato,  non  sono
rintracciabili quelle ragioni oggettive  a  tutela  di  un  interesse
generale che, in ipotesi, avrebbero potuto giustificarne l'adozione. 
    Al contrario, si potrebbe dire che l'inesistenza  di  una  simile
ratio e' in re ipsa per il  solo  fatto  che  la  ridotta  tutela  e'
limitata temporalmente ai soli giudizi pendenti e nessuna ragione di'
interesse generale risulta in qualche modo  esplicitata  neppure  nei
lavori parlamentari. 
    Con cio', e senza che per questo sia ravvisabile alcuna  esigenza
concreta a cui il legislatore abbia inteso sopperire, viene ribaltata
la stessa ordinaria  ed  elementare  logica  del  processo  «equo»  e
improntato all'effettivita' della  tutela  giurisdizionale;  giacche'
sarebbe logico, al contrario di quel che  discende  dalle  previsioni
del comma 1-bis dell'art. 21 della legge n. 133  del  2008,  che  nei
«giudizi in corso» le certezze sulla difesa dei propri diritti  tanto
piu' siano acquisite, e non passibili di essere rimesse in  gioco  da
capo, quanto piu' il processo sia pervenuto in una  fase  avanzata  e
sfociato in pronunciamenti esecutivi, o perfino eseguiti. 
    Analoghe considerazioni valgono con riferimento  alla  violazione
dell'art. 117, primo comma Cost. 
    Il  tribunale  osserva  che  nell'esaminare  la  rilevanza  della
questione con riguardo all'art. 117, primo comma, Cost., si puo' dare
valore interpretativo ai principi contenuti nella Convenzione europea
dei  diritti  dell'uomo  (CEDU),  sia  in  relazione   ai   parametri
costituzionali di cui tenere conto, che alle  norme  censurate  (cfr.
Corte  cost.  n.  505/  1995;  ord.  n.  305/2001),   ben   potendosi
richiamare, per avvalorare una determinata  esegesi,  le  indicazioni
normative, anche di natura  sovranazionale  (cfr.  di  recente  Corte
cost. n. 349/2007 ma anche Corte cost. n. 231/ 2004). 
    In taluni casi la Corte costituzionale ha richiamato norme  della
CEDU,  svolgendo  argomentazioni  espressive  di   un'interpretazione
conforme alla Convenzione (cfr. sentenze n. 376 del 2000 e n. 310 del
1996), ovvero richiamando dette norme, e la ratio ad esse sottesa,  a
conforto dell'esegesi accolta (cfr. sentenze n. 299 del 2005 e n.  29
del 2003) che risultava cosi' avvalorata anche in ragione  della  sua
conformita' con  i  «valori  espressi»  dalla  Convenzione,  «secondo
l'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo» (v.  sentenze  n.
299 del 2005; n. 299 del 1998). Si e' infatti  sottolineato  come  un
diritto  garantito  da  norme  costituzionali  sia  «protetto   anche
dall'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei  diritti  (...)
come  applicato  dalla  giurisprudenza   della   Corte   europea   di
Strasburgo» (cfr. sentenza n. 154 del 2004). 
    Avvalorata  e  confermata  la  possibilita'  di   utilizzare   il
parametro richiamato  per  valutare  la  compatibilita'  della  norma
censurata con l'art. 6 della CEDU e  dunque  con  l'art.  117,  primo
comma Cost., ancora una volta si deve rilevare che, come  piu'  volte
statuito anche dalla Corte di Strasburgo  (cfr.  per  tutte  Scordino
contro Italia, 29 marzo 2006), gli Stati  aderenti  alla  Convenzione
devono astenersi dall'esercitare ingerenze normative  finalizzate  ad
ottenere una determinata soluzione delle controversie in corso, salvo
che l'intervento retroattivo sia giustificato da motivi di  carattere
imperioso e generale. 
    Ne consegue  che  nel  caso  in  esame  il  legislatore  con  una
disposizione che, non interpreta norme di legge esistenti ma muta  il
quadro normativo di  riferimento,  esclude  quelli  che  nel  diritto
vivente sono i normali effetti della declaratoria  di  illegittimita'
del termine apposto al contratto e  cosi'  impedisce  al  giudice  di
adottare la tutela prevista dall'ordinamento generale (tutela sospesa
temporaneamente in forma irragionevole). 
    In tal modo  la  norma  in  esame  determina  una  ingiustificata
modificazione della tutela dei diritti azionati e incide, come si  e'
evidenziato, solo e  soltanto  sui  giudizi  pendenti  alla  data  di
entrata  in  vigore  della  legge   realizzando   una   inammissibile
intromissione  del  potere  legislativo  nell'amministrazione   della
giustizia allo scopo d'influire sulla risoluzione  di  una  specifica
categoria di controversie. 
    In conclusione, ed alla luce  delle  esposte  considerazioni,  si
ritiene di dover valutare rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimita'  costituzionale  della  norma  indicata  in
dispositivo in relazione ai profili sopra esposti. 
    Il giudizio in corso  deve  quindi  essere  sospeso  e  gli  atti
rimessi alla Corte costituzionale.